Rivista Anarchica Online


dossier Australia

Terra Australis
di Tiziana Ferrero-Regis

Sono in arrivo le Olimpiadi. È già partita la solita operazione - immagine. Cerchiamo di vederci chiaro, con questo dossier curato da un’anarchica italiana emigrata da 8 anni in Australia.

Mi dicono che in questo periodo in Italia l’Australia è molto popolare. Sicuramente l’effetto Olimpiadi e la febbre da medaglia d’oro giocano un ruolo importante in questa popolarità costruita ad uso e consumo dei futuri telespettatori mondiali e dei potenziali turisti. I cartelloni pubblicitari che hanno promosso Sydney 2000 negli Stati Uniti ritraevano in primo piano un uomo e una donna nudi che si avviano mano nella mano verso un mare blu e un vasto orizzonte. Gli americani, che come al solito presero tutto sul serio, credettero letteralmente che gli australiani fossero tutti nudisti e che passassero tutta la loro giornata al mare.
L’intenzione dei pubblicitari era quella di mostrare il carattere schietto, aperto, fiducioso, amichevole, non complicato degli australiani, e un ambiente incommensurabilmente lindo e intaccato dai guasti della modernità. In realtà, si tratta di stereotipi, esattamente come quelli che ritraggono gli italiani come un popolo di santi, navigatori, poeti e cantanti.
Quaggiù (o quassù, a seconda di come si gira la cartina geografica) le cose stanno diversamente. L’Australia è un paese estremamente contraddittorio. È politicamente molto conservatore, e infatti aborrisce tutti gli estremismi, sia di destra, che di sinistra, e tuttavia ha abbracciato una politica multiculturale fin dagli anni Settanta, quando i governi laburisti dell’epoca si resero conto che la politica dell’assimilazione culturale degli immigrati si era rivelata controproducente.
La popolarità del giovane partito di destra One Nation, nato a metà degli anni Novanta, capeggiato da Pauline Hanson, è stata effimera. Fin quando la leader, che sembra una via di mezzo tra la Pivetti e Bossi, soltanto più stupida (il che è tutto dire), si appellava al senso nazionalista degli strati più conservatori del paese, in particolare dello stato del Queensland, in materia di indipendenza economica e pertanto contro la globalizzazione, il partito raccoglieva voti e simpatia. Alle elezioni statali del Queensland, nel 1998, in alcune aree rurali aveva anche raggiunto il 25 per cento dei voti. Ma quando ha cominciato a montare una campagna razzista contro gli immigrati, asiatici e non, e a negare il carattere multiculturale su cui si basa la società australiana, grazie anche alle manifestazioni pubbliche contro il suo partito, Pauline Hanson ha perso seguito. Il partito One Nation, inizialmente montato dai media, si è sgonfiato come un pallone, ed è crollato su scandali interni e incompetenza. Gli australiani, perbacco, saranno anche conservatori, ma non razzisti. Almeno, non verso la gente con la pelle chiara.

 

