Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 28 nr. 243
marzo 1998


Rivista Anarchica Online

Da Antigone a Nico
di Cristina Valenti

L'esperienza del Cada Die Teatro a Cagliari, nel segno della tensione civile e politica

Il Cada Die Teatro è nato a Cagliari nel 1982. I suoi spettacoli hanno trattato, fin dai primi anni, temi di impegno civile e politico: la guerra civile spagnola, il carcere, il terrorismo, la droga. Dal 1988 l'attenzione del gruppo si è applicata principalmente al lavoro sul testo, sia attraverso adattamenti (in particolare da Pinter), sia con la produzione di lavori originali. Del 1990 è lo spettacolo Senzaterra, che denunciava le conseguenze distruttive della speculazione immobiliare in Sardegna. L'anno seguente il Cada Die intraprendeva un progetto biennale dedicato a Dostoevskij. La prima tappa, La notte dei ricordi, era uno spettacolo quasi privato, che gli attori portavano nelle case dove venivano invitati, davanti a un pubblico-ospite organizzato per l'occasione. La seconda tappa era uno spettacolo vero e proprio, L'omicidio Satov, basato sul romanzo I Demoni. (Si veda, al proposito, I'intervista a Giancarlo Biffi in "A" 199). I personaggi di Dostoevskij vi erano còlti nelle caratteristiche estreme ed irriducibili delle loro individualità: uomini che non si adeguavano alla dimensione utilitaristica del vivere e rifiutavano totalmente la logica del potere. Nella "follia" di questi personaggi gli attori del Cada Die affermavano di avere ritrovato i propri "Demoni" personali: le visioni capaci di accendere e bruciare esistenze vissute al di fuori di solchi già tracciati. Una scelta di parallelismo che il gruppo ha continuato a riflettere nei lavori successivi: Il più bello dei mari (1994), spettacolo dedicato al dramma del popolo curdo, raccontava la vicenda umana e politica del poeta Nazim Hikmet; Diserzione (1995) denunciava la tragedia di un mondo che ha bisogno di eroi da immolare nelle guerre; Antigone (1996) costruiva la figura di un'eroina guerrigliera (interpretata da Alessandro Lay) per parlare di una storia che si ripete immutabile dai tempi di Sofocle fino ai nostri giorni, quando "le ragioni di stato continuano ad essere superiori ad ogni ragione morale, etica, religiosa o sociale dell'individuo", e Antigone - scrive Giancarlo Biffi - può ancora indicare la strada per farsi "antagonisti della barbarie". Proprio a partire dalla rilettura contemporanea di Antigone, il Cada Die ha organizzato di recente a Cagliari un incontro dal titolo Quando il tempo viene a noi. Erano presenti, oltre a chi scrive, il regista Thierry Salmon, l'attrice Ermanna Montanari, la studiosa di teatro e drammaturga Alessandra Ghiglione. Quello che segue è il documento con cui Giancarlo Biffi ha introdotto l'incotro. La Lettera a Nico si riferisce invece al più recente spettacolo del Cada Die, scritto e interpretato da Alessandro Lay per la regia di Giancarlo Biffi. Alessandro Lay ha pregato alcuni spettatori di Nico di scrivere una lettera per una sorta di rassegna stampa "alternativa" in forma epistolare. La mia lettera nasce dallo spettacolo ma anche dalle belle giornate cagliaritane nel loro insieme, fatte di spettacoli, incontri, e anche momenti conviviali, dove si continuava a parlare, a raccontare, ad ascoltare storie di teatro e non solo, e dove gli interlocutori erano, oltre alle persone appena nominate, anche Pippo Delbono e Pepe Robledo (che cito nella lettera e di cui mi riprometto di scrivere su questa rivista, per parlare del loro ultimo spettacolo, Barboni).

