Rivista Anarchica Online


cultura e società

Le contraddizioni
di un testimone scomodo

di Stefano Casi


L'odio per il potere e le ideologie. La lingua e il corpo. Il rapporto complesso con la madre, il Pci, la dopo-storia.
A quarant'anni dalla sua scomparsa, Pier Paolo Pasolini è più che mai vivo.
Vediamo come e perché.


L'ultimo tentativo di appropriazione indebita è stato poco tempo fa, quando i poliziotti si sono levati il casco di fronte all'equivoca protesta dei cosiddetti “forconi” a Torino: ecco rispuntare dal triste magazzino di citazioni prêt-à-porter il nome di Pier Paolo Pasolini e della sua poesia più citata (a sproposito), quella in cui in pieno '68 si era permesso di criticare gli studenti contestatori per stare dalla parte dei poliziotti.
Nato esattamente 92 anni fa, il 5 marzo 1922, a Bologna, Pasolini è una di quelle rarissime figure, anzi l'unica figura di intellettuale capace non solo di reggere il confronto con il passare del tempo, ma anzi di rappresentare anno dopo anno un punto di riferimento sempre più presente e rivelatore della nostra società. Calato nel suo tempo e nella realtà specifica di un'Italia postbellica divisa tra ipocrisia democristiana e retorica comunista, ma in realtà unita dalla mediocrità del “popolo più analfabeta” e della “borghesia più ignorante d'Europa” (così dice il suo alter ego nel cortometraggio La ricotta), Pasolini è riuscito a leggere con lucidità i segni di un futuro incombente che pochi altri avevano intuito, e a superare i confini nazionali diventando in tutto il mondo un faro di arte (soprattutto cinematografica) e pensiero.
E però è difficile ricondurre Pasolini all'unicità di un solo pensiero, quando “lo scandalo del contraddirmi” (come scrive nelle Ceneri di Gramsci, che nel 1954 rifonda e reinventa la poesia civile) diventa sistema intellettuale contro ogni dogmatismo e ideologismo. La contraddizione lo portava a dichiararsi culturalmente cristiano e politicamente comunista, salvo poi rinnegare ciascuna delle due chiese in nome della libertà assoluta e dell'odio feroce contro il potere. Pasolini sostanzialmente anarchico? Sì, ma nella contraddizione perenne che non gli permetteva di aderire a nulla se non alla propria tormentata coscienza di testimone (“martire” in senso etimologico: e mai come in questo caso occorre tenere d'occhio il doppio significato, consapevolmente ricercato) della realtà: lui, poeta della realtà, poteva forse sacrificare ciò che vedeva, ciò che capiva, in nome di uno schieramento, rinunciando al delicato e scomodo ruolo di coscienza critica? Così, non stupisce la dichiarazione rilasciata a Enzo Biagi che lo intervistava in televisione nel 1971: “Tendo più verso una forma anarchica che verso una scelta ideologica di qualche partito, questo sì, ma non è che non credo ai partiti”.
Come non stupisce l'intervento al congresso del Partito radicale previsto due giorni dopo il suo omicidio. Nel testo Pasolini si presenta non da radicale ma da marxista, e lancia un appello a “essere continuamente irriconoscibili”, “imperterriti, ostinati, eternamente contrari”, a “identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”: vera e propria autoconfessione di uno spirito libero.