Sulla pelle degli aborigeni

Geograficamente parlando, il continente australiano è abitato principalmente lungo la costa orientale e quella a sud. I due terzi della popolazione sono infatti concentrati a Sydney, Melbourne, Brisbane, Adelaide e Perth. I suoi vasti territori interni, la wilderness, come l’hanno definita gli inglesi quando sbarcarono qui, coniando apposta il termine, sono quasi praticamente spopolati e rappresentano un mito che sta a metà tra il rigetto e un deferente timore con il quale gli australiani non hanno ancora fatto i conti. Infatti, il territorio, il landscape, è il fulcro attorno al quale ruota tutto il discorso della formazione dell’identità australiana. L’asprezza del territorio australiano è diventata una metafora che i bianchi australiani hanno usato per duecento anni per promuovere un senso di appartenenza alla società europea agli antipodi in contrasto con quella aborigena. I racconti di Henry Lawson, le poesie di Banjo Paterson, i romanzi di Patrick White e Peter Carey, i film australiani, da Picnic at Hanging Rock, a Crocodile Dundee, a Mad Max, ai film di Jane Campion e Gillian Armstrong, hanno tutti contribuito nel tempo alla costruzione di questo mito che definisce il carattere degli australiani come schietto, egualitario, pervaso da un senso di mateship (cameratismo) che va oltre le differenze politiche e ideologiche proprio perché alla fin fine bisogna fare i conti con un paesaggio ostile e pericoloso. Questo mito è stato costruito letteralmente sulla pelle dei suoi abitanti originari, gli aborigeni, la cui storia fatta di resistenza all’invasione inglese, aggressione, deportazione e genocidio sta emergendo soltanto ora. L’australiano bianco ha scritto fuori dalla storia ufficiale la storia aborigena vecchia di quarantamila anni, relegandola al livello di primitivismo e di folklore da esportazione turistica.
All’europeo, l’Australia appare come quella terra lontana che si studia sì e no alla fine dell’anno scolastico, insieme con la Nuova Zelanda e altre isolette, che vanno tutte sotto il nome di Oceania. Al turista disattento, l’Australia appare simile alla familiare Europa perché il livello superificiale di omogeneizzazione culturale è di marca anglo-sassone; eppure, a ben guardarla, qualcosa spiazza, qualcosa risulta alieno. Questo elemento alieno è il risultato di frizioni culturali sommerse, e del rapporto tutt’oggi non risolto con gli abitanti aborigeni.
Fino al referendum del 1967, gli aborigeni non erano considerati cittadini australiani. Ed è soltanto da quel lontano anno che la popolazione aborigena australiana ha cominciato a provare, e a riaffermare, il proprio orgoglio, soprattutto dal punto di vista culturale. Tuttavia, ancora oggi, il primo ministro liberale John Howard (in carica da due legislature) trova difficile dire “Mi spiace” agli aborigeni per il genocidio perpetrato ai loro danni con la cosiddetta ‘generazione rubata’ (Stolen generation). Tra il 1910 e il 1970 i vari stati della federazione australiana adottarono come pratica istituzionale la rimozione forzata di bambini nati da matrimoni misti, sanciti o di fatto, tra aborigeni e bianchi. Questi bambini venivano portati via dalle loro famiglie o comunità, affidati ad orfanotrofi, religiosi e non, o a coppie senza figli, per essere assimilati, secondo le policy dell’epoca, nel loro “miglior interesse”. È stato stimato che mediamente uno su sei bambini è stato rimosso dalle proprie famiglie. Nel 1995, un’inchiesta condotta a livello nazionale dalla Commissione per i diritti umani e le pari opportunità ha cercato di riportare alla luce questo dramma rimosso. Un dramma che se non viene affrontato opportunamente continuerà ad affliggere e a compromettere tutta la comunità e il processo di riconciliazione. Ecco perché le due semplici parole “Mi spiace” pronunciate dal primo ministro diventano il terreno del contendere politico tra gli aborigeni e le istituzioni. Esse sono infatti considerate dalla popolazione aborigena essenziali per avviare la riconciliazione tra le due popolazioni.

 