Cristina Valenti

La danza intorno al capro è anche la danza dei capri
Appunti per un discorso sulla tragedia

Faccio teatro per necessità. Non perché penso che il teatro sia necessario alle sorti dell'umanità (o più in generale agli altri). Quello di cui sono certo è che serve a me. Attraverso e con lui m'interrogo. Mi aiuta a vedere chiaramente ciò che a volte solo percepisco (e non capisco). Più che fare, amo praticare teatro. Nella parola pratica riconosco in modo chiaro il mio agire (forse perché è un termine sinonimo di esperienza, conoscenza, tirocinio...). Praticare l'irrazionale è cosa bella.
Le tre vie - Uccidere Farsi ammazzare Vivere
Pentesilea /Clitennestra Antigone Cassandra(Medea).
Il desiderio tramite il teatro di esplorare queste vie è fortissimo. La via della sopraffazione (modello fortemente maschile). La via del martirio (ribellione individuale). La via dell'essere (anarchica-libertaria). Le tre vie o le tre possibilità che l'individuo si trova davanti nel suo cammino, non sono esclusivamente scelte legate a situazioni di guerra, anche nei momenti di pace esse sono materia fondante dell'esistere.
Non solo chi esercita violenza è violento. Anche chi risponde ad un potere violento con i suoi stessi strumenti, compie un atto violento. Esiste una violenza giusta? (...o buona?) Il rivoluzionario, il ribelle quale via percorre delle tre.
La rivoluzione non è un pranzo di gala, si diceva una volta. Ma non è che utilizzando gli stessi mezzi di chi si vuole combattere ci sia il rischio di divenire come lui? Purtroppo l'esperienza ci dice di sì. E' l'esercizio del potere che è da combattere. Ma come?
Le mie parole vogliono astenersi da ogni giudizio morale. Non voglio giudicare, mi è fin troppo facile schierarmi con i compagni zapatisti considerando la loro lotta: buona, giusta e necessaria. Ma non degli altri sto parlando, ma di me. Sono io che mi interrogo, è la violenza presente in me che vorrei sconfiggere. La mia natura mi spinge alla rivolta. Però è troppo facile.
Rispondere colpo su colpo è facile. Che bella un'Antigone-Sorella guerrigliera che trascina il popolo alla presa del palazzo divenendo lei stessa regina. Ma?... Forse, questo film l'abbiamo già visto, poi nella puntata seguente servirebbe un nuovo eroe che detronizzi la regina Antigone divenuta nel frattempo, lei stessa, tiranna...
Vorrei un mondo che non ha bisogno di eroi. Allora forse è meglio quell'Antigone-Sorella guerrigliera che nella disubbidienza dà testimonianza del suo essere, non rinuncia alla battaglia, rinuncia agli strumenti classici del potere (forse contrappone una via femminile).
La via della sopraffazione o della ribellione l'ho attraversata più volte e non è detto che non la possa attraversare di nuovo. (Siam pronti alla morte, l'Italia chiamò). E la via del martirio? Vi ricordate il film Mission: il conquistadores pentito e il prete - La ribellione violenta al potere, da una parte, e la necessità di essere segno, di dare testimonianza del proprio essere, dall'altra. L'avanzare con la croce fra le braccia, mentre i proiettili crepitano da tutte le parti.