Non solo un analista politico

La base era l'odio per il potere – per ogni forma di potere, politico o artistico – e per le ideologie, non solo quelle di cui ha celebrato i funerali nel film Uccellacci e uccellini nel 1965, ma soprattutto l'ideologia strisciante e vigliacca del consumismo, ossia del nuovo fascismo, quello che spalma la complessità della vita nella mortale massificazione della società (“genocidio antropologico”), facendola approdare a un'insana soluzione dei conflitti di classe: la borghesia ormai vincente su tutto e tutti, anche sugli operai che credono ancora nella lotta di classe senza rendersi conto di aver già perso, e perfino sugli amati sottoproletari, proprio quelli che aveva contribuito a rivelare al mondo nei suoi libri e nei suoi film, e che invece si dimostrano più borghesi dei borghesi, attaccati come sono ai falsi miti del benessere, e destinati a essere puri relitti di un'umanità un tempo felice che ora non conosce più la propria lingua e il proprio corpo.
La lingua, il corpo: difficile pensare a Pasolini senza questi due poli, anche quando si parla di politica o di analisi sociale. Perché lingua e corpo sono il binomio del desiderio che sta alla base di tutto. È l'attrazione per i ragazzi friulani a smuoverlo per dare forma a una lingua nuova e per impegnarsi nell'umile “paìs” di Casarsa dando vita a esperienze straordinarie, raccontando anche la sofferenza di una popolazione segnata da guerre e da sciagurate politiche postbelliche (come nel romanzo Il sogno di una cosa).
È l'attrazione per i ragazzi scoperti nelle borgate romane e negli slums del Terzo Mondo a consentirgli di essere l'unico intellettuale in grado di cogliere i minimi mutamenti sociali e antropologici di un'Italia altrimenti descritta nella rassicurante e immobile dialettica borghesia-proletariato, e di essere l'unico a intuire la centralità dell'Africa (“unica alternativa”) e dell'Asia, raccontando per primo nella sua celebre Profezia del 1964 l'invasione imminente degli “Alì dagli occhi azzurri” che avrebbero travolto il vecchio continente.
Perché non si può ridurre Pasolini neanche ad analista politico, nonostante le sue analisi siano tuttora così illuminanti: Pasolini parla sempre “en poète”, come quando propone l'abolizione dei due più atroci strumenti di massificazione, e cioè la scuola dell'obbligo (proprio lui, maestro elementare e professore in gioventù) e l'odiata televisione. O come quando punta il dito nel celeberrimo “romanzo delle stragi”: “Io so”. Atto d'accusa basato solo sull'intuizione, senza prove di colpevolezza per la classe politica, per la quale si augurava presto un processo anche con altri capi d'imputazione, dalla mafia allo scempio del territorio – e stiamo parlando di 40 anni fa, molto prima della consapevolezza attuale riguarda al “territorio” – facendo perfino nomi e cognomi dei “gerarchi”, da Giulio Andreotti ad Amintore Fanfani. Scrivendo tutto questo dalle pagine del “Corriere della sera”, strumento della borghesia, per poter stare fino in fondo nelle contraddizioni, ma anche per cercare di portare scandalo (parola evangelica: e siamo ancora nel magma anti-ideologico) nel cuore del sistema, pur sapendo di farne parte.

Voce scomoda e corpo da sopprimere

Una contraddizione radicata nella famiglia stessa, dove il potere aveva le sembianze del padre militare romagnolo, passato alle cronache del tempo per aver bloccato proprio Anteo Zamboni, il quindicenne anarchico autore di un attentato a Mussolini a Bologna nel 1926, poi linciato dagli squadristi, e rimasto invece nelle cronache famigliari come rancoroso nostalgico al ritorno dalla prigionia in Africa, alla fine della guerra, incapace di relazionarsi con un figlio che invece cercava l'alleanza con la tenera madre friulana, insegnante. Alla quale, in una vertiginosa provocazione (una delle tante che le sue opere riservano, intrise di autobiografismo), Pasolini chiese di recitare nel ruolo della Madonna piangente sul Calvario nel suo film Il Vangelo secondo Matteo. Si dice che per ottenere quel pianto, il regista le abbia sussurrato: “Ricorda Guido”. Guido, il fratello partigiano azionista, ucciso nel famigerato regolamento di conti di Porzûs da parte di una brigata partigiana comunista titina: prima tappa di un rapporto ambivalente proprio con il Partito comunista, che vede Pasolini militante attivo nel dopoguerra, ma anche espulso per indegnità dal Pci a causa della sua omosessualità. D'altra parte, non poteva essere un partito il vero interlocutore, semmai Gramsci, sulla cui tomba Pasolini eleva la poesia del proprio impegno eretico (che sarà poi “corsaro” e “luterano” negli interventi pubblici degli ultimi anni), confessando proprio lì, alle sue ceneri, la complessità irriducibile del proprio essere, raccontando all'ideologo comunista le proprie “infime minuzie / in cui sfumano, nel fondo animale, / Autorità e Anarchia”: intrecciate nel profondo livello pre-razionale.
Parlando del suo ultimo film Salò, Pasolini definì il potere come unico vero detentore dell'anarchia, intesa però qui nel senso deteriore del termine, come licenza all'impunità: “Nulla è più anarchico del potere”. Il potere politico, aborrito e dal quale ha saputo sempre tenersi ben lontano. Il potere economico e industriale, che nella sua ultima fatica incompiuta, Petrolio, assume la forma aberrante di un sistema assoluto e claustrofobico nel quale si muovono, sotto nomi di quasi-fantasia, i protagonisti delle mafie italiche cresciute all'ombra dei grandi e loschi affari che coinvolsero l'Eni, l'ente petrolifero italiano. Il potere da cui fuggono o sfuggono i protagonisti delle sue storie, magari portando sul volto i segni di una lacerazione fisica che a sua volta sfugge dal potere dell'estetica, del fitness, della bella presenza. Dall'impresentabile Accattone in una scandalosa via crucis borgatara fino al ribelle di Porcile che sul pendio di un vulcano può urlare il suo rifiuto altrettanto scandaloso contro ogni forma di potere e gerarchia: “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, e ora tremo di gioia”.
Voce scomoda e corpo da sopprimere: questo era Pasolini per quel potere da lui sempre aborrito. E il potere cercò di schiacciarlo come poteva. A cominciare dalle continue querele che si sono trasformate in decine di processi lungo tutto l'arco della sua vita: processi alle sue opere per oscenità o vilipendio, così come a lui stesso. Perché il potere non ha pudore e con Pasolini mostrò lati anche sinistramente comici, come quando riuscì a portarlo di fronte a un giudice perfino con l'accusa di aver rapinato un distributore di benzina con una pistola con proiettili d'oro. Perché l'intento era l'umiliazione, magari supportata da psichiatri reazionari che pubblicavano perizie da brividi (“infermo di mente” secondo il famigerato “professor nero” Aldo Semerari portato come prova in tribunale) o da giornalisti impegnati a sbeffeggiarlo con sarcasmo dalle colonne dei giornali o dagli schermi dei cinegiornali. Senza contare i vari gruppuscoli fascisti nelle vesti di onnipresenti guastatori di iniziative pubbliche a cui Pasolini partecipava. Fino all'ultimo atto, la barbara uccisione al lido di Ostia, il 2 novembre 1975: un giallo per il quale chiunque di noi può far proprie le sue parole “Io so”.
E che l'omicidio sia stato compiuto per un regolamento di conti nell'ambito della malavita o su mandato di qualche potentato politico, poco cambia, se Pasolini stesso dichiarava di aver paura, proprio pochi giorni prima, per la violenza di cui era intriso il suo mondo che non riconosceva più: perché quella violenza era figlia di una mutazione sociale innescata dal potere; e così il cerchio si chiude.

