COPERTINA
Ehi! Sono passati quarant’anni!
febbraio 1971 – gennaio 2011
numero speciale
SOMMARIO
A358
dicembre 2010
gennaio 2011
* * * AI LETTORI/Ci siamo 6
Paolo Finzi Fatti&Misfatti/Quell’edicola che non c’è
più 7
Gianni Sartori Fatti&Misfatti/Un ricordo di Alex Langer 9
Angelo Tirrito Fatti&Misfatti/A proposito di terra, capitale e lavoro 10
Enrico Massetti Rassegna libertaria/Silvio visto da Stoccolma 14
Walter Pistarini Rassegna libertaria/Il gabbiere Fabrizio De André 15
72 scritti... che palle!
Adriano Paolella La casa libertaria? Ecologica e autocostruita 19
Adriano Paolella La città libertaria? Leggera e piccola 20
Agostino Manni Il signornò dei non sottomessi 22
Alessio Lega La musica... dov’era la musica? 23
Amedeo Bertolo Così nacque “A” 25
don Andrea Gallo Fede antifascista e anarchica 26
Andrea Papi A che cosa servono gli anarchici? 27
Andrea Staid Sul nuovo anarchismo 28
Angelo Pagliaro Il Sud libertario e la sfida della modernità 29
Antonio Cardella Da “Il Mondo” ad “A” 30
Arturo Schwarz Arte e Anarchia 32
Carlo Milani La libertà nell’era delle reti 33
Carlo Oliva La parola come strumento di asservimento o di liberazione 34
Chiara Lalli Un diritto sempre più negato: l’aborto 36
Claudio Albertani Il Messico per sempre 37
Claudio Venza Spagna 1936 tra mito e progetto 38
Colby Gioia, tubi Innocenti e anarchia 41
Corrado Stajano Non ho mai dimenticato 42
Cosimo Scarinzi Pratiche sindacali di vario tipo 43
Cristina Valenti “A” e il teatro. Un doppio compleanno? 45
David Guazzoni Educazione libertaria per strada 47
Davide Turcato Sentimento e metodo: la lezione di Errico Malatesta 48
Diego Giachetti Colonne sonore di “cattiva musica” 49
Domenico Liguori Abbattere dominio. Costruire libertà 50
Dori Ghezzi Un bellissimo sogno da consegnare al futuro 51
Elena Violato Non una, ma tante rivoluzioni 52
Fabio Santin Per i quarant’anni di A-rivista 54
Fausta Bizzozzero Una libreria chiamata Utopia 56
Federica Battistutta Anarchia e religione 57
Felice Accame L’inganno delle parole 58
Filippo Trasatti Della libera comunità nell’amicizia 60
Francesca
Palazzi Arduini Divertenti, saggi, militanti, istruttivi, moderni mangiapreti
61
Francesco Codello L’educazione libertaria oggi 62
Franco Bertolucci Memoria e storia: alcune riflessioni 63
Fulvio Abbate Il mio plastico. Auguri al mondo. 65
Furio Biagini Gli ebrei anarchici (e soprattutto le ebree) 66
Gaia Raimondi Anarchia della comunicazione 68
Gianni Alioti Diritti sindacali e strapotere delle Corporate 69
Gianni Mura Piacere e libertà 70
Gianni Sartori Indipendentismi e anarchismi 72
Gianpiero Bottinelli
ed Edy Zarro Con “A” gli anarchici son tornati a Lugano 73
Gianpiero Landi Attualità di Luce Fabbri 74
Gianpietro “Nico” Berti Una sostanziale coerenza ideale 76
Giorgio Barberis Perché l’Italia mi fa schifo 77
Giorgio Bezzecchi Fabrizio i leskero ovi rom 78
Giorgio Sacchetti «Mussolini è un bucaiolo che manda la gente a
letto senza cena...» 80
Giucas Falchetto
Patchinko Radio libere e logiche di mercato 81
(Radio Bandita)
Lalli Ho un sogno 82
Lorenzo Guadagnucci Il guanto di ferro del potere 83
Luciano Lanza Una strage lunga quarant’anni 85
Luigi Balsamini Piccoli archivi crescono 87
Marco Pandin Erano anni di vinile e di nastro magnetico 88
Maria Matteo Prima che sia troppo tardi 89
Marianne Enckell Des anarchismes et des anarchistes au XXIe siècle 91
Mariella Bernardini Sull’orlo di una crisi di nervi 93
Massimo Ortalli Forti emozioni e incoercibili passioni 95
Massimo Varengo Nostra patria è il mondo intero 96
Maurizio Antonioli Storiografia: un bilancio aperto 98
Milena Magnani Noi, i desaparecidos della città uguale 99
Monica Giorgi La lettera della passione 101
Nadia Agustoni La responsabilità delle parole 102
Nicoletta Vallorani “Puu-tii-uuit?”, o il silenzio che urla 103
Persio Tincani Attualità dell’anticlericalismo 105
Pino Cacucci La mia anarchia 106
Pippo Gurrieri Una rivista da studiare (e diffondere) 108
Rossella Di Leo L’ingombrante zavorra della tradizione 109
Sergio Onesti Carcere no grazie 111
le comunarde
di Urupia Sentieri in Urupia 113
Valentina Volonté Il progetto e i suoi tranelli 114
Valeria Giacomoni Primo passo, le relazioni umane 115
Walter Siri Quarant’anni di anarchia a Bologna 116
Zelinda Carloni Appunti sull’utopia concreta 117
40 anni. 358 copertine.
* * * Le nostre copertine 121
Intervista A un redattore di “A”.
Adriano Paolella Intervista a?Paolo?Finzi/La (mia) vita dalla a alla “A”
213
2.616 collaboratori. Mica?male.
* * * Se 2.616 vi sembrano pochi 241
Alfredo López CAS. POST. 17120/En recuerdo de Nerio Casoni 255
Monica Giorgi CAS. POST. 17120/La D’Addario vittima? / Replica 255
Tiziana Montanari CAS. POST. 17120/Meeting anticlericali 1 / Botta... 257
Francesca P. Arduini CAS. POST. 17120/Meeting anticlericali 2 / ... e risposta
258
* * * I NOSTRI?FONDI?NERI/Sottoscrizioni, ecc. 258
* * * Elenco dei punti-vendita 259
In copertina e all’interno: Anarchik disegnato da Roberto Ambrosoli.
Le “A” cerchiate presenti in questo numero di “A” sono
tratte dal volume A-cerchiata. Storia veridica ed esiti imprevisti di un simbolo,
Eléuthera editrice, Milano 2008.
AI LETTORI
Ci siAmo
Tanti auguri. A pensarci bene, gli anniversari sono esclusivamente delle convenzioni.
Si potrebbe lasciarli passare sotto silenzio – a partire dai compleanni
delle persone – e non succederebbe niente. O forse sì, si perderebbe
un po’ di quella coscienza del tempo che scorre (e che corre) che alla
fin fine ci restituisce un po’ il senso stesso dell’esistenza.
È così anche per “A”, che ha voluto – questa
volta – marcare con forza questa ricorrenza, offrendo (ma quale “offrendo”
dirà qualcuno, costretto a pagare questa volta 10 euro!) ai propri lettori
– e, si spera, anche a qualcuno nuovo – questa rivista di 260 pagine.
Che cosa ci sia dentro, è già stato detto nell’editoriale
dello scorso numero ed è riassunto qui in quarta di copertina.
Ci limitiamo solo ad un accenno a quel che non c’è. Accanto agli
scritti (ma Fabio Santin, il solito anarchico, invece di uno scritto ha pensato
bene di mandarci un suo disegno) che abbiamo chiesto ad una settantina di amici
e compagni, ne mancano tanti che non abbiamo chiesto ad un numero significativo
di altri amici e compagni. E non li abbiamo loro chiesti non perché siano
“di serie B”, ma semplicemente perché non avremmo avuto la
possibilità di pubblicarli in questo numero. Il quale numero –
nonostante il prezzo aumentato – nasce come una “pazzia” economica
e tale rimane.
E pensare che all’inizio si pensava ad una decina di persone da coinvolgere.
Poi a mano a mano che proseguiva la preparazione del numero, ci è venuto
spontaneo coinvolgere altre persone, poi altre. Ad un certo punto, stop: chi
c’era c’era.
Avremmo poi voluto mettere, dopo le copertine dei (primi) 358 numeri di “A”,
anche quelle delle altre cose (CD. DVD, dossier, ecc.) da noi prodotti in questi
decenni, soprattutto negli ultimi dieci anni: in tutto almeno 40 “prodotti”,
attraverso i quali abbiamo portato avanti le tematiche proprie di “A”,
raggiungendo spesso pubblici ben più vasti di quelli raggiunti tramite
la sola rivista (cartacea e on-line).
Una conferma. Il “ci siamo” del titolo può dunque essere
letto sia nel senso di “la data è arrivata”, “eccoci
con il preannunciato numerone speciale”. Ma anche – e a noi piace
sottolineare questa seconda lettura – come la conferma, poco più
che sussurrata, che pur nelle difficoltà di ogni tipo che caratterizzano
la nostra epoca, pur nel frastuono assordante dei grandi media che schiacciano
in un angolino i piccoli come noi, nonostante tutto, questo nostro modesto appuntamento
mensile (9 volte all’anno) continua a ripetersi e – per quanto ci
sarà possibile – si ripeterà ancora per molto.
Sulle nostre pagine si incontrano anche tanti autori e lettori che anarchici
non si definiscono e spesso proprio non lo sono, ma trovano comunque qui uno
spazio libero per affrontare in libertà e con taglio libertario tante
tematiche.
A tutti riconfermiamo il nostro impegno e chiediamo la conferma del vostro impegno
per portare avanti con rigore e serietà questa bella avventura editoriale.
2616 volte grazie (a pag. 241 la spiegazione di questo numero).
FATTI&MISFATTI
Quell’edicola
che non c’è più
Nella terza di copertina di ogni numero di “A” c’è
l’elenco dei nostri punti-vendita. Fino allo scorso numero, a Milano,
accanto a librerie, qualche edicola, centri sociali, ecc. c’era anche
questa curiosa indicazione: vendita diretta davanti alla Stazione Nord (p.le
Cadorna) tutti i mercoledì dalle 17 alle 19. Se andavi lì, nel
luogo e nell’orario indicati, trovavi lui, Franco Pasello, in piedi, di
fronte all’entrata più affollata della stazione, proprio nell’ora
di punta del rientro. In mano Umanità Nova, “A”, magari Sicilia
Libertaria, e appoggiati per terra o nella borsa (per evitare grane con i vigili
o i poliziotti), alcuni libri – magari proprio quello ordinatogli la settimana
prima da quello studente residente nel Varesotto e da quel professionista, tutto
elegante, che faceva il pendolare da Como. Franco era un’edicola umana,
o – se preferite – un uomo/edicola.
Con regolarità, da decenni, presidiava quel luogo in quell’ora.
Così come aveva fatto per più di vent’anni, il sabato (prima
per tutta la giornata, poi – sai, è dura andarci direttamente dal
lavoro dopo la nottata del venerdì, quando si fa il pane triplo –
solo al pomeriggio) alla Fiera di Sinigaglia, il mercato delle pulci milanese.
Per tanti anni da solo, poi insieme con Lillino e Patrizio, poi di nuovo da
solo.
Era mitico Franco, aveva un’innata capacità di vendita, era la
gioia di noi editori. In realtà il trucco c’era, quel ragazzone
che con il passare degli anni diventava più vecchio restando sempre un
ragazzone, investiva molto di sè in quell’attività apparentemente
commerciale. Sembrava che vendesse, in realtà cercava l’occasione
per parlare, per spiegare le nostre idee, per dire e ascoltare commenti sull’attualità,
per “cuccare” o almeno cercare di farlo con le ragazze. Era solido
come un’edicola vera, te lo ritrovavi lì con la pioggia e il gelo
(che a Milano non mancano, con un inverno che può andare da ottobre a
marzo), sempre con la sua chiacchiera, il suo sorriso, la sua comunicativa.
Quando me lo ritrovavo al fianco in qualche corteo, si divertiva sempre a fare
il confronto con la mia incapacità: io vendevo per venti euro, lui per
settanta, più un abbonamento, più il numero di cellulare di una
ragazza, più il volantino della cena vegana dato a due di Mortara, ecc..
A volte mi sembrava anche eccessivo, al limite dell’insistenza.
Franco non era amico dei Rom, era un Rom. Non a caso solo nei campi regolari
e irregolari lui si sentiva del tutto a casa propria. Più ancora che
in redazione, dove in media è venuto almeno una volta alla settimana
per 35 anni – e, d’estate, quando non andava in ferie, ti si piazzava
qui con la chiacchiera, ed era un problema (e solo qualche Franco ne parliamo
la prossima volta, se no non riusciamo a fare la rivista nuova e ti tocca continuare
a vendere quella vecchia lo faceva desistere).
I suoi amici Rom (qualcuno anche amico mio) non gli rompevano, come noi a volte
facevamo, con l’invito a curarsi i denti, a lavare più spesso i
suoi vestiti, a darsi una regolata. Nei campi era amato, faceva foto a tutti,
ma soprattutto parlava, stava ad ascoltare, cercava di capire quel mondo così
diverso dal nostro. Dal nostro? Che dico: certo Franco, persona di grande sensibilità
umana, di attente letture, di fini ragionamenti, partecipava anche al nostro
mondo anarchico, ma la componente Rom è andata assumendo sempre maggiore
peso nella sua vita. E lui, single certo non per scelta, ha sempre trovato nella
grande famiglia allargata degli zingari, dei giostrai, dei Sinti la propria
famiglia: quella famiglia che non ha mai avuto, da piccolo, e che non si è
creato da grande (e chi lo conosce sa quanto ciò gli pesasse).
E allora ti snocciolava le parentele, i Braidic, i matrimoni incrociati, le
detenzioni (tante) e le scarcerazioni (poche), e le fuitine delle ragazze, i
raid nei campi delle forze dell’ordine. E poi comprava e divorava tutto
quanto c’era sui Rom, la loro storia.
Aveva una forte etica del lavoro. Non saltava mai un turno di notte, aveva un’intima
coscienza del valore sociale del panificare.
Non era un “talebano”. Convintissimo delle idee anarchiche, dedito
come pochi altri alla loro diffusione, aveva una mentalità aperta, frequentava
anarchici di tutti i tipi, da quelli dei centri studi agli insurrezionalisti,
attento a capire ma fermo nei propri convincimenti. Bazzicava i vegani e mangiava
carne, era di fondo un individualista ma non si applicava etichette e non considerava
quelle altrui dei filtri per l’amicizia o la collaborazione. Era critico
verso le forme che gli apparivano troppo organizzate nel movimento anarchico,
ma (per esempio) aveva tanti amici nella FAI (di cui non avrebbe mai fatto parte)
e ne vendeva il settimanale anche se spesso non ne condivideva il taglio o alcune
cose: era troppo libertario e serio per farsi condizionare, nella sua attività
di venditore, da giudizi personali e contingenti. In questo, era più
serio e affidabile di altri che, pur parlando di militanza e di organizzazione,
introducono motivi polemici ad ogni piè sospinto.
Era molto sensibile, anche troppo – se esiste il troppo. E per una sua
vicenda personale, che aveva a che fare con amore, paternità e altre
cose di grande rilievo personale, perse quasi la testa e arrivammo a litigare
di brutto. Per tanto tempo ridusse di molto la sua frequentazione della redazione
e si ritrovò “contro”, fortemente critici, tanti compagni
e amici. Fu un periodo orribile per lui, per altri e altre, per noi.
Capii in quei mesi, lunghi mesi, che cosa significhi “sangue del mio sangue”.
Scientificamente Franco non era sangue del mio sangue, ma di fatto è
come se lo fosse: non fui capace di rompere con lui – di litigare sì,
e tanto – per quante stronzate potesse fare (e ne fece, quante ne fece
in quel periodo). Era come un mio fratello minore, o forse Aurora e io eravamo
per lui figure un po’ genitoriali – ed io in particolare, forse,
in parte, quel padre che non ebbe mai e che ancora non tanto tempo prima di
morire era andato a cercare a Lendinara, il paese del Rodigino in cui era nato
56 anni fa. Risultato: una volta saputo chi era, il padre lo cacciò,
intimandogli di non farsi più vedere, se no avrebbe chiamato i carabinieri.
Quanta sofferenza nel suo racconto di questo viaggio nella terra natia!
Ne aveva vissute di cose forti, Franco. Come quella notte di una quindicina
di anni fa, quando si era ritrovato, come sempre, nel cuore della notte, solo
con il panettiere per cui lavorava. Per una tragica fatalità, il suo
“padrone” letteralmente perse la testa, risucchiata e maciullata
negli ingranaggi di un macchinario. E da solo con quel cadavere decapitato e
sanguinante, Franco aveva dovuto avvisarne la moglie, che abitava nello stesso
stabile, finendo – Franco – all’ospedale sotto shock. E da
qui aveva chiamato Fausta, della redazione di “A”. Noi, la sua famiglia.
Tante immagini si affollano nella mente: la campagna per Monica Giorgi, Senzapatria,
il periodo della sua appartenenza al gruppo Anarres (l’unica sua “appartenenza”
che io ricordi), le sue critiche a tante cose che abbiamo pubblicato, la sua
passione per la bici (rigorosamente l’unico suo mezzo di trasporto), la
sua essenzialità nel vivere, con tirchierie e generosità.
Tra tante immagini, spicca la nostra prima volta. Era il 1976, ero in corrispondenza
con lui, giovane detenuto per rifiuto del servizio militare. Si era fatto vivo
prima dal carcere militare di Gaeta, poi da quello civile (si fa per dire!)
di Sondrio, per chiedere l’invio della rivista e di alcuni libri. Poi
uscì e ci scrisse. Abitava non distante dalla redazione, ma non venne
a trovarci. Insistetti e alla fine venne, era imbarazzatissimo, non spiccicava
una parola, ma ci fece subito simpatia. Tornò, lo intervistai. Poi ci
fece conoscere sua madre, fummo invitati a pranzo. Il ghiaccio era rotto. Ora
tutto questo appartiene al passato.
Franco è morto, un ictus a casa sua, mentre due Rom che lui aiutava da
tempo (me ne aveva parlato) erano probabilmente passati a lavarsi i vestiti
e a bere un caffè. Quei due Rom rumeni, che dormono in un’auto,
non troveranno nessun altro gagio (come i Rom e i Sinti definiscono i non-appartenenti
al loro popolo) che apra loro le porte della propria casa e della propria vita,
come faceva con naturalezza Franco. Una cosa che nessuno di noi, pur grandi
teorici della solidarietà e bla bla bla, farebbe mai. E che lui, invece,
faceva. Concretamente.
Ma anche qui il trucco c’era. Franco smettila di imbrogliarci. Ora che
sei morto, lasciaci dire la verità: tu non sei mai stato un gagio. E
i tuoi fratelli Rom, i soliti imbroglioni, lo sapevano o almeno lo percepivano.
Paolo Finzi
In ricordo di
Alex langer
Nella primavera del 1995 avevo rivisto Alex Langer a Campogrosso, al confine
tra Veneto e Trentino. Alpinista, esponente degli “Europarlamentari amici
della montagna” e di Mountain Wilderness, auspicava la realizzazione di
un Parco naturale delle Piccole Dolomiti. Davanti alla lapide in memoria del
partigiano vicentino Toni Giuriolo (esponente di Giustizia e Libertà,
ricordato da Meneghello in “Piccoli maestri”), aveva osservato che
“Vicenza e provincia, purtroppo, godranno a lungo della notorietà
internazionale (all’estero è già stata soprannominata “la
Rostock d’Italia”) acquistata con la manifestazione dei naziskin
dell’anno scorso”. Partiva da qui una serie di riflessioni su “l’attuale
situazione politico- culturale impregnata di rigurgiti razzisti, di conflitti
etnici più o meno latenti...”.
L’amara constatazione di Langer era che “al momento attuale interi
strati di giovani sembrano non avere alcuna competenza di tematiche quali la
solidarietà, la non violenza, la difesa dei diritti umani”. Si
salvavano quelle “frange attive di volontariato che comunque sembrano
rivolgersi soprattutto ai casi singoli, personali, ma che appaiono meno presenti
sul piano collettivo”.
“Forse pensavamo – aveva aggiunto – che i giovani hanno comunque
in sé le potenzialità per una cultura alternativa all’egoismo,
al rampantismo, all’individualismo. Invece sembra che stiano diventando
una brutta copia degli adulti”.
Parole molto dure, in parte ancora attuali.
Non era comunque privo di speranze per il futuro: “Molti di questi giovani
che si sono fatti drogare dalla televisione non si sono mai sentiti dire una
piccola frase:“Vieni e vedi”. Si tratta di creare ambiti in cui
poter partecipare senza che questo comporti omologazione o sottoscrizione di
una ideologia. Sono convinto che dalla diffusione del volontariato civile potrà
derivare una rigenerazione politica”.
Sudtirolese di lingua tedesca, figlio di un medico ebreo austriaco fuggito prima
a Firenze e poi in Svizzera durante il nazismo, Langer aveva vissuto con estrema
partecipazione i conflitti tra serbi, croati, bosniaci. Era stato uno dei fondatori
del Verona Forum per la Pace e la riconciliazione nell’ex Jugoslavia,
una rete di collegamento tra tutte le etnie coinvolte nelle guerre balcaniche.
“Gli incontri di Verona – ricordava – erano cominciati ancora
prima del novembre ‘92 e della marcia pacifista a Sarajevo. E già
allora abbiamo verificato come fosse difficile mettere insieme queste persone.
Molti di loro non volevano riconoscersi sotto la sigla “ex Jugoslavia”.
Abbiamo cominciato a incontrarci con gruppi minoritari, donne, pacifisti, democratici...”.
Sono più di duecento le persone che hanno partecipato ad almeno uno degli
incontri, confrontandosi e arrivando a firmare documenti comuni”. E naturalmente
ognuno di loro “nel partecipare alla compilazione di un documento, di
una dichiarazione deve anche pensare alla posizione della sua etnia”.
L’ultimo periodo della vita di Alex Langer era stato convulso. Aveva investito
ogni energia nella lista per la sua candidatura a sindaco di Bolzano, pensata
per “sciogliere i grumi esistenti nel mondo della politica, senza ferire
le persone e senza sottovalutare la loro esperienza”. Per una “Bolzano
città europea, luogo di convivenza stimolante. Città gentile,
ospitale, solidale e sociale”. Il 29 aprile arrivò l’esclusione
definitiva sia per il candidato sindaco (per aver rifiutato in due occasioni
la dichiarazione di appartenenza etnica) che per la sua lista. Il 19 maggio
giunse a Bolzano Selim Beslagic, sindaco della città bosniaca di Tuzla,
tradizionalmente un luogo di pacifica convivenza. Langer lo aveva accompagnato
in vari incontri in Italia e in Europa per istituire proprio a Tuzla un’“ambasciata
delle democrazie locali”. Ma una settimana dopo, con una granata che uccise
settanta giovani davanti ad un bar, la guerra riprese il sopravvento. Con l’appello
L’Europa muore o rinasce a Sarajevo e con la manifestazione del 26 giugno
a Cannes, sconfessando in parte la sua storia personale di pacifista, Langer
chiedeva, in sostanza, un intervento per “dare qualche segnale chiaro
che l’aggressione non paga”.
Poi la tragica conclusione. Non lontano da San Miniato, nella Toscana che amava,
quella di Barbiana (sua la prima traduzione in tedesco di “Lettera ad
una professoressa”) e dell’Isolotto (dove, coincidenza, lo avevo
conosciuto nel 1969). Un cordino da arrampicata, l’albero di albicocco
e i tre biglietti, due in italiano e uno in tedesco: “I pesi mi sono divenuti
davvero insostenibili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti
per questa mia dipartita.(....). Non siate tristi, continuate in ciò
che era giusto. Pian dei Giullari, 3 luglio 1995”.
Pochi giorni dopo, l’11 luglio, le milizie serbe di Karadzic e Mladic
entravano a Sebrenica.
Gianni Sartori
A proposito di terra,
capitale e lavoro
Nel tempo ho cercato di comprendere il senso dello svilupparsi della situazione
economica/sociale cercando di non basare le analisi solo sulle interconnessioni
tra i tre fattori: Terra, Capitale, Lavoro, ma osservando la “logica”
propria di ciascuno di questi tre fattori, “logica” che, in situazioni
difficili, ha finito sempre per imporre il più forte a danno degli altri.
L’ originario poco conto che si è dato alla Terra, nel suo complesso,
che in quanto considerata dono divino agli uomini, si riteneva sfruttabile illimitatamente,
era ovviamente fallace. La “logica” propria della terra oggi si
impone con la sua forza di reazione distruttiva agli altri fattori tanto da
obbligarli, volenti o nolenti, a tenerne invece il massimo del conto. (Cosa
ancora non pacificamente accettata)
Il Capitale, che ha superato l’ iniziale forza limitata ai soli mezzi
finanziari, oggi rappresenta l’intera organizzazione legale/sociale della
quale si è appropriato contando sulla complicità delle religioni,
sul controllo sullo Stato teso, tra l’ altro a garantire, con ogni mezzo,
il diritto alla proprietà reso eterno con l’ereditabilità.
Il Lavoro, puntando la sua forza sulla capacità dei lavoratori alla solidarietà
e alla sobrietà, ha creato le sue organizzazioni che, esclusi gli anarchici
e i primi socialisti, sono andati sempre più alla ricerca della loro
legittimazione, appiattendo le loro rivendicazioni, sulle leggi apparentemente
economiche, trascurando che il potere Legislativo, Esecutivo e Giudiziario,
erano in mano o condizionati fortemente dal Capitale che, quando non in contrasto
con i suoi interessi, avrebbe, al massimo, permesso un lieve miglioramento del
tenore di vita ma mai accettato il diritto individuale all’ eguaglianza.
Infatti, man mano che la scienza e la tecnologia hanno consentito, come originariamente
previsto in favore dell’ umanità, (ricordate il “Balletto
Excelsior) un’utilizzazione numericamente sempre meno impegnativa del
lavoro, il Capitale ha preteso, per la misurazione dei valori, i semplicistici
(falsamente neutri) risultati di mercato. Questo ha comportato, l’accettazione
passiva e la complicità da parte della società dello sfruttamento
intensivo di tutti i fattori della produzione contro la promessa di un miglioramento
futuro delle condizioni generali di vita.
Mentre per il fattore Terra sappiamo cosa questo sfruttamento intensivo ha significato,
è’ opportuno capire come il Capitale ha inteso lo “sfruttamento”
per se stesso.
Inizialmente ha diretto il “risparmio aziendale” (accantonamento
degli utili) per procurarsi margini per investimenti nell’ impresa. Successivamente
l’ obbiettivo degli investimenti si è spostato dall’ impresa
alla finanza pura e semplice per via della facilità di formazione dei
guadagni. Questa operazione è stata permessa dal fatto che il capitale
ha ottenuto, sfruttando i riflessi sociali legati all’ occupazione, che
gli investimenti strettamente produttivi, gravassero sul pubblico sotto forma,
prima, di finanziamenti agevolati e/o incentivi e poi con partecipazioni vere
e proprie che, se anche inizialmente parziali, potevano facilmente diventare
totali, minacciando la disoccupazione per gli operai con la chiusura delle imprese
e trasferendo così il proprio passivo interamente sulle spalle della
società.
Poiché la maggior parte dell’ entrate pubbliche sono dovute; a)
ai redditi da lavoro, tassati direttamente nel momento della loro formazione;
b) ai contributi, che anche nella quota apparentemente in testa all’ impresa,
di fatto sono anch’ essi a carico del lavoro perché esclusi dalla
tassazione sugli utili; c) alle imposte indirette che gravano sui consumi, ne
consegue che lo stornare fondi verso gli pseudo problemi della produzione diventano
di fatto sottrazione di reddito ai lavoratori ai quali, si dice, che non possono
ridursi le tasse.
Ai sindacati, chi più o chi meno, non è rimasto che confinarsi
al ruolo di rivendicatori di contratti migliori, di salari maggiori ecc. sacrificando
il loro scopo primario, l’ unico a cui erano veramente interessati i lavoratori,
quello della costruzione di un mondo senza sfruttati e sfruttatori.
Ma oggi che la Terra non consente che sia sfruttata senza freni, al Capitale,
non resta, con la scusa della legge del mercato, che sfruttare il lavoro e quindi,
come abbiamo visto, l’intera società.
Per questo quanto più i sindacati cercano di difendere, nel paese di
riferimento, i posti di lavoro di quei pochi che ancora lavorano, (magari a
danno di lavoratori di un altro paese) tanto più e meglio il capitale
sfrutterà l’ intera società globalizzata.
Mi rendo conto che le mie osservazioni portano a ritenere che il meccanismo
del mercato non è in grado di permettere la “ripresa economica”
intesa come sino ad oggi si intende.
Credo, (e spero) che portino a pretendere una “ripresa umana e sociale”
per la quale tanti si sono battuti. Ripresa che non ha mai avuto il significato
di arricchire se stessi a danno di altri.
Il lavoro ha sempre saputo che la ricchezza di alcuni comporta la miseria per
tutti gli altri.
Angelo Tirrito
dida p7: Franco Pasello (foto Ivana Kerecki, grazie a Fabrizio Casavola).
dida p8: Franco Pasello (foto Roberto Gimmi).
RASSEGNA LIBERTARIA
Silvio visto da Stoccolma
Uno dei titoli più popolari presentato al festival del cinema di Venezia
è giustamente intitolato “Videocracy”, documentario di una
compilation abile di filmati di repertorio contemporaneo che descrive l’Italia
come uno specchio dell’impero televisivo commerciale del primo ministro
Silvio Berlusconi. Nella videocrazia che è l’Italia, l’immagine
è la chiave del potere e Berlusconi è indicato come un maestro
della propria immagine. Il Premiato documentarista Erik Gandini (“Surplus“,
“GITMO”), nato in Italia che ora vive in Svezia, presenta un caso
convincente senza ricorrere alla satira diretta o al commento politico à
la Michael Moore, e il film ha un fascino morboso che ha effetto sia in un teatro
così come in TV.
Anche se lo stesso Berlusconi – l’uomo, oligarca, personalità
tabloid e vittima di chirurgia plastica – ha un valore innegabile d’intrattenimento,
Gandini è più interessato a quello che potrebbe essere definito
l’effetto Berlusconi. Quello che è l’impatto di Berlusconi
sulla cultura italiana, in particolare su quelli per i quali la celebrità
è potere. Ed è per questo, per caso o volutamente, “Videocracy”
finisce con uno specchio più grande sul mondo.
Mentre Berlusconi è al centro del film, egli condivide tempo dello schermo
con molti altri che Gandini ha scelto come simboli d’Italia di oggi –presentazioni
persuasive (e ipnotizzanti e repellenti) delle figure di grandi dimensioni nella
scena culturale pop: Lele Mora, agente di grande successo che dice il suo amico
Silvio è “un grande uomo, un grande leader. Lui in realtà
non arriva fino ai livelli dell’ideologia, dei metodi e delle modalità
di Benito Mussolini, ma è ancora una grande figura.” Poi, con un
sorriso sul volto, suona inni fascisti e mostra foto naziste sul suo telefono
cellulare. C’ è poi Fabrizio Corona, un mercenario di foto dei
paparazzi che cattura le celebrità nei momenti compromettenti, foto che
vende poi di nuovo ai vip che vogliono evitare la pubblicazione in una miriade
di riviste di gossip in Italia. Entrambi questi personaggi hanno un fascino
agghiacciante, ma non si capisce perché il film dedichi così tanto
tempo a Corona, un personaggio relativamente minore, che, tra le altre cose,
si lascia filmare completamente nudo nel suo bagno.
È quando il film si concentra su Berlusconi che mette veramente a fuoco
e diventa più rivelatore. Ci sono filmati della famosa villa di Berlusconi
in Sardegna, girati dalla terrazza del suo vicino, il cui proprietario Marella
Giovannelli scatta foto di ospiti del partito del primo ministro e le vende
online.
Non è un bel quadro di Italia che emerge, e possiamo solo dire che è
un poco troppo pessimista, visto che non copre tutti quelli che in Italia a
gran voce resistono alla terra bruciata della televisione di Berlusconi. Tuttavia,
le immagini d’archivio ci documentano il cambiamento che è venuto
nel paese negli ultimi 30 anni, dai primi spettacoli di rottura di casalinghe
che fanno lo strip-tease in TV alla incessante sfilata di aspiranti che danzano
in lizza per la possibilità di mostrare seni e sederi come veline.
Il montaggio di apertura del film di queste immagini, insieme con la musica
minacciosa di Johan Soderberg, crea un senso nauseante di pornografia di famiglia
che è difficile da dimenticare. La maggior parte di tutti, il potere
della TV di manipolare i giovani italiani immagini di sé si presenta
come qualcosa che avrà un impatto duraturo in un lontano futuro.
Il trailer di questo film, che è stato bandito dalla RAI (e, naturalmente
anche dalle reti di Mediaset), lo potete vedere a:
http://www.telegraph.co.uk/culture/culturevideo/filmvideo/cinema-trailers/7762165/Videocracy-Trailer.html
Il film, per la maggior parte parlato in italiano con sottotitoli in inglese,
lo potete vedere su http://Netflix.com, dove è disponibile in streaming
video.
Enrico Massetti
Il gabbiere Fabrizio De André
È uscito nelle librerie Il libro del mondo. Le storie dietro le canzoni
di Fabrizio De Andrè, di Walter Pistarini (Giunti, Firenze 2010, pagg.
320, €22,00). Ne riproduciamo l’introduzione dell’autore.
“Non c’è un libro che spieghi tutte le canzoni di Fabrizio
De André?” È questa la domanda più comune e più
difficile che spesso mi fanno sul sito www.viadelcampo.com.
De André viene “scoperto” di continuo, e chi si avvicina
alle sue canzoni magari guidato dalla Guerra di Piero o da Marinella presto
scopre che c’è un mondo molto più esteso di quanto sembrava
e che quello che sembrava bello viene continuamente superato da altro ancora
più bello.
Ma per quanto si presti attenzione, per quanto si riascoltino le canzoni, rimane
spesso un che di sfuggente, come se la canzone, benché oltremodo stimolante,
nasconda ancora altri messaggi, altri contenuti. E come un buon brano di musica
classica, ad ogni riascolto si riscopre qualcosa, nonostante permanga la sensazione
che qualcosa ancora sfugga. Credo sia una sensazione che accomuna molti appassionati,
e che, appunto, fa scattare la domanda di ricerca di aiuto.
Non che non ci siano stati tentativi di risposta, anzi. La rete è ricca
di discussioni e materiale molto interessante. Ci sono moltissimi siti che raccolgono
e organizzano materiale su De André con amore e passione. Oltre al mio,
mi piace segnalare quello della Fondazione http://www.fondazionedeandre.it/index.html
, con una rassegna stampa indispensabile per ogni studio; e poi quello di Marcello,
http://www.faberdeandre.com/ ricco e raffinato, con molti video; quello di Giuseppe,
http://www.giuseppecirigliano.it/ e quello di Giacomo, http://www.creuzadema.net/
. Segnalo poi una mailing list, ora praticamente inattiva (ma potrebbe risvegliarsi
dal suo torpore): http://it.groups.yahoo.com/group/fabrizio/ e comunque nel
suo archivio ci sono migliaia di post molto stimolanti e interessanti. Per finire
un paio di forum: http://www.faberdeandre.com/forum/ e http://deandre.forumfree.it/
.
In ultimo, ma non per interesse, nasce un nuovo sito, con la sua particolarità:
http://tangoitalia.com/fabrizio_de_andre/ la versione in italiano e inglese
di “L’altro Fabrizio”, un sito dedicato alle idee anarchiche
di Fabrizio de André. Nel sito ci sono molti video con le canzoni di
Fabrizio, completi di parole e commenti, in italiano e inglese (e in dialetto
genovese quando necessario).
E che dire dei libri? Ad un mio rapido conteggio ne ho listati 94, senza contare
quelli sulla musica italiana. E gli articoli di giornali, i video, le interviste?
Bene. Questo è tutto il materiale che ho utilizzato per scrivere “il
libro che avrei voluto leggere”. Sul sito avevo già cominciato,
da tempo, a migliorare della FAQ (domande più comuni su De André)
e raccogliere documentazione. Nei due anni che mi ci sono voluti per la stesura
del libro ho raccolto quello che avevo già ed ho rielaborato il materiale
succitato. Ho solo esteso le ricerche delle fonti, e quindi Brassens, Dylan,Cohen
e qualcos’altro. E’ stata un’avventura entusiasmante, molto
più di quanto avessi mai creduto possibile. Studiando con molta attenzione
i testi, le fonti, le interpretazioni altrui, le interviste ho praticamente
riscoperto tutte le canzoni di Fabrizio De André. Ho capito appieno cosa
vuol dire Ivano Fossati quando definisce De André “un letterato
prestato alla musica”. Infatti ogni singola canzone ha un substrato culturale
impressionante. Sally, tanto per fare un piccolo esempio, è ricchissima
di citazioni: inizia dalla filastrocca inglese “My Mother said that I
never should / Play with the gipsies in the wood” ma poi va per la sua
strada con richiami a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez
(Pilar) e El Topo di Jodorowsky… Sappiamo tutti che Smisurata preghiera
è stata scritta utilizzando versi di Mutis. Quello che è meno
noto è che De André ha sì preso versi da Mutis, ma li ha
piegati al suo messaggio. Mentre in Mutis Maqroll che è un gabbiere (il
marinaio che sta sulle vele più alte) e vede tutti dall’alto, in
Smisurata preghiera è la maggioranza che sta alta e distante.
De André mantiene sempre la sua visione, molto particolare, sicuramente
anarchica, di un anarchismo fiducioso nel prossimo, attento alle esigenze degli
ultimi. Secondo me De André aveva la rara capacità di saper leggere
“Il libro del mondo” è questo è quello che spero si
riesca a intravvedere in questo testo.
Walter Pistarini
Errata corrige. Sullo scorso numero, nella didascalia della foto a pag. 18, abbiamo erroneamente indicato Ken Worpole, mentre trattasi di Ben Ward, figlio di Colin Ward. Il pianista dietro di lui è Tom Unwin, figlio adottivo di Colin e quindi fratello di Ben.
72 SCRITTI... CHE PALLE!
Gli scritti sono pubblicati in ordine alfabetico per nome proprio
(e non, come di consueto, per cognome) per sottolineare la familiarità
del rapporto
che unisce la redazione di “A” ai suoi collaboratori.
La casa libertaria?
Ecologica e autocostruita
di Adriano Paolella
L’uniformazione produttiva ha espropriato le comunità e le persone delle capacità tecniche del costruire e quindi di definire soluzioni specifiche
L’attuale diffusa conformazione della casa degli uomini è la soluzione
specializzata, e colpevolmente parziale, alle esigenze umane. Operando con criteri
industriali di uniformazione e standardizzazione delle esigenze, di massima
redditività e minimo costo, di centralizzazione della produzione l’esito
morfologico della casa è una scatola alienata dal contesto della cultura,
delle attività e dell’ambiente. In tutte le parti del mondo la
casa contemporanea è formata da vani con le medesime funzioni, strutturati
e relazionati alla stessa maniera aggregata in unità immobiliari nella
quantità e con la densità dettata dalla speculazione.
Eppure l’ambiente e la creatività determinano modalità di
vita diverse e il combinarsi di innumerevoli luoghi, individui, culture dovrebbero
conformare innumerevoli soluzioni edilizie.
Ma l’uniformazione produttiva ha espropriato le comunità e le persone
delle capacità tecniche del costruire e quindi di definire soluzioni
locali. Il prodotto uniformato, culturalmente scadente, energeticamente e ambientalmente
insufficiente, è sostenuto da una filiera di produzione di materiali,
tecniche, attrezzature e organizzazione dei processi di tale forza economica
che asservisce le amministrazioni ed impone soluzioni alle comunità.
Case con materiali e tecniche di scarsa qualità ambientale con ridotti
orizzonti temporali coerentemente vengono riempite da mobili, strumenti, merci
della medesima qualità, sono enormi accumuli temporanei di rifiuti.
Nelle case si dorme, si mangia, si riposa ma in generale non si lavora, non
si crea, non ci si relaziona con l’ambiente; nella logica aberrante della
divisione delle funzioni, vi sono altri spazi altrettanto specializzati. Così
la vita della casa è defraudata da attività fondanti quali, ad
esempio, la manutenzione e l’adattamento della stessa o la produzione,
il trattamento e la conservazione degli alimenti.
La casa è svuotata di attività, il tempo nell’abitazione
è svuotato di azioni e riempito di atti alienanti; la casa è uno
dei contenitori del tempo disperso (vedi televisione, rete, etc).
Così la casa, sia in condominio sia unifamiliare, è estranea tanto
alla comunità quanto all’ambiente. Gli spazi verdi privati tentano
un rapporto con la natura, ma questo è così malamente impostato
che l’esito sono edulcorazioni dei caratteri sublimi della naturalità
e immiserimento delle forme naturali in un contesto controllato e rigidamente
gestito.
La casa libertaria è autocostruita, o comunque fortemente partecipata,
con materiali principalmente naturali e locali; essa pone un’attenzione
prioritaria alla riduzione del “peso” ambientale, morfologico, energetico
e sociale, risponde alle esigenze specifiche dell’abitante, tende ad essere
il luogo della complessità della quotidianità non parcellizzando
le funzioni e relazionandosi con l’ambiente e con le altre unità
abitative.
La città libertaria? Leggera e piccola
di Adriano Paolella
Ogni piccolo centro può essere rivissuto con nuova autonomia.
G li insediamenti contemporanei sono la risultante di azioni che, anche quando
mediano gli interessi fondiari e immobiliari con quelli degli individui, non
hanno come fine il benessere della comunità.
L’attività dei tecnici, progettisti, pianificatori, esperti in
genere, per comporre lo spazio delle comunità dovrebbe essere a supporto
delle richieste delle stesse, mentre oggi si configura come una totale delega
usata, inoltre, troppo frequentemente per accontentare gli interessi dei potenti
e degli speculatori. L’abitante, condizionato dalla forme e dall’organizzazione
spaziale dei luoghi, si adatta faticosamente ad una situazione di cui non è
né protagonista né partecipe.
Città imposte dall’interesse e subite dalla comunità, non
lasciano tregua e piegano gli abitanti a modalità di vita aberranti,
a comportamenti nocivi per la loro salute e dannosi per l’ambiente; città
che dovrebbero essere chiuse, dichiarate inagibili per le condizioni di estremo
degrado ambientale e spesso sociale; città dalla possente forza attrattiva
in cui si concentrano economia, mercato, relazioni, possibilità di “successo”.
L’aumento delle dimensioni degli insediamenti riduce il rapporto con il
territorio e le risorse, centralizza i servizi e gli approvvigionamenti annullando
la capacità di autonoma sopravvivenza delle comunità e asservendole
sempre più a monopoli e gestioni private. In una città nessun
individuo può direttamente trasformare gli spazi, né conformare
il paesaggio, né produrre i propri alimenti, né accedere all’acqua
o ad altre risorse indispensabili per la propria esistenza. In nessun parco
pubblico un individuo può piantare un albero, né porre un nido,
né allevare galline, né modificare, adattare, mantenere, riqualificare.
Sono spazi predisposti per lo svolgimento di una specifica funzione di cui viene
fornita anche la regolamentazione di uso; sono un’astrazione delle necessità
degli individui, una semplificazione delle complessità dell’abitare,
una limitazione dell’essere. Nella dicotomia pubblico-privato ciascuno
spazio ha una sua funzione ed un suo regolamento; ma il loro insieme non soddisfa
le esigenze e il piacere della comunità.
Le città contemporanee sono l’immagine concreta di una organizzazione
sociale, sono rappresentazione di un autoritarismo culturale, economico e sociale
altrove meglio celato.
Una comunità dovrebbe avere la possibilità di definire i luoghi
in cui vivere e dovrebbe farlo potendo ricercare in via prioritaria il proprio
benessere basato sullo stabile e duraturo equilibrio tra effettive necessità,
disponibilità locali di risorse.
La città libertaria è tendenzialmente leggera, morbida, con dimensioni
e numero di abitanti direttamente collegate alle risorse disponibili; città
stabili non in crescita, né demografica né spaziale, ove le comunità
si riappropriano di una delega data indirizzando le scelte degli amministratori,
gestendo direttamente le attività, ricucendo il rapporto con le risorse,
perseguendo un’autonomia economica, adattandosi alle condizioni dell’ambiente
ed adattando esso senza destrutturarlo.
Ogni piccolo centro può essere rivissuto con nuova autonomia, ogni città
può essere parcellizzata in aggregazioni più piccole attraverso
l’azione diretta e la pressione esercitata sui “tecnici” per
una urbanistica sociale e ambientale in cui il benessere diffuso non trovi compromessi,
in cui i piani non siano giustificativi e mediatori di interessi, in cui le
comunità controllano e gestiscono gli spazi e, attraverso di essi, la
propria esistenza.
Il signornò
dei non sottomessi
di Agostino Manni
Senzapatria era la principale rivista anarchica che sosteneva le nostre idee.
L a prima volta che fui arrestato, nel gennaio dell’’88, esistevano
in Italia tre grosse carceri militari: Peschiera del Garda per il Nord, Forte
Boccea a Roma e Santa Maria Capua Vetere per i detenuti del Sud. C‘era
poi qualche caserma minore, come il carcere di Bari Palese, dove stavano in
isolamento prevalentemente detenuti in attesa di giudizio, e dove fui trasferito
dal civile di San Vittore, a Milano, dopo il mio arresto avvenuto nella stessa
città.
La popolazione di un carcere militare – oltre agli sbirri colpevoli di
qualche reato, che in genere stavano in un reparto distinto del carcere –
era composta perlopiù da centinaia di Testimoni di Geova ai quali si
aggiungevano varie decine all’anno di insubordinati, soprattutto disertori,
militari di leva spesso analfabeti, privi di qualsiasi sostegno legale, politico
ed economico. Poi c’eravamo noi, gli ‘obiettori totali’ o
‘non sottomessi’, con un nome mutuato dagli ‘insoumis’
della Spagna, dove centinaia di compagni ogni anno rifiutavano la leva, compreso
il servizio civile sostitutivo obbligatorio.
In Italia il fenomeno riguardava solo pochi individui, quattro o cinque all’anno,
quasi tutti anarchici, che scontavano per il rifiuto circa un anno di galera,
cui potevano aggiungersi mesi a causa di altre condanne per le frequenti proteste
e insubordinazioni. Senzapatria era la principale rivista anarchica che sosteneva
le nostre idee: pubblicizzava le nostre lotte, denunciava i casi dei disertori
e degli insubordinati, informava sui processi, raccoglieva fondi, stampava libri
e opuscoli, organizzava manifestazioni....
In realtà tutta la stampa anarchica ci sosteneva: quasi su ogni numero,
nell’anno e passa della mia galera, A-Rivista ha pubblicato qualche mia
lettera, qualche mia denuncia, qualche mio urlo da quell’assurdo buco
di mondo. All’epoca il PCI in Italia si opponeva all’abolizione
della leva obbligatoria: col pretesto che, eliminandola, sarebbe mancato un
baluardo contro il rischio di colpi di stato da parte della destra e dei militari,
si legittimava una clientela nella quale evidentemente il ‘Partito’
gestiva alla grande voti ed affari.
Anche all’interno del movimento anarchico le posizioni non erano uniformi:
alcuni sostenevano la necessità di un’opposizione dentro le caserme,
tra il ‘proletariato in divisa’, una stategia praticata da alcune
organizzazioni dell’estrema sinistra italiana negli anni ‘70.
La non sottomissione partiva invece da un altro presupposto: sosteneva che la
costruzione di un mondo nuovo non poteva prescindere dal rifiuto netto del sistema
dominante, in ogni sua forma: la patria, l’esercito, la chiesa, la fabbrica,
la famiglia, la scuola. Il rifiuto di tutte queste istituzioni veniva considerato
una premessa necessaria e imprescindibile alla costruzione di una società
di liberi e di uguali. Con in testa queste idee e nel cuore questi sogni, tanti
giovani anarchici in quegli anni sono stati rinchiusi in un carcere militare.
La musica...
dov’era la musica?
di Alessio Lega
Abbiamo bisogno di una ricerca strenua delle radici più pure e profonde
N ei salotti lustrati da servi venerati nei concerti segreti dai segreti merletti nei templi invecchiati da ricordi fottuti. È là che appassisce la Musica, è là che abortisce la Musica... Noi nelle strade la vogliamo la Musica. E ci verrà. E l’avremo la Musica.
Diceva – anzi cantava – Léo Ferré, il più
profeta e il più libertario dei cantautori. Portare la musica e la poesia
nelle strade è il compito che s’è prefisso certa canzone,
quella di cui mi occupo, quella contro cui certi sostenitori dell’arte
pura o del minimalismo si scagliano.
Mestiere duro quello di fare stare le canzoni all’altezza delle strade
come una testimonianza, come una rivolta gettata in faccia a chi vuol capire
e a chi non vuole, senza “vasellina di violini” (per dirla con un
grande un po’ troppo dimenticato, Herbert Pagani). Come uno strumento
di resistenza al potere, all’oblio, alla morte.
Persino noi stessi valutiamo a volte poco questo strumento: quanti di noi si
sono avvicinati a certe idee perché le hanno sentite cantare? La libertà
è un’idea che canta.
Quanta gente è diventata anarchica per “addio Lugano bella/gli
anarchici van via” (non certo dall’orecchio, visto che questa canzone
si canta da cento e più anni), per
Non son l’uno per cento ma credetemi esistono.
Hanno bandiere nere sulla loro speranza
e la malinconia per compagna di danza
coltelli per tagliare il pane dell’amicizia
e del sangue pulito per lavar la sporcizia.
o per
Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.
Poi si va avanti, si studia, si approfondisce... ma la prima pulce nell’orecchio
(è proprio il caso di dirlo) spesso la mette una canzone. A canzoni forse
non si fanno rivoluzioni – come hanno detto in tanti – ma senza
canzoni la memoria perde uno dei tasselli cui reggersi.
Scrivo queste note nel settembre del 2010. Nel luglio di quest’anno è
ricorso il cinquantesimo anniversario dei tragici fatti di Reggio Emilia: il
7 luglio del 1960 cinque dimostranti disarmati furono uccisi dalla polizia,
che aprì il fuoco nel corso di una manifestazione. Fausto Amodei dedicò
a quelle vittime un brano divenuto celebre. Recentemente Fausto è stato
presentato al pubblico così: “Questi è Amodei, per chi non
lo conoscesse, quello che ha fatto i Morti di Reggio Emilia”.
“Veramente è stato il governo Tambroni a farli” ha chiosato
subito “io mi son limitato a celebrarli”. L’aneddoto è
buffo e mostra bene come la memoria di certe vicende si affidi ai canti. Oggi
quei morti son diventati la loro canzone. Non è una cosa irrispettosa,
più vivo di un libro quel pugno di versi trasporta la memoria storica
dei cinque di Reggio, la fa vibrare nell’indignazione dei nipoti, come
vibrò in quella dei fratelli, come ha vibrato in quella dei figli.
Di fatti simili, di tanta sanguinosa repressione, di troppe storie di piombo
sulle folle, e di qualche bel momento di felice rivendicazione manca la testimonianza
cantata. Ed è male.
Oggi che la comunicazione di massa mangia e distrugge subito ogni notizia è
più che mai necessario scrivere le nostre canzoni e per farlo abbiamo
bisogno di una ricerca strenua delle radici più pure e profonde, perché
molte delle nostre parole si sono stancate e bisogna rinnovarle, trovare nuovi
modi per cantare la stessa storia.
Cantare come Woody Guthrie, che viveva sui treni nell’America degli anni
’40 e aveva scritto sulla chitarra “questo strumento uccide i fascisti”.
Come Lluis Llach, il catalano costretto all’esilio per aver scritto L’Estaca.
Come Jacek Kaczmarski che riprese quella canzone in polacco e la fece diventare
l’inno di Solidarnosc. Come Violeta Parra la pasionaria cilena che cantava
come dipingeva e che si suicidò dopo aver composto Gracias a la vida.
Come Victor Jara, suo allievo spirituale, assassinato dai militari durante il
colpo di stato del 1973. Come Zeca Afonso la cui canzone Grandola fu il segnale
d’inizio della Rivoluzione dei garofani il 25 aprile del ’74. E
poi i due francesi Ferré e Brassens, libertari e opposti per carattere
e poetica, opposti come due poeti, differenti come due anarchici.
Questa è la ricerca che sta alla base della rubrica “E compagnia
cantante” per cantare al presente, scrivendo una lettera d’amore
agli uomini che verranno.
dida p24: Leo Ferré
Così nacque “A”
di Amedeo Bertolo
Eravamo giovani e un tantino presuntuosi.
E ravamo giovani, decisamente. Il più vecchio ero io: avevo ventinove
anni. Il più giovane, Paolo Finzi, ne aveva diciannove. Gli altri (Luciano
Lanza, Fausta Bizzozzero, Nico Berti, Roberto Ambrosoli) avevano tra i venticinque
e i ventotto anni. Sto parlando del nucleo centrale dei fondatori di “A”
nell’autunno del 1970, quando nasce il progetto della rivista. Giovani
e avventati: saggiamente avventati, visti i risultati.
Il progetto nasce in modo singolare, su sollecitazione esterna a quelli che
saranno – che saremo – i suoi effettivi promotori. Un piccolo editore
romano ci propone, tramite un suo collaboratore (Guido Montana), di dare vita
a una nuova pubblicazione anarchica. Nuova, diversa. Il Montana ci suggerisce
anche il titolo: “A”, graficamente una A cerchiata. Perplessità
nostra iniziale sul progetto e sul titolo, poi accettazione. Mentre prepariamo
il primo numero, inventandoci grafici e giornalisti, l’editore ha un ripensamento
(probabilmente trovandoci troppo anarchici e dilettanteschi per i suoi gusti)
e lascia il progetto. Che fare? Rinunciare? Continuare? Con quali capacità,
con quali soldi? Avventatamente e saggiamente decidiamo di esserne capaci e
di proseguire da soli. E decidiamo di utilizzare un gruzzolo accantonato nel
corso degli ultimi due anni per un progetto – arenatosi – di comune
libertaria, sufficiente a malapena a coprire i costi tipografici dei primi tre
numeri della rivista. Poi si vedrà; che Bakunin ce la mandi buona.
Il vecchio Bak ce la manda buona. Tirata a diecimila copie, “A”
vende da subito sette-ottomila copie, diventando di gran lunga la più
diffusa pubblicazione anarchica. La formula che a tentoni, un po’ programmaticamente
un po’ sperimentalmente, avevamo adottato funzionava, era adeguata ai
tempi, tempi di rivolta giovanile e di intensa conflittualità sociale
(eravamo a ridosso del ’68 studentesco e del ’69 operaio) e di inaspettata
riscoperta dell’anarchismo (effetto paradossale anche dell’affaire
Piazza Fontana).
La formula? Una veste grafica attuale (attuale allora, evidentemente), un linguaggio
attuale, contenuti attuali (o attualizzati). Un po’ specchio delle lotte
e un po’ riflessione critica, con un po’ di pensiero di più
ampio respiro, un po’ di proposte teoriche innovative (quelle dei Gruppi
Anarchici Federati – G.A.F. – cui la rivista faceva riferimento,
pur non volendone essere espressione ufficiale) e un po’ di riproposizione
orgogliosa di identità anarchica…
Eravamo giovani e un tantino presuntuosi. Quel tanto di presunzione necessaria
forse a farci credere capaci di ridare giovinezza a un anarchismo che percepivamo
come senile, ripetitivo, stancamente e inutilmente retorico, una vulgata che
tradiva le potenzialità dell’anarchismo classico…
Ho lasciato la redazione di “A” alla fine del 1974, dopo avere pensato
e realizzato il suo passaggio grafico e redazionale al nuovo format magazine,
per impegnarmi in altre iniziative editoriali e culturali: la rivista internazionale
di ricerche anarchiche “Interrogations”, il Centro Studi Libertari
G. Pinelli, le Edizioni Antistato…, perseguendo in altre forme più
o meno lo stesso progetto identitario e insieme apertamente innovativo che aveva
fatto nascere “A”.
Fede antifascista e anarchica
di don Andrea Gallo
I nvece di un suo scritto, del nostro giovane (anche se l'anagrafe non è
d'accordo) amico prete genovese pubblichiamo un biglietto inviato a un nostro
redattore che l'aveva invitato a partecipare a una "festa partigiana"
promossa dall'ANPI di Piacenza il 29 agosto 2010 a Peli di Coli, sull'Appennino
Piacentino.
La festa si è tenuta davanti alla chiesetta che, durante la Resistenza,
vide Emilio Canzi, anarchico, comandante della XIII Zona Partigiana, partecipare
con ruolo di primaria responsabilità alla lotta armata contro i nazi-fascisti,
aiutato anche dal parroco di quella chiesetta di montagna, don Bruschi.