Sono partito appunto dal segno, dalla testimonianza, dalla disubbidienza individuale spinta al martirio per le proprie ragioni. E ho visto Antigone venire a me. Anche questa via è da "combattente", un combattente non violento, che utilizza uno strumento "di non potere" qual è la disubbidienza. La rivolta individuale, non compresa dagli altri. Sola con le proprie ragioni: Antigone. La creazione di un contropotere. Altre leggi (o senza leggi-athésmos). Antigone: le leggi degli dei contrapposte a quelle dello stato. Antigone, sorella guerrigliera. Creonte, padre nostro. Uccidere i padri o farsi ammazzare da loro? (Emone) Accettare le loro leggi?
Antigone è la plaza de majo delle madri coraggio argentine Antigone è la piazza Tienanmen Antigone è la donna birmana San su ki Antigone è la giovane che s'impicca ad un albero in un bosco di Tuzla, all'arrivo dei soldati serbi Antigone è la ragazza che incontro ogni giorno nella strada. E Creonte? Creonte è il nostro padre. Tra le due vie, può essercene una terza?
Il Cada Die ha provato con Diserzione ad interrogarsi a proposito di questo. Disertare. Non esserci, non farsi trovare. Astenersi, essere in un altro luogo. Cosa vuol dire vivere? Non può essere semplicemente il contrario di morire. Ed ecco il grande interrogativo che mi pongo: cosa vuol dire vivere? Nella messa in scena della nostra Antigone, ho curato esclusivamente il primo livello (non ho voluto sovraccaricarla di segni, d'interpretazioni, di altre chiavi di lettura): è già fin troppo ricca e complessa nella sua semplicità. Diserzione è molto prossimo a sembrare un elogio della vigliaccheria.
Antigone come Cassandra è una traditrice. Fa il gioco del nemico, genera il dubbio, il timore nel suo stesso popolo. E' lei la nemica, è lei che diffonde un pensiero che deve essere sconfitto. Bella è l'idea che si possa vivere, senza per forza vincere. Fare a meno del bisogno di vittoria, del bisogno di supremazia. Ma cosa c'entra vivere con vincere?
Al potere serve avere un nemico, si regge sulla contrapposizione, serve alla politica interna dello stato, per poter spingere il controllo dell'individuo allo stadio massimo. (Taci che il nemico ti ascolta! ) Occorre limitare le libertà individuali. Sono loro i veri nemici: i criminali, i banditi, i disfattisti... Non le truppe armate che assediano la città. No, quelli sono specularmente uguali a loro. I linguaggi, i comportamenti, gli strumenti usati sono gli stessi. I nemici sono coloro che si appellano all'umano, i refrattari che spingono al rifiuto totale. I nemici sono proprio loro, coloro che non credono che il potere, la vittoria, la cresta alzata dell'uomo/gallo siano valori.
Rifiutare la distruzione, lavorare per altri valori. Magari, far sì che primeggino (una volta tanto) i valori femminili, rispetto a quelli maschili. Appunto dopo gli uomini di Diserzione, ho avuto bisogno delle donne di Tebe. A quando le genti di Troia?
"Le storie non sono mai solitarie, sono rami di una famiglia che occorre risalire all'indietro e in avanti".