Furti da quattro soldi

Uno degli effetti più importanti dell’inchiesta è stato quello di tracciare le storie di massacri, dissensi e resistenza aborigena alla colonizzazione che erano state rimosse e occultate nella vana speranza di far apparire la colonizzazione inglese un modello di cooperazione con le popolazioni indigene. E anche storie di condizioni di estrema durezza in cui i bambini si trovavano spesso a vivere, di punizioni fisiche, e della perdita dell’identità culturale, della lingua, terra, e delle famiglie e comunità da parte di generazioni di aborigeni. L’inchiesta concluse che la rimozione forzata fu un atto di genocidio nascosto dietro i termini ‘assorbire’, ‘mischiare’, ‘assimilare’, ma in realtà teso alla distruzione di un intero gruppo etnico.
In febbraio, un adolescente aborigeno arrestato per furto si è impiccato nella sua cella a Darwin. Il ragazzo, orfano di entrambi i genitori, era stato arrestato per il furto di alcuni pennarelli e della colla. Contemporaneamente è emersa la storia di un altro giovane aborigeno condannato a un mese di carcere per aver rubato il giorno di Natale un pacchetto di biscotti. Il sistema legale australiano prevede l’incarcerazione obbligatoria senza processoper reati minori che siano stati commessi per tre volte. Questo tipo di reati, furti da quattro soldi, sono quelli in cui gli aborigeni incorrono più facilmente, e che li penalizzano in misura maggiore. Si riesce a capire la pericolosità di questo tipo di sentenze quando le si inquadra nel contesto più ampio della cosiddetta death in custody, la morte in prigione, un dramma sociale ed umano che tocca soprattutto la popolazione aborigena.
L’Australia è la nazione che per cinquant’anni ha promosso attivamente gli interessi degli Stati Uniti. Nel 1975, dopo la disfatta americana in Vietnam, il partito laburista australiano ha consegnato Timor Est nelle mani del macellaio Suharto. Gough Whitlam, un ‘illuminato’ primo ministro laburista dell’epoca, si è rivolto all’assassino di massa, e ha detto “Timor è tua”. Nessun partito politico australiano in questi vent’anni ha fatto niente per fermare i massacri in Timor Est. L’Australia ha nel frattempo largamente beneficiato di accordi economici con l’Indonesia. Soltanto nell’ultima metà del ‘99, con l’intensificarsi dei massacri in Dili, tutti i partiti, i media, gran parte della popolazione australiana, si sono improvvisamente resi conto che Suharto doveva essere fermato. Dopo la proclamazione dell’indipendenza di Timor Est, tra l’indifferenza generale dell’Onu, in Australia un bieco populismo di sinistra che cercava di rifarsi la coscienza e la verginità ha chiesto a gran voce che le truppe australiane fossero mandate a garantire la ‘stabilità’ dell’area e a proteggere la popolazione di Timor Est. In realtà, l’esercito australiano si trova a Dili a proteggere gli interessi imperialisti americani e australiani, che improvvisamente non hanno più bisogno del macellaio Soeharto a salvaguardare la ‘stabilità’ della regione.

 

E gli anarchici?