Trascriviamo quanto scritto da don Gallo:
“Carissimo Paolo, ti ringrazio per gli inviti. Per testimoniare la mia fede antifascista e anarchica, verrei sempre di corsa. Purtroppo, la vecchiaia, qualche impegno... mi trovo in difficoltà. Sono fiero di essere con voi a Peli di Coli. Il patrimonio di Emilio Canzi risvegli tanta indifferenza. Il fascismo è “in libera uscita”. Fermiamolo! Ciao. Andrea Gallo”
A che cosa servono
gli anarchici?
di Andrea Papi
Ha ancora senso spendersi per un’idea come quella anarchica?
D a un punto di vista utilitaristico, non servono a nulla. Anzi! Per quanto
riguarda profitti, utili e rendite, attuali dèi il cui potere incombe
sull’andamento complessivo del mondo, rappresentano un sicuro rischio
di perdita. Lo testimoniano i conti anarchici perennemente in rosso. Dal punto
di vista del benessere interiore, di un fare disincantato e creativo, di una
prospettiva intellettuale ed estetica aperta e irriducibile a qualsiasi canonizzazione
dall’alto, invece sono senz’altro una panacea. Se assimilato nel
modo giusto, infatti, l’anarchismo è in grado di offrire possibilità
taumaturgiche sorprendenti per risollevare lo spirito, perché aiuta ad
acquisire in modo autonomo un’acuta capacità di sguardo sul mondo,
allo stesso tempo avveniristica e realista.
La vera domanda è se ha ancora senso spendersi per un’idea come
quella anarchica, dileggiata e considerata irrealistica dalla cultura dominante,
al punto che chi l’abbraccia si trova facilmente destinato a una specie
di non voluto eremitaggio intellettuale e ideale. Contro questo conformismo
imperante rispondo con determinazione che non solo ha senso, ma che è
rimasta l’unica idea sensata che propone un modo di essere e di vivere
radicalmente alternativo all’attuale degradata situazione sociale, economica,
politica ed esistenziale.
L’anarchia è rimasta l’unica prospettiva, seria e poetica
al tempo stesso, in grado di emanciparci dallo stato di cose presente, nonostante
che i suoi detrattori continuino a presentarla come fonte di ogni caos. Ma basta
guardare in modo disincantato come sta (non)/funzionando il mondo, sempre più
soggetto a una gran quantità di leggi, a governi che impongono il volere
di pochi, ad oligarchie che arraffano ogni cosa impoverendo tutti gli altri,
per rendersi conto che è proprio questo (non)/funzionamento il vero generatore
di un continuo caos strutturale, fattore di un costante aumento di confusione.
Quando la gran parte dell’umanità si renderà conto che l’accumulazione
finanziaria, l’imposizione politica, la schiavizzazione del lavoro e il
controllo dall’alto degli esseri umani da parte di elite autolegittimantesi,
sono le vere cause della sofferenza e del malessere sempre più diffusi,
allora riscoprirà la proposta anarchica e non la considererà più
né distante né fuori portata. Capirà che i suoi presupposti
di libertà, individuale e collettiva, di cooperazione, di solidarietà,
di metodi libertari non gerarchici, sono indispensabili per trovare i modi giusti
per cominciare a risolvere i mali da cui è afflitta.
Sul nuovo anarchismo
di Andrea Staid
L’anarchia si deve costruire nel nostro vissuto senza aspettare la rivoluzione.
P artiamo da un concetto fondamentale, per definire il nuovo anarchismo o quanto
meno per darne la mia interpretazione;
l’anarchismo dovrebbe essere pluralista, non può essere riproposto
uguale in tutto il mondo, non è universale, ed è portatore del
concetto relativista.
L’anarchismo deve essere legato al contesto della sua produzione, è
mutevole, perennemente in transito, se si fermasse diventerebbe un dogma e sarebbe
destinato a morte certa. Il pensare anarchico è programmaticamente instabile,
non cerca riposo ma diviene incessantemente. (Salvo Vaccaro) Detto questo è
chiaro che è importante continuare ad affermare, per esempio, che vogliamo
un mondo di liberi ed uguali, praticare l’autogestione, produrre un messaggio
chiaro e deciso, ma senza mai affermarlo in termini assoluti; un messaggio che
si costruisce gradualmente, che cambia nella pratica, nel confronto quotidiano
con e tra la gente.
Chiaramente questo modo di vedere l’anarchismo e la sua pratica rende
tutto più complesso e incerto. La vecchia sicurezza anarchica “de
l’anarchia che verrà” svanisce, si sgretola.
L’anarchia si deve costruire nel nostro vissuto senza aspettare la rivoluzione,
poiché non esiste un solo grande potere da abbattere, un palazzo da conquistare.
Il potere come ci ricorda Michel Foucault non occupa un luogo unico privilegiato,
né dipende da un unico soggetto identificabile una volta per tutte. Lo
stato, le leggi, le egemonie sociali sono soltanto effetti e manifestazioni
sul piano istituzionale di rapporti e strategie di potere. Il potere è,
invece, anonimamente diffuso ovunque; è onnipresente e dappertutto, “non
perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove” Il potere
coincide con la molteplicità dei rapporti di forza, che variamente si
intrecciano e si contrappongono. È una relazione fra individui e la società
è attraversata da rapporti di potere: ogni rapporto sociale è
un rapporto di potere.
Fondamentale è il lavoro costante tra la gente per combattere il dominio,
cioè quel sistema di potere che è monopolio solo di una parte
della società; è necessario un lavoro lungo e profondo di delegittimazione
dell’autorità, per riuscire a rompere le asimmetrie nelle relazioni
funzionali scatenando dal basso un inizio di mutazione culturale. Perché
abbattere lo stato, (ammesso di riuscire a capire come fare) non risolverebbe
il problema del dominio, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo,
sugli animali e sulla terra; senza un profondo lavoro di mutazione culturale
nelle reti di rapporti fra esseri umani si ricreerebbe un nuovo dominio solamente
con una veste nuova, come è successo in tutte le rivoluzioni del 900.
Per questo il nuovo anarchismo ha una forte attenzione volta al presente che
non deve essere letta come una rottura con il passato e la storia della tradizione
anarchica ma come una attualizzazione della stessa.
È importante qui ricordare le parole di Gustav Landauer: L’anarchia
non è cosa del futuro, ma del presente; non è fatta di rivendicazioni
ma di vita. Una vita che non attende il giorno della rivoluzione, o meglio che
vede la rivoluzione come qualcosa in perenne movimento e aperta al cambiamento
durante il suo percorso.
Come abbiamo scritto nella piccola introduzione dell’opuscolo del laboratorio
sperimentale (asperimenti.noblogs.org) su anarchismo e post-strutturalismo,
il nuovo anarchismo ci porta a intraprendere un percorso di riflessione e sperimentazione
collettiva che nasce dall’esigenza comune di risolvere una frattura tra
quella che è la teoria, la tradizione anarchica che abbiamo ereditato
e i tentativi pratici di risolvere e superare le contraddizioni e i conflitti
che si presentano nella società di oggi.
Il Sud libertario
e la sfida della modernità
di Angelo Pagliaro
La politica rivendicativa in alcune regioni del Sud è stata sostituita dall’etica del reale.
L a presenza libertaria nel Sud Italia è stata storicamente caratterizzata
non tanto da gruppi o comunità organizzate quanto da individualità
prestigiose, amate dai buoni ma poco inclini, come si direbbe oggi, a “fare
gruppo”.
Al congresso di fondazione della FAI a Carrara (1945), il Sud era presente con
una folta delegazione in rappresentanza di vari gruppi organizzati, che, in
seguito, dimostrarono tutta la loro fragilità e le individualità
ritornarono come alberi monumentali a svettare nelle singole realtà geografiche.
Vi è quindi, nel Sud, una propensione all’individualismo, una sorta
di naturale, quasi genetica, indisponibilità verso le ipotesi organizzativiste?
Non ho una risposta a queste domande, posso solo affermare che, grazie alla
rete Internet, in questo ultimo decennio, il rapporto comunicativo e informativo
tra le varie situazioni di movimento e le singole persone è migliorato
tantissimo. Gli Indymedia costituiscono, a mio avviso, un esempio eccellente
di “azione diretta produttiva”. Ma guardando al futuro mi chiedo:
quali sfide ci attendono in quell’enorme deserto politico che è
la sinistra italiana? Nessuna nube divina guiderà, con la sua ombra proiettata
al suolo, il popolo libertario verso la/e meta/e.
Sarà l’approccio quotidiano con le questioni ritenute importanti
e le modalità di dialogo con la gente, le tattiche adottate per mettere
insieme le persone in modo nuovo, a convincere e convincerci della bontà
delle nostre pratiche evitando quel fenomeno negativo definito “orticellismo”.
Il post – movimento sta già assumendo caratteristiche nuove perché,
rispetto al passato, si occupa di una vasta gamma di antagonismi : inquinamento,
razzismo, beni pubblici, psichiatria ecc. e anche l’attenzione dei militanti
( sia marxisti che anarchici) si è spostata verso una politica della
vita quotidiana e della trasformazione anche individuale, perseguendo effetti
sui singoli assi e non tesi, come un tempo, alla realizzazione del sogno della
“conquista” del potere. La politica rivendicativa in alcune regioni
del Sud è stata sostituita dall’etica del reale, dalla ”politica
dell’atto”.
La critica più forte e frequente che ci viene rivolta qui al Sud, non
solo da avversari politici, ma anche da “amici” della sinistra storica,
è quello di sconfinare, a volte, nel folklore e di esser quasi incapaci
di creare, per dirla con i colti, una “genealogia delle affinità”.
Bene! Non bisogna offendersi per queste critiche, anzi bisogna ringraziare,
perché dobbiamo ammettere (essendone consapevoli) che, anche da questo,
dipende la mancanza di potenza d’urto verso i poteri diffusi.
Lo sforzo maggiore, che dovremo fare nei prossimi anni, va nella direzione esattamente
opposta a quanto facevamo trent’anni fa. In quel tempo combattevamo per
il riconoscimento delle diversità nel contesto di attributi comuni, mentre
oggi, nella polverizzata galassia della sinistra italiana, dovremo lavorare,
con maggiore alterità, educazione e rispetto, per il riconoscimento di
elementi comuni nel contesto delle diversità.
Da “Il Mondo” ad “A”
di Antonio Cardella
Merito dei Failla, dei Marzocchi, dei Mantovani, degli Aldo Rossi, di Sergio Costa, ma anche dei mille compagni che, col sonno strappato dagli occhi ...
L a sconfitta delle lotte contadine in Sicilia aveva stabilizzato nella mia
condizione esistenziale uno stato di sordo e costante rancore che non aveva
certo migliorato la mia disponibilità al confronto politico ed alla tolleranza
nei riguardi di chi, rispetto a quelle lotte, si fosse mostrato tiepido o addirittura
indifferente. Così, quando inopinatamente mi trovai a frequentare l’ambiente
dei collaboratori de Il Mondo di Pannunzio, mi chiesi come fossi capitato in
un ambiente così lontano dai miei placidi furori di quel tempo.
Mi chiesi cioè come mi fossi trovato a scrutare con un interesse non
soltanto estetico quel Cenacolo di crociani a tutto tondo intenti a veicolare,
nella sostanza, il messaggio di un liberalismo moderato sia pure sostanziato
da una cultura tutt’altro che approssimativa e con l’uso di un linguaggio
accurato, quasi si volesse a tutti i costi evitare da un canto l’accusa,
assai frequente in quei tempi di clerical-scelbismo, di oltranzismo ideologico
e, dall’altro, di un riformismo di basso conio che barattasse l’intransigenza
sui principi con una malintesa real politique praticata anche da una certa sinistra
cinica e compromissoria.
Passò del tempo perché decifrassi la vera natura della mia curiosità
verso quel mondo da me, a prima vista, lontanissimo. Il fatto era che nei colloqui
inizialmente occasionali e fuggevoli con alcuni protagonisti della Rivista constatai
una disponibilità al confronto sconosciuta in quel periodo di furori
ideologici, la consapevolezza del pericolo di regime che incombeva sul nostro
Paese, e l’urgenza di un patto d’emergenza che unificasse tutte
le forze che al regime avrebbero potuto opporsi. Questo – dicevano i Carandini,
i Manlio Rossi Doria e lo stesso Pannunzio – per cominciare un percorso
consapevole verso una società libera e solidale.
Così mi sovvenne quello che Camillo Berneri aveva scritto in Sovietismo
Anarchismo e Anarchia nei lontani anni Trenta del secolo scorso:
La storia è opposizione e sintesi. L’anarchismo, se vuole agire
nella storia e diventare un grande fattore di storia, deve aver fede nell’anarchia
come una possibilità sociale che si realizza nelle sue approssimazioni
progressive. L’anarchismo… è più vivo (di una verità
di fede, n.d.r), più vasto. Più dinamico. Egli è un compromesso
tra l’idea e il fatto, tra il domani e l’oggi. L’anarchismo
procede in modo polimorfo, perché è nella vita”.
In una certa misura quella lezione di Berneri, ma anche de Il Mondo, fu pratica
anarchica alla fine degli anni Sessanta e servì quando il terrorismo
di Stato si scatenò sugli anarchici a partire dalla strage di Piazza
Fontana. Allora i redattori dell’Espresso (Camilla Cederna tra tutti)
che in una certa misura avevano raccolto il testimone de Il Mondo, fecero fronte
con gli anarchici contro le false ricostruzioni dello Stato. Ma non soltanto
negli ambienti dell’informazione, anche in quelli forensi e in quelli
dell’editoria la rete di relazioni che gli anarchici avevano costruito
contribuì a respingere gli attacchi delle istituzioni statali.
Da quei giorni terribili, la nostra stampa fu più aggressiva e puntuale.
In stretta connessione con il lavoro svolto dal Comitato politico-giuridico
di difesa e con alcuni legali che ci erano stati sempre molto vicini (ricordo
per tutti Giuliano Spazzali e Rocco Ventre) ricostruì fatti e personaggi
della stagione delle stragi, contribuendo in misura determinante alla mobilitazione
in tutto il territorio nazionale di una opposizione che, per quanto variegata,
tenne sempre in grande considerazione le ragioni degli anarchici. Merito dei
Failla, dei Marzocchi, dei Mantovani, degli Aldo Rossi, di Sergio Costa, ma
anche dei mille compagni che, col sonno strappato dagli occhi, incontravi la
notte nelle sedi di Umanità Nova, de L’Internazionale e di A Rivista
Anarchica da poco venuta ad arricchire l’editoria anarchica.
Io credo che da questa temperie straordinaria dell’Anarchismo la lezione
da perseguire siano il rifiuto deciso dell’autoreferenzialità e
la disponibilità a comprendere le ragioni di quanti, pur ancora lontani
dall’anarchia, possano condividere con noi tratti di quel percorso che
ci approssimi sempre di più ad una società autenticamente libertaria.
Arte e Anarchia
di Arturo schwarz
L’artista è la dimensione estetica dell’anarchico.
U n’opera d’arte dovrebbe possedere tre qualità essenziali.
La prima è l’originalità, requisito indispensabile perché
l’opera d’arte possa ampliare i nostri orizzonti visivi e mentali.
Ma l’originalità non basta. Nella nostra era tecnologica è
facile escogitare novità provocanti che, però, vengono ben presto
rese obsolete dalle successive. Al contrario, ciò che è davvero
originale porta con sé la promessa di una valenza senza tempo. L’artista
crea quando è motivato da una esigente pulsione interna il che implica
che non può creare “su commissione” obbedendo a una richiesta
di carattere politico o commerciale. Fatto, questo, che porta alla seconda qualità
dell’opera d’arte.
Infatti, un’opera d’arte, per essere tale, deve essere l’esito
di una irresistibile necessità interiore. L’artista deve obbedire
a un impellente bisogno cognitivo ed emotivo avendo sempre presente il consiglio
dato da Polonio a suo figlio Laerte: «Questo sopra tutto: a te stesso
sii fedele» (Amleto I:3). Ma nuovamente, la sincerità emotiva non
basta. La pulsione creativa non è prerogativa dei soli artisti. Uno squilibrato
mentale può obbedire alla stessa esigenza, ma non sempre le sue opere
hanno una potenza espressiva e un valore estetico.
La terza qualità è la più sfuggente, sia da descrivere
sia da acquisire. L’opera d’arte non solo deve farci conoscere una
nuova realtà ed essere il frutto di una necessità esistenziale;
deve anche emanare un’aura poetica. «L’oggetto della scena
letteraria non è la letteratura, ma la letterarietà, vale a dire,
ciò che dà ad ogni opera una qualità letteraria»,
come ricorda Jakobson. Analogamente, un’opera d’arte, è interessante
non tanto per la sua qualità estetica, ma per il suo potere poetico che
è proprio quello che le conferisce la qualità più pregnante.
Ricordiamo inoltre che, nell’elaborare un’opera, l’artista
percorre – del tutto inconsciamente – le tappe della longissima
via che dovrebbe portarlo all’illuminazione, al livello, cioè,
dove l’arte non è più utopia ma diventa elemento iniziatico
e di auto-conoscenza. L’artista raggiunge allora lo stato di veggenza,
secondo l’imperativo di Rimbaud. E lo consegue in quanto è ispirato,
in preda, cioè, di una sollecitazione creativa di carattere transpersonale
e transrazionale. Infatti, come insegna Platone, “nessuno che sia nel
possesso della ragione raggiunge una divinazione ispirata e verace”.
In altra sede ho definito l’artista come l’archetipo dell’anarchico,
infatti, l’anarchia non è, lo sappiamo bene, sinonimo di disordine,
confusione, arbitrarietà o irresponsabilità (che sono invece connaturali
ai sistemi autoritari, ugualmente ostili all’individuo e alla collettività),
ma implica un ordine superiore basato sull’armonia e l’amore. L’anarchia
è uno stato d’animo. Ogni persona può scoprirlo da sé
e per sé nel solo modo possibile, facendo proprio il rifiuto del principio
di autorità.
Per questa ragione penso che l’artista sia un modo d’essere dell’anarchico
perché creare significa dare origine a qualcosa che non è esistito
prima. Ogni creatore, parte dalla tabula rasa, rifiuta il principio di autorità
così come ogni modello anteriore. Ne consegue dunque che, coscientemente
o meno, chiunque è impegnato in una attività creativa è
un anarchico. Infatti, “artista” e “anarchico” sono
termini intercambiabili, sinonimi perfetti. L’anarchia è la forma
di esistenza dell’artista, proprio come il movimento lo è della
materia. Allo stesso modo in cui la materia è la dimensione del movimento,
l’artista è la dimensione estetica dell’anarchico.
La libertà nell’era delle reti
di Carlo Milani
Si può fare con il digitale così come con le biciclette: metterci sopra le mani, smontare per capire, imparare a usare e insegnare agli altri.
A l termine del XX secolo gli strumenti digitali erano di uso comune solo per
pochi. Nel giro di un decennio la situazione si è capovolta: ovunque,
e non solo nell’Occidente ipersviluppato, computer, telefoni cellulari,
lettori musicali, videocamere e ogni sorta di incroci immaginabili fra questi
dispositivi sono imprescindibili per la vita quotidiana. Consentono a miliardi
di persone di connettersi alle reti telefoniche e quindi soprattutto a Internet,
quasi realizzando il sogno dell’ubiquità nella telepresenza. Le
distanze non sono mai state così ridotte.
L’inflazione di gadget tecnologici è deprecabile per diversi motivi.
Sono espressione di un consumismo esasperato, in quanto beni cosiddetti «di
sostituzione», destinati a essere rapidamente sostituiti da modelli più
avanzati. Sono anti-ecologi, costruiti per durare poco (obsolescenza programmata).
La loro produzione esige lo sfruttamento di minerali rari, e la lotta per accaparrarseli
provoca conflitti continui in varie zone particolarmente povere (Africa centrale,
ecc.). Implica anche il parallelo sfruttamento delle masse operaie asiatiche
che li fabbricano. Infine, ed è quello che qui più ci interessa,
la costante connessione «in rete» pone problemi enormi all’esercizio
della libertà.
Le reti hanno una doppia faccia: servono per connettere persone e cose, ma anche
per imprigionarle. I dibattiti sul controllo e sulla privacy sono sintomi di
un malessere diffuso. Non dimentichiamo che Internet è l’evoluzione
civile di un progetto militare che, durante la guerra fredda, mirava alla costruzione
di una rete decentrata di nodi autonomi, virtualmente indistruttibile a un attacco.
Autonomia di guerra, non per ampliare la libertà. Non a caso, oggi i
meccanismi di delega tecnocratica sono sempre più diffusi. Le nostre
mail, foto, conversazioni, dati si trovano su macchine remote, completamente
al di fuori del nostro controllo. Ogni azione e discussione è accuratamente
auscultata e archiviata, non solo per accumulare informazioni utili al controllo
globale, ma soprattutto per propinarci pubblicità personalizzate. Così
si finanzia la gratuità delle reti: oggetti personalizzati per tutti
i consumatori evoluti.
Come uscirne? Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di adottare uno
stile critico e sobrio. Evitando il luddismo, l’unico modo di liberarsi
dalla dipendenza è imparare a gestire la tecnologia in maniera autonoma.
La libertà nell’era delle reti richiede curiosità e immaginazione
radicale. Si può fare con il digitale così come con le biciclette:
metterci sopra le mani, smontare per capire, imparare a usare e insegnare agli
altri. Per creare strumenti conviviali, pensati per soddisfare i nostri desideri
e per estendere le sfere di autonomia personale e collettiva.
La parola come
strumento di asservimento o di liberazione
di Carlo Oliva
Anche se ho cambiato mestiere da vent’anni, continuano tutti a chiamarmi “professore”.
E ntro sempre un po’ in crisi quando mi capita di dover spiegare a qualcuno
quali siano esattamente i miei interessi. Laureato in filologia classica, ex
insegnante di lettere antiche e moderne nei licei, esperto di problemi dell’istituzione
scuola e della cultura giovanile (e fin qui fila tutto abbastanza liscio...),
autore di saggi di linguistica, traduttore da varie lingue, cultore e storico
di libri gialli, notista politici... sono irrimediabilmente un eclettico. A
quasi settant’anni di età, non ho ancora deciso che cosa farò
da grande. Ne fa fede la varietà e l’eterogeneità degli
argomenti che, non ricordo più neanche per quanti anni , ho trattato
su “A” (e a “Radio Popolare” di Milano, nonché
su una quantità di periodici di maggiore o minore levatura che vanno
dal “Corriere della sera” al “Manifesto” e al bollettino
del club dei fan dell’agente 007). E il dubbio, in casi come questi, è
che la molteplicità stessa dei campi di applicazione precluda la capacità
di approfondirne uno che sia uno. Il rischio di chi coltiva qualsiasi eclettismo
è quello di sconfinare senza neanche rendersene conto, nella superficialità.
D’altra parte, sappiamo tutti che il primo amore non si scorda mai. Ed
è grazie alla frequentazione del mondo classico (il mio primo amore,
appunto) che ho scoperto il principio per cui la parola è un dio potente,
che avendo un esile corpo può compiere grandissime cose, rendendo grande
ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande (come
scrive, se non mi sbaglio, Gorgia di Lentini nell’Encomio di Elena, più
o meno nel V secolo a. C.). Rendendomi conto, al tempo stesso, che chi della
potenza di quel dio sa servirsi non lo fa, come dire, per sport, ma con il fine
preciso di controllare gli altri e imporgli il proprio dominio. E viceversa,
naturalmente, perché la conoscenza dei meccanismi verbali attraverso
i quali è possibile asservire i propri confratelli in umanità
rappresenta a sua volta un indispensabile strumento per chi da ogni giogo desideri
liberarsi.
Ecco. Potrei dire, con un po’ di presunzione, che di questo mi occupo:
dell’uso della parola come strumento di asservimento e di liberazione.
Ogni tanto sintetizzo il concetto scrivendo (nei risvolti, nelle quarte di copertina,
nelle schede biografiche che qualcuno si ostina a chiedermi) che mi occupo di
“ideologia del linguaggio”. Suona bene, anche se non significa nulla
di preciso, e ha un rassicurante tono accademico. Perché si può
essere rivoluzionari finché si vuole, estremisti, eversori e persino
anarchici – tutti ambienti che ho frequentato, pur senza appartenervi
del tutto – ma su tutta questa brava gente l’Accademia continua
a esercitare un gran fascino. E allora, perché no? Una laurea e un’abilitazione
non nuocciono mai e infatti, anche se ho cambiato mestiere da vent’anni,
continuano tutti a chiamarmi “professore”.
Naturalmente il concetto non è originale. Ha qualcosa in comune con la
teoria marxista dell’ideologia come “falsa coscienza”, ma
il marxismo, pur restando un formidabile strumento di analisi, ha subito, erigendosi
in sistema (e per di più, spesso, in sistema di stato), troppe ossificazioni
ontologiche perché sia possibile richiamarcisi con la necessaria serenità.
Un fondamento teorico più tranquillizzante l’ho trovato, or è
mezzo secolo, nelle analisi di Silvio Ceccato sulla “svista conoscitiva”
(analisi che con il marxismo, checché ne pensasse lui, non sono poi troppo
confliggenti), e, soprattutto nello sviluppo che ne ha dato Felice Accame, con
il quale, da allora, non ho mai cessato di collaborare. Certo, non sono bravo
come lui: non pretendo, con la mia sola presenza, di poter mandare in rovina
qualsiasi testata, o di scrivere delle cose tanto pericolose da esserne immediatamente
estromesso. Ma faccio anch’io del mio meglio per mettere in luce e comunicare
quanto altri hanno interesse a tenere nascosto. Nella consapevolezza che la
più ampia messa in comune delle opinioni e dei punti di vista è
il fondamento di quella prassi della decisione in comune che chiamiamo democrazia.
O, se preferiamo, dell’anarchia.
Un diritto sempre
più negato: l’aborto
di Chiara Lalli
Di fatto sta diventando sempre più difficile abortire in condizioni di sicurezza.
L’ interruzione volontaria di gravidanza è un argomento moralmente
molto controverso. Fino al 1978 in Italia era illegale interrompere una gravidanza
e ancora oggi in molti Paesi ci sono norme molto restrittive.
La ragione principale dei divieti è l’attribuzione dello status
di persona all’embrione: come soggetto detentore di diritti la sua esistenza
non deve essere interrotta. L’attribuzione di diritti, però, non
può essere una premessa apodittica, ma andrebbe sostenuta da argomentazioni
forti e l’impresa non è affatto semplice. Si potrebbe discutere
a lungo sulle altre ragioni che spingono alla coercizione: la concezione della
donna come madre, il controllo sulle vite e sulle decisioni delle persone, una
idea paternalistica e moralistica che nega ai singoli la possibilità
di scelta.
Decidere di interrompere una gravidanza, seppure si rifiuti la visione personale
dell’embrione, mette comunque in conflitto due visioni: quella della donna
e quella dell’embrione. La sentenza 27/1975 della Corte Costituzionale
esprime bene l’inevitabilità del conflitto e indica la soluzione
più ragionevole: “non esiste equivalenza fra il diritto non solo
alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come
la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.
La decisione di abortire può essere motivata da ragioni di salute della
donna, da una diagnosi prenatale infausta o da altri motivi. La legge 194 stabilisce
i criteri nel seguente modo: per i primi 90 giorni una donna può abortire
nel caso di “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza,
il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua
salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue
condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è
avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
Dopo i 90 giorni “quando la gravidanza o il parto comportino un grave
pericolo per la vita della donna; [e] quando siano accertati processi patologici,
tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro,
che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Sebbene di diritto le donne abbiano la possibilità di ricorrere alla
IVG, di fatto sta diventando sempre più difficile abortire in condizioni
di sicurezza, soprattutto a causa della altissime percentuali di personale sanitario
obiettore di coscienza (le ultime stime parlano dell’80%). Inoltre il
clima di condanna è molto forte e non sono infrequenti i casi di donne
maltrattate da zelanti difensori della vita o abbandonate senza assistenza in
attesa dell’unico ginecologo non obiettore. Non è certo questo
il modo per combattere le IVG!
Non dobbiamo nemmeno dimenticare che promuovere il divieto di abortire delinea
inevitabilmente il ricorso alla clandestinità – mai sparita del
tutto e ultimamente in aumento proprio a causa della difficoltà di ricorrere
alla IVG legale – o alle gravidanze forzate, entrambi scenari non percorribili
perché fortemente lesivi dei diritti “di chi è già
persona”.
Purtroppo le discussioni al riguardo sono caratterizzate spesso da malintesi
e da argomenti molto deboli. Uno dei più resistenti è di pensare
che essere a favore della legalità della IVG significa essere a favore
della morte, di contro ai difensori della vita. Invece significa concordare
con quanto affermato dalla sentenza del 1975 e rendersi conto che non ci sono
soluzioni migliori.
Il Messico per sempre
di Claudio Albertani
Mi affascinarono subito
i colori violenti, la potente
energia vulcanica …
“Sono venuto in Messico a cercare una nuova idea dell’uomo”,
scrisse Antonin Artaud. Mi ci portò la mia compagna, Patricia; venivamo
da Berkeley, California, e c’eravamo conosciuti in un ristorante, dove
lei faceva la cameriera ed io il lavapiatti. Patricia, messicana, sognava di
andare in Italia ed io, italiano, preferivo il Messico, paese che vagheggiavo
da sempre, ma del quale non sapevo quasi nulla. Alla fine io ebbi la meglio,
perché in Italia quelli erano anni difficili, forse peggiori degli attuali.
Molti dei miei compagni erano in galera e quelli che, come me, avevano scelto
di vivere all’estero perché contrari alla lotta armata e non disposti
a rovinarsi la vita con l’eroina, se ne mantenevano prudentemente alla
larga. Passammo la frontiera di Tijuana il 2 ottobre 1979, a bordo di un vecchio
camioncino Volkswagen che fungeva da stanza da letto, cucina e biblioteca. Era
l’anniversario del massacro degli studenti in piazza Tlatelolco, una tragedia
che nel 68 aveva impressionato molto anche noi studenti italiani. Passammo un
mese in Bassa California, a quell’epoca in gran parte intonsa, dove ebbi
un primo assaggio dei paesaggi messicani, così strani e insoliti: il
mare di Cortes con la sua acqua (allora) cristallina, deserti, montagne e cieli
sterminati. Nella Sierra San Pedro Martir, dove accampammo vari giorni, contemplammo
una Via Lattea talmente bianca da sembrare una nuvola. Non vi erano giornali,
ma seguivamo le peripezie della rivoluzione sandinista in Nicaragua, della guerra
nel Salvador e dell’incipiente genocidio in Guatemala con una vecchia
radiolina di onda corta che sintonizzavamo di notte. Nei mesi successivi, visitammo
gran parte del paese, dal Sonora fino al Chiapas. Doveva essere un viaggio di
qualche mese e sono passati più di trent’anni; rimanemmo senza
neppure deciderlo, come conseguenza naturale dell’avventura della vita.
Del Messico, mi affascinarono subito i colori violenti, la potente energia vulcanica,
la vita intensa ed esaltata, i popoli indigeni. Ma vi è di più.
Il Messico non è solo un paese di “bellezza convulsiva” (Benjamin
Peret), è anche un punto di incontro di vagabondi, poeti e dissidenti,
l’ultimo rifugio di rivoluzionari che, come Victor Serge e tanti altri,
arrivarono qui fuggendo dalla peste nera ed anche da quella rossa. Ma è,
soprattutto, un grande laboratorio politico e sociale dove si scontrano da millenni
le potenze della vita e quelle della morte.
La partita non è chiusa.
Spagna 1936
tra mito e progetto
di Claudio Venza
Resta un vivace dibattito sulla rivoluzione e sull’autogestione in terra iberica.
L’esperienza spagnola ha un rilievo centrale nella storia e nel pensiero
dell’anarchismo a livello mondiale. Per dimostrare agli increduli e agli
avversari che i principi anarchici non sono solo delle utopie (comunque positive
e incoraggianti) si rievoca spesso la rivoluzione del 1936-1939.
La propaganda anarchica ha, logicamente e giustamente, esaltato le conquiste
e le realizzazioni di questo periodo che ha rappresentato l’esempio migliore
per dimostrare che la società di liberi ed eguali era possibile e gratificante.
Dove l’anarchismo è stato attivo – dal Giappone al Canada,
dall’Argentina alla Svezia –, la Spagna del 1936 è stata
ricordata ad ogni anniversario del 19 luglio 1936, la data della risposta libertaria
vincente ai golpisti a Barcellona.
Resta comunque un vivace dibattito, a livello internazionale, sui significati
dei vari aspetti della rivoluzione e dell’autogestione in terra iberica.
Per chi si è riconosciuto fino in fondo nel “momento magico”
della lotta contro la reazione a tutti i livelli, si è trattato di una
serie di realizzazioni valide e incontestabili. Così le milizie sono
state un esempio di come condurre una guerra su basi non gerarchiche e non militarizzate;
le collettività agricole e industriali hanno offerto un esempio tangibile
di organizzazione paritaria, federalista e autonoma della produzione e della
vita sociale; la rottura con le tradizioni patriarcali e i passi avanti nella
liberazione delle donne hanno testimoniato la volontà effettiva di fondare
una nuova società. Accanto a questi cambiamenti va considerato anche
il riuscito ridimensionamento dell’influenza deleteria della chiesa cattolica,
da secoli alleata degli oppressori, paladina di una morale ipocrita che spingeva
il popolo alla subordinazione e alla superstizione. Ad ogni modo, nel corso
dei decenni si è diffuso uno spirito critico verso le contraddizioni
dell’anarchismo e ancor più dell’anarcosindacalismo. Da un
punto di vista antiautoritario intransigente è stato rilevato che la
condotta della dirigenza della CNT-FAI era progressivamente scivolata verso
un tipo di politica in cui l’antifascismo e la guerra erano gli elementi
determinati e prevalenti. Di conseguenza le istanze rivoluzionarie venivano
in pratica ridimensionate ed emarginate. La collaborazione, in nome dell’urgenza
bellica, con i partiti repubblicani e con il governo sarebbero state la logica
conseguenza di un’involuzione organizzativa che faceva somigliare l’anarchismo
ad un organismo sostanzialmente gerarchico e militarizzato. Anche il maggio
1937, con l’insurrezione proletaria contro le manovre comuniste per eliminare
la CNT-FAI, sarebbe terminato con una sconfitta in seguito all’ordine
dei leader libertari di abbandonare le barricate e di sospendere le ostilità.
Insomma la forza del popolo libertario sarebbe stata soggiogata dalla logica
della ricostruzione dello Stato repubblicano che puntava, peraltro invano, sugli
aiuti delle democrazie occidentali.
Come si vede, aspetti positivi e negativi vengono evidenziati da un’analisi
spassionata degli eventi del 1936-1939. Il dibattito non è certamente
finito. Anzi si è riproposto con forza attorno alla ripresa del movimento
dopo la morte di Franco del novembre 1975. Per alcuni anni, l’intero mondo
libertario ha sperato che si realizzasse una ripresa robusta della CNT e dell’anarchismo
iberico in generale. Giornali e manifestazioni, cortei e azioni dirette sembravano
annunciare la rinascita in pieno del protagonismo anarchico spagnolo. Nel 1976,
il quarantennale assomigliava a tratti all’infuocato 1936 e i grandi mitines
del 1977 incoraggiavano un dilagante ottimismo.
Nel frattempo però il franchismo aveva cambiato la società spagnola:
prima del 1939 molti proletari, nelle campagne e nelle città, erano disposti
ai rischi della rottura rivoluzionaria anche in nome di una cultura e di un
immaginario sovversivi centrati su un futuro prossimo di liberazione e giustizia.
Quaranta anni dopo, le rivendicazioni si iscrivevano nei limiti di un riformismo
(e consumismo) più o meno arrabbiati. Il contesto sociale era perciò
mutato profondamente e le istanze di sacrificio e di solidarietà, caratteristiche
della CNT e della FAI degli anni Trenta, si rivolgevano a un ambiente collettivo
dalle prospettive limitate ad un realistico miglioramento del livello di vita.
Secondo molti militanti disincantati, tutto ciò era la dimostrazione
della fine di un ciclo storico di rivolte e di scontri frontali.
Alcuni tratti della Spagna del 1936, malgrado tutto, si possono rintracciare
ancora. La società spagnola, e quella catalana in particolare, stanno
esprimendo un notevole livello di laicità e di apertura culturale. La
sensibilità verso l’educazione antiautoritaria è diffusa,
mentre l’antimilitarismo è un dato pressoché scontato in
molti settori giovanili. Inoltre i movimenti antiglobalizzazione sono radicati
in ambienti intellettuali, e non solo, e assumono modelli organizzativi non
verticistici simili a quelli tradizionali dell’anarchismo. Ancora: fermenti
antiautoritari sono una costante di molti luoghi di vita alternativa come le
case occupate e i centri sociali. Quindi lo spirito libertario è vivo.
La riscoperta negli ultimi anni della “memoria dannata”, quella
degli sconfitti, massacrati e calunniati dai generali golpisti (e non solo),
ha portato ampi segmenti dell’opinione pubblica e di movimenti di base
a recuperare quanto si era realizzato durante la rivoluzione e la guerra. E
a valorizzare la resistenza generosa e disperata dei guerriglieri antifranchisti
dopo il 1939.
In tale contesto sono stati pubblicati, nell’ultimo quinquennio, centinaia
di libri e saggi sulla storia degli anarchici prima, durante e dopo il fatidico
1936-1939. È questo un ulteriore sintomo dell’attenzione verso
le ipotesi libertarie e autogestionarie. Però non sempre si rileva piena
consapevolezza del ruolo di un movimento che, dalla Prima internazionale, si
è sforzato di dare concretezza alle aspirazioni utopiche.
Certamente le organizzazioni esplicitamente anarchiche non hanno oggi adesioni
paragonabili a quelle del passato. Ad ogni modo le idee e i progetti libertari
risultano sensibilmente presenti nei movimenti di opposizione al presente sistema
autoritario e di creazione di alternative umanamente sostenibili.
dida p39: Barcellona maggio 1937. Barricata nel centro storico contro l’aggressione
comunista alla Centrale Telefonica.
dida p40: Barcellona 1936. I trasporti, nella più grande e moderna
città spagnola, sono autogestiti dai lavoratori della CNT.
Catalogna estate 1936. Un gruppo della Colonna Durruti
in viaggio verso il fronte aragonese.
Gioia, tubi Innocenti
e anarchia
di Colby
Dovremmo riprendere in mano il mutualismo e la cooperazione, pensare ad una pratica includente e gioiosa.
“Le macerie non le temiamo” scriveva Buenaventura Durruti.
Non le temiamo, no, abbiamo sempre pronta la chiave a cricco del 20/21/22 per
stringere i morsetti dei tubi innocenti ed autocostruire un tetto sotto il quale
poter fare socialità ed autogestione.
Siamo pronti a collegare fili, a filettare tubi, ad autocostruire, in un laboratorio
collettivo, pannelli solari che ci daranno acqua calda a costo zero. In centocinquanta
nel giro di un mese abbiamo tirato su le maniche e reso fruibile uno spazio
sociale che abbiamo chiamato Libera. Era il luglio 2000 e dopo 3 anni meravigliosi
e 5 anni di resistenza, altrettanto meravigliosi, contro la costruzione di un
autodromo è stato sgomberato e immediatamente demolito, era l’8
agosto 2008.
Libera era includente, uno spazio anarchico che si lasciava attraversare da
migliaia di persone. Libera era testimonianza che l’autogestione era possibile
e voleva che chiunque venisse ad assaporarla e a toccarla con mano. Lungo un
nostro corteo contro lo sgombero, con 3000 partecipanti, 3 donne ad una finestra
esponevano un cartello fatto a mano sul quale c’era scritto “siamo
con voi” ed è da sottolineare anche che il Comitato Cittadini di
Marzaglia è voluto apparire sul manifesto in nostra solidarietà.
Gioia e inclusione.
Nel settembre 2010 a Rio Torto (Piombino) si è svolta la festa dell’USI
e a Massa “Anarchia in festa”, due iniziative molto riuscite e partecipate
dove ho ribadito alcuni concetti a me cari e sperimentati concretamente nell’azione
“politica” della storia di Libera. Basta col piangersi addosso perché
siamo continuamente repressi dallo Stato: è chiaro che bisogna sostenere
chi è colpito dalla repressione ma dovremmo vivere con gioia e solidarietà
i rapporti tra compagni e compagne e riempire di mutualismo, solidarietà,
cooperazione e allegria la nostra progettualità.
Non siamo missionari, non siamo per la sofferenza, ma per costruire un mondo
libero che dobbiamo assaporare e vivere fin da ora. Alla festa dell’USI
sono stati presentati due ottimi progetti come l’Ambulatorio popolare
di Genova e la Torrefazione del caffè zapatista a Lecco. Di solito si
motivano i progetti spiegando che si parte dai bisogni ed invece io avrei più
coraggio e parlerei anche della gioia di costruire progetti e di costruirli
assieme a dei compa ed alla gente comune.
A Massa durante il dibatto sui crimini di stato ho ribadito il concetto che
se vogliamo che vicende come quella di Stefano Cucchi o quella dell’anarchico
Francesco Mastrogiovanni non si ripetano, visto che le leggi tuteleranno sempre
lo Stato e i suoi servitori, dovremmo creare una rete di relazioni solidali
con la gente, dovremmo riprendere in mano il mutualismo e la cooperazione, pensare
ad una pratica includente e gioiosa, esattamente come la “Libera Officina”
sta continuando a fare.
Non ho mai dimenticato
di Corrado Stajano
Io e altri giornalisti “borghesi” ci ribellammo davanti alle verità ufficiali
Caro Paolo,
avevi 18 anni quando ci siamo conosciuti e io quasi 40. Adesso sei, quel che
si dice, un uomo maturo e io un vegliardo. Quante cose sono accadute da quel
12 dicembre 1969.
Non ero e non sono un anarchico, come sai. Dell’anarchia, però,
ho sempre avuto curiosità. Ne conoscevo origini e vicende, sapevo soprattutto
di Bakunin, di Malatesta, di Kropotkin, sapevo della guerra civile spagnola,
una grande passione: gli anarchici, per la prima volta nella storia, entrati
in un governo, in Catalogna, i conflitti sanguinosi con il Partito comunista,
il Poum, gli eccidi di Barcellona, le centinaia di vittime.
Le bandiere nere anarchiche, dopo il maggio francese, avevano cominciato a sventolare
nei cortei degli studenti e degli operai d’Europa. In coda, a una ventina
di passi dagli altri, a significare solidarietà, ma distacco, partecipazione,
ma consapevolezza della diversità. Un orgoglioso ghetto volontario.
Piazza Fontana, la strage, fece da cesura nel cuore di molti. Quel pomeriggio
entrai tra i primi nella banca, sangue, polvere, corpi dilaniati, vite spezzate.
Immagini difficili da dimenticare. Valpreda fu da subito il capro espiatorio,
scelto con oculatezza, il “mostro” cui attribuire ogni responsabilità.
(Lo stanzone dei fermati in Questura era gremito. Tra gli altri Virgilio Galassi,
ineccepibile e stimato funzionario dell’Ufficio studi della Banca commerciale
in piazza della Scala dove, davanti a un ascensore, era stata trovata in tempo
una borsa con dentro un’altra bomba. Intervenne con durezza Raffaele Mattioli,
il presidente, per liberare Galassi).
Io e altri giornalisti “borghesi” ci ribellammo davanti alle verità
ufficiali che facevano acqua da tutte le parti. Prefetti e questurini erano
stupefatti di trovarsi di fronte non dei complici, come era sempre avvenuto
nel passato prossimo e remoto, ma delle persone che facevano il loro mestiere,
chiedevano senza timidezza, cercavano, volevano sapere la verità.
Poi Pinelli, una figura immacolata della memoria. Quella notte del 15 dicembre
arrivai in Questura subito dopo mezzanotte, poi al Fatebenefratelli, poi sul
pianerottolo della porta della casa di Licia, l’anello forte, donna di
grande coraggio. E di nuovo in Questura a prender parte alla miserabile conferenza
stampa del questore Guida.
Non ho mai dimenticato. Ci siamo visti e rivisti, caro Paolo, in quegli anni.
Nel 1973 siamo andati insieme a Carrara – scrivevo per “Il Giorno”,
allora un grande quotidiano: l’occasione erano le tradizioni politico-culturali
di alcune città italiane. Andammo nella sede della Federazione anarchica,
un impolverato salone tutto specchi che sapeva di antichi splendori. Un pianoforte
su una pedana evocava balli ottocenteschi. Una stanza vicina era tappezzata
di manifesti, i padri dell’anarchia, ma anche Pinelli e Franco Serantini
che era stato ucciso dalla polizia l’anno prima sul Lungarno Gambacorti
di Pisa.
Quando fu assassinato pensai subito che ne avrei scritto. Ma detesto gli instant-book.
“Il sovversivo” uscì nella primavera del 1975 pubblicato
da Giulio Einaudi. Di quella dolorosa storia mi avevano colpito le due morti
del ragazzo sardo: quella feroce decretata dalla polizia e quella, altrettanto
feroce, delle istituzioni che non avevano fatto giustizia, incapaci di processare
se stesse come in uno Stato democratico dovrebbe accadere.
Per scrivere quel libro ero stato a lungo a Pisa. La FAI aveva la sua sede sopra
il garage della Confraternita della Misericordia, in via San Martino, vicino
alla casa dove abitava Luciano Della Mea. Ricordo i vecchi anarchici che passavano
le giornate in quella stanza. Muti, seduti sulle seggiole contro il muro. Il
più anziano, 88 anni, si chiamava Nilo. Serantini aveva portato là
dentro la sua giovinezza, la sua voglia di fare, criticato per la sua esuberanza.
Era un antifascista naturale.
Dalla vita ha avuto soltanto il funerale, grandioso, commovente, pianto da un’intera
città. Chissà cosa sanno, che cosa pensano i giovani di oggi di
quel crudele Novecento?
Caro Paolo, ho conosciuto anche Alfonso Failla, con grande ammirazione per la
sua vita di lotte generose.
dida p43: Franco Serantini
Pratiche sindacali
di vario tipo
di Cosimo Scarinzi
In questo ciclo di lotte si è formata una generazione di militanti, organizzatori, agitatori di orientamento libertario.
G li ultimi decenni hanno visto nella nostra area lo svilupparsi di discussioni
e, cosa che ritengo più rilevante, di pratiche sindacali di vario tipo.
Per un verso i compagni e le compagne impegnati su questo terreno hanno sentito
l’esigenza dii riprendere la riflessione su esperienze passate importanti
che vanno dall’USI dei primi decenni del secolo agli IWW, dalla CNT ai
diversi movimenti consiliari che si sono sviluppati in Europa dopo la grande
guerra,riprendendo le discussioni che videro nel passato i nostri compagni le
nostre compagne discutere su natura, effettiva attività limiti e prospettive
del sindacalismo. Penso, per fare un solo esempio, all’importante confronto
fra Malatesta e Monatte al congresso anarchico di Amsterdam ma anche all’esperienza
tragica della rivoluzione spagnola.
Per l’altro, e non sottovaluterei gli elementi di novità e di discontinuità
rispetto al pur prezioso patrimonio storico del sindacalismo libertario dei
secoli scorsi, abbiamo vissuto, a partire dagli anni ‘70, una serie impressionante
di lotte, di movimenti, di esperienze organizzative che ci hanno portato, ognuno
secondo la propria formazione e la propria sensibilità, a fare i conti
con le lotte autonome di fabbrica, i movimenti che si sviluppano sul territorio
come, ancora una volta faccio un solo esempio quello NO TAV, i linguaggi e le
pratiche della nuova working class formatasi nella fabbrica fordista e toyotista,
nei nuovi settori di lavoro sviluppatasi nelle società occidentali intorno
alla riproduzione sociale quali la scuola e la sanità di massa ecc.
In questo ciclo di lotte si è formata una generazione di militanti, organizzatori,
agitatori di orientamento libertario che intrecciano, nel definire la propria
identità, un riferimento forte all’Internazionale ed al motto “L’emancipazione
dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi o non sarà“
vera e salda definizione della categoria “autonomia” con le specifiche
modalità del moderno conflitto di classe.
Questa complessa vicenda ha visto, a partire dall’inizio degli anni ‘90,
un’interessante evoluzione. La tradizionale bipartizione fra sindacati
istituzionali e movimenti di base che vedeva i movimenti stessi svilupparsi
su obiettivi puntuali senza porsi il problema di un’organizzazione stabile
nel tempo, ha subito una significativa mutazione con la nascita, e in alcuni
casi lo sviluppo di esperienze precedenti, del sindacalismo alternativo o di
base.
Ovviamente le scelte sono state diverse e, almeno a parere di chi scrive, tutte
meritevoli di rispetto. Vi è chi ha puntato su di un’opzione anarcosindacalista,
chi ha fatto una scelta sindacalista intesa come adesione a sindacati radicali
ma non identitari in senso forte, chi continua a ritenere opportuna la militanza
di minoranza nelle organizzazioni tradizionali.
La mia esperienza, per quello che vale, mi induce a ritenere che le singole
scelte sono certo legate a convincimenti generali ma che non va sottovalutato
dove i compagni e le compagne sono collocati dal punto di vista del territorio
e dell’attività lavorativa.
Si tratta, in ogni caso di una situazione interessante e che vede la necessità
di porre in rete le esperienze, le riflessioni, le proposte.
“A” e il teatro.
Un doppio compleanno?
di Cristina Valenti
Il racconto di un teatro che ha accompagnato fermenti, sogni, contraddizioni di generazioni.
Q uarant’anni di teatro ripensando ai quarant’anni di “A”.
Possiamo considerarlo un doppio compleanno? “A” compie quarant’anni
di una vita che ha avuto la sua incubazione nel movimento politico, un’infanzia
militante, per arrivare alla maturità attuale, che può essere
letta all’insegna delle aperture.
Il teatro al quale penso, quello che ha trovato spazio su “A”, nel
1971 (ma in realtà nel torno di quegli anni) raccoglieva i contenuti
di una rivolta non solo teatrale che era scoppiata negli anni ’60, e inaugurava
una nuova infanzia del teatro, inserendosi con forza in quella ”tradizione
della rinascita” che, scorrendo a volo d’uccello la storia del teatro,
è leggibile fra salti e cesure come una vicenda di ricorrenti reinvenzioni
a partire da nuovi fondamenti di senso e di necessità. Agli albori degli
anni Settanta la morte del teatro dell’inautenticità e della rappresentazione
era già stata decretata, e il nesso arte-vita imponeva che la dimensione
esistenziale (e quindi politica, etica, relazionale) interagisse in modo sostanziale
con la dimensione estetica.
Il Living Theatre aveva già indicato la strada della fuoriuscita dal
sistema teatrale e dalle sue convenzioni. Facendosi comunità anarchica,
traeva dalla politica i principi cui ispirare processi creativi, modalità
di lavoro e strategie organizzative che permisero a un gruppo nomade di una
ventina di persone di vivere senza sovvenzioni. Dopo Paradise Now, punto di
non ritorno di un teatro che aveva infranto la forma spettacolo per farsi happening,
ai confini fra assemblea politica e rituale di liberazione collettiva, il Living
Theatre abbandonava gli edifici teatrali e, dal 1970, dava vita a un ciclo di
creazioni collettive per spettacoli di strada che partiva dalle favelas brasiliane
per entrare nelle fabbriche in sciopero, nei manicomi, nelle università
occupate, negli spazi urbani.
E intanto un movimento teatrale sempre più ampio esprimeva la necessità
di essere altrove: fuori dai circuiti ufficiali e dalle loro regole, superando
i confini della rappresentazione per mescolarsi alla vita, invadere spazi non
teatrali, valorizzare linguaggi espressivi non verbali. Peter Brook abbandona
la Royal Shakespeare Company e va in Africa, dove inaugura la sua esperienza
di teatro interetnico, come mescolanza e integrazione di lingue e linguaggi,
Augusto Boal fonda in Brasile il teatro dell’Oppresso, col quale realizza
le incursioni del “teatro giornale” e del “teatro invisibile”
in spazi aperti, davanti a spettatori impreparati, l’Odin Teatret abbandona
la dimensione chiusa del laboratorio danese per viaggiare nell’Italia
del Sud e in Sudamerica realizzando “baratti”, ossia incontri con
le popolazioni locali attraverso il teatro. E in Italia la straordinaria esperienza
dell’animazione teatrale esce dalle scuole per dilatarsi nel sociale,
col “teatro nello spazio degli scontri” di Giuliano Scabia.
Per molti giovani attivi nel movimento politico l’esperienza teatrale
nel sociale, premessa dei “gruppi di base” e quindi del “teatro
di gruppo” degli anni Settanta/Ottanta, rappresenta un importante momento
di passaggio dalla pratica militante alla liberazione dell’espressione
artistica e dell’azione culturale alternativa. Al teatro accedono giovani
privi di preparazione specifica eppure in grado di riprogettare la scena sulla
base di un’esperienza essenzialmente politica, che al teatro frutterà
la conquista di spazi alternativi, dove svolgere un lavoro a largo raggio, rivolto
a un referente anagraficamente e culturalmente affine.
Di quelle esperienze (l’adolescenza di una storia creativa e ribelle)
restano i frutti maturi di insediamenti che hanno infranto il monolitismo del
sistema teatrale e che, dopo essersi chiamati “centri”, si chiamano
oggi “teatri stabili di innovazione”; resta la proliferazione di
linguaggi che dopo essere stati di rottura rappresentano oggi (in un clima però
di minaccioso ritorno all’ordine) le infinite possibilità di risorse
espressive cui attingere liberamente, al di fuori di connessioni di carattere
gerarchico; resta il diritto acquisito dell’accesso al teatro per i non-attori,
che dopo essere stati protagonisti dell’animazione teatrale sono oggi
i nuovi soggetti di un teatro che unisce all’opportunità di inclusione
sociale l’elaborazione di nuovi linguaggi e possibilità della scena
a partire dalle diverse abilità.
Scorro gli articoli che ho scritto per “A” dall’inizio della
mia collaborazione. Ho raccontato il Living Theatre dalla morte di Julian Beck
in poi, l’America alternativa del Bread and Puppet e il musical anti-apartheid
di Soweto, il Sud America del teatro politico e l’Italia delle giovani
generazioni e degli spazi occupati, il teatro gay e il teatro al femminile,
il teatro dei gruppi e il teatro nei luoghi reclusi e del disagio...
E mentre rimane il rammarico di non avere raccontato tante importanti esperienze,
mi rappacifico un po’ con me stessa perché scopro che la vita del
teatro ha dialogato con quella di “A”; e quando, fra altri quarant’anni,
gli storici sfoglieranno le annate di una rivista che sarà considerata
imprescindibile per la lettura della politica e della società fra Novecento
e nuovo millennio, troveranno il racconto di un teatro che ha accompagnato fermenti,
sogni, contraddizioni di generazioni alle quali a volte ha fornito uno specchio
per rivelarsi, altre volte ha suggerito vie di fuga ed esperienze di trasformazione
possibili.
dida p46: Julian Beck e Judith Malina in Antigone (1980). Fotografia di © Marco Caselli Nirmal (dal libro di Cristina Valenti, Storia del Living Theatre. Conversazioni con Judith Malina, Corazzano, Titivillus, 2008).
Educazione libertaria
per strada
di David Guazzoni
Un lavoro di formazione e di preparazione alla realizzazione dei progetti di strada.
D al 2000 la Cooperativa Sociale Alekoslab ha scelto la strada come luogo principale
del proprio agire, come dimensione della propria azione educativa, come scenario
principale per stare con le persone, per mischiarsi e misurarsi con la ‘realtà’.
Nel lavoro di formazione e di preparazione alla realizzazione dei progetti di
strada abbiamo elaborato diversi strumenti che potessero aiutare gli operatori
a comprendere la cornice entro cui si andava ad operare.
Qui vi proponiamo sei voci tratte dal 'Dizionario minimo dell'educativa di strada'
che abbiamo scritto nel 2000 proprio per iniziare ad orientarci.
S: sorprendersi/stupirsi. La capacità di. È uno dei requisiti
che ogni operatore sociale dovrebbe portare nel proprio bagaglio personale;
è quell’ingrediente che rende affascinante il proprio lavoro anche
dopo anni e che permette di ricaricare le batterie e far scoccare scintille
anche quando meno ce lo si aspetta. Quando si lavora in strada è utile
recuperare questa capacità dal proprio bagaglio.
T: tempo. Nel lavoro di strada ci si misura costantemente sia con quello atmosferico
che incide molto ed è un compagno da non sottovalutare, sia con quello
che passa determinando lo scorrere della vita. È assolutamente necessario
non avere fretta, sapersi confrontare con tempi lunghi, dilatati, che portano
a risultati quando meno li si aspetta. Per questo è necessario, quando
possibile, inserire progetti di educativa di strada in percorsi di più
anni, perché solo così si può avere pienamente il senso
di una prospettiva, di una evoluzione, di un avvenuto cambiamento.