Da Pasolini al “pasolinificio”

La poesia, la narrativa, il cinema, il teatro, l'arte, la saggistica, la pubblicistica, la pedagogia: il corpus di Pasolini è composto da tanti corpi, ciascuno dei quali è intimamente intrecciato all'altro. Impossibile ritagliarne un frammento: l'opera parla nella complessità della sua magmaticità, come ha dimostrato l'immensa pubblicazione dell'opera omnia (non tutta, peraltro) nei dieci fitti volumi dei Meridiani Mondadori tra il 1998 e il 2003, dove l'articolo sulle mutazioni della società è segretamente legato alla poesia elegiaca, dove il film rimanda misteriosamente alle rubriche delle lettere (che Pasolini tenne per alcuni giornali, instaurando un dialogo lucido e commovente con i lettori, dal più colto al più umile), dove la tragedia teatrale si lega clandestinamente alle recensioni editoriali... Il corpus di Pasolini è anche il suo corpo, diventato rapidamente icona, dal volto spigoloso alla voce delicata che sa dire parole terribili con la soavità di un soffio: il corpo che egli stesso, negli ultimi mesi della sua vita, decise di esporre, diventando oggetto di body art per il suo amico Fabio Mauri o diventando soggetto nudo per le foto di Dino Pedriali, destinate forse a corredare proprio il suo romanzo incompiuto.
Oggi Pasolini è ancora icona, ancora coscienza critica, ancora illuminante virgilio per orientarsi perfino in questo mondo talmente diverso dal suo. Perché se oggi viviamo, ormai saldamente e disperatamente, in quella che lui ha definito la “Dopostoria”, può essere per noi una boccata d'ossigeno confrontarsi con chi riuscì a descrivere la grande svolta della nostra società, nel brusco passaggio dalla cultura contadina all'ideologia dello sviluppo senza progresso, e ascoltare le parole di chi, dichiarandosi senza più speranze, riesce a farci intuire ancora oggi la vera strada della speranza, che risiede nella consapevolezza di vivere nell'epoca del nuovo fascismo e quindi nella possibilità di opporre piccole resistenze umili e individuali alla barbarie che avanza.
E se proprio quella logica della massificazione e del profitto ha trasformato Pasolini nel “pasolinificio” di prodotti (editoriali, spettacolari, espositivi) o più banalmente di citazioni più o meno a proposito, la sua permanenza al centro di molti discorsi (e di molti immaginari creativi) dimostra la fame di parole fuori dall'ordinario, spesso anche fastidiose e difficili, che hanno le generazioni a lui future, e soprattutto le giovani generazioni, quando sono messe nelle condizioni di avvicinarsi alle sue opere e alle sue riflessioni.

Stefano Casi