Come si barcamenano gli anarchici in questo vasto continente, il cui dibattito politico più acceso di oggi verte sulla controversa eliminazione della tassa GST (che corrisponde all’italiana IVA, e che sarà introdotta a partire da giugno) su tamponi e assorbenti femminili?
Dopo le proteste del 1968 e degli inizi degli anni Settanta contro la coscrizione obbligatoria per il Vietnam, la sinistra radicale è scomparsa. Il movimento anarchico è piuttosto disorganizzato a livello nazionale, ma gruppi di anarchici agiscono a livello locale nei soliti settori culturali con librerie, radio, conferenze, e a livello pratico con varie iniziative legate alla vita dei quartieri. Nella mia intervista a Brian Laver e Peter Sheldon, due compagni attivi nel movimento anarchico australiano rispettivamente dalla fine degli Sessanta e Settanta, emergono alcune informazioni storiche sul movimento anarchico australiano di Brisbane e Sydney relative all’inizio del secolo e ai giorni nostri. L’intervista è una drastica riduzione della lunga versione originale, che un giorno forse riuscirò a trascrivere per intera.
In particolare, i lettori di “A” troveranno una serie di articoli sul movimento anarchico di Brisbane, che fa capo all’Institute for Social Ecology, e che da alcuni anni è molto attivo a livello di quartiere, soprattutto grazie al fatto che i militanti sono quasi tutti residenti nello stesso quartiere, West End. Fin dagli anni Cinquanta, West End è stato il rifugio di immigrati greci, italiani, libanesi, e vietnamiti, che in quel periodo costituivano le classi più povere di Brisbane. Geograficamente, il quartiere si trova a sud del fiume Brisbane, è molto vicino al centro, ed è sempre stato considerato il quartiere povero e malfamato rispetto al più ricco nord. Negli ultimi dieci anni, Brisbane e il sud del Queensland costituiscono una delle aree a più rapido sviluppo economico e demografico del mondo. I quartieri semicentrali, come West End, hanno attratto capitali di investimento soprattutto in campo edilizio, con una conseguente speculazione edilizia che ha causato un cambio drammatico nel tessuto sociale. Affitti astronomici, distruzioni delle vecchie case tipiche, dette Queenslander, che studenti e disoccupati condividevano (come è d’uso qui in Australia), hanno dato il via al ricambio delle classi sociali e all’ imborghesimentodei quartieri vicini al centro.
Per fermare la distruzione culturale di West End, tradizionalmente multietnica e politicamente di sinistra, il gruppo anarchico ha cominciato a lavorare attivamente organizzando assemblee con gli abitanti, e attraverso il giornale West End Neighbourhood News, di cui Amish Alcorn dà un resoconto nel suo articolo.
Ma c’è di più. Brian Laver, un compagno attivo in Brisbane fin dalle lotte contro la guerra in Vietnam1, si è presentato alle elezioni del consiglio comunale del 25 marzo come candidato anarchico alla carica di sindaco. Vedo che molti lettori stanno già storcendo il naso di fronte a questa prassi politica che ricorda l’infelice esperienza e il tradimento di Andrea Costa e dei socialisti italiani, tanto per fare un esempio.
Brian ha raccolto l’1 per cento dei voti a livello cittadino, ma è salito al 4 per cento nel quartiere di West End. Il candidato laburista ha perso il 4,4 per cento (all’interno della circoscrizione del quartiere).
Questa candidatura va presa per una provocazione essenzialmente, nel tentativo di creare all’interno delle istituzioni, il comune in questo caso, uno spazio politico decentrato che preveda consigli di quartiere confederati i cui rappresentanti abbiano mandati revocabili. In poche parole, per usare le parole di Amedeo Bertolo2, si vuole costruire, o perlomeno suggerire, un modello di democrazia libertaria a partire dall’autogestione dei quartieri, che possa offrire una valida alternativa politica al modello democratico liberale, al quale il partito laburista aderisce completamente.
Qui a Brisbane siamo coscienti dei pericoli che il voto e l’elezione comportano, ma va precisato che il programma di Brian Laver è chiaramente di stampo anarchico, e il punto fondamentale della piattaforma prevedeva le dimissioni di Brian a favore della formazione di consigli di quartiere autogestiti da assemblee di cittadini. Riferendomi ancora una volta all’articolo di Bertolo, si cerca di portare al di là del fiume, tutti sani e salvi, lupo, capra e cavolo, senza perdere la dimenione dell’ethos anarchico.
Negli ultimi anni, l’esempio delle lotte di West End si è allargato, e molti quartieri ci hanno seguiti nelle lotte contro il consiglio comunale e le speculazioni edilizie.
Il dato rilevante di questa campagna elettorale al di là dei risultati, i che parecchi gruppi e individui di orientamento politico non strettamente anarchico - laburisti di base, sindacalisti radicali, comunisti libertari, aborigeni, tutti insoddisfatti dei politici di professione -, si sono avvicinati agli anarchici su posizioni decisamente libertarie.
La piattaforma anarchica prevede tra l’altro una grossa svolta nella politica aborigena. Infatti, la piattaforma anarchica sancisce il primo trattato in Australia di alleanza tra un gruppo politico bianco e un gruppo aborigeno. I portavoce degli aborigeni che vivono a West End si sono dichiarati pronti a sottoscrivere un trattato di alleanza con il gruppo anarchico sulla base di alcuni punti della piattaforma che prevedono il riconoscimento completo degli aborigeni come primi abitanti dell’Australia. Un trattato che non è mai stato firmato da nessuna istituzione nazionale.
In cambio, il gruppo aborigeno si dichiara pronto a seguire una politica di autodeterminazione e ad abbandonare la definizione ‘nazione’ riferita al popolo aborigeno australiano. Ho tradotto alcune parti dell’articolo di Sam Watson, uno degli esponenti del gruppo di aborigeni di West End, che è apparso recentemente su Neighbourhood News.

Tiziana Ferrero-Regis

1- Durante la fine degli anni Sessanta, in Sydney e Brisbane, la sinistra radicale aveva dimostrato duramente contro la guerra del Vietnam e la coscrizione coatta di giovani australiani. Il servizio militare in Australia non è obbligatorio.

2- Bertolo, A. 1994, “Al di là della democrazia. L’anarchia”, Volontà, n. 4, pagg.9-29.