R: rete. Lavoro di. Il lavoro di strada e tutto il lavoro sociale più
in generale deve sempre creare sponde, rimandi, legami, scambi tra le realtà
che lavorano in uno stesso territorio, così da ampliare i punti di vista,
alimentare il confronto e forzare l'isolamento.
A: attesa. Nel senso del saper attendere. La fretta è sempre cattiva
consigliera e nel lavoro di strada non può esserci posto per il breve
termine, per le soluzioni ‘veloci’.
D: disponibilità. È una dote di cui ogni operatore deve essere
provvisto in qualsiasi ambito di intervento ed è un requisito imprescindibile
nel lavoro di strada. Spesso si richiede agli operatori completa disponibilità
mentale (nel senso di essere pronti a scompaginare le carte e ripartire) e a
livello pratico (molto banalmente negli orari, soprattutto nelle prime fasi
di lavoro in un nuovo territorio).
E: equipe. Centrale è la dimensione del gruppo di lavoro inteso come
nucleo da cui prendere le mosse e cui tornare, per rielaborare le esperienze,
confrontandole e dando loro la migliore contestualizzazione possibile.
Alekoslab Cooperativa Sociale ONLUS www.alekoslab.org
Sentimento e metodo:
la lezione di
Errico Malatesta
di Davide Turcato
Malatesta postula continuità fra l’azione anarchica nella società presente e in quella futura.
Gli scritti di Errico Malatesta contengono forse il più ricco patrimonio
di esperienze e di idee che il movimento anarchico possegga. Essi riempirebbero
oltre cinquemila pagine, e tale è la mole delle opere complete dell’anarchico
campano, un progetto editoriale attualmente in corso che, ci si augura, completerà
il lavoro iniziato da Luigi Fabbri negli anni 1930.
Ma se fra questi scritti dovessi scegliere una sola frase-simbolo, questa sarebbe
una definizione contenuta nell’opuscolo L’Anarchia, del 1891: “L’anarchia,
al pari del socialismo, ha per base, per punto di partenza, per ambiente necessario
l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per
metodo la libertà.” La frase simboleggia bene il connubio fra semplicità
di esposizione e profondità di pensiero che caratterizza tutta l’opera
di Malatesta. Pare una definizione ovvia, nel suo riferimento alla classica
triade di valori della Rivoluzione Francese, eppure sintetizza un’intera
concezione dell’anarchismo, meditata e originale. In questa concezione
l’eguaglianza di condizioni, cioè la messa in comune dei mezzi
di produzione, il socialismo, non è un punto di arrivo, ma il punto di
partenza di un processo di evoluzione sociale animato dal sentimento di solidarietà
fra gli uomini, ed esplicato attraverso la libertà d’iniziativa
di ciascuno.
La definizione non propone una statico modello di società perfetta, ma
descrive una società aperta socialista, sperimentalista e pluralista.
Nel caratterizzare l’anarchia in termini di un sentimento, la solidarietà,
e di un metodo, la libertà, che già oggi gli anarchici mettono
in pratica, Malatesta postula continuità fra l’azione anarchica
nella società presente e in quella futura. E poiché quel sentimento
e quel metodo sono scelte volontarie di ciascun individuo, la sua è una
visione gradualista dell’anarchia, che sarà tanto più realizzata
quanti più individui faranno propri quel sentimento e quel metodo. Nessuna
concezione potrebbe essere più lontana dallo stereotipo, duro a morire,
dell’anarchismo come anelito ad una perfetta arcadia e come filosofia
del “tutto o nulla”. C’è ancora molto da far capire
su cosa sia l’anarchismo, e nessuno ha spiegato cosa esso sia meglio di
Malatesta.
Nel riconsiderare la propria tradizione in vista delle lotte future, come fa
questa bella iniziativa di “A,” gli anarchici attingano a questo
inestimabile patrimonio, in buona parte ancora inesplorato o incompreso, delle
“pagine di lotta quotidiana” di Malatesta.
dida p48: Errico Malatesta visto da Fabio Santin (particolare).
Colonne sonore
di “cattiva musica”
di Diego Giachetti
Con le discoteche cambiarono i luoghi della socializzazione giovanile.
Q uando all’incirca questa rivista nacque, il ’68 italiano stava
facendo i conti con le canzonette della “cattiva coscienza” riscoprendo
la canzone impegnata, politica e di protesta vecchia e nuova. La «musica
ribelle», come sintetizzò efficacemente Eugenio Finardi nel 1976,
quella che ti vibrava nelle ossa e ti entrava nella pelle e t’invitava
a «mollare le menate e metterti a lottare». Nella seconda metà
degli anni Settanta la musica, i concerti, furono l’occasione, nelle feste
del proletariato giovanile, per incontrarsi, stare assieme, amoreggiare, fumare
spinelli, mentre il senso e il significato delle parole “impegno politico”
subirono un primo cambiamento. La connotazione rimaneva ancora positiva, ma
il suo riferimento si estendeva, si dilatava. Alle soglie degli anni Ottanta,
la generazione che era stata la protagonista dei movimenti degli anni Settanta,
era in rotta di riflusso, travolta dalla crisi delle ideologie abbandonava l’impegno.
Con sofferenza scopriva di essere una «generazione di sconvolti»,
senza «più santi né eroi» (Vasco Rossi, Siamo solo
noi, 1981), senza un «centro di gravità permanente», come
sentenziò Franco Battiato, «ognuno col suo viaggio, ognuno diverso,
perso dietro i fatti suoi» (Vita spericolata, 1983).
Con le discoteche cambiarono i luoghi della socializzazione giovanile. Migliaia
di giovani s’incontravano costituendo delle comunità fondate sul
bisogno di evadere, di rompere la monotonia quotidiana. L’età giovanile
si prolungò, sinonimo di precarietà della condizione sociale.
La musica, di cui erano grandi consumatori, coniugava l’aspetto ludico
con quello partecipativo. Le parole dei testi non avevano un immediato ed esplicito
messaggio pedagogico-educativo, servivano ad aggregare, a sincronizzare i corpi
degli individui sullo stesso ritmo. Quando venne il movimento dei movimenti
la sua colonna sonora fu una musica globale che aboliva il concetto di “straniero”.
Una koinè musicale nuova che inglobava le tradizioni dei vari popoli
del mondo non come una curiosità da scoprire, ma come parte del proprio
patrimonio culturale. Nelle manifestazioni del movimento a Genova, a Firenze,
a Roma non mancarono le bandiere rosse, i canti della tradizione del movimento
operaio. Tanto il rosso ma, se la citazione di Tiziano Ferro non appare blasfema,
si trattava di un «rosso relativo» (2001), che veniva dal passato
e rispetto al quale il giudizio era sospeso, poiché essere giovani significava
anche sentirsi creature nude di fronte alle vetrine delle ideologie.
Quindi, ecco perché va accolto l’invito di Marcel Proust a non
disprezzare la cattiva musica, quella che si suona e si canta di più
e con più passione di quella buona, quella che si è riempita «del
sogno e delle lacrime degli uomini», perché, se il suo posto é
«nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale
della società» (I piaceri e i giorni).
Abbattere dominio.
Costruire libertà
di Domenico Liguori
È questa la sfida che ci lancia il municipalismo libertario
P er dirla con Errico Malatesta, gli anarchici ritengono che “la più
gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione
sociale”, e proprio perché convinti di ciò, propongono quale
alternativa alla società del dominio la costruzione di una società
basata sulla libertà. Due sono, dunque, le forze propulsive dell’anarchismo,
quella distruttrice e quella costruttrice. La prima non si riconosce nel presente,
anzi lo delegittima, lo combatte e mira gradualmente a distruggerlo; la seconda
invece è tutta intenta a prospettare di già il futuro: una società
della libertà e dell’uguaglianza.
Insomma, gli anarchici, convinti che le iniquità sia dovute all’organizzazione
gerarchica della società, propongono che ognuno riprenda nelle proprie
mani il destino e che tutti insieme riprendiamo in mano il destino dell’umanità,
per renderci artefici di una società in orizzontale, che parta dall’individuo
per giungere poi alla libera associazione fra individui, alla comune ed infine
ad una federazione dal basso, che unisca le libere comuni dal territorio al
mondo intero.
Ecco, è così che a me piace pensare il municipalismo o il comunalismo
libertario, come dir si voglia: come una proposta radicale, rivoluzionaria,
ma nello stesso tempo gradualista; una proposta che si colloca nelle conflittualità
dell’oggi per la difesa degli interessi immediati delle classi subalterne,
ma si prefigge, nel contempo, di iniziare a costruire nel "qui ed ora"
le basi alternative su cui edificare la società libera del domani.
Questo genere di argomentazioni ad A-rivista anarchica non è certamente
nuovo, se solo pensiamo ai contributi che in tema di municipalismo libertario
sono ad essa pervenuti, da un trentennio a questa parte, dalla collaborazione
col pensatore Murray Bookchin. Insomma, di fronte al fragoroso cianciare su
un federalismo istituzionalista, ad A-rivista anarchica bisogna riconoscere
il merito di aver svolto un grande ruolo nel riproporre la tematica del federalismo
nell’essenza; quell’essenza che per l’appunto si individua
nella genesi libertaria dello stesso, una genesi che ci ricorda che laddove
c’è gerarchia non ci può essere federalismo vero.
Io scrivo da Spezzano Albanese, cittadina abereshe della Calabria, nota in ambito
anarchico e libertario, per la sua concreta esperienza comunalista libertaria
che da alcuni decenni si esplica fuori e contro l’istituzione comunale
di stato con iniziative di autogoverno dal basso nel mondo del lavoro e nel
territorio, attraverso le campagne sociali promosse dalla FMB – Federazione
Municipale di Base (per chi voglia saperne di più: www.anarchia.info).
Abbattere dominio costruire libertà: è questa, insomma, la sfida
che oggi ci lancia, il municipalismo o comunalismo libertario, come dir si voglia.
Sapremmo raccoglierla?
Un bellissimo sogno
da consegnare al futuro
di Dori Ghezzi
Mi è tuttora difficile potermi considerare una vera anarchica.
F ino a un certo punto della mia vita, per me il concetto di anarchia è
stato una versione distorta rispetto a ciò che l’anarchia è
nella sua vera essenza; e credo che questo possa capitare alla maggior parte
delle persone condizionate da un’informazione che troppo spesso usa a
sproposito la parola anarchia.
La presa di coscienza di che cosa significasse è maturata conoscendo
da vicino chi si dichiarava anarchico con consapevolezza e onestà.
Ho capito che anarchici non si diventa perché qualcuno ti indottrina
e ti affilia attraverso dei codici, ma scaturisce da una naturale tensione al
saper convivere con gli altri.
È la libertà all’ennesima potenza che sancisce la possibilità
per l’uomo di essere completamente autonomo e intendere il rispetto non
come un dovere ma come una scelta.
Malgrado sia pienamente in sintonia con questo pensiero, mi è tuttora
difficile – non so se per pudore o per un (irragionevole?) dubbio di chiarezza
– potermi considerare una vera anarchica.
Non ho incontrato Stirner, Bakunin o Anna Kuliscioff, ma Fabrizio e alcuni amici
del circolo anarchico di Carrara, e un allora giovanissimo Paolo Finzi con la
compagna Aurora.
Furono proprio Paolo e Aurora a regalarmi alcuni volumi di Emma Goldman, e ancora
li ringrazio poiché attraverso quelle letture ho conosciuto il modo giusto
per riscattare la condizione dei più deboli e, ancor di più, la
dignità della donna.
Alcuni anni dopo ho avuto la fortuna di conoscere Fernanda Pivano, un’altra
anarchica convinta, con la quale ho condiviso i medesimi pensieri sulla (per
noi) errata impostazione della battaglia femminista.
Se, nostro malgrado, persistono ingiustizie non solo fra etnie e culture diverse,
ma anche quasi ovunque fra uomo e donna, purtroppo, almeno ancora per ora, l’anarchia
sembra un bellissimo sogno da consegnare al futuro.
dida p51: Fabrizio De André e Dori Ghezzi (foto Reinhold Kohl).
Non una,
ma tante rivoluzioni
di Elena Violato
Da tempo un profondo senso di smarrimento alberga nelle persone e soprattutto nelle nuove generazioni
V orrei iniziare questo contributo con una constatazione molto banale ma spero
proprio per questo largamente condivisibile: siamo in un periodo di crisi.
Tante parole son state spese al proposito ed è patrimonio comune il fatto
che attraversiamo un periodo di crisi economica, causa e conseguenza di quella
ambientale che secoli di sfruttamento da parte dell'essere umano han creato.
Ma ciò su cui in questa sede vorrei focalizzare l'attenzione è
il risvolto esistenziale, culturale della faccenda: non sappiamo più
come definire, come rapportarci con l'esistente e con la nostra stessa esistenza,
l'immaginario con cui siamo nati e cresciuti ha confini vaghi e nebulosi.
Da una parte il processo di secolarizzazione ha messo in crisi la fede indiscussa
in un unico dio, sia esso quello della chiesa, lo stato o un grande ideale per
il quale vivere e combattere.
Dall'altra ciò che ci è stato offerto in cambio della fede è
un oppio ancor più inebriante di cui abusare: continuamente sollecitati
a consumare per vivere, a consumare la vita, mai sazi e insaziabili, in continua
ricerca di qualcos'altro e/o di qualcun altro, il “benessere” sembra
alla portata di tutti e pochi si accorgono che più ci riempiamo di cose,
più ci svuotiamo di noi stessi stando male.
Essendo state messe in discussione tutte le grandi fedi, ciò ha permesso
una parziale liberazione dalle umane gabbie mentali, le quali di certo nel tempo
non hanno incentivato il voler migliorare le proprie condizioni di vita. Però
è successo anche che si ponesse l'accento solo sulle condizioni oggettive
dell'individuo e della società e ci si dimenticasse di tutto il resto,
di tutto quello che contribuisce allo stesso modo all'essenza di una società
e dell'individuo.
Solo negli ultimi decenni ci si è accorti che nella teorizzazione di
un cambiamento mancava un pezzo e chi ha iniziato a trattarne nei suoi scritti
vi ha fatto riferimento parlando d'”immaginario”.
Da tempo un profondo senso di smarrimento alberga nelle persone e soprattutto
nelle nuove generazioni, le quali rifiutando più o meno consapevolmente
i codici della vecchia “cultura”, annaspano nel non riuscire a creare,
a dare vita ad un nuovo sistema condiviso di interscambio e comprensione.
“Vita liquida” l'ha definita Bauman.
Sembrerà assurdo ma è proprio qui che si annida il “germe”
del cambiamento, una speranza di mutazione d'immaginario che potrebbe portare
ad un'ulteriore liberazione dalle catene del Dominio.
Posto che dare un senso alla propria e all'altrui vita è una conditio
sine qua non per poter vivere ed “essere” umani, e posto che la
maggior parte dei miti fondanti il senso ultimo della vita è o sta crollando,
si può per assurdo pensare di essere al principio di una trasformazione
radicale.
Per ora si è messo l'accento solo sull'avanzata dei nazionalismi e dei
fondamentalismi. Questo è un rischio reale e spaventosamente incombente.
Ma all'estremo opposto si può intravedere una luce di speranza, un profondo
relativismo che sta permeando tutte le scienze umane e sociali e anche sempre
più persone (sebbene non in maniera idilliaca e sempre tenendo conto
delle difficoltà del caso), complice anche il sempre più frequente
incontro-scontro con altre culture.
Questo relativismo, questo non voler fondare il proprio senso su un qualcosa
di assoluto e trascendente e la tranquillità con la quale accettare che
se una cosa è giusta ed è buona per il singolo, non dev'essere
per forza scritto in calce da qualche parte, creano spazi reali e mentali di
libertà, danno vita ad una “cultura di libertà”.
L'ascolto dell'altrui opinione, l'ascolto, quello vero può essere agito
solo se si parte dal presupposto che l'altro pensa a suo modo di aver ragione
ed è solo con questo presupposto che ciascuno di noi potrà confrontare
la ragione degli altri con la propria, senza perdere tempo ed energie nel voler
a tutti i costi affermare se stesso.
Il rispetto della diversità può muovere i suoi primi timidi passi
solo partendo da qui, solo quando sarà patrimonio comune che niente è
più assurdo di qualcos'altro, che nulla è più normale e
oggettivo del resto.
E questo in fondo è quello a cui da sempre tende l’anarchia...
Ho posto l'accento su uno dei tanti aspetti dell'abbattimento del dominio. Sicuramente
non è l'unico ed è ovvio che tutto questo discorso è inutile
per le persone che continuano e continueranno a volere imporre il proprio dominio
con la forza e la violenza, con l'inganno e la repressione. Ma su fascisti,
stato e istituzioni penso che molto sia già stato detto.
Per liberarsi ed essere liberi non bisognerebbe tralasciare nessun aspetto:
dal macro al micro, dal pensiero all'azione, dalla creazione distruttiva alla
distruzione creativa.
Non una ma tante “rivoluzioni”; non domani aspettando il sol dell'avvenire
ma qui, ora.
Fabio Santin per i quarant'anni di Arivista.
Una libreria
chiamata Utopia
di Fausta Bizzozzero
Il progetto era un po’ folle e la nostra ingenuità pure
C orreva l'anno 1976 quando decisi, insieme a Luciano Lanza, a quel tempo mio
compagno di vita e militanza, di aprire una libreria (lui dopo alcuni anni decise
di cambiare lavoro ma altri compagni/e mi hanno affiancato nel tempo, in particolare
Mauro Decortes arrivato giovanissimo e che tuttora lavora in libreria). Nessuna
esperienza nel settore, nessuna conoscenza dei meccanismi distributivi e commerciali,
nessun “mestiere”.
Solo una grande amore per la lettura e la profonda convinzione che fosse necessario
uscire dai nostri circoli, dalle nostre sedi, dal nostro “milieu”
e far conoscere i nostri libri, le nostre riviste, le nostre idee nel più
vasto e variegato mondo che transita sui marciapiedi della città.
Il nostro piccolo gruppo (Bandiera Nera) infatti si era trovato ad occuparsi
di carta stampata: dal 1971 pubblicava “A Rivista Anarchica” (nata
come necessità di controinformazione dopo la strage di Piazza Fontana)
e aveva ricevuto in “eredità” da meravigliosi vecchi compagni
la casa Editrice Antistato (poi diventata Elèuthera), la rivista “Volontà”
(ora “Libertaria”) e la rivista quadrimestrale in quattro lingue
“Interrogations”.
Il progetto era un po' folle e la nostra ingenuità pure, ma nel febbraio
1977 abbiamo aperto i battenti della Libreria Utopia in Largo La Foppa. Ci sono
voluti anni per farci accettare nel quartiere e ci sono voluti anni per imparare
il “mestiere” di libraio, per me il più bello del mondo ma
anche difficile, faticoso (sempre in piedi e solo il ferro pesa più dei
libri) e con margini di guadagno irrisori. Ma la libreria doveva essere ed è
stata anche altro: luogo di incontro (di studenti, di insegnanti, di collettivi
di lavoratori, di associazioni, di gruppi di studio), centro culturale libertario
con l'organizzazione di cicli di conferenze e mostre tematiche (storia/filosofia/ecologia/pedagogia/scienza/arte/musica
ecc.) con un taglio libertario; luogo di confronto e di scambio, di circolazione
delle idee, punto di riferimento culturale.
Nel corso degli anni (tre decenni) la politica editoriale, che già puntava
alla quantità invece che alla qualità, alla creazione di best-seller
e alla omologazione verso il basso, ha subito un processo di accelerazione parossistico
alimentando un'economia fittizia fondata sulla moltiplicazione dei libri pubblicati
col risultato di rendere sempre più breve la vita di ogni singolo libro
(cioè la sua presenza e visibilità in libreria) e di rendere sempre
più difficile il mostro lavoro quotidiano. Ma questa “evoluzione”,
questa accelerazione, come ben sappiamo, faceva parte di un processo ben più
ampio dell'economia e della società di cui purtroppo dobbiamo vedere
i disastri quotidianamente.
Nel corso degli anni anche il quartiere è cambiato radicalmente: spariti
i vecchi artigiani e gli storici abitanti delle case di ringhiera ristrutturate
e vendute a caro prezzo sono arrivati i nuovi ricchi, sono proliferati i locali
alla moda. In questo scempio generale comunque la libreria Utopia resiste ancora,
ultimo baluardo contro il dilagante popolo dei nuovi barbari. Io, per problemi
fisici e personali, ho ceduto il testimone, ma l'avventura della libreria continua.
Se dovessi fare un bilancio della mia esperienza direi che mi considero fortunata:
fare attività anarchica mi ha aiutato a crescere, a imparare, ad acquisire
competenze, ho avuto un piccolo sogno (il grande sogno di una società
diversa è sempre nel mio cuore ma ahimè mi sembra sempre più
lontano!) che ho potuto realizzare così come lo volevo pur pagandone
tutti i prezzi, e infine ho anche avuto la soddisfazione di vedere riconosciuto
il mio/nostro lavoro sia dagli addetti ai lavori sia dal pubblico dei lettori
e fruitori dell'attività culturale.
Anarchia e religione
di Federico Battistutta
Ma gli anarchici non erano dei senza dio? Mica tutti. E si comincia a parlarne.
N ella storia dell’anarchismo si può osservare una visione sostanzialmente
negativa nei confronti della questione religiosa, in cui predominano l’ateismo
e l’anticlericalismo, diversamente coniugati. Esemplare a questo proposito
è stata la posizione di Bakunin, espressa in Dio e lo Stato: “Poiché
Dio è tutto, il mondo reale e l’uomo sono nulla. Poiché
Dio è la verità, la giustizia, il bene, il bello, la potenza e
la vita, l’uomo è la menzogna, l’iniquità, il male,
la bruttezza, l’impotenza e la morte”.
Detto ciò, nel pensiero e nella pratica dell’anarchismo sono esistiti,
seppur in forma minoritaria, tendenze differentemente orientate nei confronti
della religiosità, pur mantenendo forte la denuncia della componente
autoritaria e coercitiva delle religioni organizzate e l’opposizione nei
confronti alle gerarchie ecclesiastiche.
Possiamo menzionare anarchici di ispirazione cristiana (Lev Tolstoj, Simone
Weil, Dorothy Day, Ammon Ennacy e Jacques Ellul), ebraica (Gustav Landauer,
Martin Buber, Gershom Scholem), finanche islamica (Henri-Gustave Jossot, Leda
Rafanelli, Hakim Bey). È bene aggiungere che ciascuna delle persone citate
ha variamente declinato il rapporto tra anarchia e religione. Tolstoj, per fare
un esempio, non dichiarò mai di essere anarchico: “Mi considerano
anarchico, ma io non sono anarchico, sono cristiano. Il mio anarchismo è
solo l’applicazione del cristianesimo ai rapporti fra gli uomini”,
scriverà nei suoi diari. Nel caso di Landauer, invece, l’ebraismo,
che pur costituisce lo sfondo su cui si staglia tutta la sua riflessione, non
assume i tratti dell’adesione a una religione positiva, pur nel riconoscimento
che anche il momento più strettamente politico del suo pensiero ha risentito
di un approccio mistico-religioso.
Ma l’esistenza di una dialettica creativa fra religione e anarchismo è
riscontrabile anche allargando lo sguardo verso altri filoni religiosi, così
come al di fuori di qualsivoglia confessione. Sono stati riscontrati punti di
contatto – espliciti o impliciti – in diversi autori hindu, buddhisti
e taoisti. Per limitarci ad un personaggio oltremodo conosciuto come M. K. Gandhi,
egli fu notevolmente influenzato oltreché dalla millenaria tradizione
spirituale induista, anche dal pensiero libertario di autori come Tolstoj e
Thoreau. Ottenere l’indipendenza (swaraj), non significava per lui creare
uno stato a imitazione di quelli occidentali; il potere doveva appartenere alle
popolazioni sparse nei villaggi: un potere diviso e diffuso. Inoltre, per quando
riguarda la questione della proprietà privata, egli non aveva difficoltà
a definirsi socialista: un socialista con “forti tendenze verso l’anarchia”,
lo ha definito qualcuno.
Il riconoscimento di un possibile rapporto fra il pensiero anarchico e alcuni
autori ad esso contemporanei, ha permesso di allargare lo sguardo, compiendo
indagini e ricognizioni verso periodi storici antecedenti la nascita dello stesso
movimento anarchico. Per limitarci all’ambito cristiano, sono stati riscontrati
numerosi punti di contatto studiando la vasta area costituita dal fenomeno delle
eresie, sia all’interno del cristianesimo primitivo (contro cui tuonava
l’apostolo Paolo: “non c’è autorità se non da
Dio”), che nel Medioevo (come il multiforme movimento dei fratelli del
libero spirito) o nelle epoche successive, più vicine alla nostra.
La discussione attualmente in corso concernente la rivisitazione dei paradigmi
storici della tradizione libertaria (cfr. il post-anarchismo), i quali affondano
gran parte delle loro radici nella cultura dell’Ottocento, può
favorire nuove aperture e nuove possibilità per costruire relazioni dinamiche
ed inedite fra anarchia e religione. In ogni caso, è questo un campo
ancora tutto da esplorare.
(su questi temi cfr. www.liberospirito.org)
L’inganno delle parole
di Felice Accame
“A”. L’unica rivista che (per ora) non ha deciso di poter fare a meno dei miei scritti
I l fatto che nessuna rivista – o quasi – accetti miei scritti
fa sì che io scriva su riviste cui, perlopiù, ho contribuito a
fondare o, comunque, collabori fin dal primo numero. Non è il caso di
“A” e, pertanto, mi sento come uno salito su un carro già
in corsa. Il fatto che – come tutte quelle su cui ho scritto io –
“A” non sia morta o, più semplicemente, abbia da tempo deciso
di fare a meno dei miei articoli, mi stupisce.
Non mi stupisce, invece, il fatto che, nella mia comunque lunga collaborazione,
non sia riuscito a incidere di una virgola sull’andamento della rivista.
Mi sento quantomeno ininfluente. Qui vorrei spiegare il perché.
Sia che mi occupi di cinema – che mi si ghettizzi nella rubrica apposita
-, sia che mi possa occupare di checchessia – fossi stato titolare della
rubrica gastronomica sarebbe stato lo stesso -, il mio tipo di problema è
sempre quello: guardo all’aspetto metodologico delle cose, mi dico che
qualcosa non va per il verso in cui dovrebbe andare, cerco di risalire all’origine
del guasto che, immancabilmente, riconduco alle teorie della conoscenza –
a tutte le teorie della conoscenza, nessuna esclusa – prodotte dalla filosofia
nel corso della sua storia.
Cos’hanno che non va le teorie della conoscenza? Che non stanno in piedi,
che sono frutto di un fraintendimento ben occultato dalle parole e che, nonostante
tutte le denunce di questo fraintendimento le cose hanno continuato ad andare
come sono sempre andate: filosofo è un appellativo di stima – anche
tra gli anarchici, ahimé -, la filosofia si insegna consapevolmente nelle
scuole superiori soprattutto sotto forma di “storia della filosofia”
e la si insegna inconsapevolmente a dosi massicce ed ineludibili negli asili
e nelle scuole elementari.
Qui sarà bene che faccia qualche esempio. Come può stare in piedi
una teoria che prevede che il conoscere consista nel farsi al proprio “interno”
una copia esatta di qualcosa che starebbe al proprio “esterno” ?
Quando e come mai potrà essere garantito di questa esattezza ? È
ovvio che qualsiasi cosa percepita – percepita foss’anche da strumenti
che, in quanto tali, si può presumere forniscano risultati uguali per
chiunque li usi – sarà sempre percepita da qualcuno – come
qualsiasi strumento, peraltro, fatto da qualcuno lo sarà pur sempre.
È ovvio che qualsiasi cosa detta – ieri, oggi, domani – sarà
pur sempre stata detta da qualcuno. È ovvio che se il fondamento della
conoscenza è l’esito di un tale processo non è fondamento
di alcunché.
Meno ovvio è individuare l’inganno nelle parole usate. “Esterno”
e “interno”, per esempio, a che si riferiscono ? Al corpo, al cranio,
al cervello, ai neuroni, alle sinapsi, ai neurotrasmettitori ? Alla “coscienza”
? Si trovassero due – dico due – d’accordo nel dirci in che
consista questa benedetta coscienza. E “conoscenza” ? Già,
la stessa parola “conoscenza” che significa ? Nei primi anni Sessanta,
ho imparato da Silvio Ceccato che con questa parola vengono designati due processi
ben diversi: il primo è quello in cui confronto due risultati della mia
percezione nel tempo – del tipo: ieri mi è stato presentato Carlo,
oggi lo incontro per la strada e gli dico “Ciao, Carlo”, lo ri-conosco.
Il secondo è quello in cui confronto – o dico di confrontare –
due risultati di una mia percezione nello spazio e nello spazio diviso in modo
particolarissimo in quel “dentro” e quel “fuori” che,
come abbiamo constatato, risultato metaforici. Va da sé che il confronto
sia impossibile ad eseguirsi – per mancanza dei termini da confrontare
– e va da sé, allora, che anche questo “conoscere”
sia metaforico. Ed è il conoscere della filosofia.
Un conoscere somministrato a piene mani fin nella più tenera età
– nei principi grammaticali, nelle basi dell’aritmetica e della
geometria, negli apparati metodologici della scienza e nella religione –
un conoscere misterioso, trascendente, sempre necessitante di mediazione da
parte del potente di turno – mago, prete, scienziato, artista o filosofo
che si voglia chiamare. Ogni giustificazione del potere si avvale di questa
consolidata retorica. Ed il sottoscritto, costernato quanto basta, guarda l’uso
di questa consolidata retorica – non parlo di mero “linguaggio”,
ma anche del pensiero che c’è sotto – non solo, come è
ovvio, da parte di chi di quel potere vuole partecipare e dice di voler partecipare,
ma anche – ahinoi – da parte di chi gli si contrappone o, almeno,
si dice convinto di contrapporglisi, contribuendo, invece, all’ennesima
boccata di ossigeno.
Della libera comunità
nell’amicizia
di Filippo Trasatti
Una comunità di uguali, liberi di essere diversi, non può accettare nessuna forma e nessun ordine prestabilito.
C erto, si sa, non è per niente facile e neppure così comune.
Eppure una comunità di amici e amiche è possibile. La si sceglie,
ma non del tutto; non basta la volontà per crearla, perché il
caso vi gioca un ruolo importante. E poi le affinità, il riconoscimento
reciproco, l’esplorazione curiosa dei territori sconosciuti dell’altro,
l’intersezione di interessi, passioni, conoscenze, pratiche.
Non sarà per sempre (ma cosa lo è?); ha piuttosto l’aspetto
di una zona temporaneamente autonoma, sfrangiata ai bordi, con zone di tessitura
più o meno dense al suo interno e ci vuole una sorta di atto di creazione
continua per mantenerla in vita.
Questa zona autonoma può ampliarsi nel tempo, ma non resta mai uguale
a se stessa e ciascuno dall’esterno (ma anche dall’interno), a seconda
della prospettiva da cui la guarda, come in una nuvola, vede qualcosa di completamente
diverso. D’altra parte una comunità di liberi, perché uguali,
senza gerarchie prefissate, senza che i ruoli diventino asfittici, non può
che essere mutevole.
E una comunità di uguali, liberi di essere diversi, non può accettare
nessuna forma e nessun ordine prestabilito.
Non ha mura, ma è certamente un luogo protetto dall’asprezza dell’esistenza
e dalla crudezza del mondo impazzito. Un luogo in cui si possono sperimentare
la debolezza, senza temere in risposta la forza e la gioia, senza temere invidia
e malevolenza. Uno spazio fraterno, basato sul mutuo appoggio, che può
apparire elitario, come accade quando delle singolarità intrecciano fittamente
i propri percorsi.
Una preziosa anomalia pacifica, una comunità differente, ma non indifferente,
un micromondo dentro un mondo in cui gli uomini normali, le comunità
identitarie, gli stati hanno sterminato in pochi decenni (e continuano a sterminare)
milioni di esseri umani e dove continua l’orrore dello sterminio pianificato
di miliardi di viventi e senzienti inermi.
Pacifica non significa priva di conflitti, di dinamiche di trasformazione, di
tensioni, ma volte per decisione comune e in piena libertà, alla costruzione
di uno spazio comune più appropriato. Non indifferente significa che
usa il calore e la forza prodotta all’interna per rivolgerla verso l’esterno,
in progetti comuni, un creazioni condivise, in lotte contro le innumerevoli
forme di ingiustizia e sfruttamento.
Per me tutto questo ha il delicato e fragrante profumo dell’anarchia.
Divertenti, saggi, militanti, istruttivi, moderni mangiapreti.
di Francesca Palazzi Arduini
Un prezioso calendario di cronache, critica e dibattito anticlericale
“A” rivista anarchica è un prezioso calendario di cronache,
critica e dibattito anticlericale.
Sin dal 1974, con Paolo Finzi: Il 12 maggio, infatti, tutti i cittadini-elettori
(suore di clausura comprese) andranno a votare per decidere se mantenere o abrogare
la famosa “legge Fortuna-Baslini”, con cui il divorzio, seppure
in dimensioni ben ridotte (“piccolo divorzio”), ha fatto la sua
prima timida comparsa in Italia, terra dei preti, di santi e di democristiani.
Impossibile dar conto di tutti. Solo alcuni esempi: il corteo torinese dei “sindonbusters”
nel maggio 1998 è magistralmente raccontato da Maria Matteo: Nella Torino
del 1998 diventa sovversivo persino lo statuto albertino ... La polizia ulivista
di una città ulivista, di un paese ulivista riesce a dare un carisma
“progressista” persino a Camillo Benso di Cavour con il suo arcinoto
“libera chiesa in libero stato“.
Zelinda Carloni, sulla manifestazione del 19 febbraio 2000 a Roma in piazza
Campo de’ Fiori per i 400 anni dal rogo di Giordano Bruno racconta della
concessione della piazza da parte delle autorità di polizia con l’obbligo
di ...fargli una polizza assicurativa.
Il 13 ottobre 2001 a Treviso si tiene il congresso per fondare la Lega italiana
anti concordato, Mario Coglitore ne fa un resoconto critico e classista mettendo
in dubbio l’aderenza della figura del “cattolico progressista”.
Luigi Veronelli, nell’ottobre 2003, critica l’anticlericalismo esponendo
l’operato “virtuoso” e l’umanità di sacerdoti
come don Ciotti (quello della “Libera” siciliana).
Da parte mia invece, ho contribuito con articoli di critica femminista (con
un debole per la psicanalisi) alle politiche vaticane, invitando a tralasciare
punti di vista anti-religiosi e iper-razionalisti per mettere a fuoco strategie
anticlericali nuove di resistenza culturale all’invasività vaticana.
Attraverso gli scritti di Carlo Oliva ripercorriamo tutte le tappe fondamentali
dell’ eterna deriva clericale italiana. Queste vengono riassunte in titolazioni
magistrali, da “L’inquisitore remissivo” (1996) su alcuni
cenni di riabilitazione di Charles Darwin e dell’evoluzionismo presso
la Pontifica accademia, a “Un modesto scontro di portata epocale”
(2008) sull’anniversario della Breccia di Porta Pia. Oliva spazia da considerazioni
su piccoli avvenimenti simbolici (“La stilografica del vecchio pastore”,
sulla penna ufficiale del Giubileo) a questioni basilari, come con “Le
radici dell’esclusione” e “Torniamo a Melchisedech”
(2006) sulle radici “cristiane” d’Europa e sulla funzionalità
al potere politico delle tre religioni monoteiste.
L’educazione libertaria oggi
di Francesco Codello
Questa aria nuova, da semplice e isolata testimonianza, va sempre più diffondendosi pur tra le maglie soffocanti della realtà dominante.
T ra la fine del secolo XIX e la prima metà del XX numerose esperienze
e significative riflessioni hanno caratterizzato la storia del movimento anarchico
e libertario in questo senso, dando vita a vere e proprie alternative all’insegnamento
tradizionale e all’educazione autoritaria. Il valore di tutto questo è
testimoniato dalla capacità di penetrazione, nel corso degli anni, nella
cultura pedagogica più progressista, di tutte queste teorie e di queste
pratiche e la sua indiscutibile attualità.
Ma è soprattutto a partire dalla scuola di Summerhill, fondata da Alexander
Neill nel 1921 in Inghilterra, che questo filone di educazione ha trovato nuove
energie e nuovi impulsi diffondendosi in maniera significativa in tante parti
del mondo. Esistono oggi centinaia di scuole, di accademie, di centri di studio
e ricerca, di reti, di associazioni, in tutti i continenti, che sperimentano
momenti e luoghi ispirati all’educazione libertaria. Queste scuole, con
gradualità diverse e nutrendosi delle influenze culturali del loro contesto,
sono però accomunate da alcune caratteristiche organizzative qui riassunte:
decisioni assunte paritariamente da tutti i membri della comunità educante
(dal membro più piccolo al più grande), frequenza facoltativa
alle lezioni, superamento della scuola come contesto ristretto di apprendimento
e costante immersione nell’ambiente circostante, contributo effettivo
e qualificato dei ragazzi alla scelta degli insegnanti, organizzazione centrata
sui tempi e modi dell’apprendimento piuttosto che in quelli dell’insegnamento,
flessibilità e individualizzazione nella definizione degli obiettivi
di istruzione, centralità effettiva del bambino e superamento della cultura
adulto-centrica.
Alla crisi ormai irreversibile del sistema scolastico internazionale, gruppi
sempre più diffusi di genitori, educatori, insegnanti, cercano di opporre
(anche in Italia) non tanto una sterile protesta, quanto piuttosto vere e proprie
realtà sperimentali nelle quali poter finalmente superare i disastri
che la cultura educativa autoritaria e permissiva (due facce della stessa medaglia)
hanno prodotto, particolarmente, in questi ultimi decenni (Cfr.: www.educazionelibertaria.org).
Questa aria nuova (che idealmente si ricollega a una tradizione storica importante
e anticipatrice di queste idee) da semplice e isolata testimonianza, va sempre
più diffondendosi pur tra le maglie soffocanti della realtà dominante.
Il sistema scolastico è imploso e non riesce più a garantire,
nonostante la resistenza e la tenacia di molti insegnanti, quegli spazi di creatività
e di autonomia indispensabili per poter compiere un’azione educativa antiautoritaria.
Questi “semi sotto la neve” si diffondono e aspettano di germogliare
trasformandosi in vere e proprie esperienze concrete, a disposizione di quanti
ritengono che l’infanzia e l’adolescenza meritino di essere lasciate
libere di mettere in luce quell’infinità di espressioni e quelle
ricchezze di cui sono portatrici.
Il primo dovere infatti di una scuola è quello di alimentare una passione
per l’apprendimento (non sacrificarla o mutilarla come invece avviene)
e non addestrare i bambini e i ragazzi con lo scopo di superare i test e gli
esami finali. Si tratta in sostanza di dare spazio a quell’educazione
incidentale di cui Paul Goodman ha così ben sintetizzato: “Ai bambini
non bisogna insegnare, bensì permettere di scoprire”, più
che ascoltarli sulle giuste risposte che ci attendiamo da loro, stimolarli a
porre nuove domande. Invece di alimentare sistematicamente la competizione tra
di loro, stimoliamoli a competere con loro stessi che è il modo migliore
per imparare.
Questa educazione ad essere non significa ovviamente dare per acquisito un dato
punto di partenza (genetico) e pensare solo al suo sviluppo, quanto, piuttosto,
presupporre in ogni fase dello sviluppo evolutivo individuale, l’emergere
libero della sua autentica natura. Quindi è educare ad essere in un processo
continuo che produce la propria diversità come specificità.
Il ruolo dell’insegnante non è quello dell’esperto che conosce
le risposte, ma quello della guida e mentore che conosce delle domande da porre.
L’enfasi non va dunque posta tanto nelle conoscenze da trasmettere, assorbire
e rigurgitare, quanto sull’esperienza da condividere e sui significati
che potrebbe generare. L’insegnante apprende dal bambino e si trasforma
con lui attraverso la relazione dialogica e con la mediazione dell’ambiente,
non trasmette un insieme di dati acquisiti ma un rapporto con la vita come divenire
e con la natura nella quale esistiamo.
Al posto della pedagogia del risultato l’enfasi è posta sull’educazione
libertaria.
Memoria e storia:
alcune riflessioni
di Franco Bertolucci
Il potere ci ha abituato alla manipolazione della memoria e a imponenti processi di annullamento della stessa.
Oblio e memoria sono due termini inscindibili, il cui costante intreccio è
parte integrante degli individui e della società. Sia l’oblio,
che la memoria, sono fenomeni naturali ma possono essere anche indotti artificialmente.
Il potere, nelle sue diverse sfaccettature, ci ha abituato non solo alla manipolazione
della memoria ma anche a imponenti processi di annullamento della stessa. Pertanto,
coltivare il ricordo è un esercizio necessario per non farci omologare
e soprattutto per non perdere parte della propria coscienza di sé. Per
gli anarchici, ma potremmo allargare il campo a tutte le persone di buona volontà
e di principi rispettosi delle libertà individuali e collettive, ci sono
date ed eventi che non si possono dimenticare, sia per un dovere sociale nei
confronti delle comunità dei «sofferenti», sia per un riconoscimento
di chi ha sacrificato la propria vita alla causa della libertà e della
giustizia sociale.
La storia dei movimenti politici e sociali fin dal loro sorgere è stata
scandita dal ricordo di date e anniversari che hanno formato intere generazioni
di rivoluzionari. Gli internazionalisti di tutto il mondo per decenni conservarono
gelosamente la memoria del 18 marzo, anniversario della Comune di Parigi e il
1° maggio venne consacrato dai lavoratori alla memoria dei Martiri di Chicago
e alla rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro. Per gli anarchici
altre date segnarono il loro lungo cammino nella storia: dal 13 ottobre 1909,
data della fucilazione di Francisco Ferrer y Guardia, all’8 gennaio 1911
giorno della scomparsa di Pietro Gori, fino al fatidico 19 luglio 1936, quando
in Spagna un gruppo di generali volendo soffocare la libertà e la repubblica
scatenò una delle più feroci guerre civili dell’epoca contemporanea,
causando migliaia di vittime e distruggendo un intero Paese. Una data questa
che per gli anarchici ha significato, invece, uno spartiacque nella loro storia,
un evento, quello della guerra civile, dove si infranse contro il muro dei totalitarismi
il sogno di una rivoluzione libertaria che si credeva ineludibile.
Nel Secondo dopoguerra il controllo della memoria e della storia ha assunto
per il potere politico ed economico, con tutte le sue forme di dominio, un valore
strategico di primaria importanza supportato in questo dallo sviluppo tecnologico
e dalla diffusione dei mass media.
L’uso pubblico della storia e del suo calendario è diventato oramai
un affare di Stato. Per legge vengono decretate le date storiche su cui fondare
l’identità della nazione, in Italia come in molti paesi del pianeta.
Ad esempio nel nostro Paese, con la legge n. 56 del 4 maggio 2007 si è
istituito il «Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo»
e la scelta è caduta sul 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del corpo
di Aldo Moro in via Caetani. Questa scelta da un punto di vista storico è
piena di contraddizioni e anche di amnesie. Sicuramente ha giocato un ruolo
nella scelta la banalizzazione e la semplificazione che è stata fatta
negli ultimi due decenni di quella stagione, spesso definita impropriamente,
con un’efficace sintesi, come la stagione degli «anni di piombo».
L’uso politico e pubblico di questa data «istituzionalizzata»
da parte delle attuali classi dirigenti ha evidentemente una funzione di «indottrinamento»
nei confronti delle nuove generazioni. Ben altri significati avrebbe avuto la
scelta del «12 dicembre 1969», data della strage di Piazza Fontana
a Milano e dell’inizio della strategia della tensione, ma così
non è stato.
Se la storia e la memoria delle comunità umane «non è altro
che il presente che prende coscienza del suo passato» (Sartre) allora
dobbiamo convenire sul fatto che da parte delle istituzioni ci sia una naturale
propensione a «strumentalizzare» e «stravolgere» la
storia al fine di giustificare per «ragion di Stato» le proprie
scelte politiche: come non interpretare in tal senso la lunga stagione delle
«leggi d’emergenza» per fatti relativi al terrorismo, alla
violenza e al dissenso politico degli anni Sessanta e Settanta? Oggi, dunque,
la lotta per la memoria contro l’oblio indotto e i calendari istituzionalizzati
è importante e apre nuovi scenari.
In questo contesto alcune storie biografiche e alcune date rimangono fondamentali
per gli anarchici di oggi, come il 15 dicembre 1969 (morte di Giuseppe Pinelli)
e il 7 maggio 1972 (morte di Franco Serantini). Grazie a molti «anonimi
cittadini» la memoria di Pinelli come quella di Serantini non si è
persa, resiste e risorge, come un fiume carsico, sui muri delle città,
nelle canzoni, nei teatri, nei libri e nelle pagine web e dei giornali indipendenti,
come quelle di «A»; vive nei cuori delle donne e degli uomini che
continuano a credere e a battersi per gli ideali di giustizia sociale e libertà,
per un mondo rispettoso dell’ambiente e degli altri esseri viventi.
Ecco perché l’anniversario di «A» – rivista che
dedica molte pagine alla storia e alla memoria degli anarchici –, è
parte integrante e importante della storia dell’anarchismo degli ultimi
decenni del Novecento e oggi ha un significato particolare che si può
riassumere con le parole di Luigi Fabbri scritte a Max Nettlau il 9 maggio 1933:
«Le memorie di un passato, che ebbe tanta luce, sono pure un rifugio pel
nostro spirito turbato dalle visioni del presente; e giovano a rianimare la
speranza nell’avvenire».
FIN QUI
Il mio plastico.
Auguri al mondo.
di Fulvio Abbate
Al centro mi piacerebbe
ci fosse il ritratto di Durruti
C ara “A”,
mi chiedi un contributo per te stessa. Riflessioni sparse, dai.
Prendendo atto dell’impossibilità di costruire un discorso compiutamente
tale, dopo essere stato visitato da alcune possibilità dialettiche (tutte
regolarmente cestinate un istante dopo la loro rivelazione) sono giunto alla
conclusione di fare dono ai compagni e ai lettori di un lungo elenco di oggetti
che, almeno nei miei intenti, dovrebbe prima o poi rappresentare l’ampio
corpus di una riflessione poetica sul secolo delle rivolte – il Novecento,
certo, ma anche i giorni che ancora ci attendono, a meno che noi si voglia rinunciare,
cosa cui non credo, alla rabbia – sulla possibilità di issarci,
come già King-Kong sul pennone della soddisfazione erotica e rivoluzionaria.
Se ho citato il gorilla, la ragione c’è, e riguarda il nostro comune
amore per la Spagna libertaria. C’è infatti la foto di un blindato
della Cnt-Fai in cima al quale, mani ignote, hanno pitturato in modo assai visibile
e marcato le referenze anagrafiche del divo hollywoodiano, il più struggente,
il più puro di cuore. King-Kong, appunto.
Dimenticavo: l’altro giorno ha ascoltato l’ultimo discorso di Salvador
Allende, pronunciato da Radio Magallanes sotto i colpi dell’aviazione
golpista l’11 settembre 1973. Salvador, parlando al futuro, a coloro che
sarebbero un giorno venuti ad ascoltare la sua storia, a sapere della sua sconfitta,
pronunciava se stesso, il suo fantasma imminente attraverso “il metallo
tranquillo della mia voce”, anzi: “…el metal tranquilo de
mi voz”. Ma sto rubando tempo all’ideale plastico della soddisfazione
storico-poetica che ho appena promesso.
Bene, al centro del plastico mi piacerebbe ci fosse il ritratto di Durruti,
in omaggio all’Eroe ma anche alla mia ormai leggendaria emittente che
gli rende onore – www.teledurruti.it – così come è
venuto fuori dai pennelli di un pittore amico siciliano, Francesco Sarullo.
Durruti, liberato dall’abisso d’ogni ombra sullo sfondo giallo della
leggenda.
E, subito accanto, allo stesso modo del “primo cent.” che Paperon
de’ Paperoni custodisce alle spalle della scrivania, una banconota “anarchica”
della comunità di Binefar-Huesca, autentico gioiello di una numismatica
stellare, astrale. Perdona l’insistenza con la terra iberica, ma proseguirei
con una minuscola foto che mostra i volti di tre faccette del 1936, le stesse
cui ho dedicato questo distico: “Tre ragazzine nel vento della Spagna
repubblicana del 1936, l’adolescenza della rivoluzione. Un romanzo fotografico
in pochi centimetri, un capolavoro, le nostre pupille sul lavoro delle modiste,
le nostre pupille sulla trinità del candore. Ovunque voi siate, vi giunga
un bacio di riconoscenza”.
Aggiungerei ancora il modellino della statua di Picasso che si trova a Chicago:
un cavallo, sia pure stilizzato, è lì che si conclude l’avventura
dell’auto dei Blues Brothers nel film di John Landis del 1980, inutile
aggiungere che l’uso cui è destinato presso di me, nel mio plastico,
è di semplice fermacarte, sotto il quale, almeno in questo momento, viene
salvato dalle mani del vento un minuscolo foglietto che porta scritta una frase
che di solito attribuiamo a Albert Camus, “Quello che conta tra amici
non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire.”.
Ovviamente, il mio plastico è un’opera aperta, intanto però
penso possano bastare queste righe che sono servite a presentarlo.
Auguri a tutti noi, auguri al mondo.
Gli ebrei anarchici
(e soprattutto le ebree)
di Furio Biagini
Per Emma Goldman, i diritti e la libertà dell’individuo dovevano essere al centro di ogni politica libertaria.
A bbiamo spesso narrato, anche sulle pagine di questa rivista, del movimento
anarchico ebraico negli Stati Uniti, ma mai abbastanza del ruolo che le donne
vi svolsero. Storiograficamente il contributo delle donne anarchiche ebree è
stato associato al nome di Emma Goldman, anche se le sue posizioni ideologiche
non coincisero con quelle della maggioranza delle sue compagne. Per la Goldman,
i diritti e la libertà dell’individuo dovevano essere al centro
di ogni politica libertaria, politica che non doveva invece dare priorità
alle lotte per l’emancipazione dei lavoratori, come sostenevano le militanti
delle organizzazioni anarchiche ebraiche.
La prima organizzazione anarchica ebraica dal significativo nome Pionire der
Frayhayt (Pionieri della libertà) fu fondata nel 1886 dopo i fatti di
Haymarket Square e la condanna di August Spies, Gorge Engel, Adolph Fisher,
Louis Lingg, Samuel Fielden, Justus Schwab, Albert Parson e Oscar Neebe. Affiliata
alla Associazione internazionale dei lavoratori, era formata da una decina di
giovani giunti dalle remote regioni dell’impero zarista. Non si deve,
infatti, dimenticare, che la nascita del movimento anarchico ebraico è
indissolubilmente legata alla corrente migratoria proveniente dall’Europa
dell’Est. Gli anarchici reclutarono principalmente nei quartieri popolati
dagli ebrei immigrati, dove la povertà e lo sfruttamento erano la realtà
quotidiana. Tra i vicoli spaventosamente sporchi e le case spesso ridotte in
rovina non mancava una riserva illimitata di manodopera a buon mercato composta
in prevalenza da donne e bambini. Nel nuovo mondo la donna ebrea portava con
sé, unitamente al suo materasso di piume, ai candelieri e alle pentole,
le sue doti orientate alla sopravvivenza, energia, robustezza, pragmatismo,
indispensabili in Europa orientale per far sopravvivere se stessa e la propria
famiglia. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, a cui del resto
erano abituate, le emancipò dal controllo maschile e le mise in contatto
con la dura realtà dei sweat-shop che significò supersfruttamento
in locali insalubri, dall’alba al tramonto, in condizioni igieniche pessime
e per un salario da fame. Emma Goldman, Rose Perotta, Marie Ganz, Mollie Steimer
e molte altre avevano lavorato in quei terribili opifici.
All’interno dei popolosi rioni dell’East Side newyorkese, oltre
a dare un efficace contributo alla organizzazione sindacale di un proletariato
arretrato e indisciplinato, le donne furono particolarmente attive nei progetti
educativi rivolti ai bambini e agli adulti, sul modello della Scuola Moderna
di Ferrer, per favorire lo sviluppo delle singole potenzialità al fine
di preparare i membri della futura società anarchica. Lo stesso «Di
Fraye Arbeter Shtimme» (La libera voce del lavoro) ospitava una rubrica
femminile, dove le donne potevano liberamente esprimersi, a cui dettero il loro
contributo Anna Margolin, Fradel Shtok e Yente Serdatzky. Come ricorda Hadassa
Kosak «le donne ebree anarchiche erano in prima fila nelle campagne organizzate
dai gruppi di difesa delle libertà civili per limitare gli abusi del
potere statale. Pauline Turkel organizzò una manifestazione al Madison
Square Garden per conto di Tim Mooney e Billings Warren nel 1917. Perotta fu
alla testa della campagna per la liberazione di Mooney dal carcere nel 1934.
Molte altre le iniziative che videro la loro partecipazione, inclusa la campagna
per l’amnistia per gli anarchici russi promossa dalla Anarchist Red Cross.
Hilda Adel aiutò a fondare il Political Prisoners’ Defense and
Relief Committee nel 1918 per aiutare i manifestanti che erano stati arrestati
per essersi opposti all’intervento degli Stati Uniti nella Prima guerra
mondiale. Rose Pesotta, Emma Goldman, Rose Mirsky, e molte altre hanno lavorato
instancabilmente per la difesa di Sacco e Vanzetti nel 1920».
La propaganda contro la prima guerra mondiale, la difesa della Rivoluzione russa
e l’opposizione all’intervento americano contro la repubblica dei
soviet, che trovò spazio sulle pagine di «Der shturm» (La
tempesta) e di «Frayhayt» (Libertà), vide la partecipazione
di Mary Abrams, Mollie Steimer, Hilda Adel, Clara Rotberg Larsen e Sonya Deanin.
Nel decennio compreso tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio
del New Deal, il movimento anarchico ebraico andò lentamente indebolendosi,
principalmente per la repressione poliziesca del governo, ma soprattutto per
l’affermazione del comunismo sovietico che fece impallidire il prestigio
rivoluzionario dell’anarchismo. Da quel momento la sua storia è
quella dell’invecchiamento dei suoi militanti e della sua lenta perdita
di influenza dovuta anche alla progressiva integrazione delle minoranze etniche
nella società americana, sempre meno tentate dalle speranze rivoluzionarie
e sempre più attirate dalla sicurezza e dal benessere economico. Tuttavia,
piccoli gruppi anarchici con le loro pubblicazioni continuarono a sopravvivere
fino agli anni settanta del secolo scorso, ma restarono marginali anche quando
la lotta per la liberazione sessuale fece di Emma Goldman l’icona del
movimento femminista.
dida p67: Emma Goldman
Anarchia
della comunicazione
di Gaia Raimondi
Il linguaggio, uno dei tanti strumenti della vastissima gamma comunicativa, ha un forte potere costruttivo.
N el mondo attuale la comunicazione è forse il più grande e complesso
veicolo che l’essere umano possieda per poter interagire e plasmare la
realtà. Proprio in virtù del suo potere Creativo – poiché
quando pronuncio una parola nella mente dell’altro ne sto effettivamente
creando un’immagine, associata ad un suono – facilmente arriva a
trasformarsi in strumento di controllo e di dominio.
Grazie al potere poliedrico del linguaggio, grazie ai molteplici piani interpretativi
su cui può rimbalzare un messaggio, modificandone il suo contenuto a
seconda dell’intenzione dell’interlocutore, dell’interpretazione
che l’ascoltatore ne dà e quindi dal piano in cui il messaggio
approda, la comunicazione ha al contempo una vivida componente subliminale,
per cui non esiste mai, o quasi mai, un solo significato per un messaggio trasmesso.
Preziosa risorsa la polifunzionalità, ma anche temibile arma a doppio
taglio, con effetti disastrosi; il più grave fra tutti, più della
menzogna, la facoltà appunto di assoggettazione e persuasione dell’altro.
Chi vuol vedere sorgere “il sol del qui e ora” e non dell’avvenir,
dovrebbe dunque mettersi a ragionare e studiare anche questo aspetto fondante
delle relazioni sociali, cercando di costruire ponti contro le insidie e le
barriere comunicative conseguentemente culturali, perché il mondo della
comunicazione è un prodotto culturale per eccellenza, che può
essere utilizzato al fine di attuare una reale mutazione nella mente degli individui.
Il linguaggio, uno dei tanti strumenti della vastissima gamma comunicativa,
ha un forte potere costruttivo; proprio perché funziona grazie ad un’astrazione
condivisa di concetti e alla creazione di idee ad essi associate dovrebbe, se
ben messo in funzione e se stemperato con i colori delle nostre utopie, far
nascere altrettante pennellate, sprazzi di luce e di idee in chi ascolta, che
ridiano vita al grigio piatto e impastato della lobotomia massmediatica insita
nei cervelli del mondo, per gran parte dominati da mezzi e da linguaggi fuorvianti.
In altre parole, dobbiamo continuare a parlare dell’anarchia, a raccontarla,
testimoniarla, renderla concetto pieno e ricco nell’immaginario collettivo
perché il dominio, per annientarla subdolamente, tenta sempre di relegarla
a mero contenitore di stereotipi, frammenti deviati, immagini distorte e ritagliate
ad hoc per denigrare e sminuire un’idea esagerata di libertà.
Non a caso gli anarchici hanno subito storicamente una repressione pesante nella
propaganda e nei molteplici progetti di comunicazione. Clandestinità
per stampa sovversiva, arresti e conseguenti migrazioni, periodici italiani
stampati all’estero, in gran segreto, ne sono stati un esempio. Perché
la comunicazione, come l’anarchia, tesse rapporti, stimola e sprigiona
emozioni, suscita idee e provoca strani sussulti che talvolta trovano risvolti
inaspettati. Per questo bisogna alimentare un’anarchia della comunicazione
che sappia farci esistere nel mondo, che ci racconti, che dia alle persone la
possibilità di immaginarci, di chiedersi il perché delle nostre
affermazioni, dei nostri desideri, reali, che renda il sogno utopia e l’utopia
azione e creazione, che possa diffondere i nostri bacilli di mutazione culturale.
Un’anarchia della comunicazione si fa, fra l’altro, continuando
a far vivere A-rivista, scrivendoci dentro le proprie idee, raccontando di esperienze
vicine e lontane, rendendola scenario dei tanti mondi possibili che ci circondano,
leggendola, regalandola o meglio ancora vendendola a squarciagola fuori dalle
stazioni delle grandi metropoli, per far sobbalzare incuriosito chi sta correndo
a prendere il suo treno dopo la schiavitù salariata e ci inceppa quasi
per sbaglio, in questa bomba che non esplode ma che spalanca la mente a chi
ignaro, fino al giorno prima, aveva continuato a correre senza A-rrivare.
Diritti sindacali
e strapotere delle Corporate
di Gianni?Alioti
È l’unica strada per frenare il potere crescente del capitale.
D agli anni ‘80 i sindacati in tutto il mondo sviluppato, hanno fatto
i conti con il loro declino: riduzione della base associativa e del potere negoziale.
Ciò ha indotto a parlare, forse troppo sbrigativamente, di fine del sindacalismo.
Sarebbe stato giusto parlare di trasformazioni e “spiazzamento”
del ruolo sindacale, per effetto della globalizzazione e dei cambiamenti nei
sistemi di produzione e nella catena del valore.
Nel mondo globalizzato i capitali, le tecnologie, i prodotti e i servizi, sono
liberi di muoversi attraverso le frontiere, al contrario delle persone. Siamo
di fronte a un “capitalismo itinerante” che impone le regole del
gioco. Sono le imprese transnazionali, le grandi reti di logistica e distribuzione
commerciale a determinare i flussi degli investimenti e i luoghi di produzione
e lavoro, mediante la sub-contrattazione dei fornitori, i processi di de-localizzazione
e la “produzione parallela” su scala mondiale.
I Governi (compresi quelli comunisti) competono nell’offrire vantaggi
agli investimenti delle imprese transnazionali. Quanto accade, ad esempio, in
Cina, in Malesia o nelle “zone economiche speciali” disseminate,
soprattutto, in Asia e nell’America centrale, ci riporta alle condizioni
di sfruttamento del lavoro operaio conosciute nel XIX secolo: salari inferiori
ai minimi vitali lavorando fino a 72 ore settimanali; straordinari obbligatori
senza alcuna stabilità occupazionale; punizioni degradanti e nessuna
tutela sindacale.
Nel mondo sono centinaia di milioni i lavoratori privi del diritto fondamentale
alla libertà sindacale. Inoltre, mentre le imprese transnazionali sono
attori globali, la forza lavoro – anche quando è organizzata sindacalmente
– lo è su base nazionale o aziendale e la contrattazione collettiva
di settore o impresa avviene dentro le frontiere nazionali. I sindacati e i
rappresentanti dei lavoratori hanno, pertanto, uno scarso o inesistente controllo,
e nessuna influenza sulle scelte internazionali delle imprese. Per di più,
le costanti minacce di delocalizzazione, disinvestimento e ristrutturazione
obbligano i sindacati a giocare in difesa e, spesso, ad accettare salari più
bassi e orari di lavoro più lunghi in cambio di garanzie occupazionali.
John Kenneth Galbraith aveva intuito, sin dagli anni ’60, che le imprese
transnazionali, in assenza di controlli, esercitano uno strapotere e che, pertanto,
era necessario articolare istituzioni sociali che fossero in grado di controbilanciare
il peso e il potenziale predominio delle Corporate.
La democrazia per essere effettiva, in una società caratterizzata dal
pluralismo di interessi, ha bisogno di un contrappeso tra i poteri e ciò
deve valere anche per le Corporate. Per frenare e controbilanciare questo potere,
affinché non si arrivi agli eccessi della Foxconn in Cina e allo stritolamento
dell’individuo, deve svilupparsi la cooperazione transnazionale dei sindacati.
Del resto, sin dalle sue origini il movimento operaio si era appoggiato a un’idea
di cooperazione e solidarietà internazionale. A maggior ragione, oggi,
è un imperativo sviluppare reti sindacali mondiali nelle imprese transnazionali,
promuovendo la solidarietà, coordinando azioni su scala globale, impedendo
la concorrenza tra i lavoratori. È l’unica strada per frenare il
crescente potere del capitale che, negli ultimi 30 anni, ha ridotto la quota
del PIL destinata ai salari e aumentato la disuguaglianza dei redditi.
Piacere e libertà
di Gianni Mura
A differenza di molti personaggi di spicco, Veronelli non ha mai raccontato barzellette.
N on era previsto il microfono, quando a Massenzatico gli anarchici reggiani
hanno scoperto una lapide in ricordo di Luigi Veronelli, Gino per gli amici,
e cadeva una pioggia leggera. Ma c’era abbastanza gente, le solite belle
facce che già avevo visto a Gualtieri. Allora s’intitolava a Veronelli
la saletta di una trattoria-osteria specializzata in uva fogarina. Le facce
le avevo già viste, non tutte uguali ma simili, ai funerali di Gino,
a Bergamo. E mi sono chiesto, a Massenzatico e anche dopo, se il ricordo di
Gino fosse una particolarità di un pezzo d’Emilia più tenace
oppure meno smemorato. Tanto per dire, perché non gli dedica una strada
Milano, dov’è nato, o Bergamo, dove ha vissuto gran parte della
sua vita?
Pioggia leggera, niente microfono e le parole dei relatori (meglio: amici) talvolta
erano coperte dal rumore di grossi trattori che trainavano carri colmi di cassette
d’uva. Bellissimo, ho pensato, questo sovrapporsi della vendemmia a Gino
sarebbe piaciuto più di una sinfonia di Dvorak. Era la terra a stabilire
le precedenze. Per lui, che aveva definito la vigna il canto della terra verso
il cielo, i conti tornavano.
Bella e asciutta, ossia di poche parole, la lapide in marmo bianco di Carrara.
Insegnò al mondo il piacere della libertà e la libertà
del piacere. Libero, libertario e libertino Veronelli lo è stato davvero,
e questa è la risposta alle domande che mi facevo sul pezzo d’Emilia,
su Milano e Bergamo. In questo mondo, o meglio in questa palude che è
diventata l’Italia, libertà è una parola che fa paura, a
maggior ragione se inflazionata da chi ha il potere, che addirittura l’ha
inserita nella sigla del partito. Piacere è una parola che dà
fastidio. Le due parole collegate sono estremamente pericolose, se non sovversive.
Ergo: niente vie da dedicare ai sovversivi, e bei tempi quando si poteva dare
il foglio di via.
A differenza di molti personaggi di spicco, Veronelli non ha mai raccontato
barzellette. Sono contento che sia morto prima di vedere (anzi, di sentire,
perché era quasi cieco) lo sbando, lo smottamento, lo sprofondo. Se n’è
andato col cruccio di non aver tradotto Apollinaire. Rimpiango il suo spessore
umano, non la sua morte. E penso che un giorno, chissà quando, qualcuno
si occuperà di restituire a Veronelli quello che gli spetta: la qualifica
di intellettuale a pieno titolo, di artigiano del pensiero, al di là
del lavoro (pure importantissimo) svolto nel campo del mangiare e bere, che
sono una parte non esigua della nostra vita e strettamente connesse alla storia,
all’economia, all’etica, all’ecosistema. “Luisin distingue
gli angeli al primo batter di piume” scrisse Gianni Brera. Sì,
aggiungo, ma in un paese che non riesce a distinguere i giganti nemmeno guardando
le impronte che lasciano.
dida p71: Luigi Veronelli
Indipendentismi
e anarchismi
di Gianni?Sartori
La maggiore capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante di strumentalizzare i movimenti di liberazione
C onsidero l’indipendentismo uno degli sbocchi possibili delle lotte
per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. Possibile, non inevitabile
o necessario. Ritengo inoltre che si possa parlare legittimamente di “movimento
di liberazione” quando la lotta va anche contro il sistema economico responsabile
dell’oppressione coloniale (capitalismo, imperialismo, neoliberismo, capitalismo
di stato...). E questo esclude automaticamente dall’interessante dibattito
partiti come l’Adsav bretone, i nostalgici fiamminghi neonazisti o la
Lega Nord. Esclude anche il caso del Katanga degli anni Sessanta o di Santa
Cruz nell’odierna Bolivia.
Per quanto riguarda la possibilità di un rapporto organico, “fisiologico”,
stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, personalmente
sono sempre stato scettico. E questo nonostante i “casi della vita”
mi abbiano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altre
“nazioni senza stato”, in quanto vittime di una forma di oppressione,
una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”. Tuttavia
la Storia ha registrato lotte comuni contro il franchismo, contro l’imperialismo,
contro il nucleare, in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri.
Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali
che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.
Vedi in Catalogna i rapporti del MIL di Puig Antich e Oriol Solé con
l’OLLA (Organitzaciò de La Lluita Armada) e il caso, tragico ed
emblematico, di Monteagudo: dalla FAI a Terra Lliure, all’Eta.
Qualche esempio, alla rinfusa.
Il patriota italiano Carlo Pisacane era un seguace di Pierre-Joseph Proudhon
e sua figlia intervenne a favore degli anarchici arrestati per i moti insurrezionali
del Matese (1877).
In Ucraina Nestor Makhno è diventato un eroe nazionale per aver combattuto,
oltre che contro i reazionari “bianchi”, contro gli invasori austro-tedeschi
e i bolscevichi, visti come espressione dell’occupazione russa.
Lo scultore anarchico basco Felix Likiniano fu l’ideatore del “Bietan
Jarrai”, il serpente attorcigliato all’ascia, simbolo di Euskadi
Ta Askatasuna, come raccontava l’etarra José Manuel Pagoaga (“Felix
Likiniano, miliziano de la Utopia”). Alla fine degli anni settanta in
Euskal Herria era presente un gruppo indipendentista libertario denominato “Askatasuna”
(Libertà). In seguito, secondo José Antonio Egido “alcuni
si sarebbero integrati in Herri Batasuna”.
Nei movimenti indipendentisti catalani degli anni ottanta (Moviment d’esquerra
nacionalista, Crida a la Solidaritat...) le istanze libertarie erano presenti.
Forse perché, come spiegava Carles Riera, parecchi militanti erano figli
o nipoti di cenetisti e faisti. La scrittrice di origini catalane Eva Forest,
incarcerata e torturata dopo l’attentato a Carrero Blanco, ha collaborato
senza problemi, lei libertaria e figlia di un militante della FAI, con i movimenti
indipendentisti baschi. Qualche modesto segnale anche in Irlanda. Nel programma
politico di un gruppo repubblicano dissidente (v. Ruadhri O’Bradaigh)
si parlava esplicitamente dei consigli operai come modello di liberazione citando
Kronstadt (quella del 1921). In Bretagna poi c’erano gli anarchici-nazionalisti
della CBIL (Coordination pour une Bretagne indépendante et libertaire).
Conclusioni? Negli ultimi anni ho dovuto prendere atto di alcuni cambiamenti.
In particolare, la sempre maggiore capacità del sistema tecno-industriale-militare
dominante (il vecchio “imperialismo fase suprema” etc. etc.) di
strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo è un “effetto
collaterale” della globalizzazione? L’indipendentismo ormai è
diventato una variabile che si usa o si getta a seconda del caso. Come in Kossovo,
Bosnia, Kurdistan, Timor Est, forse anche Irlanda....
Con “A” gli anarchici
son tornati a Lugano
di Gianpiero Bottinelli ed Edy Zarro
Si tornava entusiasti da Milano con i numeri di A-Rivista, dal taglio giovanile e con stimolanti riflessioni.
U na domenica di dicembre del 1973 una cinquantina di giovani si ritrovarono
in un esercizio pubblico di Lugano, nei pressi del fiume Cassarate. Il passaparola
e volantini diffusi in Ticino (allora non c’erano né telefonini,
né internet né social network) invitavano a un incontro anarchico.
Dopo una discussione di un paio d’ore fu fondata l’Organizzazione
anarchica ticinese, OAT, di fatto una unione che riuniva individualità
e gruppi già attivi sull’onda della contestazione del ‘68.
Il movimento anarchico “organizzato” nella Svizzera italiana riprendeva
vivacemente, dopo quasi tre decenni di vuoto.
Infatti, rari erano i compagni delle due generazioni precedenti rimasti in Ticino:
Carlo Vanza, Antonietta Peretti, Clelia Dotta... e nonostante le buone relazioni,
sussistevano reciproche diffidenze tra i “giovani capelloni” e la
“vecchia guardia”.
Altri contatti proficui di quegli anni, ma irregolari, erano rivolti fuori cantone,
in particolare con il CIRA di Losanna e con alcuni compagni giovani ed anziani
di Ginevra.
Ma privilegiate erano l’Italia, per motivi di idioma, e Milano, per motivi
di vicinanza: si approfondirono quindi i contatti con “quelli della Rivista”
e la libreria Utopia.
Si tornava entusiasti da Milano con i numeri di A-Rivista, dal taglio giovanile
e con stimolanti riflessioni, Umanità Nova e Volontà, dall’aspetto
un po’ vecchiotto, con volantini, libri e i fascicoletti dei mitici “pacchi
propaganda” di Franco Leggio. Si allestivano banchetti nelle piazze ticinesi
per diffondere l’idea anarchica, si partecipava alle diverse iniziative
locali della sinistra extraparlamentare. Ma lo stimolo e l’aiuto dei contatti
con i “milanesi” non si fermò lì: l’OAT iniziò
nel 1975 la pubblicazione di Azione Diretta, “mensile di propaganda anarchica”,
cessata dopo 12 anni, nel 1987.
Nel 1976, in occasione dei preparativi per i festeggiamenti del centenario della
morte di Bakunin, incontro svoltosi a Zurigo, si approfondirono i contatti con
i gruppi anarchici e libertari svizzeri. E si conobbero altri compagni italiani
della FAI come Umberto Marzocchi (presente come relatore) e Alfonso Nicolazzi.
Due anni dopo, venne fondata la casa editrice La Baronata di Lugano, che da
oltre trent‘anni continua a diffondere pubblicistica anarchica e libertaria.
Le attività, terminata l’esperienza dell’OAT, sono proseguite
con altre iniziative come il Circolo Carlo Vanza di Locarno, nato nel 1986,
che – oltre alla fornita biblioteca – propone annualmente una decina
di incontri culturali.
Ma gli stimoli non hanno viaggiato solo in direzione sud-nord, dal Ticino sono
giunte le spinte a utilizzare internet per far conoscere le idee libertarie,
e da parecchi anni la versione online della rivista è ospitata sul server
svizzero di anarca-bolo.ch.
Nel nuovo millennio, una nuova generazione – tra cui attivisti del Molino,
il centro sociale autonomo di Lugano – ha iniziato la pubblicazione del
trimestrale LiberAzione (2003-2006). Poi, con l’allargamento della redazione
a un gruppo di compagni (delle due generazioni), ma in diretta ed esplicita
continuità, dal 2007 la testata diventa Voce libertaria, “periodico
anarchico”, trimestrale sempre in attività.
Insomma le premesse per il proseguimento delle attività anarchiche e
libertarie nella Svizzera italiana sembrano esserci ancora. E una mano sicuramente
la diedero quella rivista e quei compagni e compagne con cui eravamo entrati
in sintonia all’inizio degli anni Settanta.
Due che c’erano, ci sono e sperano di esserci... ancora per un po’
Attualità di Luce Fabbri
di Gianpiero Landi
Pur non approdando mai a una concezione compiutamente e integralmente nonviolenta, ci arriva molto vicina.
L uce Fabbri rappresenta sicuramente una delle figure più affascinanti
del pensiero politico libertario del Novecento. Intellettuale coltissima, ha
lasciato un’impronta profonda – e una eredità culturale ed
etica di cui forse non è stata recepita ancora del tutto l’importanza
– sia nel campo della teoria politica che in quello della educazione e
della formazione delle giovani generazioni. Sotto diversi profili Luce Fabbri
rappresenta l’anello di congiunzione fra l’anarchismo classico e
quello contemporaneo.
Figlia, come è noto, del militante e intellettuale anarchico Luigi Fabbri,
a partire dal 1929 si stabilì con i genitori – esuli antifascisti
– in Uruguay, dove trascorse poi il resto della sua esistenza. Docente
di Storia nelle scuole medie superiori e poi – per oltre quarant’anni
– di Letteratura Italiana all’Università di Montevideo, dopo
la morte del padre diresse dal 1935 al 1946 la rivista “Studi Sociali”.
Pubblicò inoltre numerosi libri e opuscoli sia in italiano che in spagnolo
– di storia, filosofia politica, critica letteraria, poesia –, nonché
innumerevoli articoli in giornali e riviste di vari paesi.
Fin dall’infanzia ricevette in famiglia un’educazione improntata
a ideali solidaristici e antiautoritari, che fece convintamente suoi e che seppe
poi trasmettere a sua volta sia nell’ambito degli affetti privati e delle
relazioni interpersonali, sia nella sua attività di insegnante. Erede
della migliore e più qualificata tradizione libertaria, dimostrò
di possedere una personalità di notevolissimo spessore, dotata di grande
curiosità intellettuale e fino all’ultimo aperta a tutte le novità.
Non è questa la sede per ricostruire, sia pure in modo fortemente sintetico,
la sua vita e la sua produzione intellettuale. Difficile sarebbe anche presentare,
in poco spazio, tutti i motivi di interesse e gli spunti di riflessione presenti
nei suoi scritti. Mi limiterò ad accennarne due o tre, che hanno avuto
particolare importanza per la mia formazione personale, senza peraltro neppure
tentare di svilupparli in modo adeguato.
Anzitutto la riflessione sulla democrazia. Per Luce, l’anarchismo si colloca
“oltre” la democrazia, “più avanti” ma su uno
stesso percorso. Ci sono circostanze in cui, di fronte al pericolo totalitario,
l’anarchico deve impegnarsi a difendere la democrazia, salvaguardando
quegli spazi di libertà – certo limitati e imperfetti – che
essa comunque garantisce. Il totalitarismo è un nemico da combattere
con tutti i mezzi e da abbattere. La democrazia la si può solo criticare
nelle sue insufficienze, per poterla radicalizzare e superare.
Legata in certo modo a questa riflessione vi è l’analisi del totalitarismo,
di cui Luce è stata una delle prime in assoluto ad occuparsi nei suoi
studi, fin dagli anni Trenta, anticipando per certi aspetti teorici della politica
come Hannah Arendt.
Un altro tema di grande rilevanza è quello della violenza. A Luce essa
ripugna, e ne vede con lucidità i rischi autoritari anche quando si tratti
di “violenza rivoluzionaria” degli oppressi. Su tale questione riflette
a lungo e in modo sofferto. Alla fine, pur non approdando mai a una concezione
compiutamente e integralmente nonviolenta, ci arriva molto vicina. La sua testa
non ha mai cessato di ragionare, fino agli ultimi giorni, ma nel suo caso alla
lucidità di una mente superiore si è sempre unito anche un grande
cuore, incapace di restare indifferente davanti all’ingiustizia e alla
sofferenza. Anche per questo la sua memoria ci è così cara.
Dida p75: Luce Fabbri
Una sostanziale
coerenza ideale
di Gianpietro “Nico” Berti
“A” è la fonte più completa per la ricostruzione della vita anarchica italiana degli ultimi trent’anni del Novecento.
Tre sono state le fasi della storia dell’anarchismo. La prima va dalla
sua nascita alla prima guerra mondiale, la seconda si situa nel periodo dei
totalitarismi, la terza coincide con gli ultimi sessant’anni. Nella prima
fase l’anarchismo si muove entro il mondo operaio e socialista, nella
seconda – soprattutto a seguito della contrapposizione con il movimento
comunista – subisce un forte ridimensionamento politico, nella terza,
infine, perde via via quasi tutti gli originari caratteri popolari, come dimostra
la sua parziale rigenerazione in chiave libertaria ed esistenziale attuatasi
alla fine degli anni Sessanta. La storia dell’anarchismo italiano degli
ultimi cinquant’anni – come, del resto, quello europeo – coincide
con quest’ultimo stadio e tutte le sue manifestazioni politiche, culturali,
sociali, ecc., ne costituiscono le interne determinazioni. Tra queste, naturalmente,
c’è anche “A. Rivista anarchica”.
La storia di “A. Rivista anarchica” può, a sua volta, essere
suddivisa in tre periodi. Il primo copre gli anni Settanta, il secondo gli anni
Ottanta, il terzo gli anni Novanta fino ai giorni nostri. Gli anni Settanta
sono segnati dallo sforzo di rivitalizzare e riattualizzare il nucleo teorico
anarchico più autentico. Gli anni Ottanta si caratterizzano per l’apertura
di questo nucleo a tematiche non referenziali dal punto di vista ideologico.
Gli anni Novanta vedono un ulteriore aprirsi alle rivisitazioni libertarie emerse
nei due decenni precedenti. In ognuno di questi passaggi, la rivista ha mantenuto
una linea comunicativa sostanzialmente coerente, nel senso che ha sempre conservato
un carattere di medietà, vale a dire che essa non si è presentata
come luogo di specifica riflessione teoretica tranne per il primissimo periodo),
né come luogo di divulgazione “immediatamente” militante,
ma, appunto, come linea di mezzo fra le due polarità. Questo carattere
l’ha posta in una posizione centrale, nel senso che essa ha riflesso complessivamente
il travaglio e il problemi sia dell’anarchismo inteso come specifico movimento
militante, sia dell’anarchismo inteso come generale riflessione teorica
e ideologica non univocamente legata alla militanza.
In conclusione, attraverso questo osservatorio privilegiato la lettura di “A”
ci permette di seguire l’evolversi del processo generale dell’anarchismo
italiano degli ultimi trent’anni in tutte le sue molteplici manifestazioni:
lo storico di domani troverà certamente in “A” la fonte più
completa per la ricostruzione della vita anarchica italiana degli ultimi trent’anni
del Novecento.
Naturalmente non è possibile entrare nel merito delle innumerevoli questioni
poste e affrontate dalla rivista nel corso della sua quarantennale esistenza.
Possiamo, tuttavia, sottolineare alcuni problemi riguardanti il significato
dei passaggi accennati sopra.
Il primo è quello relativo alla mutazione avvenuta tra la fine degli
anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Si tratta del passaggio più
importante perché indica il senso della preservazione dell’identità
anarchica. L’anarchismo non è più presentato come un blocco
ideologico che critica e giudica la realtà esterna, ma come un discorso
articolato che si confronta con altre realtà libertarie non ideologicamente
conformi alla tradizione “ortodossa”. La conferma di questa trasformazione
è data dal sostanziale abbandono – o, se vogliamo, dalla forte
riduzione – delle tematiche presenti nel decennio precedente. La contrapposizione
tutta politica e tutta ideologica fra Stato e anarchia – che negli anni
Settanta si alimentava anche del clima (orrendo) rappresentato dal terrorismo
e dalla lotta armata – si stempera in contrapposizioni più diversificate:
l’ecologia, il femminismo, la pedagogia alternativa, le esperienze comunitarie,
l’irriducibilità dei vari problemi personali.
Questo frantumarsi dell’ideologia in molteplici rivoli si amplia ancor
più negli anni Novanta, cioè nel decennio che vede lo sbandamento
generale della sinistra a seguito del crollo del comunismo. L’evento non
può non coinvolgere anche “A” perché la sua contrapposizione
radicale con l’ideologia del “socialismo reale” non annulla
il fatto che essa, come tutto l’anarchismo europeo, si situa pur sempre
nell’alveo storico della sinistra. Vi è quindi un contraccolpo
indiretto che si rinviene in una maggiore presenza dei temi esistenziali.
Il fatto più notevole ravvisabile nella storia quarantennale della rivista
rimane comunque quello della sua sostanziale coerenza ideale.
Perché l’Italia mi fa schifo
di Giorgio Barberis
Non tutto è perduto, comunque vale la pena di lottare.
P artiamo dall’inizio, ossia dal titolo di questa breve riflessione.
Eccessivo? Provocatorio? Forse. Ma io mi ci ritrovo molto. E non credo di essere
il solo.
Difficile prefigurare uno scenario più cupo. Difficile anche scegliere
su quale meschinità focalizzare l’attenzione, essendo il catalogo
praticamente infinito. Vogliamo parlare di Cossiga, celebrato apologeta del
massacro di piazza, defunto con il suo piccone e i suoi misteri, o ci soffermiamo
invece sugli intricati passaggi dell’eterna crisi di governo? Sulle case
di Montecarlo dei cosiddetti moralizzatori oppure sui puerili giochi estivi
di quei monellacci che costituiscono lo stato maggiore della Lega Nord? Un Paese
davvero strano, il nostro.
Per giorni e giorni fiumi di inchiostro stigmatizzano il lancio di un fumogeno
verso un leader sindacale, in quella che una volta si concepiva come la festa
dei lavoratori. Ma in pochi si interrogano sulle ragioni profonde di questo
gesto. E ancora di meno sono coloro che si stupiscono nel vedere quella stessa
festa presidiata da centinaia di questurini. Intanto fa proseliti la dottrina
Marchionne, il nuovo profeta della devastazione sociale, che distrugge in un
lampo diritti guadagnati con decenni di lotte, e per giunta ha la sfacciataggine
di invocare “la fine del conflitto tra padroni e operai”. Facile
dirlo per chi guadagna almeno cinquecento volte di più di chi sta in
basso, e magari si sente pure in dovere di ringraziare per le poche briciole
che gli arrivano. Un quaquaraquà che per ventura siede in parlamento,
fedele pasdaran del berlusconismo, arriva a dire che è del tutto lecito
prostituirsi per la carriera politica. Mentre il sultano satireggia indisturbato,
con buona pace di una destra che sa essere ora bigotta, quando si tratta di
difendere i sacri valori della famiglia tradizionale, ora libertina, quando
invece sono in questione i privilegi di un Potere, più che mai al di
sopra di tutto. E noi libertari sotto scacco con che diritto osiamo protestare,
visto che la libertà dell’individuo è principio indiscutibile?
Siamo forse diventati dei moralisti? E dunque eccoci servita la peggiore delle
mignottocrazie, con l’avvallo di un conformismo trasgressivo di massa,
e la graduale riduzione all’afasia di chi ancora è capace di una
qualche forma di pensiero critico. Del resto, i pochi che cercano di fare qualcosa
nella direzione giusta vengono rapidamente tolti di mezzo, come è accaduto
al sindaco di Pollica, e come temo accadrà in futuro a molte persone
di buona volontà.
Con spazi sempre più ridotti per una politica diversa, presa a schiaffi
da turbobipolarismi mediatici, dalla ricerca di salvifici uomini del destino,
dal gossip e dalle bassezze di una stampa incline a solleticare i pruriti piccolo-borghesi
di un pubblico annoiato. Mentre si riapre la caccia al Rom, le camicie verdi
non si curano nemmeno più di velare il loro stomachevole razzismo, e
quasi nessuno ha la forza o lo spazio per dire che gli eccessi securitari sono
sempre controproducenti, che le abissali ineguaglianze che ci tolgono dignità
e respiro non sono affatto un dato naturale, e che, come spesso amo ricordare
citando Balzac, la rassegnazione è un suicidio quotidiano.
Si scorge, qua e là, solo qualche piccolo pertugio. Qualche brandello
di libero pensiero e di azione autenticamente solidale, segno che non tutto
è perduto. Che comunque vale la pena lottare. Teniamoci ben stretto l’urlo,
lo sdegno, la ricerca di una condivisione piena, il bisogno di trovare un senso,
insieme agli altri; insieme a tutte/i coloro che hanno dentro la stessa inesauribile
sete di giustizia e verità. L’espatrio non è mica l’unica
via che ci è rimasta!
Fabrizio i leskero ovi rom
ot Giorgio Bezzecchi
P rengjargjum Fabrizio po jek dive silalo i suslo, sar vajk andu Milano, angle
ot Camera del Lavoro, po stighe kaj pe gjal andre.
Hine urado kun roba ot sena, jek roba kali i retikani, i civlepe sukar vasu
keri slike, vasu “Anime salve”. hari ala i hari tempo,phenu ke lako
keru,po romane “khorakhane”. Gjav nasat po ufficio kun gagjo so
keri manza buti, Maurizio Pagani, kaj alo manza i pheni manghe ke hilo sukar
kaj ov vakeri vasu roma.
Andu ufficio citinu lil so pisini po romane, i vale sunu giso, suno buth ricja,
tinanupe. Posle savo dive jku pal Fabrizio andu leskero studjo, sukar vakeri
manza, lacjo gagjo, vakeri sukar vasu roma, prengjari romen, vakeri vasu roma
sar jek cjacjo rom, sar na sungjum vakeri vasu roma nindar ot kada keru buti
sar Esperto di Etnie Nomadi. Gjav avri i sunupe sar ti vakergjum kun jek baro
rom, ke na sungjum nindar, ma so phurane manghe da tiknoro vekerne.
Fabrizio hine prjatli ot roma i ot kon hine pase lende ot dugo.kame mislini
kaj po svecer po presentazjone ot “Anime salve”, Fabrizio kangja
mande i Maurizio Pagani po hal svecer kaj hine buth importanti gene. Meni i
Maurizio, sakon po rici so murinle keri vasu “Khorakhane” , besame
po jek rik i misliname samo vasu hal i pii, gage po mende jkene buth, Fabrizio
i Dori prastene vajk gi mende, ame hame i na jkame po gage. Fabrizio hine gjoke,
skivo, mislinave meni, saj su dova leske injeme milo,na pe kerame phare. Hine
jek rici ke kerame samo me i Fabrizio, persu Maurizio, kada pe alacjame vasu
keri po romane “Khorakhane”, pjame lace.
I onda na ascjovave leske palan........
Fabrizio era così, schivo per natura o almeno così appariva a me
Fabrizio e il suo essere rom
Ho conosciuto Fabrizio in una giornata fredda e umida, come è frequente
a Milano,di fronte alla Camera del lavoro,sulla gradinata d’ingresso.
Era vestito con abiti di scena, un vestito scuro e formale, intento ad assumere
posture adatte per la produzione di fotografie, probabilmente, per “Anime
Salve”. Poco tempo e poche parole, confermo la mia disponibilità
per l’incarico proposto, tradurrò in romani chib la sua canzone,”Khorakhane”.
Rientro in ufficio con il mio collega, Maurizio Pagani, che mi ha accompagnato
e ha partecipato all’incontro con Fabrizio, che mi evidenzia l’importanza
dell’attenzione dimostrata per il popolo stigmatizzato, i rom, da parte
di Fabrizio.
In ufficio leggo il testo da tradurre e subito “sento”uscire dal
testo una forza e una rabbia particolare, un’attenzione nelle parole unica,
sofferenza e apartheid aleggiano nell’aria, sensazioni e pulsioni mi fanno
rabbrividire. Dopo pochi giorni rivedo Fabrizio nel suo studio, ha nei miei
confronti un attenzione particolare, mi “vizia”e parla dei rom con
cognizione di causa, conosce in modo approfondito i rom, mi accorgo di avere
di fronte un pozzo di cultura e mi sento trascinare in una discussione sui rom
ad un livello da me mai percepito nella mia lunga attività professionale
di Esperto di etnie nomadi. Esco dall’incontro con la sensazione di aver
discusso con un baro rom, un saggio, che non ho mai avuto il piacere di incontrare,
di cui gli anziani rom mi parlavano da bambino.
Fabrizio era un amico dei Rom, ma anche di chi stava da molto tempo vicino a
loro.Voglio ricordare che la sera della presentazione a Milano di “Anime
salve”, Fabrizio invitò me e Maurizio Pagani ad una cena a cui
erano presenti molte personalità del mondo della cultura e della musica.
Io e Maurizio, che avevamo seguito ognuno per la propria parte l’incarico
che Fabrizio mi diede per la traduzione di “Khorakhanè”,
sedevamo in disparte dedicandoci in verità più al cibo e alle
bevande depositate sulla tavola che agli sguardi furtivi che scivolavano da
un tavolo all’altro. Fabrizio e così anche Dori, più di
una volta si sedettero a conversare con noi al nostro tavolo e così,
ben presto, ci trovammo, nostro malgrado, al centro dell’attenzione generale,
senza per questo tralasciare l’impegno verso gli squisiti piatti che seguitavano
ad essere depositati davanti a noi.
Fabrizio era così, schivo per natura o almeno così appariva a
me e forse per questo si era in un qualche modo avvicinato a noi due che non
cercavamo d’imporre la nostra presenza un po’, come allora, capitava
a tutti i rom. C’era una cosa che tuttavia accomunava solo me e Fabrizio
e non Maurizio, nei lunghi incontri e nelle chiacchierate che precedevano o
seguivano le richieste di traduzione di Khorakhanè o di conoscenza del
”mio” mondo ovvero, le dolci bevute.
E a quel tempo nemmeno io rimanevo indietro…
(traduzione dal romanès di Giorgio Bezzecchi)
«Mussolini è un bucaiolo che manda la gente a letto senza cena...»*
di Giorgio Sacchetti
Si pensi all’essenza profonda dell’antifascismo anarchico definita da Errico Malatesta.
D all’antifascismo popolare esistenziale a quello di azione, dall’antagonismo
sociale alla rete cospirativa, alle culture ed alle sociabilità libertarie,
oltre il carcere, l’esilio, il confino e le persecuzioni: gli anarchici
italiani hanno combattuto la trentennale guerra civile europea da postazioni
di prima fila. “Insuscettibili di ravvedimento” per dirla con il
bel titolo della biografia di Alfonso Failla; protagonisti di imprese disperate
e condivise con Gino Lucetti, Michele Schirru e Angelo Sbardellotto; fra i primi
ad accorrere in armi nella Spagna del ’36, per partecipare all’ultima
Rivoluzione. Arditi del Popolo nel 1921-’22 e partigiani nel 1943-’45:
sono due esperienze di lotta armata dagli opposti esiti in parte assimilabili
per matrice ideale; un filone comune di ispirazione risorgimentale / insurrezionale
/ combattentistico funge ogni volta da contenitore per una pluralità
di componenti sociali e politiche; di queste gli anarchici sono parte, una fra
tante, autonoma originale e, nel primo caso, determinante.
E c’è anche un prezioso contributo teorico da preservare, un originale
punto di vista interpretativo sui fascismi delineato in tempo reale. Ben oltre
l’incredibile duratura fortuna storiografica della concetto di “Controrivoluzione
preventiva” coniato da Luigi Fabbri. Si pensi all’essenza profonda
dell’antifascismo anarchico definita da Errico Malatesta («Umanità
Nova», 8 settembre 1921, Guerra civile):
“…Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti…”
Si pensi all’apporto di quel filone storiografico libertario che solo di recente si è potuto valorizzare. Ad esempio il “Mussolini in camicia” di Armando Borghi (“Mussolini Red and Black”) era stato uno dei pochi libri attraverso i quali l’altra Italia, quella di minoranza, aveva potuto farsi conoscere negli Stati Uniti. Era stato un modo per aprire gli occhi ad una comunità che ormai aveva rimosso significati e memoria della vicenda Sacco e Vanzetti; un libro sugli stati d’animo del “popolo deportato”, ossia degli italiani che si avviavano a diventare post-fascisti. Anche le analisi di Camillo Berneri e, più tardi, di Pier Carlo Masini, studiosi militanti e testimoni eccellenti della loro epoca, sono ascrivibili al medesimo canone interpretativo. Le loro elaborazioni si accomunano per l’originale approccio multidisciplinare, per un tentativo di comprendere la personalità del dittatore fuori dagli schemi angusti ed esclusivi delle categorie ideologiche (l’intuizione psicologica berneriana ne è una riprova evidente).
* Prefettura di Firenze, gennaio 1942, causale provvedimento ammonizione a carico di Cesare Parenti, bracciante anarchico, nato nel 1887 a Brozzi (Toscana), ivi residente. Fonte ACS, CPC, busta 3731.
Radio libere e logiche di mercato
di Giucas falchetto – Patchinko (Radio Bandita)
La breve stagione delle radio libere terminò con il loro progressivo adeguarsi alle logiche di mercato.
Pochi fenomeni testimoniano la voglia di emancipazione di un’intera generazione
come l’esplosione delle radio libere degli anni 70. Attrezzature minime,
la propria voce e qualche disco bastavano allora per trasmettere, su una base
territoriale limitata spesso al proprio quartiere o condominio, in assoluta
libertà. Poter comunicare senza mediazioni, scegliere autonomamente le
proprie fonti d’informazione, dopo decenni di monopolio statale, fu una
rivoluzione copernicana che nel giro di pochissimo tempo cambiò il volto
dei mezzi di comunicazione. I tentativi da parte del Governo di limitare i danni,
cercando invano di sequestrare le prime emittenti, si scontrarono con una legislazione
imprecisa e carente, nella quale non era difficile trovare scappatoie. Fu all’accusa
di istigazione al terrorismo che si dovette ricorrere, nel 1977 per chiudere,
manu militari, la bolognese Radio Alice, forse la più libera (e quindi
pericolosa) delle radio libere: nessuna redazione, nessuna limitazione a ciò
che si poteva dire o fare in onda.
La breve stagione delle radio libere tuttavia terminò con il loro progressivo
adeguarsi alle logiche di mercato. Investitori privati intuirono il potenziale
del nuovo soggetto e le radio libere divennero “radio private”.
Nel giro di pochi anni un solo gruppo industriale (la Fininvest di Berlusconi,
ça va sans dire) divenne padrone incontrastato di un vero e proprio oligopolio
radiotelevisivo. La legge Mammì del 1990 sancì questa situazione,
imponendo regole pensate su misura delle ormai grandi radio private, che si
lanciarono all’accaparramento delle frequenze. Oggi non è più
possibile dare vita ad un’emittente radiofonica via etere senza disporre
di grandi capitali, a meno di non occupare illegalmente una frequenza. Alcune
di quelle storiche esperienze hanno resistito e continuano a trasmettere, per
esempio Radio Popolare a Milano, Radio Onda d’Urto a Brescia , Radio Onda
Rossa a Roma ecc.
Fu la comunità hacker e dei mediattivisti a rendersi conto che l’esperienza
delle radio libere poteva proseguire attraverso internet. Per dar vita a una
Web Radio bastano un PC e una cuffia con microfono, una normale connessione
internet e qualche conoscenza tecnica. Il vantaggio rispetto al passato è
la possibilità di essere ascoltati anche dall’altra parte del mondo,
anche se il numero di contatti è limitato alla banda disponibile e l’uso
del PC non è diffuso come quello della radio tradizionale. In Italia
la prima è Radio Cybernet da Catania, nel 1997, seguita da lì
a poco da molte altre esperienze spontanee e dalle prime radio commerciali.
Ma è dopo le contestazioni di Seattle e poi di Genova (radio GAP) che
il fenomeno si allarga; che si trattasse di collettivi libertari, come nel caso
di Radio Bandita, di agitatori culturali (S8 Radio, Radio Owatta) o ancora di
esperienze estemporanee, personali e naif erano le radio libere del nuovo millennio.
Ho un sogno
di Lalli
Questi ultimi anni mi sembrano un unico giorno ombra.
28 agosto 1963
Pezzi di carta che volano,
scatolette vuote,
un foglio,
con annotato qualche verso di una canzone,
sollevato, insieme alla polvere,
dal vento tiepido dell’imbrunire,
una cannuccia, un pane,
un fazzoletto ricamato,
nient’altro,
di quel mare di persone,
che si è fermato lì,
per ascoltare l’uomo che li aveva chiamati
per raccontare un sogno,
“… Sedersi alla stessa tavola,
e mangiare, tutti insieme …”,
proprio come su quel mare d’erba, quel giorno
Dove sono andati tutti i fiori,
gli occhiali, i cappelli,
le camicie sudate,
le gonne stazzonate,
le scarpe scolorite,
le suole consumate,
le divise stracciate,
le voci, le canzoni.
Io, bambina,
corro a comprare il libro,
i calzini corti,
il caldo che mi scoppia sulla faccia.
Avevo undici anni e mi sedevo lì in cima, in un punto preciso sulla “riva”,
a guardare le luci di Asti che la brezza del tempo di vendemmia e l’avvicinarsi
della notte facevano brillare, brillare, e poi più niente, e poi di nuovo.
Luci in pena, come me, che mi sembravano un filo di perle al collo dell’orizzonte.
A Torino, tempo diverso, tempo di pressanza industriale.
Un pomeriggio si catapulta nella I A un ragazzo, capelli biondastri e mani da
pianista, bello come il sole. Dice di uscire, ché la scuola è
occupata, è stato deciso dall’assemblea del mattino, collettivi
permanenti.
Finalmente! La città si colora e comincia a scorrere col fiume. Viali
e corsi immensi da conoscere, nel freddo e nel sole, dove camminare con tutti
i fratelli e le sorelle del mondo. Ecco, una mancanza in meno, una città
più rotonda, come una collina, e verderossiccia, come i colori che a
casa mi piacciono di più, quelli dell’autunno.
Una marea lenta e forte, un silenzio a salire verso i giorni, una marea sorridente
e potente che ti prende il cuore e la commozione degli occhi, con i passi lì
in mezzo alla strada e la testa e il corpo già tutti nel futuro vicino.
“Ci troviamo ora di fronte al fatto che domani è già oggi...”
Ho impiegato anni ad imparare a camminare di nuovo sui marciapiedi.
Poi, la musica. Cantare, di me e di un paese divenuto invisibile, muto e sperduto.
Ecco, un’altra mancanza in meno, suoni, parole e poetiche a soffiare fra
i denti, a danzare nelle piazze, strade, bar, teatri, centri sociali, circoli
arci, bocciofile, università, per la Palestina e la ex Jugoslavia, contro
il razzismo, le torture, la pena di morte, per acquistare carrozzelle, adottare
un bambino a distanza, e via e via. Ma è il posto del cantare, quel solo
posto dentro, dove mi sento davvero libera e a casa, il paese al quale tornare
senza solchi da attraversare.
Questi ultimi anni mi sembrano un unico giorno ombra e, ciò nonostante,
un lungo giorno aquila, che ci accompagna ancora a cercare casa, lavoro, amore.
I presidenti, i politici, pensano che la terra, gli animali e le persone siano
di loro proprietà, ma le nostre anime sono vigili e aperte, anche se
ferite.
Poi, un altro tempo ancora, e la memoria di un giorno aquila potrebbe avere
ragione delle violenze, le prepotenze, le ingiustizie, le prigioni, le guerre.
E, come d’incanto,
eccoli di nuovo lì, tutti i fiori,
gli occhiali, i cappellini,
le camicie sudate,
le gonne stazzonate,
le scarpe scolorite,
le suole consumate,
le divise stracciate,
le voci, le canzoni.
dida p83: Martin Luther King
Il guanto di ferro del potere
di Lorenzo Guadagnucci
Oggi sappiamo tutto di quelle violenze di polizia
Tutto era cominciato qualche mese prima, nel gennaio 2001 a Porto Alegre, col
primo Forum sociale mondiale. O forse due anni prima, nel novembre 1999, con
la contestazione a Seattle dell’Organizzazione mondiale del commercio.
L’origine più autentica potrebbe risalire però al primo
gennaio 1994, giorno dell’insurrezione zapatista in Chiapas. Qualcuno
va ancora più indietro, al 1992, con le contro manifestazioni per il
cinquecentenario della “conquista che non scoprì l’America”
(secondo la definizione di Eduardo Galeano).
Comunque sia, nel luglio 2001 a Genova si diedero appuntamento movimenti sociali
e singole persone venute da tutto il mondo e mosse da una visione radicalmente
alternativa a quella dominante da decenni. Chiedevano la cancellazione del debito
imposto ai paesi del Sud, denunciavano un’economia imperniata sulla finanza
e l’insostenibile predazione delle risorse naturali, volevano proclamare
l’acqua come bene comune, indicavano il diritto delle persone a muoversi
da un paese all’altro. Negavano ogni legittimità, sia formale sia
morale, al vertice detto G8.
Ma su Genova calò il guanto di ferro del potere. Da decenni non si vedeva
in Europa un’azione di polizia così brutale e plateale. Si trattava
di criminalizzare un movimento in grande espansione. Era necessario mettere
fuori gioco le sue stesse idee, squalificandole come espressione di sterile
e teppistico estremismo. Quest’operazione è riuscita. Il movimento
è stato denigrato e criminalizzato proprio nella delicata fase del radicamento
popolare.
Oggi sappiamo tutto di quelle violenze di polizia. È stato negato un
processo per l’omicidio di Carlo Giuliani, ma nel tribunale di Genova
è accaduto un fatto storico: la condanna di oltre 70 agenti per le violenze
nella scuola Diaz e nella caserma-carcere di Bolzaneto. Fra i condannati figurano
altissimi dirigenti di polizia, addirittura il capo dell’Anticrimine e
il coordinatore dei servizi segreti. Mai la magistratura era arrivata tanto
in alto.
Ma niente è cambiato. Il potere politico del momento – maggioranza
e opposizione parlamentare unite – ha confermato piena fiducia ai dirigenti
condannati, rinnegando gli stessi canoni etici delle democrazie liberali. Alla
fine, sul piatto della bilancia restano le incredibili “condanne esemplari”
a un pugno di manifestanti accusati nientemeno che di “devastazione e
saccheggio”, un reato che prevede otto anni di pena minima. È il
“prezzo” pagato, dicono cinicamente in tribunale, per fare i processi
ai poliziotti. È il punto più basso toccato dalla democrazia italiana
in questi anni.
dida p84: Genova, luglio 2001.
Una strage
lunga quarant’anni
di Luciano Lanza
Le figure di Pinelli e Valpreda:
se non “A”, chi deve ricordarle?
febbraio 1971
Milano un anno dopo
(servizio fotografico sugli scontri a Milano fra polizia e manifestanti il 12
dicembre 1970)
La zia Rachele
Intervista con la principale testimone dell’alibi di Valpreda
marzo
Sei anarchico dunque terrorista
Il 22 marzo inizierà il processo contro i compagni Braschi, Della Savia,
Faccioli, Pulsinelli
La Croce Nera Anarchica
Lo stato contro Valpreda
Intervista con l’avvocato Calvi
aprile
Valpreda è innocente
L’istruttoria contro Valpreda non è solo sostanzialmente assurda,
politicamente pazzesca e giuridicamente inconsistente, ma anche formalmente
contraddittoria e illogica
maggio
Gli imputati accusano
Mentre il giornale va in macchina, il processo agli anarchici sta diventando,
com’è giusto, il processo degli anarchici e il castello d’accuse
costruito dal giudice Amati sta crollando: i poliziotti «non ricordano»,
il metronotte non riconosce Pulsinelli, la «superteste» della polizia
viene smascherata come calunniatrice e mitomane recidiva…
giugno
Dopo due anni di carcere preventivo
Fuori tutti i compagni
Alle Assise di Milano una sentenza ambigua che sottintende l’innocenza
degli imputati, ne condanna tre, ne assolve tre e li scarcera tutti
Preparati dai fascisti di Treviso gli attentati del 1969?
Arrestati i neo-nazisti Ventura, Freda e Trinco «per attività sovversiva,
in realtà perché implicati negli attentati fascisti del 1969 attribuiti
ai soliti anarchici
luglio-agosto
«Non l’abbiamo ucciso noi»
La ricusazione del giudice Biotti e la denuncia per omicidio sporta dalla vedova
Pinelli hanno riportato sulle prime pagine dei quotidiani il caso del ferroviere
anarchico
Aiutare Valpreda
settembre-ottobre
Valpreda è innocente liberiamo Valpreda
Azzeccagarbugli
L’archiviazione «democratica» del caso Pinelli (gestione Bianchi
d’Espinosa) viene stupidamente intralciata dalle iniziative inconsulte
dell’avvocato Lener (detto dai colleghi «’o picciotto»
cioè il mafioso), difensore del commissario Calabresi
novembre
La strage continua
«Suicidato» anche l’avvocato Ambrosini
Avviso di reato per gli assassini di Pinelli
La sinistra parlamentare, dopo aver contrattato per due anni con i padroni la sua acquiescenza, si appresta ora ad utilizzare anche il processo Valpreda per i suoi giochi di potere
dicembre 1971-gennaio 1972
Processiamo lo stato
Nell’ambito della campagna preparatoria del processo per la strage di
stato, gli anarchici milanesi hanno realizzato due importanti manifestazioni:
un’assemblea al teatro Lirico il quattro dicembre e una presenza articolata
in piazza e nei quartieri il dodici dicembre. Una testimonianza di lotta davanti
alla questura il 15 dicembre
Valpreda è innocente liberiamo Valpreda
parla l’ultimo latitante
Intervista con Enrico Di Cola: «I carabinieri mi minacciarono di morte:
volevano che accusassi Valpreda»
Questi sono i titoli del primo anno di A rivista anarchica sulle bombe che
hanno segnato il 1969: 25 aprile, 9 agosto, 12 dicembre. Bombe che hanno cambiato
il corso della storia italiana e, nel piccolo, la vita dei giovani (allora)
che hanno dato vita a quella rivista. In ogni numero di A c’è almeno
un articolo. E A si occupa della strage di stato e dei due attentati precedenti
con un taglio fino allora inusuale nel movimento anarchico. Il primo numero
parte con un’intervista alla zia di Pietro Valpreda, testimone importante
per l’alibi di Valpreda e che i giudici cercheranno in ogni modo di intimorire,
confondere… senza riuscirci. Segue, qualche numero dopo, l’intervista
all’avvocato difensore di Valpreda, Guido Calvi. Le interviste non sono,
ovviamente, una novità giornalistica, ma lo sono per la pubblicistica
anarchica di quegli anni.
E se i primi tre anni di A sono «necessariamente» segnati da una
presenza continua per la liberazione di Pietro Valpreda e gli altri compagni
del circolo 22 marzo di Roma anche dopo la liberazione, il 30 dicembre 1972,
di Valpreda, Roberto Gargamelli ed Emilio Borghese l’attenzione non diminuisce.
La rivista insiste sull’assassinio di Giuseppe Pinelli, contesta le varie
versioni ufficiali, mette in evidenza le contraddizioni della sentenza del giudice
Gerardo D’Ambrosio che sforna la famosa e ridicolmente macabra tesi «del
malore attivo» di Giuseppe Pinelli. Insomma, nel 1975 un giudice considerato
di sinistra (e si devono sempre ricordare i maneggi e i ricatti del Pci sulla
vicenda piazza Fontana) salva, da un punto di vista unicamente giudiziario,
capra e cavoli: Pinelli non si è suicidato e i poliziotti, Luigi Calabresi
in testa, non sono colpevoli.
E scorrendo tutte le annate di A si capisce quanta attenzione viene dedicata
alla «strage di stato» soprattutto quando il trascorrere del tempo
appanna le figure di Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Un’attenzione
necessaria perché quegli attentati voluti da politici, servizi segreti,
apparati importanti dello stato hanno messo a nudo «la criminalità
del potere». E questo se non lo mette in chiaro una rivista anarchica
chi lo deve fare?
Piccoli archivi crescono
di Luigi Balsamini
È cresciuta nel movimento anarchico la sensibilità per la conservazione della propria memoria.
A partire dagli anni settanta è cresciuta nel movimento anarchico la
sensibilità verso la conservazione della propria memoria. Ciò
non tanto per spirito di antiquariato o di collezionismo, ma per la consapevolezza
che la memoria, nell’aiutare a ripercorrere la storia delle lotte antiautoritarie
e dei tentativi di liberazione dallo sfruttamento, aiuti anche a riconoscere
e costruire la propria identità politica.
Da allora si è assistito alla nascita di istituti che si dedicano alla
tutela e valorizzazione delle carte del movimento. Questi centri si sono presto
trovati ad affrontare le difficoltà connesse alle alterne vicende dei
gruppi promotori: alcuni sono scomparsi nel riflusso degli anni ottanta, altri
sono sopravvissuti fino a tempi recenti, altri ancora sono oggi attivi e in
crescita. Una distinzione, invero non nettissima, si può tracciare tra
istituti protagonisti attivi delle stesse vicende di cui raccolgono testimonianza,
che si presentano principalmente come laboratori di attività politica
a dimensione militante, e altri che hanno invece maturato negli anni una vocazione
scientifica e, lungi dal privilegiare una fruizione interna al gruppo, vanno
offrendo un servizio pubblico, liberamente fruibile a tutti, aperto al confronto
e gestito con criteri professionalmente validi.
L’attuale panorama italiano presenta caratteristiche di notevole vivacità,
grazie ad archivi, biblioteche e centri di documentazione diffusi su gran parte
del territorio, anche se purtroppo non ancora interconnessi da solide strategie
cooperative (per una descrizione dei principali istituti si veda il dossier
su «A», n. 351). Tutti si muovono in una duplice direzione, combinando
due aspetti strettamente connessi: sviluppare una coscienza critica del proprio
passato e agire da stimolo per il presente. La salvaguardia della memoria storica
è infatti solo il primo momento dell’elaborazione culturale, poiché
se è vero che la raccolta delle testimonianze aiuta a trascendere la
fragilità della memoria umana, i documenti rimarrebbero muti se non fossero
rielaborati, attualizzati e inseriti in un orizzonte di senso contemporaneo.
Con l’accortezza che questo lavoro non si traduca nell’astrarre
l’oggetto dal contesto, cioè nell’isolare l’anarchismo,
e le sue tracce documentarie, dalla complessità storica e sociale in
cui è immerso.
Recentemente, ma in alcuni casi ormai da diversi anni, questi centri hanno impostato
l’offerta di un vero e proprio servizio bibliotecario e archivistico,
rendendo disponibile alla loro utenza un complesso integrato di risorse e competenze.
Hanno allargato gli orari di apertura al pubblico, stipulato convenzioni con
gli enti locali, avviato l’inventariazione dei fondi e la catalogazione
del posseduto bibliografico secondo standard internazionali, condividendo i
dati all’interno del Servizio bibliotecario nazionale o in altri cataloghi
collettivi. La presenza continuativa di queste strutture, il radicamento nel
tessuto sociale e l’interesse suscitato dalle loro proposte culturali,
testimoniano con ogni probabilità l’esistenza di un diffuso livello
di attenzione per le riflessioni di segno libertario, proveniente da un ambito
ben più vasto dell’angusta cerchia di “militanti”.
Erano anni di vinile
e di nastro magnetico
di Marco Pandin
A raccontarle oggi sembrano storie d’altri tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le autoriduzioni ai concerti, …
È stato grazie ad Elis che ho letto la A/Rivista. Stava in bella mostra
nella vetrina di Utopia 2, piccola libreria anarchica veneziana dove non serviva
la scusa degli acquazzoni improvvisi per trovare rifugio sulla strada tra piazzale
Roma e l’università.
Era il novembre 1976, diciannove anni compiuti da un mese, già annidato
in testa un sentimento di insofferenza inspiegabile a parole per le cose cosiddette
normali, quelle ritenute più adatte ai ragazzi della mia età,
fossero la musica o le letture o la rassegnazione per la caserma. Suonavo in
un gruppo che faceva della roba proprio strana e indefinibile, e bazzicavo da
tempo in una radio libera. A me piacevano Area e Stormy Six, gli Henry Cow e
John Fahey, che a buona parte dei miei amici facevano schifo. Ero andato proprio
fuori di testa per i poeti beat e l’Antologia di Spoon River, quando le
letture più diffuse erano Tex e Zagor e Lotta Continua e il Quotidiano
dei Lavoratori. Alla visita di leva, unico tra tutti i miei amici e compagni
di scuola, avevo presentato una dichiarazione di obiezione di coscienza che
mi avrebbe causato parecchi fastidi.
Avevo diciannove anni, dicevo. Mestre e Venezia e Marghera mi stavano strette
addosso, e avrei voluto per me una vita perennemente in viaggio, non importa
dove: il Salento, Londra, Capo Nord, la California, o le porte del cosmo che
stanno su in Germania. E invece ho mollato l’università dopo un
anno e cinque soli esami perché non avevo un soldo e non avevo il coraggio
di chiederne ai miei, così sono andato a lavorare. Ho fatto un po’
di tutto, dal manovale in fabbrica al fattorino in giro senza orario, al cassiere
in un supermercato. Un giorno mi offrono di partecipare a un corso: quattro
mesi tra Milano e Roma, se passi le selezioni ti prendono in prova e poi se
gli vai bene ti danno il posto fisso. A raccontarle oggi sembrano storie d’altri
tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le
autoriduzioni ai concerti, le manifestazioni con le bandiere dove tutt’attorno
a te c’erano altri ragazzi, a migliaia. Insieme a urlare, a ridere, a
fare casino. Erano anni lenti, senza telefonini, senza internet, senza soldi.
La televisione non la guardavamo praticamente mai: la vita era in strada, in
piazza. Erano anni di vinile e nastro magnetico. Anni di ciclostile e scritte
veloci sui muri con lo spray, di teatro precario e concerti raccogliticci.
C’è stato poi il punk, e col punk l’accorgersi che certe
idee sballate in testa ti potevano venire anche se abitavi tra i palazzoni grigi
e l’erba malata alla periferia dell’impero, anche se eri costretto
a nascondere per buona parte della giornata la tua creatività dietro
una tuta da lavoro. Ho smesso di suonare e ho messo in piedi una fanzine, poi
una piccola etichetta discografica indipendente.
La mia benzina è stata la curiosità, la mia difficoltà
il mantenermi in equilibrio tra una voglia inesauribile di far parte di qualcosa
e il bisogno continuo di rivendicare la mia indipendenza e la mia libertà.
Avrei voluto fare così tante cose. Mi sono innamorato, ho messo su famiglia.
Ho viaggiato poco, a meno che non ci si metta a contare i chilometri fatti ogni
giorno da pendolare. Ho ascoltato tanta musica, purtroppo molto meno di quanto
avrei desiderato, e dal 1984 ho l’opportunità di condividerla e
discuterne con i lettori di A.
Avrei voluto riempire questa pagina di nomi, raccontare di tutte le strette
di mano e di tutti gli abbracci di questi anni, degli incontri che ci sono stati
con il pretesto di questo giornale. Ma è un po’ come avere disegnata
sul palmo della mano una linea del destino che all’improvviso cambia strada.
Succede sempre, anche adesso. Avrei voluto parlarvi dei Franti e dei Crass,
degli anarchici cinesi e dei compagni friulani, del Backdoor di Torino e del
CSC di Schio, delle serate in cattiva compagnia di Fabio Santin, Roberto Bartoli
e Alessio Lega. Avrei voluto raccontarvi una bella storia. E invece riesco a
malapena a trattenere una montagna di assenze che mi sta franando addosso.
Ieri sera mi ha telefonato un vecchio compagno inglese, andrò a trovarlo
presto con mia figlia. Sto pensando di ricominciare a suonare.
Prima che sia troppo tardi
di Maria Matteo
C’è chi muore in viaggio, chi in un cantiere senza protezioni
Le migrazioni da sud a nord del pianeta sono uno snodo di civiltà ed
una sfida aperta alle ragioni di chi si colloca nel centro stanco della modernità,
nel crocevia di idee e pratiche dove l’autonomia della politica dalla
religione ha tentato di realizzare gli universali “umani” di libertà,
solidarietà, uguaglianza.
L’universalismo della ragione si è sgretolato di fronte alle mille
ragioni di chi non poteva/voleva stringersi nell’universale, formalmente
neutro, ma sostanzialmente maschile, occidentale, bianco, eterosessuale, benestante.
Il cittadino sovrano, titolare di diritti, tutele, libertà.
Le mille sfide aperte da chi eccedeva la norma, spaccava il margine, hanno smontato
pezzo a pezzo l’artifizio formale che costituiva la base dell’approccio
liberale, mettendone a nudo la radice di classe, il nucleo patriarcale, gerarchico.
I conflitti che ne sono derivati hanno attraversato gli ultimi duecento anni.
Le lotte delle donne, dei lavoratori, degli omosessuali hanno messo in crisi
l’impianto, sebbene questo si sia rivelato abbastanza duttile da reggere,
modificandosi e ricomponendo le fratture al proprio “interno”. Nulla
di duraturo, perché la tutela della proprietà privata, considerata
un diritto “umano”, è incompatibile con qualunque ipotesi
di eguaglianza sostanziale. Nondimeno la democrazia reale ha saputo mantenere
un equilibrio di guerra, nella lotta tra capitale e lavoro. Il punto di equilibrio
è stato sancito sul piano legislativo da compromessi che erano lo specchio
della forza – come della debolezza – dell’opposizione sociale.
Parimenti l’allargarsi della “cittadinanza”, se da un lato
ha concesso diritti, ha tuttavia in parte riassorbito la carica sovversiva del
movimento delle donne e degli omosessuali.
L’immigrazione dal sud al nord del pianeta ha aperto un fronte di guerra
che scompagina le carte, spezzando il fronte della lotta di classe, mettendo
in crisi la stessa tutela delle libertà formali.
L’immigrazione di lavoratori stranieri provenienti da paesi poveri, dove
la sopravvivenza è una sorta di roulette russa, è la leva potente
con la quale, in Europa – ma non solo – si è sferrato un
attacco senza precedenti ai “diritti” acquisiti dai lavoratori in
decenni di lotte durissime.
In questi anni l’orizzonte della guerra tra poveri, tra chi ha –
ancora – diritti e chi non li ha mai avuti – ha oscurato quello
della guerra di classe.
L’universalismo dei diritti, negato agli immigrati, torna in auge quando,
dal fondo del barile, si rinverdisce la pianta rinsecchita dello scontro di
civiltà, della guerra santa, del feroce saladino e delle sue masnade.
Capita così che il consenso alla disuguaglianza venga proprio da quelli
che l’uguaglianza vera non sanno bene cosa sia.
Grumi identitari mai risolti si addensano di fronte agli altri, agli ultimi
arrivati. I nemici. Un paese che non ha mai fatto i conti con il proprio tremendo
retaggio coloniale, irretito dal mito degli italiani brava gente, ri-trova senza
imbarazzi la paccottiglia culturale che sostiene ed alimenta l’odio.
Ma non solo.
La libertà femminile è la leva sulla quale spingere per soffiare
sul fuoco dello scontro tra civiltà democratica e oscurantismo islamico.
I delitti d’onore contro donne e ragazze indisponibili alle regole patriarcali
offrono l’occasione per incrudire le campagne xenofobe. I giornali sbattono
in prima pagina la notizia delle donne massacrate da parenti che le vogliono
sottomettere a forza. Ma nessuna tutela è data alle donne vittime di
violenze ed abusi. Pochi sanno la storia di Faith. Il governo italiano le ha
negato l’asilo politico. Faith, una ragazza scappata in Italia dopo aver
ucciso l’uomo che cercava di stuprarla, è stata deportata in Nigeria,
dove rischia l’impiccagione.
La libertà femminile è una bandiera da sventolare a seconda delle
circostanze. Come l’universalità dei diritti. La maschera grottesca
della democrazia reale. Tale non perché tradisca alcunché ma perché
si tradisce, mettendosi a nudo, dando forma al cuore nero che la costituisce.
Fatto di muri. Sempre più spessi, sempre più alti. Su questi muri
si infrangono le vite di chi fugge la guerra, le persecuzioni, la miseria. C’è
chi muore in viaggio, chi in un cantiere senza protezioni, chi si impicca per
evitare la deportazione. Una lunga strage di stato. C’è chi vive
lavorando come nessuno qui era più costretto a lavorare. Sono i nuovi
schiavi.
Quello che troppi scordano è che i muri e le catene che serrano
gli immigrati potrebbero un giorno stringersi intorno a ciascuno di noi. Ma
allora sarà troppo tardi.
Des anarchismes et des
anarchistes au XXIe siècle
de Marianne Enckell
Le monde « se couvre d’associations volontaires pour l’étude,
pour l’instruction, pour l’industrie et le commerce, pour la science,
l’art et la littérature, pour l’exploitation et pour la résistance
à l’exploitation, pour l’amusement et pour le travail sérieux,
pour la jouissance et pour l’abnégation, pour tout ce qui fait
la vie de l’être actif et pensant […], et toutes cherchent,
en maintenant l’indépendance de chaque groupe, cercle, branche
ou section, à se fédérer, à s’unir, par-dessus
les frontières aussi bien que dans chaque nation, à couvrir toute
la vie du civilisé d’un réseau dont les mailles s’entrecroisent
et s’enchevêtrent. Leur nombre se chiffre déjà par
dizaines de mille […] Partout ces sociétés empiètent
déjà sur les fonctions de l’État et cherchent à
substituer l’action libre des volontaires à celle de l’État
centralisé. […]
Et lorsqu’on constate les progrès qui s’accomplissent dans
cette direction, malgré et contre l’État, qui tient à
garder la suprématie qu’il avait conquise pendant ces trois derniers
siècles; lorsqu’on voit comment la société volontaire
envahit tout et n’est arrêtée dans ses développements
que par la force de l’État, on est forcé de reconnaître
une puissante tendance, une force latente de la société moderne.
Et on a droit de se poser cette question : Si d’ici cinq, dix ou vingt
ans — peu importe — les travailleurs révoltés réussissaient
à briser ladite société d’assurance mutuelle entre
propriétaires, banquiers, prêtres, juges et soldats ; si le peuple
devient maître de ses destinées pour quelques mois et met la main
sur les richesses qu’il a créées et qui lui appartiennent
de droit — cherchera-t-il vraiment à reconstituer à nouveau
cette pieuvre, l’État ? ou bien, ne cherchera-t-il pas plutôt
à s’organiser du simple au composé, selon l’accord
mutuel et les besoins infiniment variés et toujours changeants de chaque
localité, pour s’assurer la possession de ces richesses, pour se
garantir mutuellement la vie et produire ce qui sera trouvé nécessaire
à la vie ? » (Pierre Kropotkine, L’Anarchie, sa philosophie,
son idéal, 1896).
Le XXe siècle, dont les historiens disent volontiers qu’il a débuté
en 1917, s’est terminé au cours de sa dernière décennie.
La chute du Mur de Berlin suivie de la débandade des régimes du
« socialisme réel » a vite été suivie d’autres
phénomènes, l’internet, la rébellion zapatiste et
les mouvements antiglobalisation. Alors le monde « s’est couvert
d’associations volontaires » et les groupes anarchistes ont essaimé
partout. Les bénédictins des pages jaunes anarchistes (http://ayp.subvert.info/)
en ont trouvé dans quelque 80 pays ; Kropotkine, un siècle auparavant,
ne parlait que de l’Europe.
Cette présence quasi universelle se caractérise par une grande
ressemblance dans les comportements : les jeunes anarchistes sont encapuchonné-e-s,
ouvrent des centres sociaux autogérés, font de la musique (souvent
punk) et lancent des cailloux, ne mangent pas de viande, vivent en communautés
à la ville ou à la campagne, défendent les sans-papiers.
Regardez les photos des Philippines ou de Grèce, les programmes des concerts
en Equateur ou en Estonie, les sites internet de Suède ou de Slovénie…
Certains courants s’en démarquent toutefois. Il s’agit aujourd’hui
du courant dit « plateformiste », représenté dans
le portail international anarkismo.net (et fort actif sur a-infos.ca), qui publie
des textes sérieux en une quinzaine de langues.
Il s’agit par ailleurs des intellectuel-le-s tenants du « post-anarchisme
», surtout anglo-saxons, dont plusieurs textes ont été traduits
en italien chez Elèuthera, notamment.
Il y a toujours, bravant la répression, les anarcho-syndicalistes –
certain-e-s votent, d’autres ne votent pas – et les syndicalistes
révolutionnaires des IWW, et quelques fédérations d’importance
très variable selon les pays ; elles n’ont de tradition qu’en
France, en Italie, en Espagne et en Argentine, avec des différences de
structures et de fonctions qui ne semblent pas insurmontables.
Et toutes les opérations combinatoires sont possibles ; les rencontres
se font dans les manifs, parfois dans les campings, mais surtout dans les salons
du livre, les colloques et commémorations, les revues toujours nombreuses
(et fréquemment, nous le constatons au CIRA, durables et de bonne teneur).
Ce tableau à grands coups de pinceau est peu nuancé. L’important
à mon sens est la présence diffuse ou affirmée d’anarchistes
jeunes et vieux sur le terrain social et politique délaissé par
les forces traditionnelles de la gauche qui n’en finissent pas de ramasser
les miettes de leur passé sans réussir à en faire même
un petit pain.
L’importante, secondo me, è la presenza
diffusa o affermata di anarchici giovani
e vecchi sul terreno sociale e politico
Anarchismi e anarchici nel XXI secolo
I l mondo “si copre di associazioni volontarie per lo studio, per l’istruzione,
per l’industria e il commercio, per la scienza, l’arte e la letteratura,
per lo sfruttamento e la resistenza allo sfruttamento, per divertimento e per
lavoro serio, per la gioia e per l’abnegazione, per tutto ciò che
fa la vita dell’essere attivo e pensante [...], e tutte cercano, mantenendo
l’indipendenza di ciascun gruppo, circolo o sezione, di federarsi, di
unirsi, al di là delle frontiere cosi come in ciascun nazione, di coprire
tutta la vita del uomo civile con una rete, le cui maglie si incrociano e si
uniscono sempre più. Il loro numero si valuta già a decine di
migliaia […]. Dappertutto queste società usurpano le funzioni dello
Stato e cercano a sostituire l’azione libera dei volontari a quella dello
Stato centralizzato. […] E quando si constata il progresso che si compie
in tale direzione, malgrado e contro lo Stato, che ha interesse a conservare
la supremazia che ha conquistata in questi ultimi tre secoli; quando si vede
come la società volontaria invada tutto e non sia fermata nel suo sviluppo
che dalla forza dello Stato, si è obbligati a riconoscere una potente
tendenza, una forza latente della società moderna. E si ha il diritto
di porci la questione: Se fra cinque, dieci o venti anni – poco importa
– i lavoratori ribellati riuscissero a rompere la società di mutuo
soccorso fra proprietari, banchieri, preti, giudici e soldati; se il popolo
diventasse padrone della sua sorte per qualche mese e mettesse la mano sulle
ricchezze che ha creato e che gli appartengono di diritto, cercherà veramente
a ricostituire di nuovo questa piovra, lo Stato? Oppure, non cercherà
egli piuttosto di organizzarsi dal semplice al composto, secondo l’accordo
mutuo ed i bisogni infinitamente diversi e sempre varianti di ogni località,
per assicurarsi il possesso delle ricchezze, per garantirsi a vicenda la vita
e per produrre ciò che si troverà necessario alla vita?”.
(Pëtr Kropotkin, «L’anarchia la sua filosofia, il suo ideale»,
Bertoni, Ginevra 1901.)
Il xx secolo, a proposito del quale gli storici sostengono spesso sia iniziato
nel 1917, è terminato nel corso dell’ultimo decennio del secolo
stesso. La caduta del Muro di Berlino, seguita dal crollo dei regimi del “socialismo
reale”, è stata ben presto seguita da altri fenomeni, quali Internet,
la rivolta zapatista e i movimenti contro la globalizzazione. Allora il mondo
“si è coperto di associazioni volontarie”, e i gruppi anarchici
hanno cominciato a sciamare ovunque.
Grazie al lavoro certosino di quelli che fanno le pagine gialle anarchiche (http://ayp.subvert.info),
ne sono stati trovati in una ottantina di paesi; Kropotkin, un secolo prima,
parlava soltanto dell’Europa. Tale presenza quasi universale si caratterizza
per una grande rassomiglianza di comportamenti: i/le giovani anarchici/che indossano
cappucci, fondano centri sociali autogestiti, fanno musica (spesso punk) e lanciano
pietre, non mangiano carne, vivono in comunità, in città o in
campagna, difendono gli immigrati clandestini. Guardate le foto delle Filippine
o della Grecia, i programmi dei concerti in Ecuador o in Estonia, i siti Internet
di Svezia o di Slovenia…
Tuttavia alcune correnti si distinguono da queste. Oggi, per esempio, troviamo
la corrente detta “piattaformista”, rappresentata nel portale internazionale
anarkismo.net (e molto attiva su a-infos.ca), che pubblica testi seri in una
quindicina di lingue. Si tratta d’altra parte di intellettuali che difendono
il “postanarchismo”, sono soprattutto anglosassoni, e alcuni loro
testi sono stati tradotti in italiano, principalmente da Elèuthera.
Ci sono sempre, sfidando la repressione, gli anarcosindacalisti – alcuni
votano, altri non votano – e i sindacalisti rivoluzionari degli IWW, anzichè
alcune federazioni di importanza assai variabile a seconda dei paesi; queste
hanno una tradizione soltanto in Francia, in Italia, in Spagna e in Argentina,
con differenze riguardanti le strutture e le funzioni, che non sembrano insormontabili.
Tutte le operazioni combinatorie sono possibili; gli incontri avvengono nel
corso di manifestazioni, a volte all’interno di camping, ma soprattutto
ai saloni del libro, durante colloqui e commemorazioni, e su riviste sempre
numerose (e spesso, come constatiamo al CIRA, durature e di buona qualità).
Questo quadro generale è poco sfumato. L’importante, secondo me,
è la presenza diffusa o affermata di anarchici giovani e vecchi sul terreno
sociale e politico, abbandonato dalle forze tradizionali della sinistra, che
non finiscono mai di raccogliere le briciole del loro passato senza riuscire
a farne neppure un panino.
(traduzione dal francese di Luisa Cortese)
dida p93: Pietro Kropotkin
Sull’orlo
di una crisi di nervi
di Mariella Bernardini
Creiamo conflitto sempre, senza sottovalutare il linguaggio sessista e l’ingerenza della chiesa
Oggi appare sempre più chiaro che all’interno del conflitto tra
i sessi, mai soffocato, si tenta di ripristinare una virilità tradizionale
e un ritorno ai ruoli sessuali dati che erano stati messi in discussione da
40 anni di femminismo. Mai come oggi i rapporti tra i sessi rappresentano il
cuore della politica. Tentare di prendere la parola come era già stato
fatto in passato su sessualità – potere e politica penso che sia
un passo fondamentale da cui partire. È da qualche tempo che donne sempre
più “belle”, vistose, fintamente o alcune realmente stupide,
e donne sempre più maltrattate e oggetto di fatti di violenza fanno parte
della nostra quotidianità. La rappresentazione che maggiormente appare
– e purtroppo sono le stesse donne che spesso vi si prestano – è
quella di corpi che possono essere modificati, offerti e scambiabili come qualsiasi
altro oggetto di consumo. Le aspirazioni di libertà delle donne in questi
ultimi anni sono state mercificate; ci viene venduto un immaginario plastificato
senza distinzione tra ciò che è reale e vissuto da ognuna quotidianamente
e ciò che è finzione mass mediatica.
Le forti contraddizioni, sempre presenti, fra i due sessi troppo spesso si esplicitano
in violenza, a volte invisibile, come quella che si vive tutti i giorni, quella
psicologica, domestica, cioè quella che coinvolge il corpo e la mente.
Non proviamo stupore ma rabbia quando non passa giorno che ad una donna non
venga usata violenza: questa è un antica pratica maschile e non dipende
dal passaporto di chi la agisce, ed è stata sempre usata come arma di
guerra di un esercito contro un altro esercito (basta ricordare le centinaia
di migliaia di donne stuprate qui vicino a noi nella ex Jugoslavia, senza parlare
di ciò che succede oggi nel resto del mondo); lunghi anni di silenzio
hanno spesso nascosto sotto la cenere questi crimini che solo dopo la rivoluzione
femminista degli anni ‘70 sono stati sottoposti a critica sociale in modo
forte e rilevante.
Oggi che la crisi economica e sociale è sempre più devastante
per ampie fasce di popolazione vengono alla luce e si rafforzano sempre più
visioni autoritarie e maschiliste, la paura verso il diverso, i sentimenti sessuofobici
ed il sessismo si intrecciano e si confondono sempre più con il razzismo
ed avanza la diffidenza, l’isolamento, la competizione, l’esclusione
sociale e una distruttività nelle relazioni umane.
È lo straniero il nemico: rimuovendo il senso di colpa ai maschi nostrani
che tentano di rimettere le “loro donne”sotto tutela, volendo riportare
la differenza femminile, nata sotto il segno della libertà, alla sottomissione.
Lo stupro, che considero reato politico contro le donne, contro il corpo ‘diverso’
della donna, contro l’elemento non cancellabile della sua differenza,
viene utilizzato politicamente da diverse forze partitiche che appoggiano e
istituiscono ronde di giustizieri e bande militari per togliere sempre più
libertà a tutte e tutti. Forse per troppo tempo abbiamo lasciato che
parlassero in nostro nome su troppe cose, ma non possiamo più permettercelo
e se è vero che non siamo mai state zitte, ora dobbiamo alzare con più
forza la nostra voce perché l’affermazione della nostra libertà
è il presupposto per l’affermazione della libertà dell’intera
umanità.
Creiamo conflitto sempre, senza sottovalutare il linguaggio sessista che riaffiora
e la sempre presente ingerenza della chiesa nelle nostre vite (vedi il caso
di Eluana Englaro).
La frantumazione del movimento delle donne di questi ultimi decenni, i suoi
innumerevoli rivoli, le diverse di/visioni e le derive, hanno lasciato dei grandi
vuoti di obiettivi comuni e di azioni; si sente quindi più che mai la
necessità di pensiero, di ripresa di un movimento “nuovo”,
di relazioni, di valorizzazione di conoscenze e di saperi per un’efficace
lettura dei cambiamenti avvenuti e che avverranno nel mondo. Ripartire dalle
nuove generazioni, dalle scuole, per ricreare cultura egualitaria e libertaria,
senza differenze di ruoli e non sessista, e dai posti di lavoro per non farci
emarginare con la crescente disoccupazione perché siamo noi le principali
vittime (dato che nel nostro paese lavora meno di una donna su due e questo
è uno dei dati più bassi d’Europa). Capovolgere il mondo,
approfondire la nostra capacità relazionale e trovare l’intreccio
tra noi, la cultura e la natura nella nostra continua pratica quotidiana di
resistenza, autonomia e libertà.
Forti emozioni
e incoercibili passioni
di Massimo Ortalli
Una nuova generazione di storici si è venuta formando negli anni, producendo una letteratura scientifica davvero notevole
Il progresso della ricerca storiografica ha fatto sì che negli ultimi
anni gli studi si siano concentrati non solo sulla mera indagine e ricostruzione
degli avvenimenti, dei grandi fatti storici e delle loro dinamiche, ma anche,
e non più secondariamente, sull’analisi di quel tessuto umano e
sociale che a tali avvenimenti ha dato concreta sostanza. In conseguenza di
tale mutamento di prospettiva tanto il singolo individuo quanto i gruppi sociali
hanno acquistato nuova importanza, aprendo le riflessioni degli studiosi a nuove
motivazioni, pulsioni e valori.
La storia dell’anarchismo, come e più di quella di altri movimenti
sociali, è stata anche, se non soprattutto, una storia di valori, di
ideali, di forti emozioni e di incoercibili passioni. Ma per anni la storiografia
ufficiale, non solo sul versante quasi egemone di matrice marxista ma anche
sul versante di scuola liberale o di impostazione cattolica, ha coerentemente
ignorato, in una sorta di delirio materialistico, tutte le cause che non trovassero
una spiegazione economicistica, scrivendo così una storia, sostanzialmente,
a una dimensione. Inevitabile, in questa ottica, una interpretazione restrittiva
dell’importanza del movimento anarchico e del pensiero libertario nella
storia del paese.
Per capire basti un esempio, l’avventura della banda di Cafiero e Malatesta
sui monti del Matese: una disperata impresa di poveri illusi inconsapevoli delle
condizioni materiali del paese e isolati dal proletariato urbano, o l’espressione
di un sentimento di rivolta ed uguaglianza di una generazione di rivoluzionari
che portavano il verbo dell’emancipazione nelle lande più sperdute?
il manifestarsi di un velleitarismo ridicolo e autodistruttivo, o un grido di
libertà che, di lì a poco, sarebbe diventato patrimonio del proletariato
italiano? Una domanda non difficile ma a lungo inevasa e per la quale tanta
storiografa, se si fosse tolta il paraocchi, avrebbe trovato una lampante risposta
nello svolgimento del processo di Benevento, risoltosi, come si sa, nella apoteosi
popolare di quella accolita di “sognatori”.
Negli ultimi anni, comunque, a fronte dell’inevitabile crisi di certa
storiografia militante, lo studio del movimento anarchico ha ricevuto nuovi
stimoli, che hanno portato alla piena e feconda rivalutazione della sua importanza.
Se antesignano di questa rielaborazione è stato Pier Carlo Masini, che
già sulle pagine di «Movimento Operaio» contribuì
a riportare alla luce e a ridare il loro giusto rilievo alla Prima Internazionale
e alla fase “giovanile” dell’anarchismo italiano, dopo di
lui altri storici hanno contribuito a sfatare la vulgata materialista e le interpretazioni
strumentali e restrittive che questa promuoveva.
Una nuova generazione di storici si è venuta formando negli anni, producendo
una letteratura scientifica davvero notevole. Ne è testimonianza la relativamente
breve ma intensa e preziosa esperienza della «Rivista Storica dell’Anarchismo»
sfociata, come conclusione di un lungo processo di ricerca, in un’opera
che praticamente non ha pari nel mondo scientifico, quel «Dizionario Biografico
degli Anarchici Italiani» che ben testimonia, tra le tante altre cose,
sia il rinnovato interesse degli anarchici per la loro storia, sia la ricchezza
umana e materiale di un movimento così longevo e ubiquitario come quello
anarchico.
E anche «A Rivista», naturalmente, è fra i protagonisti di
questo rinnovamento. Sempre puntuale, infatti, nell’informare sulle nuove
acquisizioni della ricerca, consente ad un pubblico molto più vasto ed
eterogeneo di quello degli specialisti di seguire il procedere degli studi,
non solo con recensioni e schede bibliografiche, ma anche con l’interesse
per le vicende biografiche dei nostri militanti o con le cronache delle frequenti
ricorrenze della nostra storia. Una preziosa simbiosi fra la rivista e i suoi
lettori, quindi. Da una parte uno sforzo divulgativo quanto mai utile, dall’altra
una risposta costante a stimoli necessari per continuare a portare avanti l’impegno
nella società: con la consapevolezza di far parte di una visione che
trascende le singole individualità per trasformarsi in un procedere
unitario e collettivo. Insomma, ancora una volta, … veniamo da lontano
e andiamo lontano…
Nostra patria
è il mondo intero
di Massimo Varengo
Autogestione, municipalismo, federalismo, libertarismo, non sono più patrimonio esclusivo di un movimento residuale, ma temi di riflessione per un’azione politica possibile
È aperta da tempo la ricerca di risposte efficaci alla drammaticità
crescente della questione sociale contraddistinta sia da una imponente crisi
economica che da una serie di conflitti regionali, etnici, religiosi, in profonda
correlazione con l’affermarsi della politica di attacco al livello di
vita, di reddito, di salute, delle classi popolari e di ridefinizione del sistema
di dominio mondiale. A sinistra alcuni ricercano nelle ricette di un liberalismo
umanitario ormai datato qualche possibilità d’uscita, altri studiano
di rilanciare il ruolo dello stato nazionale a garanzia di un rinnovato patto
tra capitale e lavoro. Ma la centralizzazione dei processi decisionali, la circolazione
di masse imponenti di capitali, lo scardinamento delle economie nazionali, la
riduzione dei poteri dei singoli stati, la dimensione stessa della crisi finanziaria
in atto, non rende credibili queste opzioni. Non a caso è nei contenuti
dell’anarchismo maturo che oggi la parte più viva, più critica
della società va ricercando, consapevolmente o inconsapevolmente, materiali
per costruire il futuro possibile.
Autogestione, municipalismo, federalismo, libertarismo, non sono più
patrimonio esclusivo di un movimento residuale, ma temi di riflessione per un’azione
politica possibile. E in questo gli anarchici, pur minoritari, dimostrano di
essere, a livello internazionale, parte viva di una battaglia culturale, politica
e sociale che si misura con i problemi sul tappeto per elaborare soluzioni praticabili
in grado di aprire nuovi spazi di libertà e nuovi condizioni di eguaglianza.
Segnali importanti di ripresa di attività e di incisività si danno
praticamente in ogni parte del mondo, a partire dalle mobilitazioni antiliberiste
ed anticapitaliste in occasione dei vertici dei principali leader mondiali fino
ad arrivare alle manifestazioni attuali contro l’imperversare degli effetti
disastrosi della crisi sui ceti popolari.
Da Seattle ad Atene il filo rosso nero si snoda ininterrottamente, passando
per la Russia ove la criminalizzazione e la repressione non impedisce agli anarchici
di continuare ad impegnarsi a fondo contro il razzismo ed il nazismo crescenti;
per il Messico ove nel Chiapas ed in Oaxaca si stanno sperimentando importanti
iniziative di autogoverno popolare e più in generale nell’intera
America Latina dove sono sempre più numerose le iniziative sviluppate
praticamente in ogni paese, perfino a Cuba ove si registrano segnali importanti
di ripresa. E anche in Europa, pur nella complessità e nel frastagliamento
del movimento, anarchico ed anarcosindacalista, si sono avute manifestazioni
di significativa presenza, sia teorica che pratica, nei movimenti sociali. Altri
importanti segnali di sviluppo provengono dalla Turchia, dal Senegal, dal Sudafrica,
dall’Indonesia, dalla lotta congiunta israelo-palestinese contro il Muro.
I tempi sono ormai maturi per un impegno specifico che, tenendo conto delle
ricchezze e delle particolarità di ogni singola realtà, sia in
grado di mettere a confronto, nel riconoscimento reciproco, percorsi ed opzioni
che hanno radici ed finalità comuni, per una crescita congiunta e collettiva.
Storiografia:
un bilancio aperto
di Maurizio antonioli
Quei due convegni di studi: a Piombino sul sindacalismo rivoluzionario e a Venezia su Bakunin
P uò apparire strano che, dopo quarant’anni abbondanti di studi
e di ricerche su tematiche inerenti la storia dell’anarchismo, io esiti
di fronte alla sollecitazione di Paolo Finzi a tracciare una sorta di bilancio
storiografico sul tema. Forse perché i bilanci, o meglio i consuntivi,
seppur provvisori, si fanno quando si pensa di chiudere una stagione che a me
pare, invece, ancora aperta per le mille possibilità di analisi che si
offrono. Certo, negli ultimi quindici anni la produzione storiografica sull’anarchismo
(mi riferisco ovviamente a quella italiana) ha registrato una significativa
accelerazione, legata principalmente a due esperienze collettive di grande portata:
la «Rivista storica dell’anarchismo» e il Dizionario biografico
degli anarchici italiani. Ma si è probabilmente trattato, e mi auguro
che sia così, di una spinta iniziale in grado di assicurare autonomia
e tenuta a nuove e più specifiche esplorazioni. Non è un caso
che siano già usciti o in procinto di uscire o comunque in cantiere dizionari
regionali (Abruzzo, Calabria, Sicilia ed altri ancora) in grado di offrirci
una visione sempre più ravvicinata, un quadro sempre più dettagliato
del complesso delle vicende umane che hanno dato corpo e direi quasi «anima»
al movimento anarchico italiano.
Ma se è vero che le esperienze citate sono state decisive, è altrettanto
vero che sono cresciute su di un terreno già reso fertile dai risultati
di una produzione storiografica niente affatto trascurabile. Non ho lo spazio
per fare una sommaria rassegna e rischierei, come capita spesso, di dimenticare
qualcosa o qualcuno. Mi limiterò quindi a ricordare una persona e due
eventi. La persona non può che essere il vecchio amico Pier Carlo Masini;
gli eventi due convegni che reputo per diverse ragioni decisivi, il convegno
di Piombino sul sindacalismo rivoluzionario (1974) ed il convegno di Venezia
su Bakunin (1976).
Come tutti ricorderanno, il primo volume della masiniana storia degli anarchici
italiani (quello sottotitolato Da Bakunin a Malatesta) uscì agli inizi
del 1969, prima di Piazza Fontana, e suscitò, per ragioni contingenti
facilmente intuibili, un notevole interesse. Si inserì in un clima culturale
in cui gli anarchici, dopo anni di silenzio e di marginalità, erano in
qualche modo ritornati in primo piano. Il grande merito di Masini, che da anni
studiava, raccoglieva materiale e pubblicava saggi e contributi, fu quello di
capire il momento e di sapere coglierlo. Ma non si tratta solo di intuito, che
in uno storico non guasta mai. Masini ebbe la capacità di comporre l’affresco
di un trentennio decisivo della storia nazionale, dall’indomani della
proclamazione del Regno d’Italia alla nascita del Partito socialista,
e di proporlo con lo sguardo dello studioso certamente animato da una forte
vena di simpatia, ma lontano dalle asprezze ideologiche che avevano caratterizzato,
in un senso o nell’altro, la storiografia degli anni Cinquanta e Sessanta.
La lezione di Masini, che non tutti percepimmo subito, può essere sintetizzata
nella sua capacità di capire l’insieme, di seguire le singole vicende
inserendole in un quadro coerente, unitario. E quindi di capire Bakunin e Malon,
Cafiero e Bignami, Malatesta e Costa, Gori e Turati. Le accese passioni si stemperavano,
pur non perdendo la loro vivacità, la loro specificità. Ma nell’ambito
del giovane movimento operaio italiano, che faticosamente cercava una propria
identità attraverso il contrasto delle tendenze, per Masini le ragioni
e i torti si intrecciavano e non c’era spazio per la categoria del «tradimento»
come per quella della «provocazione». I traditori, i provocatori,
laddove c’erano, erano altri.
Quanto agli eventi, mi limiterò solo a registrare che il convegno piombinese
mise per la priva volta l’accento su di un fenomeno, quello del sindacalismo
rivoluzionario, di cui fino ad allora si era fatta giustizia sommaria. Farò
un unico esempio. Tutti gli studi in cui il sindacalismo rivoluzionario aveva
fatto la sua apparizione non citavano mai «L’Internazionale»,
il periodico della Camera del lavoro di Parma che poi diventò organo
dell’Usi. E l’Usi rimaneva una nebulosa di cui vagamente si conosceva
l’esistenza, ma che si preferiva accantonare per seguire l’equazione
sindacalismo rivoluzionario = interventismo = fascismo. L’approfondimento
del sindacalismo d’azione diretta ha avuto due principali conseguenze:
da un lato ha arricchito in modo significativo il quadro del movimento sindacale
italiano, dall’altro ha messo in luce la complessa rete di relazioni tra
i sindacalisti e gli anarchici. Diversamente, il convegno veneziano su Bakunin,
tematicamente più limitato ma aperto all’apporto di approcci disciplinari
e metodologici differenziati, ha avviato una stagione di proficue collaborazioni
internazionali contribuendo in modo determinante a «sprovincializzare»
la cultura libertaria italiana. Per la prima volta noi, più giovani,
ci trovammo accanto a Lehning, Maitron, Guérin, Arvon e potemmo confrontarci
con loro. Ora, che i più giovani sono altri, ci rimane il ricordo.
Noi, i desaparecidos
della città uguale
di Milena Magnani
La verità è che siamo nei luoghi della tirannide.
Q ua ci ubriacano di padanie, di provvedimenti da adottare per contrastare
i nemici selvaggi, ma io temo che in questo fanfarare ci stiano tacendo un’evidenza
a cui invece dovremmo prestare attenzione, ed è il fenomeno che sta trasformando
le città europee in un’unica città uguale.
La città uguale non è altro che una zona della città, asettica
e seriale, un modo di essere dell’edilizia e dell’urbanistica che
sta colonizzando a poco a poco tutte le altre zone ed è perfettamente
funzionale alle logiche dell’alta finanza e del grande capitale.
Io ci cammino dentro. La attraverso per tangenziali, per raccordi autostradali,
ci sosto in parcheggi sotterranei, organizzati per settori. Nel suo espandersi
inarrestabile, la città uguale fa sì che il carattere delle vecchie
strade sia costretto a soccombere per fare spazio alle grandi catene di Carefour
e di Ikea, alle linee di spostamento veloce, ai grandi piazzali di accesso alle
multisale.
Un paesaggio così uniformemente comune a tutte le città europee,
da diventare la dimostrazione urbanistica di come l’Europa delle multinazionali
abbia una ricaduta sulle nostre vite e possieda la capacità di creare
geografie.
Uno scenario così elegantemente autoritario da riuscire a poco a poco
a colonizzare per ricaduta anche le vie dei centri storici, fino a impedirvi
la sopravvivenza di qualsiasi piccolo e onesto esercizio commerciale. Ponti
e raccordi, tapis roulant e scale mobili, si potrebbe essere in qualsiasi punto
del mondo occidentale tanto, quello di cui facciamo in ogni caso esperienza,
è il solito reticolo di inviti all’acquisto senza preclusione.
Non a caso qui, nella città uguale, il sentimento di cittadinanza viene
scomparire, perde gli indizi riconoscibili di una qualche storia, e diventa
il luogo eletto per la spersonalizzazione.
Succede così che quando mi trovo in questo tipo di scenario non avverto
alcun legame di appartenenza territoriale e ogni tanto provo persino a domandarmelo:
Ma dove siamo?
La verità è che siamo nei luoghi della tirannide, il cui potere,
come suggerisce John Berger, è strutturato eppure diffuso, è dittatoriale
e tuttavia anonimo, onnipresente eppure senza connotazione di luogo... E forse
è per questo che sempre più spesso, quando procedo con il mio
carrello tra le corsie, lì dove mi mancano le coordinate per ritrovare
l’idea della vita che volevo abitare, mi invade la nostalgia di un modello
di città più rudimentale, quella che esprimeva una differenza
tra il centro e le sue periferie, all’interno della quale potevo ancora
andare a trovare due amici rom, nel quartiere sul lungo Reno, che ora le ruspe
hanno demolito.
Mi ritorna quel senso di spensieratezza che mi dava stare sui gradini di una
baracca, a fumare sigarette sui canali di scolo. E mi domando anche se non sia
il caso di ritrovare i fili di una disobbedienza, quella disobbedienza che unicamente
può restituirci una forza, e di cui avevo fatto esperienza là,
accanto a persone che vivevano ai margini, che non avevano niente tranne la
loro libertà di scappare, di raggiungere i parenti in mezzo ad altre
discariche, di cercare nuovi capannoni di scarto industriale.
Non intendo fare un elogio della marginalità , quanto piuttosto considerare
in questa sede, dove sento rispettata la mia totale libertà di pensare,
che mi rifiuto di abitare là. Là dove con una strusciata di carta
di credito alle casse, non facciamo che spianare il sentiero su cui si avvieranno
colonne di profughi con i sacchetti di plastica in mano, persone che espatriano
e che perennemente continueranno a espatriare perché non abitano la patria
del grande capitale.
La lettera della passione
di Monica Giorgi
Fu così che mi accorsi di un’ingiustizia
enciclopedica: certe lettere erano
più interessanti delle loro vicine.
La più appassionante era la lettera A:
era a causa del suo colore nero,
sottolineato da Rimbaud?
O quel potere sconvolgente
era semplicemente l’energia dell’incipit?
Amélie Nothomb
“A” è (stata) ambito costringente e modalità leggera di esprimere una particella di verità per le cose del mondo
A è sempre (stata) per me un approdo. In due sensi un po’ sbilenchi
fra loro: luogo di approdo e di sponda nell’affrontare le derive della
più inaffidabile tra le cose del mondo – il mare... Mare della
vita, si dice. Ed è un bel dire, come pure un insaputo ben-detto.
Rimane sempre nelle cose del mondo un margine di conflitto e anche i più
avvincenti rapporti, come la mia storia con A e quella vivente con le persone
che intorno ad essa si affaccendano, non si sottraggono a questa legge.
Quella del conflitto è un’impasse da non risolvere, uno scarto
da non colmare. Operazioni entrambe assai ardue per l’intelletto, beffato
– si fa per dire – dallo stesso ordine del discorso. E allora, congedati
i nessi giustificativi per qualcosa che non ha colpe, viene in soccorso la passione
della parola incarnata. Non è per discolparmi ma perché la colpa
(mi) immiserisce che il conflitto vado a contemplarlo e lo intravedo, per quelle
relazioni particolari della storia con A, come il seme di grano per il pane
quotidiano.
Il conflitto d’amore sta prossimo all’amicizia i cui piaceri sono
i frutti moltiplicati della solitudine. Sì proprio, la solitudine. Solitudine
condivide con solidarietà la stessa radice. Va per valli e monti, l’amore.
Si lascia cercare alla deriva: naufrago di tempesta naufragante di accoglienza
e di esilio. Se l’amore non si lascia mai trovare del tutto – sembra
che manchi perfino l’intimità del corpo a corpo – viene da
dire essere in pieno amore nella stagione della vita.
Per me la Rivista ha circoscritto la quadratura pubblica del corpo a corpo con
la scrittura. Sto raccontando al passato ma scrivo al presente nell’evocare
l’immagine di un poligono inscritto in un cerchio. Tento di esprimere
l’approssimazione matematica di un numero irrazionale che ha valore infinito,
dato che pensiero e scrittura in stretta vicinanza alle esperienze della vita
mantengono sempre un margine rigoroso di incommensurabilità.
Mi sono avvicinata alla Rivista prima di instaurare, con chi la creatura oggi
quarantenne i(n)spira anima e corpo, una relazione tra le più intense,
se non proprio la più intensa: legame di per sé vincolante eppure
assolutamente svincolato da ogni genere di formale assiduità.
Con A non mancano lunghi silenzi pre-monitori restituenti, in una sorta di scambio
impremeditato sul filo delle parole, guadagni simbolici che non stanno al do
ut des. L’alfabeto della vita è dettato a posteriori e alla memoria
occorre un quanto di oblio.
Intendo il corpo a corpo con la scrittura secondo due dimensioni: sia quale
intreccio creativo realizzato dalle tracce biografiche, sia come apparato letterale
di segni ortografici in cui l’umano è immerso, il maneggio dei
quali abilita a considerare intreccio e apparato l’effetto-agente di ogni
narrazione.
Allora come non riconoscere A e il suo cerchio dal contorno vivente il luogo
di gratuita accoglienza ricevuta nel momento in cui stanziavo in una profonda
bisognosità?
Circoscritta e sostenuta a vivere in quella particolare storia che mi portò
a conoscere arresto, carcere, condanna e rinnovata libertà, arricchita
dall’amicizia-amore che non si è fermata alla “dovuta”
solidarietà fra anarchici, mi resi conto che i casi della vita fanno
in modo tale per cui i doni più preziosi sopraggiungano dalle situazioni
più precarie. Si abbuia una certezza e si accende una scintilla.
A è (stata) ambito costringente e modalità leggera di esprimere
una particella di verità per le cose del mondo: Rivista in movimento
e di movimento con tradizione documentaria di alto valore morale. Modalità
leggera giacché l’occorrenza dell’agire eccede le determinazioni
di qualsiasi potere costituito – «l’amicizia [con dio] non
dà alcun potere, ma finché è presente nella sua verità
ai pensieri degli uomini nessun potere terrestre raggiunge la stabilità»,
avverte Simone Weil; ambito costringente in quanto la parola incarnata alita
il potere del corpo rivelandosi ad un tempo potere liberatorio e potere istituente.
È il linguista Émile Benveniste nel Vocabolario delle Istituzioni
Indoeuropee a tenere f i l o l o g i c a m e n t e presenti i due piani.
So di aver provato un gusto estatico nell’intrecciare distrattamente Amore
e Anarchia incastrandole con le loro lettere in una specie di assurdo piano
cartesiano, in modo che le A dell’uno e dell’altra si intersecano
nello stesso punto in cui divaricano. So di aver imparato da lì che i
legami del conflitto sono più avvincenti di quelli della assuefazione...
La responsabilità
delle parole
di Nadia Agustoni
Ho passato anch’io anni della mia vita legato dentro una caverna oscura convinto che le ombre sulle pareti fossero il presente che cambiava.
Titos Patrikios, La caverna
Oltre alla pietà, hanno dimenticato la vergogna e la responsabilità delle parole
I l nostro presente è infetto. C’è un male che si impone
ovunque, ad ogni strato sociale, in ogni geografia localizzabile: è la
mancanza di pietà.
Dal commento al fatto del giorno, alle più spicciole vicende, quel che
s’afferma è la chiacchiera sovrastante che asserisce e condanna.
Condanna anche quando assolve perché trova la colpa nella vittima e giustifica
chi fa del male agli altri con o senza motivo. I motivi, del resto, sono l’elenco
del tornaconto dei potenti e di chi li imita. I motivi sono la parte più
infetta dei loro discorsi. Ma qualcuno ha ripetuto fino alla nausea la litania
del “tutto è relativo”.
Così hanno chiamato eroi i talebani, che di umano hanno solo le mani
con cui tagliano nasi, amputano, lapidano e gettano gas nelle scuole per bambine.
Chiamano vittime di oscure debolezze gli stupratori e i trafficanti di vite
umane, perché i corpi dei nostri simili, che loro adoperano, servono
sulle strade a maschi che donne italiane compiacenti giustificano, e servono
nei campi dove gli/le italiani/e non vogliono più lavorare. Queste vite
abusate non sono degne di pietà. Una pietà e attenzione vera ci
imporrebbero altri stili di pensiero e comportamento.
Ma ormai in nome del relativismo attendiamo si cancellino dalla storia i fatti
che alcuni vorrebbero definire, benché documentati e accertati, solo
episodi incresciosi e altri considerano pura propaganda: da chi nega l’olocausto
a chi dà dell’ingrato agli operai che denunciano misfatti. Perché
alla fin fine il male che ci assedia viene da un pensiero che oltre alla pietà
ha dimenticato la vergogna e la responsabilità delle parole.
“Puu-tii-uuit?”,
o il silenzio che urla
di Nicoletta Vallorani
Dopo un massacro, tutto dovrebbe esser tranquillo, e infatti lo è, sempre
Chi fa di mestiere l’insegnante, e lo ha fatto per tutta la sua vita
adulta, non ha moltissima consuetudine col silenzio, nel senso che gli capita
di rado di goderne. Se è bravo, impara detestarne un tipo, che va sotto
il nome di silenzio-indifferenza, e ad amarne un altro: quella specie rara di
assenza di voci in un’aula affollata che è il silenzio rapito.
Ho fatto l’insegnante per tutta la mia vita adulta. Nella scuola superiore,
ho campionato silenzi-interrogazione, silenzi-predica, silenzi-torpore, silenzi-giornata
di pioggia e via dicendo. Di norma, preferivo il fertile caos della discussione,
ma lì i numeri erano limitati e di rado mi è capitato di avere
in classe studenti che non avrebbero voluto condividere con me neanche lo stesso
fuso orario. Sono stata fortunata, immagino. All’università, invece,
si lavora con grandi numeri e in aule sconfinate come continenti in guerra.
Anni fa, all’inizio della mia carriera universitaria, mi è capitato
di avere un corso affollatissimo. Insegnavo lingua inglese, e lavoravo sulla
retorica dei reportage giornalistici di guerra.
Erano tempi complicati, e non siamo andati meglio, da allora: nel 2003, gli
USA invadevano l’Iraq, intenti a portare la pace a colpi di mortaio. Si
faceva un gran parlare di missioni destinate a sostenere i civili, e intanto
proprio i civili schiattavano come mosche, intrappolati nella carta moschicida
di un conflitto in corso.
In questo bel contesto, io selezionavo pagine di giornale e le proponevo a un
paio di centinaia di studenti, tutti insieme, partendo dall’ardita ipotesi
che si potesse imparare qualcosa di più sul lessico inglese analizzandone
il garbuglio misterioso che attraverso i giornali ce ne proponevano le star
della politica internazionale. E una volta portai in aula un articolo sulle
cluster-bomb, le “bombe a grappolo”: ordigni multipli al primo posto
nella hit parade del massacro bellico casuale. Tecnicamente, la lezione aveva
a che fare con la distinzione tra significato denotativo (e.g. sedia = l’oggetto
sedia che il termine designa) e significato connotativo (e.g. sedia = attrezzo
sul quale posso riposarmi quando sono stanco). Il fatto è che non parlavamo
di sedie, ma di bombe a grappolo. Così, mi trovai a mostrare immagini
di bombe a grappolo (= significato denotativo dell’espressione “cluster
bomb”), per poi passare a descrivere, con la medesima dovizia di immagini,
gli sgradevoli effetti collaterali che le cluster bomb producono su un bambino
iracheno che, per esempio, raccoglie un grazioso cilindretto giallo inesploso,
ci si mette a giocare tutto festante finché quello a un certo punto non
decide di esplodere. E il bambino salta per aria: e questo è, appunto,
il significato denotativo.
Devo ammettere – a mio merito o a mia discolpa – che non avevo ragionato
sulla reazione possibile delle duecento giovani teste pensanti che mi trovavo
davanti, e che si sono esibite in uno dei silenzi rapiti più profondi
e inquietanti della mia vita professionale. Non volava una mosca. Ho chiesto
se avevano capito.
Dal fondo dell’aula, la vocetta di una ragazza dai capelli rossi –
magra, seria e piena di piercing, replicò, in un inglese pulito e musicale,
il succo dell’intera lezione. E in pratica era una dichiarazione di rifiuto
della guerra in tutte le più strampalate articolazioni retoriche imbastite
dai politici, che – bontà loro – in guerra non ci vanno.
Quella ragazza si è poi laureata, e come molti altri – forse con
un po’ di consapevolezza in più – è entrata nel mondo
degli adulti.
E quel giorno, da quell’aula siano usciti, credo che siano usciti almeno
20 studenti che hanno capito un concetto fondamentale. Che poi è quello
che scrive Vonnegut in Mattatoio n.5, “Non c’è niente di
intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non
debbano più dir niente o voler niente. Dopo un massacro, tutto dovrebbe
esser tranquillo, e infatti lo è, sempre, salvo per gli uccelli. Che
cosa dicono gli uccelli? Tutto quello che c’è da dire su un massacro;
cose come “Puu-tii-uuit?”.
dida p104: foto di G° http://www.flickr.com/phot <http://www.flickr.com/photos/gaia_d/>
Attualità
dell’anticlericalismo
di Persio Tincani
La sudditanza verso la chiesa cattolica non è una prerogativa della sola destra
N egli ultimi anni, quando si solleva il problema dell’ingerenza dei
preti nella cosa pubblica, è sempre più frequente sentirsi rispondere
che quel problema è “una roba vecchia”, nel senso che si
tratta di una questione che ha fatto il suo tempo. È, questa, l’espressione
dell’idea che la separazione tra Chiesa e stato sia “roba da Risorgimento”
e che i residui di anticlericalismo – che non significa altro che opposizione
alle pretese di dominio secolare da parte dei preti e dei loro sodali –
siano qualcosa della quale la società contemporanea potrebbe, e forse
addirittura dovrebbe, liberarsi.
Eppure, più che mai in passato, l’ingerenza è ora attiva
con tanta solare evidenza. Senza neppure più quella maschera di savoir
faire alla quale era ben addestrata, la parte clericale rivolge indicazioni,
direttive, ordini ai decisori politici, ed esercita, quando le occorre, un vero
e proprio potere di veto. E lo fanno tutti, dal parroco del paese che pretende
(e ottiene) che il sindaco revochi il permesso per una manifestazione satirica,
al capo dei vescovi che, di fatto, comanda di stracciare il progetto parlamentare
dei DiCo con un “non possumus”, quello sì, di risorgimentale
memoria. E non si dimentichi di quando il Berluscone, fresco di incarico, andò
a trovare Joseph Ratzinger per ricevere da lui l’esplicito saluto al capo
di un «governo amico», a suggello di un patto di mutua assistenza
e, soprattutto, di mutuo governo.
La sudditanza verso la chiesa cattolica, però, non è una prerogativa
della sola destra. Il Partito Democratico, quell’opposizione che i governi
di tutto il mondo invidiano all’Italia, ha addirittura scritto nella propria
Carta dei valori che la religione non è un fatto privato, ma che anzi
è cosa che rileva nell‘arena pubblica. Non si facciano le vergini:
in Italia, quando si scrive “religione” si intende una religione,
quella cattolica romana, gerarchica, strutturata, organizzata. Ai partiti di
dichiarata “ispirazione” cattolica si affiancano i politici di ogni
schieramento che, prima di ogni altra cosa, dichiarano il proprio essere cattolici.
Perfino tra coloro che si dicono “laici”, è raro trovarne
uno che ometta di dichiarare il proprio rispetto per la chiesa, della quale
viene ribadito un non meglio precisato ruolo di “guida morale” o
di “carità assistenziale”, entrambi dati per presupposti
e mai dimostrati o argomentati.
Così, mentre si celebra il 140° della Breccia di Porta Pia, il segretario
di stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone, siede accanto al presidente della
repubblica sul palco delle autorità, dal quale eleva una preghiera per
l’Italia unita. E ne ha ben donde, il cardinale: i nemici di ieri sono
diventati, oggi, i suoi camerieri.
La mia anarchia
di Pino Cacucci
«Ma mi dica, mi tolga questa curiosità: voi anarchici, che diamine volete?»
C orreva l’anno... 1974, se ben ricordo. A Chiavari contribuivo a fondare
il Gruppo Durruti del Tigullio, e ogni tanto andavo a Genova dove frequentavo
gli anarchici del circolo Pietro Gori, e tra loro il più anziano era
Giuseppe Pasticcio, mai visto senza l’eterno fiocco nero al colletto della
camicia lisa. In quel periodo partecipai anche a un comizio di Paolo Finzi,
distribuendo copie di A con ossessionante impegno, convincendo ad acquistarla
passanti che, pochi minuti prima, mai avrebbero immaginato di tornare a casa
con quella rivista in tasca. Forse mi misi un po’ troppo in evidenza...
Perché il caso volle che a quel comizio, tra i poliziotti in servizio
di ordine pubblico, vi fosse un mio ex compagno di scuola (e in questo caso
compagno è parola inopportuna) arruolatosi in polizia per il servizio
militare. E spifferò al superiore di turno come mi chiamavo e dove abitavo.
Me lo avrebbe rivelato lui stesso qualche tempo dopo, dicendo che mi aveva visto
“così convinto in prima fila” da sembrargli un fanatico,
insomma, a suo parere, lo aveva fatto “per il mio bene”. Erano anni
tesi, i 70, e bastò quella vigliaccata a farmi schedare alla questura
di Genova, una traccia indelebile per tanto tempo, al punto che una quindicina
di anni più tardi, andando a rinnovare il passaporto alla questura di
Bologna, dove ormai risiedevo da tempo, al momento di ritirarlo mi sono sentito
dire dall’agente “preposto”: «Stiamo ancora aspettando
il nullaosta da Genova, sa, lei è schedato là…». Infine,
dovetti andare ai piani superiori, per riavere il passaporto, dove sostenni
un dialogo dell’assurdo con una simpatica poliziotta, che esordì:
«Vede, io so tante cose degli autonomi, dei lottacontinui, dei potereoperaisti,
dei maoisti-linea-dura-filoalbanese… ma mi dica, mi tolga questa curiosità:
voi anarchici, che diamine volete?».
Risposi serafico: «La pace nel mondo».
Sbottò allargando le braccia: «Eh, già, come no, pure io
la vorrei, ma mi faccia il piacere, mi faccia».
E mi ridiede il passaporto rinnovato.
A Chiavari, prima ancora di diventare anagraficamente maggiorenne, frequentavo
un’osteria dal soprannome curioso, “U sucidu”, per via del
puzzo di vino rancido, il fumo, i tavoli con un dito di grasso sopra…
be’, un po’ sudicio sì, ma era un bel posto. Lì ci
andava spesso Roberto Leimer, e intorno a lui ci radunavamo in vari ragazzi,
attratti un po’ dal suo eloquio impastato, un po’ dall’aria
bohemien, e molto dalla sua generosa capacità di invettive libertarie
pacate ma incrollabili. A rivista anarchica era sempre al centro delle nostre
discussioni, bevevamo ogni articolo con appassionato interesse, ci apriva finestre
su realtà anarchiche e di lotta in tanti posti del mondo e nel resto
d’Italia, ci sentivamo meno provinciali ogni volta che arrivava il prezioso
pacchetto da Milano da andare a vendere in giro, dopo che ognuno di noi ne acquistava
subito una copia per sé; eravamo quattro o cinque in tutto, con punte
di sei alle riunioni della domenica mattina, quando l’unico che lavorava
poteva permettersi di venirci.
Per la sede del Durruti, affittammo una sorta di ripostiglio di fianco a un
fornaio, che non serviva neppure come garage, dove il problema principale era
il puntuale rigurgito di liquami fognari ogni volta che pioveva. Forse era per
questo che durante le frequenti riunioni avevamo tutti la faccia schifata: non
era disprezzo per la società borghese, ma semplice puzza di cacca. Un
giorno presi la situazione in pugno: comprai un sacco di cemento e tappai il
tombino interno. Il giorno dopo, venne giù una povera signora dicendo
che la casa era allagata di merda. Tappi da una parte, sfoga dall’altra.
Insomma, avevamo più problemi con le fognature che con la polizia.
Dopo quei tempi squinternati del gruppo anarchico del Tigullio (che per chi
non lo sapesse non è il nome di un rivoluzionario paraguayano ma del
golfo su cui si affaccia anche Chiavari), venne il tempo di migrare… L’università
a Bologna era un buon pretesto per andare a vivere da solo, con un gruppetto
di sciamannati come me. E Giuseppe Pasticcio, figura storica dell’anarchismo
genovese, mi scrisse una commovente lettera di “presentazione” per
i compagni dei circoli bolognesi: la conservo ancora, inizia con la frase “potete
avere fiducia nel nostro compagno Cacucci”… E sulla sua firma tremula,
un bel timbro con la A cerchiata dalla scritta “Circolo Studi Sociali
Pietro Gori”. Erano tempi così, da candore carbonaro.
Quando la feci vedere al Cassero di Porta Santo Stefano, ricordo lo sguardo
tra il divertito e lo stupito degli “anziani”, che sembravano voler
dire: “da quando in qua ci vuole la lettera di raccomandazione per dichiararsi
anarchici?”. Allora c’erano Libero Fantazzini e la sua compagna
Maria, presenze costanti di ogni assemblea, riunione, manifestazione, tutto.
Instancabili, anche a ottant’anni suonati. Libero non ci vedeva granché,
anzi un occhio non ce l’aveva proprio, eppure guidava la sua Simca impavidamente.
Una sera arrivò tardi, e non era da lui: aveva scambiato una luce rossa
di un cantiere di lavori in corso per un semaforo, e dopo essere rimasto fermo
un quarto d’ora e forse più, Maria lo aveva esortato a ingranare
la marcia. Libero non parlava volentieri del figlio Horst, che stava in galera
per quasi l’intera vita senza aver mai sparato a nessuno, il rapinatore
gentile che mandava fiori alle cassiere spaventate, ora c’è pure
un film, Ormai è fatta, tratto dal suo libro di memorie, con Stefano
Accorsi a interpretare lui, e l’ottima regia di Enzo Monteleone. Curiosa,
la vita: Monteleone lo avrei conosciuto quando scriveva la sceneggiatura di
Puerto Escondido. Horst invece lo avrei conosciuto poco prima che tornasse in
cella, a morirci.
Libero voleva un gran bene a quel suo figlio ribelle, troppo ribelle persino
per lui, che era di quegli anarchici per i quali l’onestà dev’essere
di esempio al resto del mondo, compresa l’onestà “borghese”.
Ma non ne parlava quasi mai, a noi giovanotti che scrivevamo a Horst in carcere
e lo consideravamo un compagno anarchico a tutti gli effetti.
Tornando ai tempi liguri, Fabrizio De André era una presenza fissa nelle
orecchie come nel cuore e pure nelle viscere, e come poteva essere altrimenti,
poi, quando viveva in Sardegna, nella grande casa colonica nei pressi di Tempio
Pausania, a qualche anno di distanza dalla brutta esperienza del sequestro,
gli telefonai per chiedergli l’ennesima firma in un appello per chissà
quale ennesima ingiustizia. Fabrizio non si faceva pregare neppure per fare
concerti in sostegno di A rivista anarchica, e ovviamente mi disse che firmava,
anzi, mi invitò ad andarlo a trovare. E me lo avrebbe ripetuto altre
volte, ma per i casi della vita, è finita che all’Agnata ci sono
andato solo dopo che lui non c’era più. E questo mi rimane come
rimpianto.
Poi, il primo viaggio in Messico, il secondo... e a un certo punto vivevo più
a sud del Rio Bravo che a sud del Po. Il Messico mi ha dato molto, se non tutto,
per cominciare a raccontare storie scritte. E là ho potuto approfondire
figure dell’anarchismo messicano di cui avevo soltanto letto su A, anni
addietro: i fratelli Flores Magón, con l’utopia della rivoluzione
libertaria nella Baja California, e Praxedis Guerrero, che nella Revolución
era niente meno che “generale”, ma con Pancho Villa i generali erano
comandanti in combattimento, non certo militari con i gradi. E cominciando a
tornare da questa parte dell’oceano, con lo scrivere che gradualmente
diventava un mestiere, pur restando una passione, su quelle pagine di A che
da ragazzo leggevo avidamente, avrei preso a scriverci pure io, certo sporadicamente,
di sicuro meno di quanto vorrei, ma sempre trovando interesse in chi leggeva,
o magari in alcuni casi suscitando dibattiti e qualche critica per l’eccessiva
irruenza di certe mie prese di posizione, l’essenziale è coltivare
dubbi, perché gli anarchici hanno convinzioni ma mai certezze assolute:
certo, la mania di spaccare i capelli in quattro ci perseguita, a volte ci immobilizza,
però, l’immensa varietà di opinioni che in questi quarant’anni
hanno trovato puntualmente posto sulle pagine della nostra irrinunciabile rivista,
sono un patrimonio che rende più ricca la mente e più forte il
cuore.
Lunga vita ad A, che coltiva dubbi, informa, induce a riflettere e approfondire,
perché il mondo è troppo complesso per non essere anarchici.
Una rivista
da studiare (e diffondere)
di Pippo?Gurrieri
Nel 1977 è nata la nostra Sicilia Libertaria
Il 2011 è anche il mio compleanno anarchico: 40 anni di militanza. Era
il 29 agosto del 1971 quando, con altri ragazzi, decidemmo di abbandonare la
FGCI e di aderire al movimento anarchico, allora a Ragusa “rappresentato”
da Franco Leggio, un giovane di 50 anni che ci attraeva maledettamente e la
cui casa-sede-libreria-covo frequentavamo già da qualche mese.
Fu proprio Franco a consigliarci di contattare A – rivista anarchica,
allora neonata pubblicazione dall’impatto molto giovanile, e anche Umanità
Nova, la storica testata della FAI, per distribuirle. Così per tutti
questi anni queste sono state le mie fedeli compagne di strada, tra le poche
che hanno resistito a venti e tempeste, a ce ne sono stati... Per noi giovani
dell’estremo Sud questi giornali rappresentavano spesso i nostri soli
modi di essere a contatto col movimento; senza di essi forse non ce l’avremmo
fatta.
“A” l’ho sempre considerata una rivista da studiare, oltre
che da diffondere, e anche se non sempre ho condiviso il contenuto dei suoi
articoli, la sua autorevolezza è rimasta intatta negli anni, e anzi,
posso dire, ora che faccio parte anch’io dei “vecchi”, che
negli ultimi anni si è perfino accresciuta, per quella sua particolare
attitudine, coerentemente mantenuta, a portarci il nuovo che nel mondo libertario,
antiautoritario e anarchico planetario si è via via presentato; ma soprattutto
per una caratteristica che mi è stata sempre molto a cuore: quella di
rivolgersi ad un pubblico “esterno”, una rivista, potremmo dire,
con un termine che fa arricciare il naso a qualcuno, di propaganda. Anche.
Con questo spirito, infatti, nel 1977 è nata la nostra Sicilia libertaria:
avere come riferimento tutto quel mondo libertario, a volte anche inconsapevolmente
libertario, che nei luoghi di lavoro, nella scuola, nel sociale rappresenta
il nostro referente privilegiato; quindi un giornale prodotto per dire qualcosa
a chi anarchico non è, con l’obiettivo di ampliare le simpatie
e l’impatto delle nostre idee.
Chi avrebbe poi detto che anche Sicilia libertaria sarebbe riuscita a superare
l’età della fanciullezza, ed oggi, con suoi 34 anni, fa oramai
parte della schiera dei pochi giornali anarchici italiani abbastanza longevi,
assieme alle sorelle maggiori A e UN.
Quelli che scrivevano su A e UN, e che noi dal lontano Sud vedevamo, come i
“mostri sacri” dell’anarchismo, poi sono diventati compagni
con cui condividere tante cose, con cui ci si capisce pur nella diversità,
con cui si ha il piacere di collaborare, di incontrarsi in giro per l’Italia,
a conferma di come, giustamente, nel nostro movimento la pubblicazione di un
giornale, una rivista, un bollettino, abbia una sua “sacralità”,
rappresenti un fattore aggregante, sia spesso l’anima stessa dell’anarchismo.
Quindi, i più sentiti auguri ad A per i prossimi 40 anni.
L’ingombrante zavorra
della tradizione
di Rossella di Leo
Ben presto “A” diventa l’ambito in cui discutere e ragionare delle attività concrete, delle sperimentazioni in atto, della riflessione critica sull’agire
L’avventura politica ed editoriale di “A” segna, in quel
1971, anche l’inizio di un progetto culturale più articolato che
si sviluppa nel corso del tempo (ma in particolare in quel decennio) su spinta
dello stesso gruppo di anarchici milanesi che ha appena dato vita alla rivista.
Nascono così alcune iniziative culturali ed editoriali tra loro collegate,
i cui specifici modi di operare e i cui diversi codici di comunicazione si integrano
in una visione complessiva ben precisa: dare visibilità e coerenza alla
proposta anarchica contemporanea.
(Mi permetto qui un ricordo personale sulla nascita di “A”, che
ha coinciso con l’inizio della mia storia in quel gruppo di anarchici
milanesi. Li ho conosciuti esattamente quando è uscito il primo numero
della rivista, che il collettivo di studenti anarchici della Statale di Milano,
di cui facevo parte, era andato a ritirare per la vendita diretta in università.
Era febbraio, ma nello scantinato un po’ freddo e buio di piazzale Lugano
31, per qualche mese sede della rivista prima del trasferimento in via Rovetta
27, l’entusiasmo tangibile scaldava anima e corpo. Ho preso un pacco da
90 copie del primo numero – quello molto spartano con la famosa frase
di Proudhon – e la mattina dopo mi piazzavo all’ingresso della Statale
a vendere la rivista. Mi ero preparata a passare lunghe ore al gelo e invece
sono stata assalita da una torma di studenti incuriositi che mi strappavano
letteralmente il giornale di mano. Nel giro di mezz’ora avevo esaurito
le copie disponibili. Wow! Ma allora gli scantinati funzionano, mi sono detta.
E da allora, fino a oggi, ho passato molto del mio tempo due metri sotto il
livello della strada).
Come testimonia la storia di “A”, i primi anni sanciscono (in sintonia
con i tempi) un progressivo passaggio dall’attenzione prevalente verso
la militanza “politica” (peraltro già in bilico tra modalità
convenzionali e modalità post-sessantottine) all’attenzione prevalente
verso le tante progettualità sociali e culturali libertarie che nascono
tumultuosamente in quegli anni di rapida espansione dell’anarchismo. Inizialmente,
il giornale è infatti concepito come uno strumento di supporto all’attività
militante, ma già svolge una peculiare funzione di aggregazione per una
rete di gruppi e situazioni molto diffusa e ancora poco interconnessa proprio
per il suo carattere “spontaneo” (un punto di aggregazione peraltro
postmoderno, nel senso che esula dalle tradizionali opzioni organizzative del
movimento esistente: le federazioni, i gruppi ecc.).
Ben presto “A” diventa l’ambito in cui discutere e ragionare
delle attività concrete, delle sperimentazioni in atto, delle aspettative
in mutazione, della riflessione critica sull’agire. E proprio da qui si
dipartono altre necessità di approfondimento che approdano a ulteriori
articolazioni del medesimo progetto culturale. Così, nel 1974 viene fondata,
insieme a Louis Mercier Vega, la rivista internazionale di studi “Interrogations”,
nel 1975 vengono costituite, sulla scia dell’impegno di Pio Turroni, le
Edizioni Antistato, nel 1976 si costituisce il Centro studi libertari/Archivio
Giuseppe Pinelli, nel 1977 apre la Libreria Utopia e infine nel 1980 approda
a Milano la storica rivista “Volontà”. In poco meno di un
decennio si crea dunque un contesto culturale che cerca di mettere insieme,
con un respiro volutamente internazionale, ambiti di riflessione sempre più
ampi con livelli di approfondimento e sperimentazione sempre più diversificati.
Non si può far qui la storia di tutte queste iniziative (per le quali
rimandiamo allo studio fatto da Luigi Balsamini e scaricabile dal sito www.centrostudilibertari.it).
Alcune chiuderanno, come “Interrogations” nel 1979 e “Volontà”
nel 1996; altre si trasformeranno, come le Edizioni Antistato diventate Elèuthera
nel 1986; altre ancora nasceranno in tempi successivi, come “Libertaria”
nel 1999, o passeranno di mano, come la Libreria Utopia.
Ma quello che qui ci interessa sottolineare è che tutto questo progetto
editorial-culturale messo in moto dal nucleo fondatore di “A” nasce
da una esigenza impellente di ripensamento e rifondazione dell’anarchismo.
Questi (allora) giovani anarchici sperimentano in maniera forte l’esaurirsi
storico di un modo di agire e pensare tradizionale (poi definito “anarchismo
classico”) che non risponde più alle esigenze e alle aspettative
della contemporaneità. E questo sprona a riconsiderare tattiche e strategie
(terminologia ancora intrisa di un linguaggio politico poi tramontato), o meglio
a rintracciare nella ricca, feconda e talvolta contraddittoria sperimentazione
libertaria in atto gli itinerari possibili di un’azione nel qui e ora.
Forse il loro limite (parlo alla terza persona ma ci sono dentro anch’io)
è di non essere stati capaci di togliersi dalle spalle l’ingombrante
zavorra della tradizione, in particolare nella versione volgarizzata che hanno
ereditato dalla seconda metà del Novecento, e procedere più leggeri
(e con meno sensi di colpa) verso una radicale rielaborazione e attualizzazione
dell’anarchismo. Cosa che in altri paesi e in altre culture è stata
fatta senza tanti patemi. Merito forse anche di altre generazioni che non hanno
vissuto gli stessi anni e soprattutto gli stessi miti. Noi tutto sommato eravamo
ancora figli della resistenza, dell’antifascismo, della rivoluzione spagnola
e del proletariato militante. Figli appunto, non protagonisti, quelle storie
ci commuovevano, ma non erano più le nostre. Eppure non abbiamo avuto
la capacità emotiva di tagliare con un colpo secco quel cordone ombelicale
che ci ha incatenato a un passato glorioso, sì, ma irrimediabilmente
passato.
Carcere no grazie
di Sergio Onesti
L’abolizione del carcere è un obiettivo di civile e umana convivenza sociale
Abolire il carcere è una scelta concreta e non utopistica, razionale
e non ideologica, ma è soprattutto una scelta etica. Il modello attuale
del sistema sanzionatorio occidentale è quello della reclusione tout
court dei condannati e cioè di isolamento–stoccaggio-riciclaggio
dei soggetti ritenuti rifiuti sociali da confinare in una vera e propria discarica
sociale quale è il carcere, ove viene praticata istituzionalmente la
privazione di ogni legame sociale, fisico ed intellettuale in danno del condannato.
La nostra critica nei confronti del sistema penitenziario, non solo italiano,
è incentrata sul trattamento riservato ai detenuti, che presenta le seguenti
caratteristiche: 1) individualizzante, come se il crimine fosse il risultato
solo di una scelta personale senza alcuna determinazione sociale e come se fosse
possibile nelle attuali condizioni di sovraffollamento carcerario assicurare
al condannato un trattamento rieducativo ad personam; 2) premiale, dove ciò
che viene richiesto al detenuto è di accettare passivamente la pena senza
mettere in discussione né la propria condotta né tantomeno l’istituzione
carceraria; 3) differenziato, poiché i detenuti sono “diversi”
non solo dagli altri cittadini, ma anche fra di loro in quanto il regime penitenziario
al quale sono sottoposti è diversificato tra: “comuni”, “tossicodipendenti”,
“alta sicurezza”, “41 bis” ed addirittura al loro interno
in sezioni esclusive, e ciò a tacere delle differenziazioni per etnia,
per religione, ecc. Tali pratiche di eccezione poste in essere dal sistema penitenziario
mirano all’isolamento del condannato, all’annichilimento della coscienza
e della volizione dello stesso, oltre che alla brutalizzazione dei corpi tanto
sotto il profilo psichico quanto sotto quello fisico.
Il sistema punitivo moderno, pur fondandosi teoricamente sul rifiuto della tortura
e della violenza, e quindi a salvaguardia del principio dell’intangibilità
dei corpi reclusi, non si preoccupa né di conservare la salute fisica
e psichica del detenuto né tantomeno di aprire prospettive di riabilitazione
e di reinserimento sociale. Basti ricordare, oltre alle limitazioni/esclusioni
della sfera sessuale, alimentare e sanitaria, lo straordinario numero di suicidi
che colpisce la popolazione detenuta in Italia, il cui indice è dieci
volte più elevato rispetto a quello dei suicidi nella restante popolazione.
Il carcere è sempre di più il dispositivo “troppo pieno”
della società: non c’è lavoro, non ci sono case, non ci
sono pari opportunità, non c’è evoluzione sociale e così,
mentre le porte della società si chiudono, si spalancano contemporaneamente
quelle del carcere: per i giovani, per gli immigrati e per tutti coloro che
vengono espulsi dai processi produttivi e da quelli di integrazione sociale.
Al 31.8.2010 la popolazione detenuta in Italia era pari a 68.345 individui (a
fronte di una capienza regolamentare di 44.608 unità) di cui 1.830 internati
per lo più in ospedali psichiatrici giudiziari, 24.981 stranieri e 2.995
donne. Tale drammatica situazione è il risultato dell’ossessione
securitaria che pervade la nostra società e che vede il proliferare di
una legislazione “carcerogena”, costituita ad esempio dalla legge
stupefacenti, dai vari decreti sicurezza, ecc. e che prevede il carcere come
unica risposta capace di sospendere il crimine senza toccare le cause che lo
hanno determinato. È più facile costruire nuove carceri piuttosto
che cercare soluzioni sociali; è preferibile confinare i “cattivi”
in carcere, piuttosto che prevenire le cause del crimine, reinserire i condannati
ed occuparsi delle vittime del reato. Proporre l’abolizione del carcere
non è pertanto né una provocazione intellettuale né un
progetto utopico, ma l’unica scelta etico-culturale capace di opporsi
al giustizialismo come unica soluzione ai problemi sociali; alla criminalizzazione
di qualsivoglia comportamento, soprattutto giovanile, deviante e trasgressivo;
e di ricercare una modulazione del trattamento sanzionatorio che abbia fini
non solo di segregazione, ma anche compensatori, restitutori, riparatori o risarcitori.
In altri termini è sempre più una necessità culturale e
civile non pensare più al carcere come un “male necessario”
né come unica ed esclusiva modalità di espiazione pena.
Solo una società senza carceri, come auspicano gli anarchici, o a carcerizzazione
limitata, come vorrebbe qualche criminologo riformatore, può consentire
l’elaborazione e la pratica di nuovi strumenti di dialogo, composizione
e superamento del conflitto intrapersonale e sociale che ha dato causa al delitto
senza abbandonare a se stessi tanto il reo quanto la vittima dal reato. Ecco
perché l’abolizione del carcere rimane un obiettivo di civile e
umana convivenza sociale il cui raggiungimento è, però, affidato
alla capacità di concepire e progettare una società liberata dallo
stato o quantomeno una società che riesca a prescindere da un modello
punitivo ove il carcere costituisce l’unica ed esclusiva modalità
di espiazione della pena.
Sentieri in Urupia
delle comunarde di Urupia
I principi fondanti del progetto sono
essenzialmente due, la proprietà collettiva
e il consenso nelle decisioni
Dal 1995 la comune Urupia si propone come esperimento politico e sociale.
La sua collocazione geografica nell’alto Salento, terra di frontiera ma
apprezzata mèta di pellegrinaggio turistico- musicale, ne ha favorito
la conoscenza e frequentazione da parte dei più svariati esemplari umani:
pur essendosi la comune caratterizzata fin dalle sue origini come progetto di
chiara impostazione libertaria e anarchica, le sue interlocutrici e sostenitrici
fanno riferimento a un’area ben più vasta nel cosiddetto universo
alternativo anche europeo.
Urupia è una comune aperta che offre ospitalità a chi è
interessata a vivere e condividerne gli ideali e la fatica di realizzarli.
I principi fondanti del progetto sono essenzialmente due, la proprietà
collettiva e il consenso nelle decisioni, intesi come strumenti attraverso i
quali poter realizzare l’uguaglianza economica, politica e sociale.
Grazie ai 26 ettari di terreno e alle strutture di proprietà dell’associazione
Urupia, la sopravvivenza materiale della comune è basata prevalentemente
sul lavoro agricolo- olio, vino, pane, frutta e ortaggi e relativi trasformati-
e sulle attività sociali e culturali periodicamente proposte in sede-
campeggi per fanciulle, iniziative politiche, feste, presentazione progetti
e documenti… Inoltre una delle comunarde svolge il suo lavoro di maestra
nella scuola pubblica.
Coerentemente con i presupposti antiautoritari del progetto la comune si è
fin da subito, e in crescendo, dotata di tecniche e tecnologie finalizzate a
ridurre l’impatto ambientale quotidiano:
riciclo delle acque tramite impianto di fitodepurazione , solare termico e fotovoltaico
per la produzione di acqua calda e energia elettrica, riscaldamento degli ambienti
attraverso caldaie a biomasse provenienti da produzioni agricole locali. Le
coltivazioni e la cura dei terreni vengono da sempre condotte secondo i principi
e le tecniche di un’agricoltura rispettosa non solo dell’ambiente
e delle sue risorse ma anche delle persone.
Dal 2002 i prodotti della comune sono commercializzati dalla “cooperativa
la Petrosa” fondata e gestita dalle comunarde di Urupia. Pur avendo come
riferimento anche i più stretti parametri dell’agricoltura biologica,
i prodotti non sono certificati per precisa scelta da nessun marchio nella convinzione
che mai alcuna delega possa offrire garanzia e sicurezza su qualsivoglia aspetto
dell’esistenza.
A Urupia il neutro plurale parla femminile.
Il progetto e i suoi tranelli
di Valentina Volonté
Per chi si trova ad agire nello sfaccettato mondo del “sociale”, la parola progetto ha un sapore magico
Negli ultimi dieci anni la parola “progetto” è stata, credo,
la più pronunciata da me e dalle persone che mi circondano.
Il progetto era (ed è) il nostro modo di pensare che le idee di cambiamento
e trasformazione della società, con dosi massicce di volontà e
passione politica, potessero concretizzarsi e diffondersi a spirale.
Per chi si si trova ad agire nello sfaccettato mondo del “sociale”,
la parola progetto ha un sapore magico, performativo quasi. Quando con i soci
e socie della cooperativa Alekoslab, ci siamo imbarcati in quest'avventura auto-imprenditoriale
tra autogestione e auto-sfruttamento, abbiamo espresso bisogni e desideri, cercando
di costruire una realtà lavorativa a misura dei nostri sogni. Abbiamo
messo nero su bianco gli obiettivi, le idee, lo stile, la qualità: abbiamo
scritto un progetto. Ovviamente, il progetto si è trasformato nel tempo,
ma era e resta l'espressione diretta di un piccolo gruppo di persone che si
sono scelte e che condividono un orizzonte comune.
Cosa succede invece quando come operatori sociali ci troviamo ad operare in
contesti nei quali il bisogno è formulato da un'amministrazione pubblica?
“I giovani in questa città non partecipano, non hanno voglia di
niente, sono demotivati, non riusciamo a coinvolgerli nelle proposte dell'assessorato
alle politiche giovanili”: allora chiamiamo degli esperti che con il loro
bagaglio di tecniche e saperi risolveranno il problema. Come? Attraverso un
bel progetto!
Si ripetono parole come esperto, partecipazione, democrazia, locale, affinità;
il difficile è cercare di trovare dei significati condivisi con delle
persone che spesso hanno percorsi e pratiche politiche distanti o addirittura
opposte. Il progetto dovrebbe quindi creare una realtà a nostra immagine
e somiglianza, di comune accordo tra gli esperti e gli amministratori. Ecco
però un cortocircuito: è possibile scatenare e poi gestire la
spontaneità dell'immaginazione delle persone, e dei giovani in particolare,
attraverso delle tecniche? E mettere queste tecniche al servizio di amministrazioni
quasi sempre espressione di un potere che contesto? È giusto cercare
di progettare legami sociali migliori? Evocare l'autogestione come orizzonte,
quando la realtà è tanto lontana dalle pratiche che sosteniamo?
Dubito e oscillo e mi riempio la giornata delle persone che incontro quotidianamente
nella loro diversità, delle relazioni anche conflittuali che nessun indicatore
di qualità può misurare; solo il senso di umanità che esiste
prima di ogni teoria. E comunque i tranelli aiutano a stare svegli...
Alekoslab cooperativa sociale
Primo passo,
le relazioni umane
Sono felice di essermi trovata davanti una generazione che punta a coltivare le relazioni umane come primo passo verso l’anarchismo
di Valeria Giacomoni
Le domande che mi sono state fatte ultimamente sull’anarchismo mi hanno
fatto riflettere molto e mi hanno aiutato a delineare il “mio anarchismo”.
Confrontarmi con persone diverse e ascoltare punti di vista, apprezzare o meno
comportamenti, tutto contribuisce alla nostra formazione. Perché l’anarchismo
è per me qualcosa che ognuno si costruisce, un modo di vivere in cui
ognuno trova la sua coerenza. E che il nome non faccia pensare a questo l’ho
capito da subito, dalla connotazione negativa con cui si presenta in una piccola
città del Nord Italia. Poi ho scoperto un anarchismo per me “costruttivo”
attraverso la storia della guerra civile spagnola e ho avuto la fortuna di assaporare
questo modello di vita attraverso l’Ateneu Enciclopèdic Popular
a Barcellona, che mi ha permesso di incontrare chi un altro mondo l’ha
conosciuto e chi continua a lottare per un ideale.
Con curiosità e costanza mi sono avvicinata a un modo di vivere per me
sconosciuto e che non è spiegato in nessun libro; il modo di relazionarsi
con gli altri è qualcosa che si impara solo vivendolo. Poco a poco, e
grazie anche all’educazione ricevuta, sono riuscita ad uscire dagli schemi
imposti da una società disumanizzante e ho imparato a “utilizzare”
quella disponibilità verso il prossimo che viene trasmessa a noi donne
in maniera positiva e non “passiva”. Ho imparato ad intervenire
in assemblee, a non avere paura ad esporre i miei dubbi e il mio punto di vista.
Questo processo è passato per la scrittura: mi risultava più semplice
scrivere quello che pensavo che non esporlo a voce. Ho iniziato così
a collaborare con qualche rivista spagnola e in “A” ho trovato la
valorizzazione del mio pensiero ed il posto perfetto per condividere sensazioni
e inquietudini.
Sono felice di essermi trovata davanti una generazione che punta a coltivare
le relazioni umane come primo passo verso l’anarchismo, piuttosto che
pensare a grandi azioni. Sorrido quando qualcuno si sorprende di conoscere persone
che si definiscono anarchiche e non corrispondono allo stereotipo che offrono
i mass media. Sorrido nel vedere che se è una ragazza dal viso pulito
e sorridente a chiedere la rivista “A”, le si offre una rivista
per imparare a fare a maglia…e mi piace vedere molte persone intorno a
me che si comportano in un modo che per me è anarchico ma si sentono
completamente estranei a questa definizione. Non è certo importante l’etichetta
quanto la coerenza che ognuno trova nel suo modo di comportarsi.
Quarant’anni
di anarchia a Bologna
di Walter Siri
L’anarchismo bolognese è sempre stato molteplice e variegato
Sempre più spesso rileggo il tempo passato e mi “spavento”
per quanto lungo è diventato il racconto. Fra due anni festeggeremo i
quarant’anni d’uso del “cassero” di porta Santo Stefano
dove ha sede il circolo anarchico “Camillo Berneri” di Bologna.
Ho cominciato a frequentare il movimento ben prima di questa presa in uso dei
locali (che il comune di Bologna concesse tardivamente agli anarchici quale
risarcimento delle distruzioni operate dal fascismo); ricordo le ripide scale
del circolo “Cafiero” di via Paglietta; ma il grosso dell’attività,
soprattutto negli anni ‘70, si svolgeva nei luoghi di vita, studio e lavoro,
nelle strade e nelle piazze. Abbiamo cominciato, sarebbe bene dire, visto che
la mia compagna di vita, Tiziana, ha condiviso fin da allora la comune attività
sociale, culturale, progettuale che caratterizza l’anarchismo.
Dopo quarant’anni siamo un po’ la memoria dell’anarchismo
bolognese assieme ad altri compagni e compagne che sono ancora attive. Queste
righe per “A” cercheranno di fare il punto di quest’esperienza
anche se i vari momenti, le fasi, le campagne, dovranno essere viste a “volo
d’uccello”.
L’anarchismo bolognese è sempre stato molteplice e variegato non
fosse altro per l’importanza che l’Università riveste nella
vita politica, sociale, culturale ed economica della città. Migliaia
sono le donne e gli uomini che, studenti fuori-sede, hanno attraversati i circoli,
i locali, le librerie, i gruppi, i collettivi, le associazioni del movimento
anarchico e libertario bolognese; apportando, ognuno/a il suo contributo specifico
al movimento. Fortunatamente, il movimento è anche composto da tante
e tanti “autoctoni” o “nomadi” che hanno trovato una
collocazione stanziale nella città e nella provincia.
Così come la caratteristica dell’anarchismo come componente del
movimento operaio si è sempre manifestata nella nostra città con
una presenza diffusa e vivace degli anarchici nel mondo del lavoro e nelle lotte
che questo mondo esprime.
Parlando di Bologna e del movimento con questa prospettiva memorialistica è
d’obbligo soffermarsi sul “movimento del ‘77”. In effetti,
in quel movimento c’era molto dell’anarchismo bolognese e, di converso,
l‘anarchismo della città è rimasto influenzato da quell’esperienza.
A ben vedere, il 1977 è stato l’anno della morte del movimento,
della sua sconfitta sul piano sociale prima ancora che su quello militare. Ciò
che lo aveva preceduto era un decennio nel quale per molti di noi la rivoluzione
era non solo auspicabile ma possibile, quasi a portata di mano.
Il politicismo che spesso sfociava nel politicantismo aveva cercato di normalizzare
i movimenti, soprattutto operai e studenteschi che si erano manifestatati in
quegli anni. Ma stagione dopo stagione l’anarchismo riprendeva il sopravvento:
le istanze politiche rifluivano ed il movimento avanzava. Nella prima metà
degli anni ‘70, a Bologna, si contavano 6 locali esplicitamente anarchici
e contemporaneamente l’anarchismo permeava innumerevoli altre esperienze.
L’essere variegato poneva il movimento nelle condizioni di contaminare
partecipando anche istanze che non si caratterizzavano in modo specifico.
Anche oggi, molte delle situazioni “di movimento” (centri sociali,
collettivi di lotta, coordinamenti, sindacati di base) vedono una significativa
presenza anarchica e libertaria. L’anarchismo, com’è evidente,
oltrepassa e sopravvive alle stagioni, continuando la sua azione di sovversione
sociale.
Appunti
sull’utopia concreta
di Zelinda Carloni
L’errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società “modello”
Infausto errore è la pretesa che la politica sia una scienza, un due più due quattro. In realtà ciò che ha a che vedere con il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi (che poi è quella, la società) è una tecnica, un artigianato sapiente ma niente più, e non ha e non dovrebbe avere niente a che fare con la “scienza”.
• I “paradisi perduti” possono essere perduti facilmente quando non siano mai stati conquistati.
• L’aspirazione ad una società umana armonica e “felice” non va confusa con la nostalgia della perfezione primigenia: è piuttosto il desiderio di impadronirsi di un bene che deve essere conquistato dalla coscienza prima ancora che dall’esperienza.
• Parole come evoluzione, sviluppo, arretratezza hanno a che vedere con una concezione storica che dà per scontato che comunque il tempo proceda verso la perfezione, ed è una forma paradossale di utopismo.
• Dall’utopia concreta è inutile aspettarsi la “redenzione” degli uomini: è l’organismo sociale che deve essere compiutamente armonico, e non è necessario perché questo accada che ogni individuo si trasformi in una specie di asceta.
• La dinamica delle società storiche si è sempre appropriata di un presunto diritto all’istituzionalizzazione; questa pratica, purché abbia un inizio, diviene aberrante, e si moltiplica in modo mostruoso fino a tentare di definire, secondo regole e norme, qualunque comportamento o scelta degli individui. In effetti, la presunta efficienza della società si riduce ad una forsennata attività di moltiplicazione delle sue forme nelle quali in nessun caso potrà far riquadrare tutti i soggetti sociali.
• Ogni ipotesi che prospetti una utopia concreta deve partire dal presupposto che gli uomini non sono uguali, non sono prevedibili scientificamente e non rispondono necessariamente alla stessa maniera in determinate circostanze.
• L’errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società “modello”, una agiografia di società che, per il fatto stesso di essere agiografica, commuove ma non convince. L’utopia concreta deve poter partire dal presupposto che l’uomo è ciò che è: una mistura indecifrabile, e niente affatto scientificamente definibile, di possibilità, passioni, generosità, meschinità e di tutti quegli attributi che solo la poesia può esplorare, ma nessuna scienza. Lasciarsi convincere che questo presupposto infici ogni possibilità di “altro da questo” è una forma di vigliaccheria intellettuale. Perché è certo che questo dato rende più complessa l’elaborazione di un progetto sociale, ma è falso che ne impedisca la formulazione. L’anomalia, la perversione, la negazione vanno previste e accettate, anche perché niente e nessuno le potrà mai eliminare.
40 ANNI. 358 COPERTINE.
Dal numero 1 al 26 il formato della rivista era di cm 31,5x43.
Dal numero 27 in poi il formato della rivista diventa di cm 20,5x29.
INTERVISTA A UN REDATTORE DI "A".
La nostra storia
La (mia) vita dalla a alla “A”
Intervista a Paolo Finzi
di
Adriano Paolella
Nata poco più di un anno dopo la strage di piazza Fontana (sull’onda
della mobilitazione che ne seguì), “A” ha attraversato quattro
decenni di storia italiana cercando di capire quel che accadeva, di dar voce
a chi si opponeva, di tenere vivi la riflessione e il dibattito.
Ne parliamo con l’unico componente del gruppo fondatore della rivista
ad essere tuttora nella redazione.
La rivista “A” compie 40 anni.
Com’è nata l’idea di questa rivista?
La rivista festeggerà nel febbraio 2011 i suoi 40 anni, il primo numero
uscì infatti nel febbraio 1971. Ha avuto una fase di gestazione di alcuni
mesi, a poco più di un anno dal 12 dicembre 1969, ed è certamente
figlia della strage di Piazza Fontana, dell’assassinio di Giuseppe Pinelli
e della campagna di controinformazione all’indomani della strage.
Il gruppo iniziale della redazione era composto per la maggior parte da compagni/e
del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, il circolo di Pinelli. Io allora
avevo 18 anni ed ero uno degli elementi più giovani del gruppo redazionale,
per circa un anno fece parte della redazione anche un “romano”,
Guido Montana, che in seguito uscì dalla redazione e dal movimento anarchico.
Prima del ‘69 e delle bombe del 12 dicembre non c’era l’idea
di una rivista?
No. Infatti la rivista dal punto di vista finanziario nacque con una raccolta
di fondi all’interno del gruppo promotore, l’intento era di coprire
i costi dei primi tre numeri. L’orientamento era di fare comunque tre
numeri mensili di “A” e poi si sarebbe valutato se continuare a
secondo dell’accoglienza e delle reazione degli anarchici. Se il responso
fosse stato positivo, si sarebbe andati avanti con i soldi delle vendite e di
nuove sottoscrizioni. Il fondo utilizzato per la rivista “A” era
costituito dai soldi raccolti da alcuni compagni del Circolo Ponte della Ghisolfa
per un progetto d’acquisto di un cascinale disabitato in Toscana, nel
paesino di Solata, per costituire una comune tipo città-campagna. Io
non facevo parte del progetto della comune promosso dai compagni più
vecchi, che avevano un età intorno ai 23-29 anni.
Con la strage di Piazza Fontana e la necessità di fare controinformazione
i soldi raccolti vennero usati per creare la nuova rivista.
Il capitale iniziale era quindi abbastanza consistente?
Si erano raccolti più di un milione di lire di allora, che bastavano
a pagare l’uscita di due o tre numeri della rivista. Oltre alla volontà
dei compagni e alla situazione politica, la rivista guardava anche allo stato
della stampa anarchica che allora era rappresentata da Umanità Nova.
il settimanale che usciva regolarmente dal 1945, la cui redazione periodicamente
cambiava di località. UN era pubblicato a Roma con una redazione un po’
vecchio stile rispetto alla sensibilità di allora, con alcuni vecchi
compagni come Umberto Marzocchi e Mario Mantovani anche se nella redazione operativa
di Roma in via dei Taurini vi erano Aldo Rossi e Anna Pietroni, della generazione
di mezzo.
Siamo negli anni ’70: il ‘68 ha portato avanti anche una rivoluzione
grafica ed estetica nelle pubblicazioni. La rivista nasce con un progetto grafico
innovativo realizzato principalmente da Giovanni Pieraccini, un simpatizzante
radicale e anarchico di Milano. La rivista si caratterizzò per l’uso
attento ed esteso della grafica e delle foto, l’uso di immagini fu sicuramente
innovativo rispetto ad UN, un giornale tutto piombo con i suoi pregi ed i suoi
difetti. La rivista “A” nacque così con una grafica accattivante
che colpì nel segno il movimento anarchico, tanto che dopo i primi tre
numeri si decise di continuare le pubblicazioni sull’onda dell’entusiasmo
riscontrato.
Lo spartiacque
Piazza Fontana (e Pinelli)
La distribuzione era buona?
Si. Il primo nucleo di distributori si basò principalmente, oltre che
su Milano, su quattro/cinque gruppi di militanti appartenenti ai GAF (Gruppi
Anarchici Federati), una delle tre federazioni allora esistenti a livello nazionale
insieme alla FAI (Federazione Anarchica Italiana) ed ai GIA (Gruppi d’Iniziativa
Anarchica). Per esempio al gruppo di Torino si spedivano 500/600 copie da distribuire.
E poi c’erano tanti gruppi e circoli anarchici, la maggior parte nel Centro-Nord,
non pochi della FAI (penso tra gli altri al Germinal di Trieste, che ci diffonde
ininterrottamente dal primo numero).
Tra il ‘68 e il ‘69 molte pubblicazioni politiche, artistiche e
culturali prendono sviluppo. Attorno al 1971 nascono progetti editoriali come
il Manifesto, Fronte Unito del movimento studentesco di Mario Capanna, Re Nudo
che inizia con una campagna curiosa e dissacrante con scritte sui muri in varie
città “Re Nudo?”, tutti si chiedevano chi fossero e fece
seguito la nascita di questa rivista. I giornali come il Manifesto e Re Nudo,
nonostante i loro cambiamenti, escono ancora oggi.
La distribuzione militante era un dato comune, ci si alzava a volte alle cinque
di mattina, si andava anche davanti alle fabbriche per vendere i giornali. Anche
se non si era operai, spesso nei primi numeri si scriveva della situazione sindacale
e contrattuale e della condizione di vita dei lavoratori. Mi ricordo che una
mattina davanti all’entrata dell’Università Statale di Milano,
nonostante la presenza di numerosi giornali di taglio marxista e non, si riuscìrono
a vendere più di seicento copie della rivista. Un grande successo che
testimoniava l’esigenza di informazione, tenendo conto che ancora non
esistevano internet e le radio private. C’era una sensibilità sociale
in generale ed è in questo contesto che nasce la rivista, dove quasi
tutte le cose fatte bene potevano avere successo essendoci anche una maggiore
attenzione culturale.
Nei primi numeri della rivista convivevano in maniera tumultuosa l’esigenza
di ricostruire la storia degli anarchici, i medaglioni sulle figure storiche
del movimento, le letture di Bakunin, Malatesta … la ricostruzione organica
con un lavoro redazionale coordinato che ripresentava numero dopo numero la
Comune di Parigi, Kronstadt, le rivoluzioni russa e spagnola … insieme
a tanta attualità, dalla lettera di una maestra elementare, alle questioni
sindacali … ed alcune tematiche portanti tra cui la prima che caratterizza
la rivista è la campagna Valpreda.
Milano con la strage di Piazza Fontana si affaccia in maniera preponderante
sulla scena politica, sulla scena extraparlamentare dei movimenti di contestazione.
La strage di Piazza Fontana. dopo il 25 aprile 1945, è forse la data
più significativa della storia italiana, lo spartiacque tra un prima
e un dopo. Uno spartiacque riconosciuto da molti anche se è vero che
a Roma ci furono delle bombe inesplose il 12 dicembre, ma è a Milano
che c’è la strage, è a Milano che c’è la conferenza
stampa degli anarchici del Ponte della Ghisolfa il 17 dicembre come prima risposta,
è a Milano che vola dalla questura Pinelli, è a Milano che il
21 e 31 gennaio 1970 ci sono le prime due manifestazioni nazionali allargate
a tutta la sinistra con decine di migliaia di partecipanti, è a Milano
che iniziano i processi spostati poi a Roma, Catanzaro, Bari.
Io poi ho vissuto il 12 dicembre, sul piano personale, con grande intensità.
Il mio fermo, concretizzatosi quella sera nel trasferimento in Questura su una
macchina della polizia, il successivo interrogatorio durante la notte e la mini-detenzione
nelle celle nel sotterraneo della Questura fino al tardo pomeriggio del 13 dicembre
(sorte condivisa con molte decine di anarchici milanesi) costituì una
specie di “battesimo di sangue”. E quando poi uccisero Pinelli e,
tempo dopo, chiesi e ottenni l’ammissione nel gruppo “Bandiera Nera”
dei GAF – idealmente al posto di Pinelli, visto che fui il primo nuovo
militante del gruppo dopo la sua morte – la convinzione di confermare
lo slogan “Quando un anarchico cade, un altro prende il suo posto”
fu emozionante. Nel ricordarlo oggi sorrido, ma allora… avevo 18 anni.
E poi eravamo a Milano, la città operaia, l’autunno caldo. A Milano
in particolare nasceva un grosso movimento di contestazione. E si fa sempre
più significativa (anche se sempre fortemente minoritaria) la presenza
degli anarchici, che dal ‘68 (tre anni prima della nascita di “A”)
conoscevano una ripresa dell’anarchismo a livello internazionale L’anarchismo,
nonostante fosse presente storicamente dall’800, dalla prima guerra mondiale
al fascismo con le occupazioni delle fabbriche, i comizi di Malatesta che riempivano
le piazze, il quotidiano Umanità Nova, veniva con la logica della guerra
fredda schiacciato in un angolo (nonostante che le nostre sedi dopo il 45 fossero
di nuovo frequentate).
Quindi la ripresa degli anarchici con il 68 è forte anche a Milano, ed
essendo Milano sprovvista di un giornale anarchico, è notorio che quando
si uniscono degli anarchici e si creano dei gruppi nascono non solo dei contrasti
ma anche dei giornali, perché gli anarchici ritengono di avere sempre
qualcosa da dire (la tendenza a scrivere è una delle caratteristiche
degli anarchici, a volte al limite della grafomania). Era nella logica e nella
tradizione che nascesse comunque a Milano questo giornale, infatti già
negli anni 50-60 a Milano vi era il periodico il Libertario di Mario Mantovani
che aveva una sua dignità e che svolse un ruolo significativo nel tenere
aperti i rapporti tra movimento anarchico e mondo del lavoro. La ripresa dell’anarchismo
nel 68, la ricomparsa delle bandiere rosso-nere nelle piazze e nelle università
pone il problema dell’assenza di un giornale anarchico che pesava sul
movimento.
Gli occhi all’indietro
e in avanti
Con queste premesse i primi numeri hanno avuto successo … ma dopo il
terzo numero che cosa è accaduto?
Le valutazioni furono sicuramente positive, “A” rispondeva ad un
esigenza, anche se non le soddisfaceva completamente ma solo parzialmente, infatti
i primi anni ‘70 sono un fiorire di altri giornali in tutta Italia. UN
e la rivista “A”, da un punto di vista quantitativo, sono rimasti
i giornali principali, UN di fatto più rivolta all’interno del
movimento anarchico, la rivista “A” più rivolta all’esterno.
I giornali anarchici hanno avuto sempre una grossa funzione di organizzazione
interna e così è stato anche per la rivista, per portare avanti
e coordinare certe campagne. La rivista “A” supportata da un vasto
movimento militante che garantiva un bacino d’utenza aveva la pretesa
di rivolgersi e di parlare soprattutto ai non anarchici. Un giornale di anarchici
ma non per soli anarchici, usando un’altra espressione noi dicevamo di
non voler essere “né carne, né pesce”: “A”
non voleva essere una rivista puramente culturale ma neanche prettamente militante,
questo è importante perché ha caratterizzato tutta la vita della
rivista e la sua evoluzione.
Io sono l’unico “sopravissuto” all’interno della redazione
del gruppo editoriale originario. In questi anni c’è stato un buon
turnover all’interno del collettivo redazionale. I promotori e i primi
redattori e collaboratori del gruppo originario della rivista sono ancora oggi
in pista, anche se qualcuno per vicende personali ha avuto altri percorsi trasferendosi
in Canada e Australia o c’è chi purtroppo è deceduto. I
compagni del nucleo principale rimangono ancora oggi tutti impegnati, io nella
redazione della rivista, gli altri hanno dato vita ad altre iniziative culturali
e militanti, ma soprattutto culturali come la rivista Libertaria, le edizioni
Eleuthera, il Centro Studi Libertari “G.Pinelli”. Nel corso dei
decenni le iniziative hanno avuto altri nomi come le riviste Volontà
e Libertaria, il Comitato Spagna Libertaria, Crocenera Anarchica, le edizioni
Antistato Eleuthera ed altre esperienze militanti. E con questi compagni, con
queste iniziative i rapporti si sono mantenuti operativi e validi per decenni,
a volte con alti e bassi sul piano personale (e mi pare normale). Ma abbiamo
saputo e voluto evitare ciò che troppo spesso caratterizza i movimenti
“piccoli” (e non solo quelli), in cui gelosie, insofferenze, anche
legittime differenze di carattere o di impostazione portano prima o poi a fratture,
se non a vere e proprie guerre intestine. E anche la storia degli anarchici
non è esente da simili tristi accadimenti.
Noi no: il nucleo originario di “A” è ancora tutto compatto,
ciascuno con i propri acciacchi è ancora impegnato a portare avanti il
discorso e le attività… di allora.
La militanza anarchica nel corso di decenni è spesso discontinua, ma
il gruppo della rivista è un pool di persone, che nonostante tutte le
differenze si è mantenuto unito intorno ad un progetto, di cui la rivista
è il primo progetto editoriale che a sua volta ha germinato, con l’uscita
delle persone, altre iniziative di un progetto culturale condiviso. Gli stessi
Amedeo Bertolo e Rossella Di Leo, elementi portanti della rivista nei suoi primi
4 anni, così come Luciano Lanza (che uscì dalla redazione più
avanti, nel 1981) continuano la loro collaborazione. Era talmente “importante”
l’uscita di Amedeo e Rossella a fine 1974, che per quelli che rimanevano
diventava una scommessa poter continuare a farla … Ma dopo 36 anni “A”
continua ad uscire.
Com’era la vita nella redazione della rivista a quei tempi, come si sviluppava?
Una curiosità è che la rivista, uscita sempre come mensile, in
un numero dei primi anni ‘70 avesse un’avvertenza del tipo “Scusate,
ma il mese scorso non siamo usciti perché avevamo troppo da fare”,
ossia la redazione della rivista che s’incontrava la sera, era fatta di
militanti che durante il giorno avevano chi il loro lavoro o chi studiava all’università.
Eravamo persone che vivevano in maniera intensa la loro attività militante,
oggi non succede quasi più, è calato il volontariato e il contesto
è molto diverso. Allora si tornava dal corteo e si andava a correggere
le bozze. Le riunioni erano molto animate e piene di fumo. Io non potrei più
partecipare a quelle riunioni, non c’era una sensibilità antifumo.
Finivamo quasi sempre con il litigare con i vicini di casa perché la
redazione era (ed è tutt’ora) collocata in un piccolo appartamento
di un piccolo condominio di un quartiere operaio, oggi popolato da moltissimi
cinesi ed egiziani, alla periferia nord-est di Milano. Vicini di casa con cui
oggi abbiamo ottimi rapporti non essendoci più quel clima militante con
riunioni fino a tardi, piene d’urla … non c’è più
quella micidiale macchinetta che imprimeva sulla carta delle buste gli indirizzi
fatte su schede di zinco… tong tong … ad ogni colpo seguivano le
bestemmie di quelli del piano di sopra, anche se noi mettevamo gli asciugamani
sotto la “battitrice” di indirizzi per attutire il rumore.
La sede della rivista era anche una delle sedi anarchiche di Milano, capitava
spesso di trovare un compagno straniero che dormiva davanti al portone con il
sacco a pelo e non sempre emanava profumi piacevoli, naturalmente questo non
entusiasmava i vicini di casa ma neanche i redattori.
La rivista ha avuto solo due sedi. La prima, quando è nata e solo per
circa un anno, nel Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, nella sede storica
di piazzale Lugano 31 vicino ad un ponte. Poi venimmo a sapere di un appartamento
di proprietà del movimento anarchico, gestito da vecchi anarchici, non
residenti a Milano, che era sfitto. Questo appartamento era appartenuto a una
famiglia anarchica pugliese di nome Monterisi che agli inizi degli anni 60 lo
donò a Giovanna Berneri la vedova di Camillo Berneri ucciso dagli stalinisti
a Barcellona nel 37. Giovanna (che mori dopo qualche anno) curava anche la colonia
Maria Luisa Berneri (dedicata ad una sua figlia morta giovane) che era una villetta
a Marina di Massa dove durante l’estate i figli di tanti compagne e compagni
andavano a trascorrere dei periodi di vacanza in questa struttura sostenuta
generosamente da tanti compagni (tra cui molti compagni emigrati negli Stati
Uniti … la generazione di Sacco e Vanzetti). Tra i giovani ospiti della
Colonia c’erano spesso figli di famiglie anarchiche che altrimenti non
si sarebbero potute permettere le vacanze al mare per i loro figli, così
come figli di anarchici spagnoli (e di altre nazionalità) esuli. Un’esperienza
bella, di segno comunitario e libertario.
Tornando all’appartamento dove c’è ancora oggi la redazione
di “A”, c’era anche questo appartamento di proprietà,
che però era tenuto sfitto e chiuso. Venendone noi a conoscenza, si chiese
il comodato d’uso per poterlo gestire e dal ‘72 (un anno dopo la
nascita della rivista, appunto) siamo entrati in questo locale di circa 45 metri
quadri con cucinino, fu parzialmente riadattato per poter fare anche una camera
oscura per sviluppare le fotografie. Da allora è la sede della rivista
ed ora da vari anni è di proprietà della Cooperativa Editrice
A. È quindi ufficialmente di proprietà di una struttura di movimento.
Dal 1986 sotto l’appartamento in un seminterrato hanno sede il Centro
Studi Libertari e l’Archivio Pinelli, ed attualmente la casa editrice
Eleuthera e la rivista Libertaria, un piccolo pool editoriale, la nostra Arcore
dell’editoria libertaria a Milano.
Un po’ scavezzacollo
e fuori riga, ma…
La rivista ha sempre avuto un’attenzione al passato ed alla storia del
movimento. Com’erano i rapporti con i compagni anziani?
L’attenzione alla storia del movimento faceva parte di un progetto culturale.
Nel 1973 uscì per le Edizioni Antistato (allora curate da un muratore
cesenate, Pio Turroni, con il quale c’era un legame umano molto forte)
un opuscolo firmato da cinque compagni, tra cui il sottoscritto, dal titolo
“Un’analisi nuova per la strategia di sempre”. Un opuscolo
che era la nostra fotografia dell’anarchismo possibile allora e che riassumeva
la nostra concezione. Eravamo orgogliosamente anarchici, ma anche criticamente
anarchici.
Da una parte c’era la fierezza di far parte di un movimento che era stato
tenuto in un angolo per tanto tempo e che invece aveva una sua storia, una storia
nobile, che nasceva dalla prima polemica tra Marx e Bakunin, un movimento che
quasi non aveva storici o professori, anche in ragione delle sue origini in
gran parte proletarie.
L’attenzione al passato era parte del nostro essere anarchici. Il passato
era per noi fondamentale, ma non sufficiente. L’anarchismo deve sempre
guardare avanti, non fermarsi al proprio passato. Negli anni ‘70 la presenza
dei vecchi era numerosa, era la generazione del pre-fascismo che “gestiva”
il movimento e lo rappresentava. Ai congressi della FAI ed alle riunioni c’erano
tante vecchie barbe e persone anziane.
Con tutti i suoi pregi e difetti, è stata la generazione a cui ho fatto
riferimento e avevano “due palle così”, persone che si erano
impegnate personalmente contro il fascismo e non solo in maniera teorica. Infatti
tanti di loro, a causa della loro coerenza, finirono in galera, al confino,
in esilio in Francia, in Belgio, in Spagna e in Russia dove morirono anche come
vittime dello stalinismo. I rapporti tra di loro erano molto intensi e significativi,
tanto che ai congressi questa esperienza dura veniva a volte fuori e molti scoppiavano
a piangere e si abbracciavano.
Nel 1965 nel movimento anarchico, quasi al completo organizzato nella FAI, avviene
una dolorosa scissione di una minoranza che non si riconosce nelle nuove modalità
organizzative e si crea una nuova federazione, comunque la repressione e gli
avvenimenti del 69 ricompattano in parte questa divisione, riprendono gli incontri,
i rapporti e i dialoghi in comune.
A Milano i vecchi compagni che si ritrovavano la domenica mattina al circolo
erano scarsi e relativamente poco significativi, rispetto al ruolo giocato dai
loro coetanei in tante località. La ripresa anarchica a Milano, dopo
il boom dell’immediato secondo dopoguerra e il quasi deserto degli anni
’50, data dal 1962, grazie ad un gesto clamoroso (che non aveva niente
a che vedere con il terrorismo) che vedeva come protagonista Amedeo Bertolo
(ancor oggi presente sulla piazza) allora giovane anarchico, con il rapimento
(fatto in maniera molto artigianale e poco organizzata) del vice-console spagnolo
di Milano, un gesto nobile e significativo per evitare l’esecuzione della
condanna a morte di un compagno anarchico in Catalogna. Il gesto ebbe un riscontro
clamoroso sulla stampa e al processo, a Varese, Amedeo Bertolo si costituì
e nonostante l’arresto di altri compagni il processo si trasformò
in un processo contro il Franchismo. Gli imputati vennero condannati a pene
lievissime (di questi tempi sarebbero martoriati dalle leggi antiterrorismo)
ed assolti. Fu una specie di piccolo trionfo. Grazie a questo episodio ed al
giornale Materialismo e Libertà, si andarono ad aggregare un gruppo di
giovani anarchici e libertari. Poi il 68 …
Nel 1971, a livello nazionale, i vecchi compagni accolsero favorevolmente la
neonata “A”, furono pochissimi coloro che furono diffidenti davanti
all’eccessiva modernità della cosa. ….
I compagni a Milano con Amedeo, conosciuto con i fatti del 62, avevano una grossa
credibilità presso i vecchi compagni, credibilità costruita anche
dalla presenza militante di Giuseppe Pinelli che insieme a Cesare Vurchio (collaboratore
ancora della rivista e del Centro Studi Libertari) oggi 78 anni, allora 40enni
… erano i due “vecchi” militanti del giovane movimento anarchico
milanese. Appartenevano ad una fascia d’età quasi assente tra gli
anarchici perché erano nati e cresciuti sotto il regime fascista. Pinelli
aveva contribuito alla crescita della stima dei vecchi compagni nei confronti
dei Milanesi, ed essendo ferroviere (e molto estroverso) era considerato il
“ministro degli esteri” degli anarchici milanesi, viaggiava gratis
con la famiglia (moglie e due figlie), conosceva Alfonso Failla, Pio Turroni,
Umberto Marzocchi e tutti gli esponenti più in vista del movimento anarchico
italiano.
I vecchi apprezzarono la nascita della nuova rivista e lo vedemmo anche dal
fatto che quando chiedemmo l’appartamento per piazzarvi la redazione ce
ne concessero subito l’uso. Una credibilità e apprezzamento dovuti
anche al peso che davamo nella rivista alla nostra sacra storia, ricostruita
pagina per pagina, numero dopo numero. Veniva così a cadere quella diffidenza
verso quella parte della nostra generazione, si capiva che non eravamo un’altra
ondata di giovani anarchici poco seri che si presentavano ai bordi del movimento
facendo casino e criticando (a volte anche giustamente) ma che poi sparivano.
C’era, sempre da parte dei vecchi compagni, una certa diffidenza nei confronti
del ‘68, dovuta anche alle polemiche al congresso di Carrara del ‘68
con Daniel Cohn-Bendit. Era la testimonianza di una oggettiva difficoltà
del movimento anarchico specifico di rapportarsi con l’emergere di queste
grosse tendenze libertarie.
Noi del gruppo di “A” ci si poneva non dico a metà strada,
ma si cercava di radicarsi con il vecchio movimento e di non buttare via tutto
… la vasca dell’acqua sporca con il bambino dentro, ma di salvare
il buono delle nuove tendenze libertarie, sicuramente confusionarie, come il
marxismo libertario che si poneva sia a livello teorico che pratico, sotto forma
di stretta collaborazione tra gli anarchici e Lotta Continua, Potere Operaio
e il Movimento Studentesco …
Non c’era, a mio avviso, una linea giusta e perfetta ma certamente da
parte dei vecchi c’era una (perlopiù comprensibile, almeno da parte
mia) diffidenza, a volte eccessiva, verso i giovani, però è vero
anche che Cohn-Bendit al Congresso di Carrara e tanti altri proponevano sull’onda
dell’esperienza delle barricate di Parigi lo scioglimento del movimento
anarchico. E i vecchi che, avevano fatto, per esempio, le barricate nel quartiere
San Paolo a Roma nel ‘22, qualche decennio prima, non si facevano impressionare
dalle asprezze della lotta.
C’è poi un aspetto che mi riguarda personalmente. Io scrivevo da
tempo sui due giornali anarchici “principali”, dal luglio ’69
su Umanità Nova e dal dicembre ’69 su L’Internazionale. E
anche dopo la nascita di “A” continuai a collaborare, irregolarmente
ma per lungo tempo, con quelle testate. Quando nell’aprile 1971 incontrai
Marzocchi e Failla a casa di quest’ultimo, a Carrara, in occasione del
IX congresso della FAI (e “A” era appena nata da due mesi), ricordo
il “perbacco” di Marzocchi che mi disse “ma allora sei tu
il Finzi che scrive su Umanità Nova”. Lui aveva ricevuto e pubblicato
vari miei articoli (e che orgoglio, dentro di me, quando per la prima volta
ne vidi uno pubblicato come “editoriale”, l’articolo più
importante, di spalla sinistra!) ma non si ricordava di me (io sì, avevo
visto sia lui sia Failla ad un convegno dei GAF a Milano, l’anno prima,
al quale i due avevano partecipato come esponenti della Commisione di Corrispondenza
della FAI).
Quello che voglio evidenziare è che il fatto che io da oltre un anno
e mezzo collaborassi con il giornale della FAI (e, sull’altro versante,
con quello dei GIA) e fossi al contempo un redattore di “A” li predisponeva
bene nei confronti della rivista, non solo del sottoscritto.
Assolutamente non solo per anarchici
La rivista si caratterizza quindi per la sua apertura all’esterno senza
avere paura di confrontarsi con gli altri, cercando gli stimoli per una riflessione
libertaria ed è ciò che l’ha caratterizzata per questi 40anni.
Sì, è andato accentuandosi nel tempo anche in base alla nostra
esperienza. Se uno va a vedere i collaboratori e le cose che ci sono nel primo
decennio, che sono la parte migliore della rivista … lo stato nascente
adolescenziale .. sono molto legato a quel periodo … trovo una rivista
molto anarchica. La A della rivista che è la stessa di adesso …
una rivista molto variegata ed aperta principalmente all’interno dell’anarchismo
… vivace a livello internazionale fummo tra i primi a tradurre Noam Chomsky,
le sue riflessioni sui nuovi mandarini, sulla rivoluzione spagnola ma anche
sul dibattito Marx Bakunin, ci aprimmo moltissimo. Il movimento anarchico passava
molto e noi cercavamo tanti spunti all’interno dell’anarchismo,
eravamo ribollenti … partimmo nel 71 con un casino di cose da dire e da
raccontare …
Con il senno del poi, vedo i primi anni della rivista come un progressivo distendersi
di tutto quello che avevamo da dire … e un po’ alla volta cominciavamo
a dirle … parliamo di Gori, di Galleani, di autogestione … è
un processo che è andato avanti nel tempo parallelamente ai cambiamenti
delle situazioni, per capire bisognerebbe vedere le posizioni sulla lotta armata
e su tante altre questioni ... la rivista ha accentuato le sue caratteristiche
… infatti oggi scrivono più facilmente che allora persone che non
sono anarchiche.
Il rapporto tra la rivista e l’epoca in cui veniva pubblicata era di
grande differenza rispetto ai linguaggi praticati da altri movimenti presenti
allora; leggere una pagina della rivista del ‘72 e leggere un volantino
di altre organizzazioni, si notano un linguaggio differente, sempre meno demagogico,
sempre meno chiuso, meno autoreferenziato, più sereno, è questo
che caratterizza anche negli anni 70 della rivista … la sua apertura.
Sin dall’inizio ci siamo posti il problema di farci leggere dagli altri,
anche dai non-anarchici, rifiutavamo le esagerazioni come quelle di Lotta Continua
per esempio sulle partecipazioni ai cortei … 200 per la questura …
5.000 per Lotta Continua … se si divide per cinque forse ci si avvicina
alla realtà.
Un altro merito della redazione dovuto alla ricchezza del movimento anarchico
non solo italiano ma anche quello anglosassone è fatto di libri di personaggi
già allora molto conosciuti come George Woodcook, Colin Ward, Alex Comfort
… l’anarchismo è ricchissimo e multitematico e rispetto ad
alcuni settori anarchici o movimenti della sinistra, sulla rivista non si riscontra
il mito dell’operaio, l’operaiolatria come la chiamava Camillo Berneri...
Si trova un po di tutto e una grande attenzione al presente, dall’esperienza
di una maestra, alle fabbriche d’armi, alle relazioni sindacali…
Per esempio, mandammo un nostro redattore a seguire l’autogestione in
Francia in una fabbrica di Besançon, la Lip .. si discuteva dei voli
spaziali se avevano senso o no … si trovano tematiche su argomenti che
sarebbero stati considerati secondari da altri movimenti anche anarchici. Questo
è un grande elemento di apertura.
Io sono ancora oggi convinto che se un lettore trova nella rivista due o tre
articoli che lo interessino, già l’obiettivo è stato raggiunto.
Nella complessità militante e culturale di allora, la rivista è
sempre stata multitematica, anche nei primi anni in cui l’asse portante
era la campagna per Valpreda, copertine con “Valpreda libero subito”,
ci si è sempre occupati di tante cose. Il che testimonia un interesse
verso l’esterno, il nostro target è chi ci legge ossia chiunque
abbia voglia di relazionarsi con noi, non abbiamo mai privilegiato un soggetto
sociale, per esempio il proletariato …
Uscivamo con nove numeri all’anno perché comunque legati al mondo
studentesco ed alle scuole, ma non per questo era una rivista giovanilistica
anche se allora l’età media della redazione era sui 25 anni.
Noi non abbiamo mai voluto “dare la linea”, perché come anarchici
siamo contrari ad una concezione avanguardista. Questo non ci ha impedito di
prendere posizioni redazionali nette, come nel caso della violenza e della lotta
armata e su altri temi. La rivista aveva una posizione precisa, ma in generale
la rivista con le sue radici nell’anarchismo era concepita come un’agorà,
come uno spazio a disposizione di chi aveva qualcosa da dire con una sensibilità
libertaria.
L’anarchismo per noi, oggi, è un riferimento emotivo, un riferimento
culturale oltre che un riferimento politico, rappresentiamo è vero una
parte del movimento anarchico ma siamo soprattutto una palestra di opinioni.
Gli articoli tendenzialmente sono firmati e la responsabilità è
di chi li scrive e in un contesto dove la lotta politica militante e il ruolo
dell’anarchismo organizzato non sono quotidianamente vivaci, noi siamo
convinti di rappresentare, e non ci vergogniamo della parola, un punto di riferimento
culturale, nel senso medio del termine … né carne né pesce
.. non una rivista di grandi approfondimenti ma neanche intenta a dire o far
dire banalità, una rivista che rifiuta lo scontato.
Oggi, in un epoca in cui si legge meno, il lavoro redazionale è quello
di offrire un giornale che si affianchi ad altri, il lettore della rivista non
legge solo “A”, legge anche altri giornali p.e. il Manifesto, Il
Diario, L’internazionale, ascolta le radio, consulta i siti ed i blog
di internet, vogliamo essere un riferimento non solo per il militante ma anche
per tante altre realtà presenti … nel commercio equo e solidale
… nel cattolicesimo di base anche nei valdesi ma sempre come singole persone
non organizzate… nei marxisti in crisi … tutte persone che possono
avvicinarsi ad “A” senza necessariamente trovare la giusta linea,
la nuova verità. Non assicuriamo di mandare Berlusconi a casa …
che facciamo l’autogestione e mettiamo tutto a posto… ma in realtà
in un oggettiva crisi di valori e non solo del sogno rivoluzionario…
Oggi di fronte al dilagare della disoccupazione c’è un dato statistico
inequivocabile, cioè che i giovani per la prima volta dopo decenni pensano
che il loro futuro sarà peggiore, non solo dal punto di vista economico,
di quello dei loro genitori. Questo vuol dire (confermato da paludati sociologi)
che sta morendo la speranza.
L’anarchismo ha delle idee stranissime, che sembrano campate per aria:
prevede un mondo completamente diverso, che non ci crede nessuno che possa essere
visto dalla nostra generazione ma nemmeno da un buon numero di quelle successive.
In questa fase le idee anarchiche esprimono una funzione di pensiero non allineato
senza rinchiudersi nell’intellettualismo … “A” si rivolge
dunque a persone (anarchiche e non) con idee originali che possono esprimersi
… condividendo nelle linee generali il progetto generale dell’anarchismo.
Il ruolo di Bookchin e dell’ecologia sociale
La rivista ha mantenuto una sua identità forte infatti si definisce
“A” rivista anarchica, anche se si considera un laboratorio. Il
nome è la sua autodichiarazione e il laboratorio e il confronto avvengono
all’interno di questa identità dichiarata di rivista anarchica.
È così?
Sì, Il nostro progetto è di fare una rivista anarchica, ma che
sia atipica … io ho contrastato le tendenze e le proposte anche interne
di chiudere e di fare soprattutto negli anni 80 una specie di Espresso libertario,
ossia di fare un salto in avanti sul piano redazionale, distributivo, editoriale,
fare una rivista più grossa, con la pubblicità .. più aperta
agli altri… una rivista libertaria (in spagnolo è sinonimo di anarchico,
in Italia a volte è un sinonimo altre volte è più riduttivo,
libertario è un quasi anarchico …).
Uno dei tratti più significativi è che A raccoglie la collaborazione
di molte persone che anarchiche non sono e questo non è affatto casuale.
Vuol dire due cose. La prima che A raccoglie le simpatie diffuse anche all’esterno
del movimento e questo già di per sé non è poco. La seconda,
altrettanto importante, è che il pensiero libertario (che viene espresso
spesso molto bene da questi collaboratori) non è monopolio degli anarchici
(fortunatamente) ma ha una valenza molto più ampia.
Io ho sempre difeso il ruolo di “A” con convinzione. Ma dentro di
me non nego che in certi momenti in cui gli anarchici venivano sottoposti a
“maltrattamento” mediatico (a volte non senza responsabilità
proprie), mi veniva da dire “Viva l’anarchia… abbasso gli
anarchici”, ossia c’era la non condivisione e accoglimento dell’immagine
che si lascia passare del movimento anarchico e la stessa apertura della rivista,
mi hanno fatto sentire, in certi momenti e che riconosco come un peccato, la
volontà di sganciarsi dalla “A” cerchiata, dal marchio ideologico
… ma ha prevalso sempre l’ancoraggio all’anarchismo dovuto
al legame inevitabile e inestricabile con i vecchi anarchici che ho conosciuto
… nel senso che potrei diventare qualsiasi altra cosa ma la gratitudine
verso quella generazione di anarchici, per come era e per come l’ho vissuta,
resta un dato centrale della mia vita.
Un esempio di quei momenti negativi può essere il luglio 2001, Genova,
le prime pagine con i Black Blok con le banche e le auto bruciate, che mettevano
in secondo piano tutto il lavoro e la presenza specifica degli anarchici in
quel movimento, ….
Da quarant’anni oltre che con la rivista io sto con una compagna –
Aurora – figlia di Alfonso Failla, qualcuno disse che mi ero andato a
“prendere” una donna dell’aristocrazia nera dell’anarchismo,
entrando in casa Failla. Entrai così in contatto con gran parte della
generazione dei confinanti di Ventotene (es. a casa Failla conobbi Arturo Messinese,
che spaccò la sedia in testa al direttore del confino – Tremiti,
mi pare – che voleva fargli fare il saluto fascista) oltre a tanti compagni
stranieri … ho approfondito e conosciuto maggiormente quel mondo che ha
creato questo mio legame personale.
È chiaro che il marchio “A” allontana tutta una serie di
persone … il tuo articolo, caro Adriano, era bello e poteva andare anche
sul Corriere della Sera, molti articoli in effetti possono essere pubblicati
su altri giornali. Se invece di “A” il nome era “B”
sicuramente qualcuno in più ci avrebbe letto .. penso ad esperienze come
la pedagogia libertaria e le scuole di Ferrer in Spagna o al giornale antimilitarista
SenzaPatria che non si sono caratterizzate con l’etichetta anarchica …
ma il nostro compito è un altro, ognuno deve essere fedele a se stesso
pur mantenendo uno spirito critico.
Noi di “A” siamo nati anarchici e il ruolo che possiamo svolgere,
anche se limitato, sarà duplice, un giornale degli anarchici per gli
anarchici, ma che anche altri trovino le nostre proposte su un giornale anarchico
perché lo stesso articolo di “A” pubblicato sul Corriere
anche se letto da più persone non ha la stessa valenza. Uno dei compiti
redazionali di una rivista come la nostra è di creare un effetto domino,
… la copertina dell’ultima rivista ha un dossier su Pietro Gori.
c’è una riflessione di Bifo (uno che viene da un percorso esterno
al movimento anarchico) e poi la protesta per lo sgombero di un centro sociale.
Sicuramente questo dossier goriano non sposterà il mondo, ma siamo convinti
nel nostro piccolo della famosa goccia che ognuno mette nell’oceano.
Malatesta diceva che la situazione sociale è il risultato di un tiro
alla fune dove ognuno tira dalla propria parte. È chiaro che da una parte
i berlusconidi tirano con la fune d’acciaio e noi tiriamo un filo con
l’ago. C’è ancora una scritta su di un muro vicino a casa
mia che dice che basta una piccola vibrazione per far saltare l’intero
sistema … insomma un lavoro fatto con intelligenza può portare
a dei risultati nettamente superiori allo sforzo che ci viene messo dentro.
Ci sono delle tematiche all’interno delle rivista che ritornano ed hanno
cucito una continuità su cui ci si è espressi più volte,
oltre ad esempio naturalmente del tema della strage di piazza Fontana.
In Italia siamo quelli che hanno scoperto Murray Bookchin e l’ecologia
sociale … che ha portato Bookchin dal trotzkysmo agli anarchici, e non
è prettamente una roba per anarchici, non è un’anarchia
più appetibile, è un filone ecologista che ha fatto nascere anche
la tua collaborazione con la rivista, è un attenzione ai modi in cui
si vive, al rapporto con la natura, con l’urbanistica, è un tema
iniziato con la traduzione di Bookchin nei primi numeri della rivista e che
ha dato vita anche a numerose iniziative pubbliche, portando anche Bookchin
in Italia e la rivista ne è stata un acceleratore.
Un altro tema ricorrente negli anni 70 è stato il femminismo attraverso
l’interpretazione della scuola americana dell’anarca-femminismo,
non è un tentativo di rivendere sempre lo stesso prodotto.
L’anarchismo pur contenendo tutto nelle sue idee teoriche, è importante
nel suo divenire storico, è la sua evoluzione temporale che è
tutta da costruire, Per esempio la rivista ha sempre avuto una sensibilità
per il fenomeno punk, i giovani, ecc. Abbiamo fatto un dossier sul veganismo
… abbiamo ricevuto una telefonata di una vecchia compagna di 85 anni che
ci fa i complimenti per la rivista ma ci dice che con tutti i problemi che ci
sono al mondo, chi se ne frega se uno mangia o non mangia l’uovo, che
era troppo dedicarci 23 pagine, che c’erano problemi più importanti
come la disoccupazione. Naturalmente non sono d’accordo con lei, ritengo
infatti come in una copertina disegnata alla metà degli anni 80 dove
si vedono un anarchico stilizzato, un militante, con un punk che si interrogavano
e non si capivano … quella copertina segnalava un dossier sul Virus, uno
dei “covi” europei dei punk, dove noi della redazione ci eravamo
incontrati con i punk anarchici, molto simpatici umanamente ma con grosse differenze
(anche se alcuni erano più vicini a noi… c’erano anche rappresentanti
della curva sud del Milan). La loro musica per me era assordante più
delle trombette sudafricane di oggi ai mondiali di calcio. Abbiamo tentato di
capire quel movimento tanto che negli anni 80 cominciò a collaborare
con la rivista Marco Pandin che faceva parte di quel mondo e che da 25 anni
è una delle nostre antenne nel mondo della musica.
La critica della vecchia compagna la respingiamo, io sono convinto che la rivista
debba occuparsi anche di queste tematiche e lo debba fare anche sistematicamente.
Al contempo uno dei vegani, che non conoscevo se non per e-mail e che aveva
collaborato al dossier, lui non anarchico, ci ha chiesto una rubrica fissa sulla
rivista visto anche l’interesse del mondo vegano anche di anarchici. Noi
gli abbiamo risposto di no, perché siamo aperti a tutte le tematiche
ma non riteniamo che il veganismo faccia parte dell’anarchismo in quanto
tale .. ma è una delle scelte possibili. Diversamente dall’antimilitarismo,
tanto che per questo tema possiamo anche pensare ad una rubrica fissa di opposizione
alle guerre, per altri temi (come il veganismo) pur mantenendo un’attenzione,
non vogliamo stabilire un rapporto privilegiato. Abbiamo sostenuto (e ci faceva
piacere) le campagne del WWF, di Emergency, della Legambiente sempre naturalmente
sulle iniziative di base, ma non siamo il loro bollettino.
La questione (gigantesca) dell’uso della violenza
La tematica della violenza è un tema su cui “A” ha avuto
una particolare attenzione, ha visto la nascita di un dibattito anche con posizioni
diverse, su cui la rivista ha preso una posizione molto precisa.
Esatto. La rivista sin dalla sua nascita si è trovata di fronte a due
aspetti della questione violenza, una questione interna al movimento (che fa
parte della nostra storia). Gaetano Bresci è spesso l’unico anarchico
riportato sui testi scolastici, è l’anarchico venuto dall’America
che ammazza il re all’inizio del Novecento, e questo ha un senso e un
significato nella disinformazione sull’anarchismo. Ancora oggi l’anarchico
è associato alle bombe anche dopo piazza Fontana. In realtà gli
anarchici che usarono le bombe e il pugnale a fine ‘800 erano pochi ed
in buona compagnia di repubblicani ed altri, però solo agli anarchici
è rimasta questa etichetta di bombaroli, anche per alcune carenze all’interno
dell’anarchismo.
La rivista è sempre stata critica, pur non avendo mai espresso una posizione
nonviolenta. Ha pubblicato articoli nonviolenti ma si è riconosciuta
in una posizione malatestiana. Anche se personalmente, invecchiando, divento
sempre più vicino alle ragioni della nonviolenza. La posizione espressa
dalla rivista sosteneva che la violenza è un elemento negativo ed autoritario
da usare solo quando è necessario – siamo stati sempre contrari
alla violenza usata come strumento portante di una strategia. Di fronte alle
BR siamo stati sempre convinti che la violenza faccia poco bene ai movimenti
sociali in generale e probabilmente molti danni all’anarchismo, confermando
dall’interno un’immagine consolidata dall’esterno, e che spesso
faccia male a chi la fa.
Quindi sulla questione della violenza c’è stata una precisa posizione
redazionale. La visione dell’anarchico vendicatore, del colpo su colpo,
non è mai stata condivisa, anzi l’abbiamo combattuta, perché
la “strategia” del portare gli anarchici ad un legame con la violenza
è completamente perdente. Siamo convinti che l’anarchismo possa
esprimere le sue potenzialità positive tendenzialmente alla luce del
sole, che non vuol dire che chi è stato costretto alla clandestinità
“sbagli”. Un conto è una scelta forzata in particolari situazioni
storiche. Ma la concezione bakuniniana (di un certo Bakunin) della cospirazione
e della (di fatto) avanguardia rivoluzionaria che lavora nell’ombra l’abbiamo
sempre rifiutata.
Il movimento negli anni 70 era caratterizzato anche dalle provocazioni di persone
anche con disagio psichico … c’erano anche menti malate …
e la cosa non era né leggera né senza conseguenze. Su questo noi
di “A” siamo sempre stati fermi: un imbecille, anche se anarchico,
se va in carcere resta un imbecille. Con noi il “ricatto” della
repressione non ha mai funzionato granché.
La tendenza di usare la repressione che inevitabilmente segue e a volte precede
certi “fatti” dalle nostre parti si arenava. Perché la repressione
è un dato sistemico, non sempre arriva per alcune stupidate fatte…
ossia usare la cattiveria della Polizia come strumento o alibi per trascinare
l’anarchismo sul terreno della violenza non ci ha mai convinto.
Noi già nel 73 polemizzammo con un parte dei gruppi anarchici toscani
di allora per quel tipo di campagna contro il fascismo e per l’antifascismo
militante.
Noi sostenemmo la campagna per la liberazione di Marini, un anarchico di Salerno
che a seguito di provocazioni fasciste accoltellò uno di loro, Falvella,
durante uno scontro. Falvella morì e Marini iniziò un’odissea
in carcere, fatto anche di letto di contenzione dal quale uscì distrutto
sul piano psicologico. Noi non eravamo per la nonviolenza, ma ci rifiutammo
di ritenere che uno dei compiti portanti degli anarchici fosse quello di impedire
i comizi dei fascisti.
Personalmente tendo ad essere per quanto possibile tollerante infatti durante
la contestazione del 68/69 al Liceo classico Carducci, a Milano, essendo uno
degli elementi di punta del movimento di contestazione, rivendicai pubblicamente
il diritto anche dei fascisti di parlare in assemblea, che non aveva niente
a che vedere con il calo del mio antifascismo. Da libertario ero e resto convinto
che la libertà da rivendicare sia anche quella. Ritenevo poi che i fascisti
fossero innanzitutto degli ignoranti e che farli parlare fosse una manovra antifascista.
Ci possono essere opinioni diverse e anche storicamente gli anarchici di Carrara
si misero alla testa della popolazione per impedire al fucilatore Almirante
di tenere un comizio… in certi casi può avere un suo significato
preciso. Ma andare a contestare tutti i comizi del MSI voleva dire andare allo
scontro con la polizia, non abbiamo mai avuto il gusto da palestra dell’attività
politica, non abbiamo mai apprezzato o stimolato lo scontro fisico di piazza,
non abbiamo mai apprezzato quelli che durante un corteo pacifico escono con
azioni violente e poi rientrano.
Siamo stati duri nel 2001, e in assoluta minoranza nel movimento anarchico,
nei confronti dei Black Bloc. La rivista anche durante lo scontro sociale ha
cercato di non perdere mai il lume della ragione e dell’autocritica. Il
fatto che ci sia una repressione non giustifica l’appiattimento anche
contingente sulla posizione del compagno. Se un anarchico fa un azione che noi
riteniamo sbagliata e poi viene picchiato … gli mandiamo le arance in
carcere ma ci dissociamo da lui e anche se può apparire per alcuni militanti
un atteggiamento da cagasotto per non pagare la repressione. Noi riteniamo che
la libertà di giudizio sia fondamentale, non possiamo pensare che l’appartenenza
ad una famiglia come quella anarchica comporti di sottoscrivere necessariamente
quel che fa il cugino scemo.
È chiaro che per questo motivo la rivista è stata al centro di
polemiche soprattutto con la componente organizzata del movimento nel 75/76
che faceva capo all’uscita della rivista Anarchismo, una rivista anarchica
che assume posizioni molto dure di dissenso nei nostri confronti e sul rapporto
con le BR e la lotta armata. Non sono state scelte sempre facili per la rivista
… In quegli anni pubblicammo anche un documento di Azione Rivoluzionaria,
una componente sicuramente di ispirazione libertaria nel mondo dei gruppi della
lotta armata, ci furono compagni anarchici conosciuti arrestati per i fatti
di Azione Rivoluzionaria, e in alcuni casi prendemmo una posizione di difesa
come nel caso della tennista livornese Monica Giorgi che aveva preso una posizione
esplicitamente innocentista rispetto alle accuse mossele per il rapimento del
figlio di un petroliere.
Noi ci siamo sempre rifiutati di impegnare la rivista in campagne di solidarietà
nei confronti dei compagni, anche se anarchici al 100%, che non prendessero
prima una netta presa di distanza dalle loro scelte, quando queste scelte erano
per noi (sottolineo, per noi) inaccettabili o comunque non condivise.
Maschi e femmine
In questi 40 anni ci sono stati momenti in cui la rivista è andata meglio
ed altri che non è andata molto bene. Quali sono i periodi più
faticosi per la sua gestione della rivista, non solo economicamente ma soprattutto
nei rapporti con l’esterno e nel dibattito interno al movimento? Quali
sono stati i periodi in cui hai sentito maggiormente la fatica della gestione?
Partiamo dal dato della distribuzione della rivista. “A” nasce con
vendite intorno alle 7000/8000 copie. La rivista ha un periodo crescente e il
numero che ha tirato più copie (13.000, ma le ultime due pagine sul caso
Marini furono stampate in oltre 50,000 copie a se stanti) è quello dell’aprile
del 73, nel trentennale del 43 ossia l’inizio della Resistenza, in cui
abbiamo fatto un numero monografico “Gli anarchici contro il Fascismo”
che fu la prima pubblicazione che parlava della presenza degli anarchici nell’antifascismo.
Nonostante ci fosse una generazione di anarchici impegnati nella Resistenza
non era mai stato fatto niente, anche perché erano compagni più
abituati a fare che a scrivere da intellettuali.
Poi la tiratura iniziò a calare lentamente e progressivamente. Per consolarci
possiamo dire che gran parte delle pubblicazioni nate in quel periodo sono scomparse.
Momenti difficili e d’incertezza furono proprio il periodo della lotta
armata e della violenza che condizionarono non solo la società italiana,
ma anche la nostra rivista.
Una cosa interessante è la struttura redazionale della rivista perché
è su questo fronte che abbiamo avuto difficoltà. Come già
detto la rivista è nata da un collettivo, rimase con un collettivo di
milanesi caratterizzata da una forte rete di collaboratori esterni. Infatti
ci sono articoli del torinese (in realtà un milanese emigrato) Roberto
Ambrosoli, del veneto Nico Berti, dei milanesi come il sottoscritto, Amedeo
Bertolo, Rossella Di Leo, Luciano Lanza e tanti altri. Nel collettivo di “A”
sono passate decine di persone, una caratteristica della nostra redazione negli
anni 70 era, esclusivamente come il gruppo Germinal di Trieste della FAI, di
essere l’unico collettivo ad avere una parità ed a volte una maggioranza
di presenza femminile.
Le foto del nostro movimento prima del fascismo erano quasi esclusivamente di
maschi, le donne quando ci sono … sono delle nobili eccezioni. Non era
un fatto teorico, probabilmente era legato ad un fatto pratico. Ai maschi, anche
all’interno della nostra redazione, spettava più il compito di
scrivere, mentre l’amministrazione era appannaggio delle donne anche se
la pulizia dei locali era condivisa. Chi stava in redazione ci rimaneva in genere
per almeno due o tre anni. Questa esperienza dei collettivi redazionali è
andata avanti fino all’89 poi un ciclo si è chiuso, niente a che
vedere con la caduta del muro di Berlino e del Comunismo. ma in realtà
è dovuta anche alla nascita del mio primo figlio. La rivista, infatti,
come tante altre iniziative è fatta chiaramente da persone: quel collettivo
redazionale di sei persone iniziava a mostrare la corda. Fausta era sempre più
impegnata nella libreria Utopia in cui lavorava e svolgeva attività culturale
… e gli altri con problemi più o meno personali fecero della redazione
un guscio vuoto.
Attualmente io e Aurora, siamo noi due (cioè una coppia) la redazione
attuale della rivista, la nascita del primo figlio in età avanzata, a
37 anni, comportò una modifica delle abitudini di vita ad esempio l’indisponibilità
ad uscire di sera, accompagnate dal fatto che le riunioni erano quasi prettamente
formali perché gli altri redattori non leggevano neanche gli articoli
… ha portato di fatto, da allora, ad una gestione più informale
della rivista, quindi si appoggiava quasi esclusivamente su me ed Aurora. Attualmente
la riunione di redazione non esiste più e grazie anche alle nuove tecnologie
internet, si sono stabiliti dei rapporti stretti con una serie di compagni (tra
cui ci sei anche tu, caro il mio Adriano.). Vorrei citare almeno il nome di
Massimo Ortalli, un compagno (farmacista) di Imola nonché anima dell’archivio
storico della FAI, che pur ufficialmente non fa parte della redazione …
ma a cui vengono sottoposti tutti gli articoli di A … assume quindi un
ruolo fondamentale nel lavoro redazionale.
Personalmente pur apprezzando sempre di più un lavoro in solitaria ritengo
che una rivista debba comunque reggersi su un lavoro collettivo. Pur non essendoci
riunioni redazionali, grazie ad internet intervengono 4/5 persone in maniera
poderosa da anni con la loro professionalità. Il periodo di passaggio
a questa nuova gestione fu quindi di spaesamento e di difficoltà, in
questi quarant’anni ho dovuto adeguarmi ai tempi della rivista, un lavoro
condizionato dalla continuità più di una casa editrice che pubblica
libri. Non si può infatti saltare un numero anche quando prevarrebbero
i problemi personali. Si è cercato di tenerne conto e di affrontarli,
ma mai estremizzati.
La rivista è stata un’eccezionale esperienza di vita … hai
rapporti con tantissima gente creativa … ma tutta gente che vuole un mondo
migliore … con tante idee strane. Adesso ci siamo molto aperti all’esterno,
soprattutto da quando dall’inizio del primo decennio del secolo ci siamo
trasformati (anche) in una casa di produzione musicale, legata ai CD di De André,
questo ci ha permesso di allargare i nostri rapporti a tantissima gente.
Mi sono reso conto in tutti questi anni che chi gestisce una redazione come
la nostra rivista deve essere prima di tutto un buon psicologo più che
un grande giornalista. La percezione che abbiamo del mondo e delle persone negli
ultimi anni è quella un mondo in grande sofferenza, dove la solitudine
ha un ruolo devastante, esiste un grande bisogno di appartenenza e d’identità
oltre che di comunicazione.
Da 28 a 180 pagine
C’è un rapporto molto stretto tra il prodotto e le persone che
lo fanno, un legame individuale; come tante altre iniziative del movimento che
ha bisogno dell’artigiano, nasce un problema di continuità o meglio
di successione, è il problema di passare il testimone, come pensi di
affrontarlo?
Si, è vero, ma c’è un problema ancora prima di quello dell’eredità
…
Questa (pur relativa) personalizzazione delle iniziative ed in particolare di
“A” contiene dei rischi molto grossi, pensiamo per esempio ad un
incidente stradale con la morte dell’unico componente interno della redazione.
Partiamo da un esempio diverso come quello di Umanità Nova, il settimanale
della FAI, ha una redazione che passa di mano di congresso in congresso Spesso
ha consumato l’energia del gruppo che se ne fa carico, come nel caso del
gruppo Machno di Palermo negli anni 70 ma anche di altri. UN, che è certamente
un prodotto artigiano, non corre questo rischio: ha girato una decina di gruppi
ed oggi addirittura esiste una redazione telematica a cui si collegano persone
anche di altre città per le riunioni, ha quindi sempre cambiato redazioni
e questo assicura che se scompare un polo per qualsiasi motivo viene sostituito
da un altro.
La rivista “A” storicamente non ha avuto questa storia. Non siamo
un organo di un’organizzazione, siamo sempre stati indipendenti anche
quando c’erano i GAF, di cui “A” non è mai stato l’organo
né ufficiale né ufficioso, anche se i redattori nella loro totalità
ne facevano parte. È sempre stata un’iniziativa autonoma.
Le vicende della vita hanno fatto si che l’ingresso in redazione di giovani
fosse, da un certo punto in poi, di fatto difficile. Infatti pur avvicinandosi
persone molto valide, alla fine pur collaborando, non avevano tempo per la redazione,
perché impegnate intensamente chi nello studio chi nel lavoro.
Io ho potuto dedicarmi completamente alla rivista in questi ultimi anni grazie
ad una favorevole situazione di lavoro (come giornalista free-lance ho potuto
gestirmi bene il mio tempo) e finanziaria. La rivista degli inizi, quando poi
si è trasformata nel 74 in formato A4 (tabloid) era di 28 pagine con
una redazione di 8 persone. Oggi in due riusciamo a far uscire una rivista con
180 pagine, cento normalmente, con relativi prodotti collaterali, ci sono più
di 30 dossier.
Negli ultimi dieci anni l’attività di pubblicazione dei CD di De
André ci ha permesso entrate per quasi un miliardo delle vecchie lire,
450mila euro, circa 60.000 oggetti venduti. Il lavoro di redazione è
diventato molto impegnativo e si tirano più di 4.000 copie, grazie a
Fabrizio è stata messa in piedi un’aziendina. Da otto anni abbiamo
una persona in amministrazione, che non sono più le compagne dell’inizio,
né gli studenti volontari che venivano a darci una mano per poco tempo
e pochi soldi. Dalla crescita di lavoro con i prodotti legati a De André,
nell’ultimo decennio abbiamo avuto un maggiore impegno amministrativo
e abbiamo assunto, in regola una persona (e ne siamo fieri: troppo spesso il
lavoro nero trionfa nelle strutture che a parole dicono di combatterlo!).
Una volta per le spedizioni venivano molte persone, oggi non trovi più
nessuno disponibile a questo tipo di lavoro. O forse lo trovi, ma con fatica
e senza regolarità. I collaboratori vivono ancora la dimensione volontaristica,
i nostri collaboratori non sono pagati e non è una cosa così scontata.
L’identificazione personale non è un elemento negativo, ma è una caratteristica di una rivista che dopo quarant’anni ha ancora la sua continuità e che viene pubblicata senza pubblicità. Il Corriere della Sera ne ha 150, ma è un attività imprenditoriale, economica con forti interessi politici, è proprio il rapporto personale con il prodotto che rende la rivista “A” unica. Dietro non c’è una rivista in sé, ma una persona con tutti i suoi rapporti interpersonali: è come un canestro che si riempie di contenuti.
Io sono pienamente d’accordo con te, infatti subii come un’imposizione
e contrastai sin dall’inizio quella visione dei miei compagni co-fondatori
(come si dice oggi) che avevano una concezione “anonimistica” della
rivista, ritenevano che non si dovesse personalizzare. Così inventarono
la sigla F. Bizzoni per l’amministrazione e GP. Vittore (il riferimento
era al carcere) per la firma redazionale. Quando si scriveva … ci si divideva
la posta e chi rispondeva usava la medesima firma. La cosa fu superata in breve
tempo ed io ancor’oggi invito sempre a firmare tutto con nome e cognome.
Non sopporto l’anonimato o il celarsi, a meno che ce ne siano ragioni
gravi (che non sussistono quasi mai).
Le mie relazioni sono la rete della rivista, una rete fatta di amicizia e umanità.
È, questa mia, una visione comunitaria della rivista e la personalizzazione
è quasi obbligatoria, fa parte della storia del movimento anarchico.
Il mio punto ideale di riferimento è stata la rivista il Risveglio che
quasi nessuno conosce ma che uscì in Svizzera per quasi 50 anni di seguito,
fatta da Luigi Bertoni, un anarchico milanese che abitava in Svizzera, un giornale
bilingue e a volte anche trilingue: italiano, francese e tedesco. Pier Carlo
Masini dedicò una conferenza bellissima a Luigi Bertoni, pubblicata su
Volontà nel 72, di cui io imparai a memoria vari brani. Con il calore
e la proprietà di linguaggio che gli erano proprii (e che hanno fatto
di me un suo grande ammiratore, aldilà di differenze politiche anche
significative) il toscanissimo Masini parlava di questo tipografo che a Ginevra
componeva e stampava il giornale e che con una carriola andava fino alle poste
centrali per spedirlo. Era un punto di riferimento in Svizzera importantissimo
per tanti antifascisti conosciuto, anche da Sandro Pertini. Faceva tutto lui,
altro che Paolo Finzi.
Anche l’Adunata dei Refrattari per 50 anni negli Stati Uniti è
stato legata alla figura di Raffaele Schiavina.
La rivista con i suoi 40 anni inizia ad essere qualcosa, Umanità Nova
ne ha festeggiati 90, interrotti dal periodo fascista: uscì prima come
quotidiano e poi dopo il ‘45 come settimanale, non ha mai smesso di essere
pubblicato. E ricordo con una punta di orgoglio, ma soprattutto con la soddisfazione
di aver dato un segno di fratellanza in quegli anni un po’ troppo settari,
quando a Mariella e Massimo – allora della redazione di UN appunto affidata
, nel ’76, alla FAI milanese – consegnai il primo testo sulla nascita
nel 1920 del quotidiano Umanità Nova. Ero di “A”, dei GAF,
vivevo in un altro “settore” del movimento, ma collaboravo con la
FAI e il suo giornale. Allora non era scontato. Almeno non per tutti.
Lo stesso Malatesta fondò e diresse vari giornali ma aveva alle spalle,
come amministratore e braccio destro, un anarchico di Ancona, Cesare Agostinelli,
che si occupava di tutto.
Il problema dell’“eredità” è legato alla possibilità
di integrazione con altre persone più giovani all’interno di questa
iniziativa. Rimane per ora un incognita. Infatti molte iniziative anarchiche
sono morte o rimaste interrotte con la morte o la malattia della persona che
le faceva.
Un esempio ne è l’Internazionale, a cui ho avuto il piacere di
collaborare. Espressione dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica (GIA), nati
nel 65 in seguito a una scissione nel movimento anarchico, l’Internazionale
rappresentava una mentalità ed un età “vecchia”, c’era
Luciano Farinelli, anarchico di Ancona, che ha portato avanti questo giornale:
alla sua morte, dopo 15 anni di pubblicazione, chiuse. Quel giornale era espressione
di un certo tipo di movimento, di cui Farinelli era il rappresentante. Tirava
1500 copie, in grande maggioranza distribuite gratis, ma aveva un suo senso
in quel contesto.
Il fatto di non avere “eredi” non è così negativo,
l’anarchismo ha tante risorse, è come quelle strane fontane fatti
di improvvisi getti d’acqua, dove esce l’acqua in piazza, prima
è qui poi è lì. Sono sicuro che anche dispiacendomi per
un’eventuale chiusura della rivista ci sia sempre qualcuno che, con iniziative
analoghe o diverse, possa portare comunque avanti il discorso, ovvero la fiaccola,
come si diceva nel vecchio movimento anarchico. Potrà sembrare a molti
retorica, ma questa fiaccola sintetizza il senso del mio impegno.
Non sono mai stato un drago in educazione fisica e le Olimpiadi non sono mai
state nel mio orizzonte. Anzi, se è per quello, nemmeno le gare scolastiche.
Ma pensare di esser stato finora un tedoforo mi gratifica e penso rispecchi
la (mia) realtà.
Parliamo ora dei dossier e di tutto quello che è fuori dalla rivista,
tutti quei prodotti che escono oltre alle pagine di “A”.
Mio caro Adriano, tu sei qui in pieno conflitto di interessi, altro che Silvio!
Perché il qui presente Paolella e la sua compagna Carloni sono gli autori
di una decina di dossier realizzati per la rivista, gli unici concepiti come
un delitto seriale, concepiti in maniera sistematica e fatti dalle stesse persone
con tematiche di grosso interesse non esclusivamente anarchico. Ci sono dossier
che attingono alla nostra tradizione dell’anarchismo tipo quelli di Kropotkin,
Proudhon, Bakunin e Malatesta fatti con i primi numeri della rivista, altri
di storia come quello sull’antifascismo anarchico e quello su Emilio Canzi,
un partigiano anarchico piacentino di particolare rilevanza per la Resistenza.
La rivista si è posta anche come strumento ad uso politico, ogni dossier
ha un costo preciso e un numero di pagine predefinite oltre che lavoro in più,
è quindi un omaggio che la rivista fa alla propaganda anarchica ma non
solo. Come “Leggere l’anarchismo”, una guida alla lettura
realizzata da Massimo Ortalli, tanto più pregevole perché non
conosce precedenti nella pur lunga storia degli anarchici. Dà la possibilità
di sapere cosa si può leggere di anarchico, un elenco ragionato e aggiornato
di tutte le cose anarchiche e non che escono sull’anarchismo e dintorni,
sulla psichiatria libertaria, sull’ecologia ecc. È uno strumento
tematico per i simpatizzanti di quello che puoi trovare ed ordinare in libreria.
Abbiamo fatto un dossier su Serantini e anche per esigente locali, come nel
caso del Germinal di Trieste con un dossier sulla loro storia, quando dopo quasi
40 anni dovettero lasciare la loro ormai storica sede di via Mazzini 11, in
pieno centro.. Recentemente Francesca Palazzi Arduini ha realizzato un dossier
sui meeting anticlericali, di storia ed attualità, che ricostruisce l’esperienza
laica ed anticlericale degli anni 80/90. Ormai ne facciamo 3 o 4 l’anno
di questi dossier, sono uno strumento che ci piace e va bene.
Il nostro Fabrizio De André
Un discorso a parte merita Fabrizio De André.
Certo. La morte di Fabrizio ci ha molto segnato. Già nel 74 avevamo un
rapporto con lui, L’uomo Fabrizio, naturalmente, aveva le sue caratteristiche
e le sue grandezze, ma sono convinto che le sue canzoni rappresenino un grande
momento di pensiero libertario. Era una persona molto colta, leggeva un libro
per notte dormendo di giorno, un rapporto molto coinvolgente (essendo io da
sempre un suo fan), a volte intenso ed a volte non ci si vedeva per un paio
d’anni, fece dei concerti per la stampa anarchica, donò dei soldi
in particolare alla nostra rivista … tutto alla luce del sole nell’elenco
dei nostri fondi neri.
Il 12 gennaio del 1999, il giorno dopo la sua morte, su tutti i giornali si
parlò anche di De Andrè anarchico, sottovalutandone i contenuti
ed io ho sentito quasi come un “dovere” difendere la sua componente
anarchica, da lui dichiarata già negli anni 60. Anche se non si può
racchiudere Fabrizio in un’unica definizione per la sua multiculturalità
e vivacità artistica, lui stesso dichiarò di aver conosciuto gli
anarchici da giovane e di non aver mai trovato di meglio che potesse esprimere
il suo pensiero. Quando lo conobbi nel 74 per fargli un’intervista per
la rivista (avevo un registratore che non accesi) era più timido di me
e mi disse subito di essere anarchico. Non aveva certamente una visione militante
e dichiarò di essere dalla parte delle puttane e dei suicidi, a noi che
eravamo militanti e che allora ci occupavamo di altri temi sentir parlare di
puttane, zingari e suicidi non ci sembravano certamente argomenti centrali …
pur avendo simpatia per loro.
A distanza di tempo mi sono accorto (senza nessuna piaggeria) che Fabrizio ci
aveva anticipato, era un uomo con grandi antenne. Il suo anarchismo non politico,
non militante, non movimentista, era un anarchismo profondo ed intelligente.
Il numero di marzo del 99 uscì con Fabrizio in copertina ed una serie
di articoli (il numero andò esaurito), però creò una grossa
polemica nel giro di “A”, perché alcuni stretti collaboratori
non erano d’accordo a dedicargli la copertina. Culto della personalità,
era la critica che aleggiava: e poi per un personaggio che comunque apparteneva
allo show-business. Litigammo animatamente. Io ero convinto che l’onda
emotiva seguita alla sua morte aprisse nuovi e maggiori spazi per l’anarchismo.
Difendendo l’identità libertaria di De André, ci era offerta
un’opportunità di “cavalcare l’onda” di interesse
su Fabrizio. Mi sono poi reso conto per le reazioni e l’interesse poi
sui suoi Cd da noi prodotti, che Fabrizio aveva inciso nella pratica libertaria
di tantissime persone non solo in campo musicale, ma anche nella loro vita personale
(c’era gente che aveva rifiutato il militare). Su Fabrizio c’era
un cordoglio libertario e in molti avevano pianto alla notizia della sua morte.
In seguito alla pubblicazione d quel primo dossier dentro “A”, nel
marzo 1999, e poi la sua ristampa, i CD, i DVD, le decine e decine di conferenze
e presentazioni da me fatte un po’ in tutt’Italia, ricevemmo centinaia,
migliaia di e-mail, fax, telefonate, letterine scritte a mano, tutte di persone
persone che avevano con lui un rapporto intensissimo, anche se non l’avevano
mai incontrato di persona.
Una delle cose più belle che ho fatto nella mia vita, un’idea di
cui vado fiero, forse dopo i miei figli, è stata l’ideazione, la
creazione e la distribuzione di quel primo nostro CD “ed avevamo gli occhi
troppo belli”, che è subito entrato a far parte della discografia
“ufficiale” di Fabrizio, anche grazie a quel boot-leg inedito, autorizzato
da Dori. Ciò mi ha permesso di considerarmi… un produttore di Fabrizio,
una cazzata se vuoi, ma ognuno ha le sue. E poi la presentazione di quel CD
alla stampa in un campo Rom...
Aiutati da una ragazza, purtroppo morta di cancro recentemente, Iride Baldo,
dell’ufficio stampa di Fabrizio, era una di Radio Popolare con mille conoscenze,
aveva lavorato per mesi (gratis, mi piace sottolinearlo) per convocare i giornalisti,
ci siamo cosi trovati decine di giornalisti in un campo Rom alla periferia nord-est
di Milano, con Dori Ghezzi, don Andrea Gallo, Mario Luzzatto Fegiz e con i senatori
del giornalismo musicale … con i Rom intorno, a presentare questo CD,
che aveva in copertina un bambino rom. Fu un successo strepitoso, il giorno
dopo le Feltrinelli ci chiamarono per il CD, la cosa divenne complessa tanto
che abbiamo dovuto “assumere” cinque persone in redazione pro tempore,
di cui una era Michela che poi è rimasta “a libro”. Per mesi
e mesi andammo tutti i giorni all’ufficio postale per le spedizioni.
I giornalisti ed il tam tam nei siti di De André ci fecero una pubblicità
gratuita e con il giro di conferenze il CD è diventato il nostro leit
motiv… e per due o tre anni le nostre entrate erano per tre quarti i ricavati
dalla vendita di De André, il che ha poi anche sostenuto l’aumento
delle pagine della rivista. Con questo prodotto abbiamo sfondato verso l’esterno
tra migliaia dei suoi fan, che sono di tutti i tipi. Io sono convinto, riascoltando
le sue canzoni, che Fabrizio sia stato anche un grande propagandista anarchico.
Quando stava realizzando l’LP le Nuvole lui mi telefonò dicendomi
che stava facendo un LP anarchico, ho pensato ad una nuova “Addio Lugano
bella” ma poi non c’è la parola anarchia e non c’entrava
niente con noi anarchici, nel senso specifico del termine. Però se uno
prende le sue canzoni si rende conto, come nel Testamento di Tito, che è
il programma anarchico di Errico Malatesta, è la stessa roba messa alla
De André, al 100% anarchico.
Fabrizio fa da anello di congiunzione tra l’anarchismo e un certo mondo,
hanno imparato a rispettarci per come abbiamo fatto le cose, anche se c’è
chi ci ha accusato di aver marciato sull’amico cantante, di aver fatto
i soldi (e ne abbiamo fatti tanti!), tutti – fino all’ultimo centesimo
– reinvestiti sempre dentro la rivista e in “prodotti” come
l’ultimo DVD sullo sterminio nazista dei Rom. Anche questo ha avuto un
successo eccezionale, più di 4.000 copie distribuite a un prezzo di 30
euro, nelle scuole, agli insegnanti, è un acquisto meditato, venduto
uno per uno, dedicato a Fabrizio perché portava avanti queste tematiche
che sono anche nostre.
Il lettore di “A”
Questa attività sui Rom è una grande acquisizione culturale,
ha aperto un ambito di riflessione e di documentazione che era assolutamente
marginale. In questo hai avuto una grandissima intuizione, il DVD “A forza
di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari” è uno strumento
in più di riflessione.
Oltre a tutta la documentazione e all’interesse personale, si coglie tutta
l’attualità della questione Rom, colta anche da Fabrizio con la
canzone “Khorakhanè a forza di essere vento” dentro “Anime
salve”, una canzone eccezionale dove dentro ogni verso c’è
tutta la lettura di tanti libri. Lo so perché Fabrizio andava ad ordinarli
alla libreria Utopia, una libreria anarchica di Milano, so cosa leggeva, conosco
il lavoro che c’è dietro a quelle sue canzoni, un lavoro di profonda
cultura, lo studio della storia, il contatto con i Rom, i suoi colloqui con
il rom harvato Giorgio Bezzecchi, mio carissimo amico.
Chi sono i lettori della rivista, sono cambiati rispetto al passato, quali
sono le caratteristiche attuali?
Non abbiamo mai fatto un’indagine statistica in questo senso, viaggiamo
su dati che derivano dalle nostre antenne, dalla nostra percezione. Ci basiamo
su chi ci contatta, ci scrive, ci da un parere: il lettore di “A”,
a mio avviso, è di tutto e di più, non colpisce un settore in
particolare, potremmo dire che in prevalenza sono giovani ma non è una
rivista vissuta come giovanilistica, anzi per molti di loro è un po’
paludata.
La rivista da anni è presente anche on-line, ieri abbiamo ricevuto la
lettera della compagna che in Sardegna fa il lavoro di messa in rete, ci segnalava
che il numero appena uscito è già disponibile on-line, quando
molti non l’hanno ancora ricevuto a casa. Grazie al “contatore”
conosciamo i contatti on-line e sono circa 6/7.000 contatti al mese, non sappiamo
che cosa e per quanto tempo leggano. Noi riteniamo, tra lettori cartacei e lettori
on-line, di avere circa 12.000 lettori al mese. Il lettore di “A”
va dallo studente all’operaio, da un piccolo paese alla città,
è un lettore sveglio ed impegnato fruitore dei media, usa la nostra rivista
per documentarsi così come usa altre fonti. “A” non è
vissuta come organo interno al movimento, cadute le ideologie ed il settarismo
siamo letti da anarchici e libertari di tutte le tendenze, anche perché
diamo spazio a molte tendenze, siamo vissuti in maniera molto aperta. La nostra
rivista in genere è apprezzata anche all’estero.
Ci sono dei rapporti internazionali della rivista e quali sono?
Qui siamo carenti, anche se contatti ce ne sono. Le sinergie avvengono solo
occasionalmente come recentemente per un dossier sul Messico e uno sul movimento
anarchico russo. Un esempio: un centro culturale anarchico con sedi a Londra
e a San Francisco ha tradotto in inglese di sua iniziativa il nostro dossier
sul partigiano anarchico Emilio Canzi.
Ci sono essere temi d’attualità che potrebbero essere coordinati
internazionalmente, invecepur essendo gli anarchici a carattere internazionale
e presenti in decine di paesi, a livello di stampa non si è riusciti
neppure con i dossier ad avere obiettivi d’interesse comune. In passato
nel periodo “militante” degli anni 70 si creò una rete di
giornali anarchici sud-europei che comprendeva IRL, una rivista fatta a Lione
in Francia; dopo alcuni incontri transalpini, il risultato fu solo la possibilità
della rivista di entrare in qualche biblioteca o libreria che aveva testi anche
stranieri.
La nostra rivista, in italiano, potrebbe essere leggibile nei paesi di lingua
spagnola, ma la distribuzione e la collaborazione rimane un nervo scoperto per
la nostra rivista e per la comunicazione libertaria. Oggi internet sposta un
po’ il problema, perché chiunque può andarsi a leggere la
rivista anche dal Madagascar, e il nostro sito ha sempre un breve riassunto
in inglese di ogni numero.
Ho visto un’intervista ad Ascanio Celestini fatta da Alessio Lega; in
un momento in cui la cultura ha sicuramente dei grandi vincoli dal punto di
vista economico e anche di una censura non dichiarata, appoggiare queste persone
può essere significativo.
Sono pienamente d’accordo. Ascanio è stato intervistato da Alessio
Lega, un cantautore con molte conoscenze. Ascanio è anche un grande amico
di Cristina Valenti che segue principalmente il teatro sulla rivista, e anche
di Massimo Ortalli. Ha prestato la sua voce alla trasmissione televisiva “Quando
l’Anarchia verrà” proposta qualche mese fa dalla RAI con
interviste a vari anarchici. Ascanio era stato filmato, però è
una parte che poi è stata tolta nel montaggio.
Un altro personaggio famoso che ho conosciuto e che mi ha fatto una grande impressione
è Giorgio Gaber, venne a trovarci in redazione, alla sua morte abbiamo
dedicato un dossier dal titolo significativo “La sua generazione non ha
perso”, Ne inviammo anche copia alla vedova Ombretta Colli (Forza Italia)
ma non si è fatta viva. In questo caso non c’era da affermare un
anarchismo di Gaber, che non c’era e non c’è mai stato sul
piano dell’autodefinizione, però abbiamo sempre sostenuto che Gaber,
con la sua opera dissacratoria, fosse, anche lui, un interprete libertario dei
nostri tempi. Abbiamo però seguito non solo i Gaber e i De André,
ma anche i gruppi che si trovano nelle cantine …
La possibilità della rivista in questo ambito è di porsi come
sponda culturale …
Certo, pensa che l’operazione fatta da Marco Pandin e il merito è
tutto suo, di aver fatto prima i “Mille papaveri rossi” in autoproduzione
e poi da noi riproposto per le librerie, è stato molto apprezzato anche
da Dori in quanto era un’operazione culturale con interpreti del popolo
delle cantine anche di lingue diverse. Per esempio ci sono canzoni di Fabrizio
interpretate in serbo, in romanì, in friulano, in sardo, in occitano,
ecc. È stato un lavoro di interpretazione intelligente, che ha portato
avanti le tematiche “dialettali” così intelligentemente care
a De Andrè.
Certo ci sono tante cose importanti per la rivista che noi non facciamo per
mancanza di tempo, di gente che si impegni a fondo a seguirle, ecc. potrei star
qui ad elencartele, almeno una decina: c’è la scusa sempre valida
che siamo pochi. Ma io sono convinto che la capacità di un redattore
sia anche quella di stimolare l’energia altrui, in parte viene fatto ma
non a sufficienza, riusciamo a sfruttare una potenzialità solo del 10%
di quello che si potrebbe fare. In un assemblea recentemente a Palermo, con
rappresentanti di Trapani e Catania. presenti 25 persone, ci è stato
detto da uno in maniera provocatoria ma interessante che la rivista per come
usa internet è da defunti, che bisognerebbe creare un blog, mettere notizie
più attuali e confrontarci su quello: tutto ottimo ma o si trasferisce
lui a Milano e ce lo viene a fare o lo fa dal suo paese dopo aver creato un
rapporto di fiducia con noi. Le potenzialità legate ai nuovi media sono
tantissime.
Questo è un buon segnale perché se ci sono dei riscontri dall’esterno
vuol dire che la rivista è in sintonia se non addirittura anticipatrice.
Il merito della rivista è come ad esempio nel caso di Elena che ha scritto
dei Pink che al contrario dei Black Bloc fanno proteste nonviolente, molto creative
ed antistatali. È una ragazza che fa capo al Centro Sociale Torchiera
di Milano con cui stiamo cercando di costruire una relazione con la rivista.
È chiaro che il problema è quello delle antenne … io non
arriverò mai ai Pink, non sapevo neanche che esistessero dal mio scranno
redazionale … però questo è il lavoro redazionale, di innervarsi
con le persone che presidiano i vari aspetti sociali. Altro esempio la Comune
di Campanara nel Fiorentino che ci hanno scritto per ricostruire un collegamento
con le realtà agricole, con il biologico … ci sono varie realtà
in Toscana e altrove che da vent’anni portano avanti questi progetti.
Già vent’anni fa abbiamo seguito queste esperienze con Fausta Bizzozzero
e Massimo Panizza (allora entrambi redattori di “A”) che per circa
una settimana girarono la Toscana a prendere contatti e fecero un bel resoconto
su “A”.
Così si fa la rivista, non solo recependo delle cose ma anche facendo
del giornalismo attivo. Un fenomeno recente interessante è la mobilitazione
delle famiglie sui casi delle persone uccise dalla polizia in carcere o per
strada, Cucchi, Aldovrandi, ed altri. Questo è interessante perché
negli anni 70 le reazioni delle famiglie erano quasi sempre individuali, isolate,
non coordinate. Mentre oggi s’è creata una sorta di solidarietà
tra di loro, è un fenomeno che parte dal basso a cui la nostra rivista
si deve interessare magari con un inviato. Come il caso di Francesco Mastrogiovanni
che è uno di questi casi e di cui la rivista si sta occupando perché
legato al nostro ambiente anarchico: anche in questo caso grazie ai rapporti
fraterni che ci uniscono all’ottimo Angelo Pagliaro, che “copre”
il caso con passione e capacità giornalistica (e non è comune
trovarle congiunte). È evidente che in questi casi non è importante
che la vittima sia anarchica o non lo sia, è il dramma (e spesso la tragedia)
dell’individuo solo di fronte al potere. C’è gente che se
ne occupa seriamente da anni, per esempio c’è l’associazione
di Manconi che fa un buon lavoro, contattiamola … vediamo se possiamo
pubblicare il loro materiale. Anche se troppo poco, spesso abbiamo contattato
e abbiamo dato spazio a chi già opera, concretamente, nelle realtà
difficili. Meno slogan, più pratica. E allora ecco sulle nostre pagine
Emergency, Amnesty, Telefono Viola, ecc.
Sicuramente la situazione della rivista negli anni 70 è differente dagli
anni 80 …
Certo, gli anni 80 sono notoriamente gli anni del riflusso, della Milano da
bere, c’è Berlino con la simbologia del muro, la caduta del comunismo.
Sostenemmo la sottoscrizione per finanziare i nuovi gruppi di compagni nell’ex-cortina
di ferro … la rivista è si sensibile ai cambiamenti dell’epoca
… abbiamo però sempre un nostro ruolo che prescinde dai tempi …
Nico Berti ha spesso ripetuto un’affermazione molto valida “nella
storia, ma contro la storia”, il nostro compito è di essere dentro
i tempi ma non è condizionato dalla situazione storica.
Questo è interessante. Stai dicendo che la rivista ha un autonomia dalle
condizioni esterne, che interagisce con le cose esterne ma ha un percorso proprio
…
Sì, però come redattore vorrei dire che la rivista è innanzi
tutto un discorso militante, ed è il modo con cui io ho contribuito a
farla e la faccio, il nocciolo della questione è propria questa convinzione
del militante, sono convinto che la rivista sia una fiaccola dell’anarchia,
e questo è il motivo per cui nei momenti di difficoltà non mi
ponessi neppure il problema di chiudere … ci ho messo l’anima, in
questi 40 anni, perché quando mi sono avvicinato al movimento ho avuto
l’impressione che mi abbiano dato tanto i vecchi di allora, non l’anarchia
“astratta” ma gli anarchici, le persone in carne ed ossa, cuore
e cervello, che ho incontrato e ai quali – in tanti casi – mi sono
affezionato anche personalmente. È una lunga lista, che a chi non li
ha conosciuti uno per uno dice poco o niente: Alfonso Failla, mio suocero, e
poi Umberto Marzocchi, Umberto Tommasini, Maria Zazzi, Tommaso Serra, Vincenzo
Toccafondo, Cesare Fuochi, Libero Fantazzini, Pio Turroni, Giuseppe Raffaelli
di Montignoso, e poi gli “americani” (emigrati dall’Italia
in Nord America, come Sacco e Vanzetti – per intenderci) Attilio Bortolotti,
John Vattuone, Alex Saetta, Marco Giaconi, John the cook, Bastiano Magliocca,
Max Sartin, Ettore Bonomini, ecc. ecc..
Non è l’idea che mi ha dato la “forza” o la prospettiva
di realizzarla (ho sempre avuto un sano e profondo scetticismo sulla realizzabilità
dell’utopia anarchica, e più invecchio meno ci “credo”),
questo nuovo mondo che portiamo nei nostri cuori (secondo la poetica espressione
di Buenaventura Durruti) mi è sempre parso una bellissima idea, bellissima
e al contempo “strampalata”. Mi dispiace (forse) ma credo nelle
cose concrete (devo aver preso questa attitudine da mio padre, il cui scetticismo
trovava espressione nelle poesie amare e disincantate di Trilussa), credo che
questa idea bellissima e/ma “strampalata” possa essere motore di
tante energie positive, che il tendere verso questa idea sia di per se positivo,
ma non è finalizzato alla sua realizzazione. Qualsiasi persona di buon
senso a partire da Malatesta non credo avesse pensato di arrivare ad un mondo
pacificato.
Da un punto di vista affettivo, occuparmi della rivista è stato un po’
il mio modo di ringraziare quei compagni.
Ricordo un giorno di aver buttato un giornale un po’ strappato nel cestino
e di essere stato redarguito da un vecchio compagno, che mi faceva notare che
avrei potuto lasciarlo sul metro per farlo leggere a qualcun altro. È
nata anche da qui la concezione militante, da questi compagni spesso autodidatti
che avevano un grande amore per la carta stampata. La militanza tradotta in
lavoro diuturno, regolare, serio, nel lavoro che crea comunità, che crea
relazioni, che crea solidarietà, la piccola goccia del mondo che sarà.
E allora si diventa più credibili, usando un’espressione dell’odiato
linguaggio militare si può affermare che l’anzianità fa
grado.
Non sempre il durare e perdurare è di per se positivo. Non mi sono mai
illuso di cambiare il mondo, quello che mi interessa è il come fai le
cose … mi interessa non la pianta ma il seme … o meglio il seme
che un po’ alla volta diventa pianta … quello che mi interessa è
il mezzo e non il fine … tutto questo è legato alla convinzione
che il fine sta nei mezzi … il mezzo che usi è il fine che tu vuoi
realizzare, la rivista è quindi un piccolo esempio di anarchia …
ho unito la mia professione di giornalista free-lance con l’anarchia e
con la mia passione per la carta stampata … Con tante contraddizioni,
certo. Ma anche con una soddisfazione di fondo.
Quello che consolida una rivista è la coerenza nel tempo, ed è
una delle cose più difficili da realizzare in un mondo profondamente
incoerente. 40 anni di coerenza come la non-pubblicità sulla rivista
fa paura, richiama l’attenzione. La rivista rappresenta una rarità,
la realizzazione di un’idea praticata, ha mantenuto una sua identità.
È vero che dall’esterno si coglie di più. La coerenza, se
approfondita, è un discorso complesso perché se diventa rigidità,
spocchia verso gli altri, se porta ad una eccessiva autoconsiderazione può
essere pericolosa … la distinzione è tra orgoglioso di essere anarchico
e spocchioso di essere anarchico … Orgoglioso vuol dire che noi sappiamo
che, ripulito di varie cose (non poche, a volte), l’anarchismo è
un filone significativo della storia e del pensiero e che può avere anche
un ruolo positivo. Spocchioso è invece pensare che gli anarchici abbiano
già la verità in tasca, cosa che non pochi sono serenamente convinti
di avere. Sono convinto che l’anarchismo sia uno strumento fondamentale
anche culturale per la trasformazione in senso libertario. L’anarchismo
è irrinunciabile, fondamentale, ma non sufficiente, l’anarchismo
è indispensabile ma insufficiente.
In altre parole, non si può fare a meno dell’anarchismo nel pensare
ad una trasformazione sociale. ma non basta solo l’anarchismo.
Gli esempi storici della Spagna, Kronstadt, la Maknovcina, e quelli esistenti
come la comunità di Urupia, il municipalismo libertario dei compagni
di Spezzano Albanese (lo dico senza nessuna sottovalutazione perché sono
convinto che siano esperienze concrete importanti) non bastano a prospettare
un cambiamento del mondo. La nostra storia ed il nostro pensiero non sono sufficienti.
Noi dobbiamo abbeverarci anche ad altri pensieri … Bisogna stare a sentire
gli altri, soprattuttto chi concretamente opera, ma anche chi riflette sull’esistente
a partire da altri filoni di pensiero, anche religioso. C’è gente
che in tante parti del mondo sta realizzando cose interessantissime senza far
alcun riferimento all’anarchismo. Tanta gente. È possibile fare
cose buone, anche ottime, al di fuori dell’anarchismo (non contro, però).
Come anarchici dobbiamo riguadagnarci tutti i giorni spazi e credibilità.
Nei suoi quarant’anni, credo che la rivista “A” abbia dato
un suo contributo specifico nel conquistare questi spazi e questa credibilità.
2.616 COLLABORATORI.
MICA MALE.
Si ringrazia per la collaborazione Roberto Gimmi
Se 2.616 nomi
vi sembrano pochi
Pubblichiamo in ordine alfabetico l’elenco di coloro che hanno collaborato
con “A” nel corso dei suoi primi 40 anni.
In particolare ci sono coloro che hanno scritto (dal n. 1 al n. 358 compreso
di “A”, e poi nei dossier, nei libretti che accompagnano CD e DVD,
ecc.), quelli che hanno collaborato alla parte iconografica (fotografi, disegnatori,
grafici, vignettisti, ecc.), chi ha fatto le traduzioni e chi ci ha dato una
mano per spedire all’ufficio postale, i singoli e i gruppi musicali che
hanno offerto le loro esecuzioni per i vinili e CD in sostegno di “A”,
e poi chi ha curato la regia dei filmati, l’ufficio-stampa, e poi ancora
chi si è fatto carico della responsabilità legale della rivista.
E tanti altri ancora.
Restano fuori da questo elenco i diffusori della rivista, gli abbonati sostenitori
e quanti hanno sottoscritto (li si trovano elencati negli appositi elenchi pubblicati
su ogni numero della rivista) e tante persone, compagni, amici che ci hanno
dato una mano in mille modi durante questi 40 anni. In tutto, si tratta di altre
migliaia di persone, che hanno condiviso con noi almeno un tratto di strada.
A tutti va il nostro grazie, con la nostra convinzione che l’aver in varia
misura contribuito a mandare avanti questo progetto editoriale sia stato e sia
per loro – per ciascuno di loro – fonte di piacere, orgoglio e identità.
Esattamente come per noi.
70 M/S • A 67 • A Ideia Portogallo • A. Laura • A. Marco • A.D.A. Associazione Danubio Adriatico Reggio Emilia • A.E.D femminismo Bergamo • A.N.P.I. Piacenza • AAM Terra Nuova Scarperia • Abbate Fulvio • Abbate Irene • Abbotto Antonio • Abdel A. • Acanfora Fabrizio • Accame Felice • Accame Vincenzo • Accardi Carla • Accurso Ricardo • Achburge G. • Ackelsberg Martha • Acquati Giovanni • Acquistapace Pietro • Activestills • Adamo Pietro • Adly Farid • Adorni Filippo • Agenzia Fotogramma Milano • Agnesani Ketty • Agnese Angelo Gino (Gino Ganese) • Agustoni Nadia • Aiachini Manuel • Aiello Giuseppe • Ainsa Fernando • Akai-Ngurundere Laure • Albe Gruppo Teatrale Multietnico Ravenna • Albeggiani Edoardo • Alberini Mattia • Alberola Octavio • Albertani Claudio • Albini Andrea • Albouy Vincent • Alcorn Hamish • Alemanno Giuse • Alemany Josep • Aleotti Attilio Angelo • Alesini Nicola • Alessandro • Alexian Group • Alians Czarny • Alice • Alimonti Giovanna • Alioti Giovanni • Aliverti Giuseppe • Allia Simona • Almasio Graziella • Almeyra Guillermo • Alpi Stefano • Alter Uruguay • Alternative Libertaire Bruxelles • Altieri Daniele • Amber Architettura della Comunicazione Milano • Ambrogetti Rosanna • Ambrosino Pasquale • Ambrosoli Roberto (R. Brosio) • Amendola Alfonso • Amendolara Fabio • Amici di Alfredo Tassi • Amici e compagni di Marco Camenisch • Amnesty International Italia • Amodio Emanuele • Amorin Carlos • Amparore Paola • Anarchia Milano • Anarchici Siciliani Associati • Anarchici Brianzoli • Anarchici e Libertari Vignola • Anarchismo Catania • Anarchy Regno Unito • Ancona Gino • Andena Luigi • Anderson Andy • Anderson Margaret • Andrea • Andreani Monia • Andreetto Beppe • Anelli Michele • Angeli Nanni • Anteo • Antiarco • Antistato Edizioni Cesena – Milano • Antoci Fabio • Antolini Marco • Antonelli Alba • Antonelli Lina • Antonelli Tiziano • Antonioli Maurizio • Antonucci Giorgio • ApARTe Firenze – Venezia • Apuzzo Stefania • Aragia Franco • Aragno Giuseppe • Arbegardbe • Arbib Gloria • Arcari Carlo • Archivio Armando Borghi Castelbolognese • Archivio CDEC • Archivio Emergency • Archivio Famiglia Berneri – A. Chessa • Archivio Famiglia De André • Archivio Famiglia Failla-Finzi • Archivio Famiglia Mannerini • Archivio Famiglia Masini Cerbaia Val di Pesa • Archivio Fondo Gori Rosignano Marittimo • Archivio Gianni Tassio • Archivio I.I.S.G. – Istituto Internazionale di Storia Sociale Amsterdam • Archivio Mariano Brustio • Archivio fotografico Biblioteca F. Serantini Pisa • Archivio fotografico Studio Croce Piacenza • Archivio storico F.A.I. Imola • ARCI Lesbica • Arcos Federico • Ardau Sergio • Arduino Paolo • Aresi Gianfranco • Argenio Vincenzo • Aricò Rodolfo • Ariza Moreno Valentina • Ark Studio Milano • Armand Elisabeth • Armand Emile • Armonia & Caos • Artifoni Giovanni • Arvedi Renato • Arvon Henri • Ascolese Michele • Ashbaugh Carolyn • Assemblea Magonista Eloxochitlan – Messico • Assemblea permanente cittadini Massa Carrara • Assemblea permanente dei cittadini contro la Farmoplant Massa Carrara • Associazione Ami.Ca Conegliano • Associazione Cactus – Verde Vigna Comiso • Associazione I Sommersi Firenze • Associazione L’altra pazzia Reggio Calabria • Associazione Laminarie • Associazione Palermitana per la Pace • Associazione per lo sbattezzo Fano • Associazione pro Loco Arcevia Ancona • Associazione Signornò Roma • Associazione Wespe Neustadt – Germania • Associazione Ya Basta Lombardia • Associazione Culturale “Paolo Maggini” Botticino (Brescia) • Associazione Nazionale Libero Pensiero “Giordano Bruno” • Athos • Atlante Carla • Atman Benjamin • Attianese Alessandra • Aureli Andrea • Aut-art Forlì • Autogestions • Auvray Michel • Avrich Paul • Azione Rivoluzionaria • Azzaro Cosimo • Azzini Filippo • Azzolini Liliana • B. Carlo • B. Elisabetta • B. Franca • B. Marco • B. Silvana • B. Stefano • B.F.S. Edizioni Pisa • Baba • Babini Andrea • Bacardit Meritxell • Bacci Ugo • Bacon Jean • Baino Marco • Baj Enrico • Bakunin Michael • Balasso Natalino • Balbus • Baldacci Alessandro • Baldelli Giovanni • Baldini Lucia • Baldo Iride • Baldoli Claudia • Baliani Marco • Balkanski G. R. • Ballati Marco • Ballester Arturo • Ballinas Victor • Ballotta Arianna • Balocco Mario • Balsamini Luigi • Balzia Aldo • Banda degli Ottoni a Scoppio Milano • Banda di sociologi devianti ed emarginati • Bandini Ellade • Banfi Elena • Baraghini Marcello • Barazzi Cesi • Barbaglia Mario • Barbani Mario • Barbarotta Giorgio • Barberi Angelo • Barberis Giorgio • Barbier Jean-Claude • Barbieri Daniele • Barbieri Elena • Barbieri Francesco • Barbuto Rita • Barin Giovanni • Barletta Riccardo • Barrese Alice • Barret Daniel • Barroero Guido • Barruè Jean • Barsella Maurizio • Bartola Roberto • Bartolelli Maurizio • Bartoli Roberto • Baruchello • Baschet Jerome • Bassanese Luca • Bassi Mauro • Bassi Sergio • Battista Brunella • Battistutta Federico • Bava Gianni • Bayatly Kassim • Bayer Osvaldo • Bazzani Elena • Bazzini Davide • Becherini Paolo • Becheroni Elvio • Beck Julian • Becker Jean Louis • Belingheri Adriano • Bell John • Bellei Gianluigi • Bellelli Enrico • Belli Vittorio • Bellini Chiara • Bellini Franca • Bellisai Carlo • Bellotti Giovanni • Bellucci Giulio • Beltrame Luca • Beluffo Gibi • Bemporad Fiora • Benasayag Miguel • Benedini Grazia • Benfante Filippo • Benkimoun Paul • Benna • Benten Leona • Bentivoglio Mirella • Benvenuti Maurizio • Berardi Franco “Bifo” • Berengo Gardin Gianni • Beretti Stefano • Bergtrom Gunilla • Berkman Alexander • Bermani Cesare • Bermudez David Urbano • Bernardi Bruno • Bernardi Dario • Bernardini Mariella • Berneri Camillo • Berneri Maria Luisa • Bernini Franco • Berrini Andrea • Bertante Alessandro • Bertelli Gualtiero • Bertelli Mario • Bertelli Pino • Berti Francesco • Berti Giampietro “Nico” (Mirko Roberti) • Berti Vinicio • Berto Massimiliano • Bertolani Eugenio “Carpi” • Bertoli Franco “Colby” • Bertoli Gianfranco • Bertolo Amedeo (A. Di Solata) • Bertolo Annalisa • Bertolo Gianni • Bertolo Luca • Bertolotti Margherita • Bertolucci Franco • Bertolucci Rosaria • Bertoni Gigi • Besser Howard • Bettenzoli Piergiuseppe • Betti Giorgio • Bettini Ivan • Bevano Est • Bevilacqua Carlo Elmiro • Bey Hakim • Bezzecchi Giorgio • Biagi Patrizio (Bunny) • Biagini Furio • Bianchi Bruna • Bianchi Claudio • Bianchini Flaviano • Bianciardi Luciano • Biassoni Marco • Bibini Emilio • Biblioteca “Franco Serantini” Pisa • Biblioteca “Germinal” Carrara • Biblioteca Libertaria “Armando Borghi” Castelbolognese • Biblioteca Popolare “José Ingenieros” Buenos Aires • Biblioteca Sociale “Tullio Francescato” Bassano del Grappa • Biblioteca Studi Sociali “Pietro Gori” Messina • Bidoia Fede • Bidoia Nico • Bidussa David • Biehl Janet • Biffi Giancarlo • Bigi Gemma • Bignami Elena • Bigoni Bruno • Binder U. • Bini Luca • Bini Marco • Bino Luca • Biondo Attilio • Bisacca Simone • Bizzozzero Fausta (Franca Bizzoni) • Black Flag Regno Unito • Blancardi Edmondo • Blisset Luther • Blumen Von • Bo Punk-am-in-azione • Boato Michele • Bobbio Luigi • Bocca Umberto • Boccadoro Paolo • Boccardo Giacomo • Bocchi Cino • Bocephus King • Bodrato Lella • Boerci Laura • Bogani Gianluigi • Boggiani Rinaldo • Bognolo Daniela • Boldorini Riccardo • Bolsi Arnaldo • Boltinelli Martina • Bonadonna Pietro • Bonalumi Agostino • Bonamici Federico • Bonavolontà Giuseppe • Bonelli Riccardo • Bonello Marco • Bonfatti Enrico • Boni Stefano • Bonicelli Michele Panzer • Bonifica Emiliana Veneta • Boniolo Nanni • Bonomi Annamaria • Bontempelli Sergio • Bookchin Debbie • Bookchin Murray • Borboni Andrea • Borgese Edoardo • Borghi Armando • Borghi Lamberto • Borghi Lorena • Boriani Emanuela • Borillo Mario • Borselli Simone • Borso Dario • Bortolli Gianni • Bortolotti Attilio • Bortoluzzi Daniele • Bosco Rick • Bossi Mario • Bossi Rossana • Bottero Alessandro • Bottigelli Paolo Maurizio • Bottinelli Giampiero • Bourdet Yvon • Bourke-White Margaret • Boursier Giovanna • Bova Simone • Bovarini Maurizio • Bradford George • Bragagnini Marinella • Bramante Gabriele • Brandes Ursula • Braschi Paolo • Brassens George • Bravi Luca • Bray Angelo • Breccia Alessandro • Breccia Alfredo • Brenda Alessandro • Brentjes Rana • Bresci Gaetano • Bresolin Alessandro • Bressan Tommaso • Breton Philippe • Brix • Brocca Ettore • Brossat Alain • Broxton Eugene • Bruckner D.J.R. • Brunello Piero • Bruno Giordano • Bruno Pompeo • Bruschi Paolino • Brustio Mariano • Bubbico Davide • Bucalo Emma • Bucalo Giuseppe • Bucci L • Bucciarelli Marco • Buganza Gianni • Bukowski Charles • Bunçuga Dusan • Bunçuga Franco • Bunçuga Mario • Buratti Simone • Burgos Elisabeta • Buscarino Maurizio • Buselmeier Karin • Busi Gloria • Busia Rafaela • Busolini Elvio • Bussini Mauro • Buti Ornella • Buttà Nadia • Buttigieg Joe • Buzzi Andrea • Buzzi Michele • C. Alfredo • C. Francesco • C. Sandro • C. Silvio • C. Valentina • C.A.R.M. Roma • C.D.A. Associazione Roma • C.I.R. • C.I.R.A. Ginevra – Losanna • Cabré Jaume • Caccia Beppe • Cacopardo Alberto • Cacucci Pino • Caffi Andrea • Cagnoli Andrea • Cagnotti Marco • Calabrese Luigi • Calanchi Alessandra • Calandri Enrico • Calò Valentino • Calpini Rodolfo • Caltabiano Salvo • Camacho Diego (Abel Paz) • Camarda Antonio (Libero Medina) • Camenisch Marco • Camero Hoke Guillermo • Cammarata Alarico • Cammarata Roberto • Cammaroto Nicoletta • Cammelli Sebastiano • Campanella Maurizio • Campbell Duncan • Campiglio Luigi • Camus Albert • Canavesi Fabio • Candela Leo • Cane Giulia • Cane Riccardo • Caneba Riccardo • Canepari Franco • Cantarutti Paolo • Cantovivo • Canziani Giulio • Canzoniere Libertario Veneto • Canzonieri Alessandro • Capello Stefano • Capo Joseph • Capodacqua Paolo • Caponera Marco • Cappellaro • Cappuccino Claudio • Capraro Saverio • Capuano Carlo • Capuano Paolo • Capurro Mauro • Caputo Francesca • Caraffi Gino • Carbonara Giuseppe • Carbonari Adolfo • Cardella Antonio • Cardella Giovanna • Cardia Tullio • Cardias • Cardin Andrea • Cardinale Franco • Cardinali Mario • Careri Gianfranco • Cargnelutti Valentino • Caria Roberto • Carlizza Francesco • Carloni Zelinda • Carnevale Antonio • Caroldi Massimo • Carollo Antonino • Carrozza Gianni • Caruso Giovanna • Carvalho Miguel • Carvalho Ferreira J.M. • Casaccia Liuba • Casadei Piero • Casagrande Alessandro • Casamonti Romano • Cascina Autogestita Torchiera Milano • Cascio Rino • Casciola Paolo • Casciotta Paola • Caselli Marco • Caselli Nirmal Marco • Casi Stefano • Casoni Nerio • Cassa Solidarietà Antimilitarista • Castellani Mario • Castells i Casillas Pep • Castelnuovo Carla • Castillo Enrique • Castoldi Marco “Morgan” • Castoriadis Cornelius • Catalfamo Antonio • Catanuto Santo • Cattaneo Anna Maria • Cattaneo Sergio • Cattini Giovanni C. • Cavagnaro Pino • Cavalieri Costantino • Cavicchioni Lucio • Cavina Chiara • Cederna Camilla • Cedrats Lione • Celli GianCarlo • Centre Experimental Saint Nazaire • Centre Social Bruxelles • Centro Ricerca per la Pace Viterbo • Centro Redazionale Napoli • Centro Culturale Ricerca Libertaria Rimini • Centro Documentazione Anarchica Padova • Centro Documentazione Donna Brindisi • Centro Informazione maternità il Melograno Verona • Centro Ricerca per la Pace Viterbo • Centro Siciliano di Documentazione “G. Impastato” Palermo • Centro Sociale Anarchico Torricelli Milano • Centro Sociale Autogestito San Biagio Platani • Centro Sociale Autogestito Belfagor Piacenza • Centro Sociale Autogestito Guercio Alessandria • Centro Sociale Autogestito Montevergini Palermo • Centro Sociale El Paso Torino • Centro Sociale ex-Conchetta Milano • Centro Sociale Forte Prenestino Roma • Centro Sociale Garibaldi Milano • Centro Sociale Intifada Empoli • Centro Sociale Kronstadt La Spezia • Centro Sociale La Chimica Verona • Centro Sociale La Scintilla Modena • Centro Sociale Libertario Brescia • Centro Sociale L’indiano Firenze • Centro Sociale L’officina Genova • Centro Sociale Macchia Nera Pisa • Centro Sociale Magazzino 47 Brescia • Centro Sociale San Fracesco Saverio Palermo • Centro Sociale Sobbalzo Imperia • Centro Sociale Villa Sansoni Livorno • Centro Sociale Virus Milano • Centro Sociale Zona a Rischio Roma • Centro Sociale Udine • Centro Studi Cucine del Popolo Reggio Emilia • Centro Studi La Rete Bologna • Centro Studi Libertari Belgrado • Centro Studi Libertari Benevento • Centro Studi Libertari Napoli • Centro Studi Libertari “Camillo Di Sciullo” Chieti • Centro Studi Libertari “G. Pinelli” Milano • Centro Studi Sociali “E. Malatesta” Imola • Centro Studi Sociali “M. Bakunin” Roma • Ceola Giuseppe • Cerami Massimo • Cereda Gianluigi • Cernichov Ja G. • Ceroni Paolo • Cerrito Gino • Cerutti Maddalena • Cerutti Marco • Cervellera Maurice Enem • Cesa Alberto • Cesana Cristina • Cesarano Ciro (Oscar Corenai) • Chai Ling • Charta • Chavez Anabel Lara • Cheng Gong Zheng • Cherchi Gianpaolo • Chersi Andrea • Chessa Aurelio • Chessa Fiamma • Chesterton G.K. • Chiadini Gherardo • Chiara • Chiarantini Andrea • Chiavaroli Stefania • Chiesa Patrizia • Chindemi Matteo • Chinnici Gianluca • Chiocchetti Paolo • Chip Anarchico Marsalese • Chittò Gigi • Chiu Yu Mok • Chomsky Noam • Chris • Christie Nils • Christie Stuart • Ciampi Alberto • Ciampi Piero • Ciavarolli Stefania • Cicolani Silvio • Ciconte Nazzareno • Cillario Monica • Cilloni Marco • Cimarosti Marco • Cimatti Cinzia • Cimbalo Gianni • Cinque Compagni di Cinecittà Roma • Cinquegrani Angelo • Cinzia • Cipriani Amilcare • Circolo “M. Bakunin” Roma • Circolo Banditi di Isarno Novara • Circolo dei Malfattori Milano • Circolo Trobar Clus Bordighera • Circolo Zabriskie Point Novara • Circolo Anarchico “C. Berneri” Torino • Circolo Anarchico “Luigi Fabbri” Forlì • Circolo Anarchico 30 Febbraio Palermo • Circolo Anarchico Freccia Nera Bergamo • Circolo Anarchico L’Onagro Bologna • Circolo Anarchico Messinese Messina • Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa Milano • Circolo Anarchico Sana Utopia Umbria • Circolo Anarchico Studi sociali “E. Malatesta” Ancona • Circolo Culturale “Franco Serantini” Pisa • Circolo Culturale “N. Papini” Fano • Circolo Culturale Libertario Rimini • Circolo Culturale Marginopoli Milano • Circolo Culturale ricerca e studio sull’autogestione Bergamo • Circolo Libertario “C. Pisacane” Bassano del Grappa • Circolo Libertario Autogestito La Scintilla Modena • Circolo Libertario Carlotta Orientale Terni • Civardi Norberto • Civolani Eva • Clark Howard • Clark John • Clastres Pierre • Claudia • Clipet Jean-Paul • Club Utopista “Marina Padovese” Mestre • Co.M.I.L.Va. Milano • Coco Pippo • CoCoRiCò Torino • Codello Francesco • Codello Marta • Cogliati Giorgio • Coglito Rosalba • Coglitore Mario • Colacicchi Piero • Cole G.D.H. • Collectif Che Tolone • Collectif Contre les Explosions Liegi • Collectif Malgré Tout Parigi • Collettività Anarchica “di solidarietà “Tommaso Serra” Barrali • Collettivo Amautu Perù • Collettivo Anarres Milano • Collettivo Antimilitarista Anarchico Milano • Collettivo Comunicazione Libertaria • Collettivo di formazione Abra • Collettivo Dietrofront Torino • Collettivo Il Cuneo Monza • Collettivo Labirinto Benevento • Collettivo Lavoratori Libertari Torino • Collettivo Le Scimmie Milano • Collettivo Libera Espressione Nichelino Torino • Collettivo Liberazione Sessuale Milano • Collettivo Microcellulazione Napoli • Collettivo Punk Anarchici Grosseto • Collettivo Punx Anarchici Virus Milano • Collettivo Spazi Sociali Autogestiti Potenza • Collettivo Vaganti Parma • Collettivo Anarchico Materiali Dolci Roma • Collettivo Anarchico Ricerca Internazionale Palermo • Collettivo Libertario quartiere Ticinese Milano • Collettivo Libertario Mestre • Colombo Cesare • Colombo Eduardo • Colombo Luigi • Colombo Roberto • Comincini Claudio • Comitato Ambiente Amiata Val d’Orcia Siena • Comitato di gestione Verde Vigna Comiso • Comitato Difesa Ambientale Castanesi • Comitato Difesa Ambientale Cuggiono • Comitato difesa Cava S.Antonio Buscate • Comitato Diritti Civili Massa Carrara • Comitato Fabriziounodinoi Genova • Comitato Giovani ANPI “Comandante Muro” Piacenza • Comitato Lavoratori Cileni in esilio • Comitato per la Liberazione di Horst Fantazzini • Comitato Spagna Libertaria Milano – Genova • Comitato Campsirago • Comitato 19 gennaio Russia • Comitato Lotta contro l’emarginazione • Comitato Lotta per la difesa dell’area del Sieroterapico Milano • Commissione Handicap 4° Reseau Europeo Alternativa alla Psichiatria Roma • Compagne Ecofemministe Friuli • Compagnia Angeli del Non Dove • Compagnia delle Acque • Compagnia teatrale UtopiA Rimini • Comuna Utopina • Comunarde di Urupia Francavilla Fontana • Comune “Urupia” Francavilla Fontana • Comunidad Montevideo – Stoccolma • Comunidad del Sur Montevideo • Comunismo Libertario • Comunità Aquarius San Gimignano • Comunità Libertaria Belgradese • Concordia Tomaso • Confino Michael • Conforti Marco • Congiu Mario • Coniglio Giuseppe • Conio Giuliano • Cono Angela • Cono Joe • Consolato Sandro • Consoli Luciano Massimo • Consoni Lilla • Consorti Giovanni • Conte Bruno • Conti Elio • Conti Fabio • Conti Tonino • Contini Vittorio • Cooley John K. • Cooperativa Alekos Milano • Cooperativa Bravetta ‘80 Roma • Cooperativa Libera Espressione Torino • Cooperativa Nuova Agricoltura Campsirago • Coordinadora Libertaria Latinoamericana • Coordinamento Anarchico Palermitano • Coordinamento Friulano per l’ecologia sociale Udine • Coordinamento Leghe Autogestite contro la base di Comiso • Coppola Elisabetta • Coraddu Guido • Coraddu Massimo • Corbelletto Rosa • Cordes Christian • Cordini Giorgio • Corini Gianni • Coro di Voci Bianche “Paolo Maggini” di Botticino Brescia • Corsentino Michele • Cortese Luisa • Cortesi Luisa • Cortiana Graziano • Cortini Guerriero • Cortopassi Giuliano • Cosi Lucia • Cosimo il fustigatore di masochisti • Cospito Alfredo • Cossich Dario • Cossutta Marco • Costa Claudio • Costa Lella • Costa Sergio • Costantini Flavio • Cotichelli Giordano • Cottino Paolo • Cova Ermanno • Covre Pia • Cozzo Ciro • Crary Dan • Crass Un membro • Craveri Antonio • CRC Abano Terme • Crespini Maria Teresa • Cringoli Lino • Cristallini Sandro • Cristallo Valeria • Cristianesimo Anarchico Modena • Croce Pietro • Croce Nera Anarchica Ticino • Crocenera Anarchica • Crotti Ezio • Crovatin Luca • Cruciani Fabrizio • Cucurnia Mauro • Cuevas M. • Cullen Steve • Cuoca Rosso-Nera • Curtoni Vittorio • Cuzzi Gloria • Czechowicz Belin • D. Luca • Dadà Adriana • Daglia Sergio • Dal Maistro Renato • Dall’Agata Stefano • Dalle Ore Oretta • D’Ambrosio Massimiliano • Damiano Leonardo • D’Andrea Antonio • D’Andrea Fabrizio • D’Angiò Roberto • Danna Daniela • D’Antonia Enzo • Danza Matteo • Dario l’autoflagellante • Dathe Suzanne • D’Attilio Robert • Davi Laura • Day Richard • De Agostini Mauro • De André Caro • De André Cristiano • De André Fabrizio • De Angelis Edoardo • De Angelis Enrico • De Berardinis Leo • De Bernardo Mario • De Capitan Francesco • De Capitani Iaia • De Carlini Luigi • De Carlo Giancarlo • De Cortes Mauro • De Cristofaro Salvatore • De Francesco Irene • De Leonardis Vincenzo • De Libero Frediano • De Luca Egidio • De Luca Erri • De Luca Roberto • De Maria Carlo • De Michele Rino • De Morales Lucila M. • De Pasquali Marc • De Rienzo Maria G. • De Rose Antonio • De Salvador Willy • De Sario Pino • De Siena Salvatore • De Vecchi Andrea • De Vita Pasquale • De Vito Christian G. • De Witt Rebecca • Deantoni Anna • Decanale Carlo • Decruydt Bruno • Del Carro Luciano • Del Conte Loredana • Del Corno Nicola • Del Grande Chiara • Del Grande Umberto • Del Monte Marino • Del Moro Franco • Del Prete Luigi • Del Signore Mirna • Delfanti Alessandro • Delfino Amico • Delia Letizia • Della Mea Pietro • Della Savia Piero • Della Torre Ettore • Dellacqua Mario • Dell’Aira Matteo • Delor Franco • Demma Domenico • Denti Roberto • Dentini Fabrizio • D’Errico Antonio • D’Errico Stefano • Descamps Christian • Despret Vinciane • Dessy Ugo • Desyaterik Dmitry • Detenuti Carcere Voghera • Detenuti Organizzati per il Comunismo Carcere Avezzano • Devon Alexandra • Di Buono Michela • Di Camillo Antonio • Di Cori Renzo • Di Fiore Franco • Di Florio Alessio • Di Francesco Luciano • Di Genova Giorgio • Di Giulio Alessia • Di Giusto • Di Gregorio Jonas • Di Lembo Luigi • Di Leo Rossella • Di Maggio P • Di Martino Laura • Di Nicola Tiziana • Di Rienzo Maria G. • Di Sabantonio Franco • Diamante Patrizia “Pralina Tuttifrutti” • Dierski Andrei • Diez Rolo • Dilemmi Andrea • Dillman Uli • Dinescu Boris • Diotallevi Marcello • Dipierro Francesca • Dirani Deborah • Dirdam François • Diva • Djordjevic Bojan • Dolci Danilo • Dolci Mariano • Dolgoff Sam • Dom • Domaschi Giovanni • Donato Alice • Donne indigene in resistenza San Juan Copala (Messico) • Donno Antonio • Doposcuola Popolare Argonne Milano • Douguet Aurelien • Draghi Cristiano • Drakulic Slobodan • Drooker Eric • Duboc Catherine • Dubois Mayk • Dubost Sebastien • Dujany Nelly • Durruti Buenaventura • D’Urso Tony • E. Vicente • E.N.I. Un compagno • Echaurren Pablo • Ecke Werner • Edizioni Spartaco Santa Maria Capua Vetere • Edo Luis Andres • Eguchi Kan • Eire Nua • El Censurado Uruguay • El Libertario Venezuela • El Mate Argentina • Elena • Elettra • Elli Chiara • Embid Alfred • Emergency Milano • Emiliani Vittorio • Enckell Marianne • Endrizzi Sandra • Enil • Ensemble Fab • Ensemble Laborintus • Enzensberger Hans Magnus • Ercolini Ilaria • Ermani Paolo • Ermini Rino • Errandonea Stefano • Escalar Gisella • Esteve Mai • Eutopia Grecia • Eva Fabrizio • Evangelisti Valerio • F. Giorgio • F. Lodovico • F. Raffaele • F.A.I. Commissione di Corrispondenza Reggio Emilia • F.A.I. Commissione di Corrispondenza • F.A.I. Federazione Anarchica Italiana • F.A.I. Alessandria • F.A.I. Palermo • F.A.I. Rimini • F.G.C.I. gruppo di iscritti e simpatizzanti Varese • F.M.S.A. Consiglio di Fabbrica • F.M.S.A. Un compagno • Fabbri Franco • Fabbri Luce • Fabbri Luigi • Fabbri d’Errico Stefano • Fabio • Fabiostronzo/obsoleto degli Alternativa Milano • Fabro Luciano • Facchin Roberto • Faccioli Paolo • Fago John • Failla Alfonso • Failla Aurora • Failla Libera • Faini Fabio • Fajardie Frederic H. • Falchetto Giucas • Falciani Fabrizio • Fallisi Joe • Fanelli E • Fantazzini Horst • Fanti Andrea • Fanti Silvia • Fara Ottavia • Farah Isabel • Farinelli Luciano • Fauré Christine • Faustino • Fedele Santi • Fedeli Ugo • Federazione Anarchica Carrara • Federazione Anarchica Milanese • Federazione Anarchica Piombinese • Federazione Anarchica Siciliana • Federazione Anarchica Spezzano Albanese • Federazione Anarchica Torinese • Federazione Municipale di Base San Lorenzo del Vallo • Federazione Municipale di Base Spezzano Albanese • Federazione Italiana Associazioni Partigiane Carrara • Federica 71 • Felicetti Gianluca • Felli Grazia • Felloni Marco • Fenech Ludovico • Ferbri Silvia • Feri Paola • Ferrara Carmelo • Ferrara Gianni • Ferrara Minnie • Ferrarese Vincenza • Ferrari Gianandrea • Ferrario Andrea • Ferrario Giovanni • Ferraro Enzo • Ferré Leo • Ferrer Christian • Ferrero Roberto • Ferrero Regis Tiziana • Ferretti Angela • Ferretti Federico • Ferretti Lindo • Ferri Enrico • Ferri Franco • Ferri Ramon • Ferro Daniele • Ferrua Pietro • Festino Giuseppe • Fiammetta • Figueiras Julio • Fileno Carabba Enzo • Filippi Massimo • Filmoteca Espanola • Finzi Alba • Finzi Elio • Finzi Paolo (Camillo Levi) • Fiore Arianna • Fiorenzo • Fioroni Sara • Firth Will • Fiumi Giorgio • Flaibani Roberto • Flecchia Piero • FLK • Flores D’Arcais Paolo • Fo Dario • Fock Stefanie • Fofi Goffredo • Fondazione Fabrizio De André • Fondazione G • Foni R • Fontana Elisa • Foppa Carlo • Forestier Michèle • Fortini Franco • Fosco Stefano • Fossati Ivano • Fossati Paola • Fossati Paolo • Foti Olga • Fraccaro Elis • Fracchia Dino • Fragano Adriano • Francalanci Nico • Franceschetti Paolo • Franceschi Filippo • Franceschi Landi Laura “Kiki” • Franchi Renato • Franchini Remo • Franco • Franetti Ivan • Franzinelli Mimmo • Franzoni Stefano • Franzy • Frascolla Franco • Frasson Giulio • Fratelli di Soledad • Freedom Londra • Freie Schule Tempelhof alcuni bambini Berlino • Freire Joao • Frente Libertario Parigi • Fresko Susanna • Frevert Pierre • Frezza Agostino • Frigerio Luca • Friggieri Alessandro • Front Libertaire Parigi • Frontiera • Frugoni Claudio • Fueg Jean Francois • Fuga Gabriele • Fuiano Roberto • Fumagalli Giulia • Furlotti Gianni • Furth Renè • Fusco Gian Carlo • Fusi Marco • Futura • G. 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Gabriele • P. Roberto • P. Stefano • Paccino Dario • Paciucci Gianluca • Padovan Dario • Padovese Marina • Padovese Stefano • Padovese Tullio • Pagani Camilla • Pagani Maurizio • Pagani Mauro • Pagano Michele • Pagano Vincenzo • Pagini Daniele • Pagliaro Angelo • Pagliero Carla • Paiter Surui Itabira • Palamara Rocco • Palazzi Arduini Francesca (Dada Knorr) • Palermo Giulio • Palidda Salvatore • Pallotta Clelia • Palombo Fabio • Palombo Francesca • Panario Daniel • Panciroli Alberto • Pandin Marco • Pandolfo Lucio • Pani Massimiliano • Panicucci Massimo • Panigadi Giovanna • Panizza Massimo • Pantaleo Raul • Panzeri Andrea • Panzeri Arnaldo • Panzeri Roberto • Paola • Paolella Adriano • Paolini Giulio • Paolo • Paper Resistance • Papi Andrea • Parboni Fabrizio • Pariani Laura • Parisi Corrado • Parisi Giancarlo • Parodi Andrea • Parravicini Daniele • Partito Groucho-Marxista d’Italia • Pascarella Gian Luigi • Pasello Franco • Pasquale Antonio • Pasquinelli Anastasia • Pasquini Stefano • Passamani Massimo • Passante Alfredo • Pastore Massimo • Pastori Angelo • Paterna Claudio • Patrizia • Pavese Franco • Pazienza Andrea • Pearce David • Pearson Linda • Pecci Stefano • Pedago Party • Pedercini Paolo • Pedone Antonio • Pedrazzini Patrick • Pedretti Stefania • Pelikan Jan • Pelle • Pellecchia Umberto • Pellegrino Lenin • Pellisari Luigi “Luisito” • Penna Emilio • Pennington Bruce • Penno Francesca • Perani Federica • Peraro Federica • Perasavic Benjamin • Perillo Fulvio • Perin Andrea • Perini Sergio • Perna Maria Speranza • Pernelle • Pernice Renato • Pernicone Nunzio • Peroncini Giovanni • Perono Querio Ronal • Perricone Federico • Perrini Agostino • Perrone Andrea • Persico Mario • Pescaioli Giuseppe • Pessina Luca • Petazzi Franco • Petrassi Elena • Pezzetti Marcello • Pezzica Lorenzo • Phantomas • Philopat Marco • Pianciola Cesare • Piccirillo Mario • Piccola Bottega Baltazar • Picqueray May • Pidutti Patrich • Piergiovanni Pasquale “Lillino“ • Pierotti Alessandra • Pierozzi Giancarlo • Pietra Katia • Piffer Enzo • Pighini Stefano • Pignatta Valerio • Pilotto Stefano • Piludu Ferro • Pinca Roberto • Pineda Virgilio Roel • Pinna Pietro • Pinos Daniel • Pinotti Marco • Pinter Harold • Piombini Guglielmo • Pircher Michele • Piromalli Salvatore • Pirondini Andrea • Pirsig Robert • Pisicchio Michele • Pisu Nicola • Pitari Gianluca • Pizzocchero Franco • Pizzola Mario • Planche Fernand • PLFM Andrea • Poce Paolo • Poggi Maurizio • Poirè Giuseppe • Poiret Xavier • Polizzi Michele • Pomponio Remo • Pons Suzanne • Pontolillo Michele • Pontone Silvio • Pontremoli Giuseppe • Porro Germano • Porta Lorenzo • Portaluppi Fabio • Porto Daniele • Postiglione Umberto • Povellato Loretta • Pozzi Riccardo • Prandstraller Gian Paolo • Prati Jones • Pratolini Vasco • Pratt Hugo • Premi Federico • Pretelli Settimio • Prevert Jacques • Prez Gonzales Pablo Cesar • Prieto Laura • Prieto Ruben • Printes Antonio Carlos • Proudhon Pierre Joseph • Prunetti Alberto • Pucci Emilio • Pucciarelli Domenico “Mimmo” • Puggioni Vincenzo • Puglielli Edoardo • Pugnalin Sergio • Pulsinelli Tito • Punx Anarchici Comiso • Punzo Armando • Pupa • Putignani Loredana • Puttilli Matteo • Quadrati Eusebio • Quadruppani Serge • Quartana Gianni • Quino • R. 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CP17120
En recuerdo de Nerio Casoni
Con alcune settimane di ritardo abbiamo ricevuto l’ingrata notizia della
morte del nostro compagno Nerio, avvenuta a Bologna lo scorso 26 agosto 2010.
Per gli anarchici di diversi luoghi di questa regione del mondo, negli ultimi
anni la figura e il contatto con Nerio erano diventati familiari, da quando
aveva iniziato a viaggiare tra i diversi paesi stabilendo una comunicazione
con collettivi e iniziative libertarie che oggi ritornano a fiorire nel continente,
ricoprendo il coraggioso compito di mettere in contatto noi e il movimento (A)
europeo, soprattutto con l’area di lingua italiana.
Negli ultimi tempi questo legame con l’America Latina si era fatto intenso
con il Venezuela e, soprattutto, con Cuba.
All’inizio del 2010 Nerio Casoni era rimasto in questo paese per diverse
settimane, con la responsabilità di essere il primo attivista del movimento
anarchico internazionale a essere presente nell’isola dopo cinquant’anni,
per appoggiare e partecipare agli sforzi di ricostruire espressioni libertarie
da e per Cuba.
Chi di noi, a Cuba e in Venezuela, ha avuto l’occasione e la fortuna di
conoscere Nerio, non si dimenticherà mai della sua amicizia, né
di quanto abbiamo imparato insieme a lui, ne di quel lavoro silenzioso ma molto
importante che ha portato avanti per noi. Che la terra sia lieve per un uomo
libero!
Taller Libertario
Alfredo López” (Cuba)
Colectivo Editor de El Libertario (Venezuela)
(si ringrazia Arianna Fiore per la traduzione)
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La D’Addario
vittima? / Replica
Ringrazio le due lettrici di “A” (Valentina Galasso ed E.V., in
Cas.Post.17120 dello scorso numero) per le loro osservazioni al mio scritto
“L’altra” (“A” 355, estate 2010).
Con questo articolo ho cercato di esprimere ciò che la storia di Patrizia
D’Addario, seguita con istintivo interesse, a me lascia intravedere senza
intenzione di dimostrare una qualche ipotesi.
Ho interpretato la cosa a partire da quello che ha colpito il mio sguardo, muovendomi
a interloquire pubblicamente. Sono d’accordo con Valentina Galasso quando
qualifica “azzardata” la mia (?) ipotesi: azzardato però
è lo sguardo, non l’ipotesi supposta. Sono d’accordo anche
con E.V. quando nomina il “trasporto emotivo da cui i giudizi sono accompagnati”.
Ma l’accordo non è per me sullo stesso piano.
Non nego l’emotività – empatia sento di chiamarla –
e ci faccio i conti. Ferma restando a utilizzare i conti per la forza trasformativa,
a volte perfino creatrice, del loro non tornare con quanto ci si aspetta, se
spiazzano cioè e fanno accadere qualcosa di imprevisto: guadagno che
giudico di preziosa caratura rispetto all’inefficacia trasformativa della
logica del politicamente corretto o, in altri termini, della coerenza ad un
modello pre-visto, a volte perfino fantasticato.
Mi sono lasciata stupire da questa donna e l’ho voluta ascoltare dalla
sua viva voce. Immaginavo che un po’ se la tirasse, che al look ci tenesse:
così non è (stato). L’ho conosciuta personalmente e in relazione
ad una proposta politica – l’incontro a Lugano – da lei immediatamente
accettata. Da notare: non sono proprietaria né di testate giornalistiche,
né di reti televisive e non lavoro per nessun monopolio mediatico, scrivo
– tra parentesi che non ci sono – su “A”. Vorrà
pur dire qualcosa (certamente non di anarchico puro ma almeno di vena libertaria)
se lei, Patrizia D’Addario, agisce la libertà di stare al mondo
con quello che trova e mettendoci del suo. Si barcamena, senza stare tutta né
dalla parte della vittima, né in quella della persecutrice.
Faccio presente: non soltanto Anno zero le ha offerto ospitalità –
e lei gliel’ha offerta a sua volta accettando. All’indomani delle
rivelazioni sulle feste a Palazzo Grazioli, la prima intervista rilasciata in
Italia l’ha realizzata Ida Dominijanni sul Manifesto; seguono altre presenze:
all’Infedele di Gad Lerner, alla 7 con Lilly Gruber, su Vanity Fair nello
stesso numero dedicato alle dimissioni dal Tg1 di Maria Luisa Busi e suppongo
altre di cui non sono a conoscenza.
Conosco per contro la copertina di Panorama (gruppo Mondadori) dedicata a: La
pupa e i pupari con il reiterato stile giornalistico comune ai e con i poteri
mafiosi. Domanda (mia e retorica): è il potere dentro la mafia o è
la mafia dentro il potere? Risposta (mia e non retorica): tutte due in un abbraccio
perenne. Avvolgendo la persona di Patrizia D’Addario in un complotto dentro
cui lei si sarebbe fatta consapevole strumento ad uso degli avversari politici
del capo, la paranoia al potere è il detto che dice l’essenziale
dello status quo.
Preciso inoltre di non aver espresso il seguente pensiero: la D’Addario
ha fatto breccia; ho invece pensato di dare parola a ciò che sento in
questi termini: ha aperto una breccia nelle mura del Palazzo: luogo non “della
politica di alti livelli”, come Valentina Galasso scrive, ma di potere,
che non è la stessa cosa della politica.
Accolgo volentieri – qui e ora in piccolissima parte per mezzo di un articolo
e in relazione alle osservazioni ad esso riferite, ma anche altrove e in seguito
– l’invito di E.V a riconoscere la necessità dell’interrogazione
“sui meccanismi dell’immaginario e del Potere […] anche e
soprattutto [quelli che fanno] parte del nostro sistema di pensiero”.
Intendendo da subito che al di qua dei meccanismi dell’immaginario ci
sono le pratiche e le mediazioni viventi dell’umano simbolico.
Monica Giorgi
(Giubiasco – Svizzera)
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Meeting
anticlericali 1 / Botta...
Cara Francesca,
grazie per la bella presentazione dell’Associazione per lo sbattezzo e
la ricca esposizione che hai fatto dei meetings anticlericali (“A”
356. ottobre 2010, “Dossier meeting anticlericali” a cura di Francesca
Palazzi Arduini).. Questa lunga esperienza è stata, grazie anche alla
sua trasversalità, una delle più importanti che ha attraversato,
negli ultimi trent’anni, il movimento anticlericale ed anarchico. Trasversalità
che non è mai venuta meno, fino alla fine dell’esperienza stessa.
Mi dispiace che la tua impressione (forse più che un’impressione)
sia stata di una sorta di appropriazione del “marchio” dell’Associazione
da parte della FAI, avvenuta, sempre secondo te, dopo il meeting di Bologna
del ‘99. Molte compagne e compagni della Federazione hanno via via aderito
all’Associazione per lo sbattezzo e contribuito ai meetings anticlericali
sia nell’organizzazione che nell’elaborazione teorica. Penso, per
esempio, a Rosanna ed Enrico di Senigallia, a Paola di Trieste, a Marina di
Livorno, a me, a Walter, a Mariella e Massimo di Milano, a Francesco di Roma
e tralascio il ricordo puntuale di tante e tanti altri. Ma né il “marchio”
dell’Associazione per lo sbattezzo, come lo chiami tu, né la logistica
dei Meetings anticlericali sono mai stati “presi in carico” dalla
Federazione Anarchica Italiana. Fino alla fine di questa esperienza dentro l’Associazione
e anche nelle ultime iniziative erano attive compagne e compagni come Marina
e Fabio, Chiara Gazzola, Pippo Gurrieri, Federico Sora, Gigi di Macerata che
della FAI non sono mai stati. Senza dimenticare le compagne ed i compagni di
Libera di Modena (non-FAI) e di Piombino (FAI).
Un’altra cosa mi interessa aggiungere che riguarda, nello specifico, il
Meeting svoltosi a Bologna nel 1999. Il Meeting, aperto da un paginone di “Cuore”
dedicato all’Associazione per lo sbattezzo dal titolo: “Battezzare
un minore è circonvenzione di incapace”, si caratterizzò,
nella giornata di sabato 3 luglio, con la sessione , organizzata e curata dalla
Rete delle donne anarchiche che aveva per titolo: “Le donne contro gli
integralismi: il controllo delle religioni sulle donne, sulla libertà
di procreazione, di aborto, contro la violenza fuori e dentro la famiglia e
lo stupro” partecipò anche Melita Richter (sociologa triestina)
con una relazione sugli integralismi e nazionalismi nei Balcani. La mattinata
di domenica 4 luglio fu dedicata al ricordo di Marina Padovese e Joice Lussu.
Concludo riprendendo un aspetto di questa esperienza che mi sembra tu abbia
colto molto bene e che a me personalmente ha lasciato tanto. Ogni anno ci ritrovavamo
con le nostre e i nostri figli un po’ più grandi. Figlie e figli
ai quali abbiamo cercato di dare, anche attraverso quest’avventura, un’impostazione
critica della realtà. Forse ci siamo riusciti.
Tiziana Montanari
Meeting anticlericali 2 /
… e risposta
Cara Tiziana,
grazie per i preziosi ricordi, hai ragione, Fai c’è sempre stata
nei meeeting, chi vuole metterlo in dubbio? ...e nell’Associazione per
lo Sbattezzo, la mia era solo una precisazione rispetto al grande impegno successivo
ai meeting fanesi di Fai nell’organizzazione, la quale, ne converrai,
vista con gli occhi miei e di molti altri ex-animatori, risulta svuotata di
tanti compagni di altre appartenenze, e vede invece un impegno strategico dei
compagni e compagne della Fai a tenere aperta comunque l’Associazione
(che addirittura si voleva sciogliere per “raggiunti fini statutari”)
impegnandosi ancora di più seppure non assumendo formalmente incarichi.
Perché vederci un problema o un refuso?
A parte il discorso su Fai, possiamo chiederci perché l’Associazione
si sia svuotata man mano di contenuti, e soprattutto non abbia potuto cogliere
i mutamenti occorsi nel sociale e nel politico in modo da fare un anticlericalismo
utile, appunto, politicamente (a partire ad esempio dalla trovata un po’
retorica della carta contro il Trattamento religioso obbligatorio, carina ma
certo irrilevante politicamente), mentre Uaar legava invece (a mio avviso sbagliando)
lo sbattezzo alla propaganda antireligiosa... che in Italia non si riesca a
fare di più è notorio.
Dovremmo fare di più: proporre, picchettare, digiunare, contestare, esserci
ma, come sempre (e lo sappiamo bene noi femministe, n’est pas?) le urgenze
della vita materiale, gli attacchi al lavoro, all’ambiente, alla libertà
personale, ci costringono a mantenere la questione della libertà di pensiero,
sembra un paradosso, e della sessualità, è incredibile, indietro
di un passo rispetto alle lotte giornaliere. Prosit?
Francesca Palazzi Arduini
I nostri fondi neri
Sottoscrizioni. Settimio Pretelli (Rimini) 20,00; Gianandrea Blesio (Botticino – Bs) , 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Franco Pasello, 500,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) in memoria del papà socialista “Vero”, 50,00; a/m Matthias Durchfeld (Reggio Emilia), un gruppo di compagne e compagni di Karlsruhe (Germania),50,00; Mario Perego (Carnate – Mi) 50,00; Paola Somenzi (Curtatone – Mn) 20,00; Giovanna e Antonio Cardella (Palermo) in memoria di Alfonso Failla, 50,00; Lorenzo Carletti (Pietrasanta – Lo) per dossier Gori, 10,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa – Fi) ricordando Gianpaolo Verdecchia, 10,00; Francesco Cannarozzo (Fano – Pu) 38,00; Arnaldo Anaroni (Vernasca – Pc) 20,00; Alfredo Canuti (Roma) 10,00. Totale € 848,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di €100,00)
Stefano Stoffella (Rovereto – Tn); Patrizio Quadernucci (Bobbio –
Pc); Alberto Ramazzotti (Muggiò – Mb); Giulio Zen (Gualdo Tadino
– Pg) 200,00. Totale € 400,00.