Giancarlo Biffi

Lettera a Nico

Caro Nico,
forse lo sai che uno come te non lo si ascolta volentieri. Tu hai aperto gli occhi, ancora bambino, hai guardato la vita e ti sei fatto male. Poi, del male, hai continuato a fartene da grande, e a farne agli altri. Non vorremmo essere stati al posto di Ada, né del piccolo a cui non sai neppure dare un nome. Lo chiami Fortunello, con l'intenzione di un'ironia cinica, o senz'alcuna intenzione, come è proprio di chi sembra mettersi di lato, a guardare la tragedia della normalità che scorre davanti ai suoi occhi, come se non lo riguardasse. E invece lo riguarda, perché chi si chiama fuori traccia un solco pesante nei suoi tempi, e la nostra generazione ha visto questo solco farsi baratro, attrarre ed inghiottire le menti migliori, prima, quelle più sensibili e ribelli, poi semplicemente alcune vite.
Perché delle menti abbiamo smesso di sapere. Né, d'altro canto, vorremmo sapere. Non ci fermeremmo certo a parlarti per strada, Nico. E quando ti abbiamo incontrato, in farmacia o in stazione, o in piazza Verdi, o in qualche centro di recupero, siamo rimasti sconcertati da quale vuoto spalancasse l'esasperazione delle tue parole, che balbettano arrochite e incalzanti, e sembrano tenere il posto del pensiero. Tu, come molti simili a te, sei una presenza tanto ingombrante quanto invisibile, tanto rumorosa quanto inascoltata. Allora, ti piazzi lì davanti a noi, su un palco pressoché spoglio, e le cose che hai da dire le urli, le spari a raffica e le indossi come un'armatura, o uno scudo: ci sono queste parole fra te e noi, che impediscono che ti si prenda, che ti vietano alla nostra conversazione, che ci attaccano e ti rimbalzano di nuovo addosso fasciandoti come una corazza. Non sappiamo cosa c'è dietro quella corazza di parole, né vogliamo saperlo. Hai parole parole, e gesti; e neppure le cose che tocchi sembrano farsi simbolo di niente, rinunciando allo statuto teatrale per eccellenza. Ma quando la tua vita ce la sciorini davanti, inchiodandoci alla nostra responsabilità di spettatori, quell'onda di parole avanza, ribolle, si curva su se stessa e si rigonfia, per esplodere come una bomba sul ciglio che ci divide e spruzzarci, e poi bagnarci fradici da capo a piedi. Non possiamo non ascoltarti più, allora. Ti ascoltiamo e ci bagnamo. Apriamo gli occhi su di te e ci facciamo male. E il dolore che sentiamo è quello della nostra generazione.
Dopo lo spettacolo, a tavola con Pepe parliamo dell'Argentina e delle ferite che la dittatura militare ha lasciato nel suo e in altri paesi dell'America Latina. Racconto di Olga, che ha partecipato alla lotta contro la dittatura in Uruguay, e poiché era compromessa con il movimento di opposizione, un giorno fu portata in questura e interrogata. Sua nonna andò a chiedere di lei e rimase lì, ad aspettare che la rilasciassero. Sua nonna è Luce Fabbri, un'anarchica ora quasi novantenne che è arrivata in Uruguay nel 1929, seguendo la famiglia nella fuga e quindi nell'esilio dall'ltalia fascista. Dopo parecchie ore, vedendola ancora lì immobile ad aspettare, un poliziotto le chiese: "Comincia ad essere preoccupata, vero, signora?". "Sì, rispose lei, perché è ormai ora di cena". E Olga mi ha raccontato di quando è venuta in Italia, ed è stata a Bologna, la città dove nonna Luce si era laureata in lettere classiche, ed è andata in via Zamboni e in piazza Verdi ed è rimasta sconcertata alla vista di tutti quei giovani sbattuti per terra, abbrutiti dall'alcool e dalla droga. Il suo giudizio è stato assai severo: come è possibile buttarsi via così, buttar via le proprie energie e la propria gioventù e ogni possibilità di lottare? Per un attimo, non ho saputo come interpretare le sue parole. Da noi, a dirsi disturbati da viste come questa sono i cosiddetti "ben pensanti": a noi sembra "politically correct" dichiararci comunque dalla parte della marginalità, comprendere le ragioni di chi rifiuta di farsi integrare. Ma il pensiero di Olga non era certo "di destra" e perciò ha prodotto in me un ribaltamento di prospettiva. Ricordo gli anni della "controinformazione", quando si diceva che "di destra" erano le droghe pesanti, quelle che, non a caso, avevano annientato le Black Panthers in America. Poi, negli anni, i nostri amici son diventati sempre più disincantati, anche nei confronti della controinformazione, e li abbiamo visti sorridere ad ogni affermazione troppo certa, o che suonasse lievemente ideologica, finché l'deologia è diventata un vero e proprio tabù. "Attenzione, che uccisa l'ideologia rimane il mercato", ha detto una volta Leo.
In un regime neoliberista - è il caso di aggiungere oggi. E anche il mercato della droga è stato alimentato da chi aveva ucciso l'ideologia e da chi ne era stato ucciso. Tutti insieme a celebrare la fine di piombo degli anni in cui le utopie avevano infiammato l'aria. Così, parlando dell'Argentina, abbiamo finito per parlare di te, Nico, per tornare senza dircelo allo spettacolo che avevamo visto da poco. Droga, marchette, il gironzolare laido fra i cessi pubblici, le fedi sfilate furtivamente dalle dita, i rapporti consumati e dimenticati, forse mai voluti, come quello da cui è nato Fortunello... poi il rapporto vero, l'incontro con Doriano, e il lungo addio adagiato nella sua bocca ormai gelida. Allora tutto diventa vero. E dal paesaggio indifferenziato della mitologia metropolitana si staccano figure in carne e ossa. Sono vere le analisi del sangue, ed è vera questa vita bislacca che può far a meno dell'amore perché ne ha sperimentato l'impossibilità più del più avvertito intelletto: lo statuto di impossibilità di cui parla Lacan, che definisce l'innamoramento come la condizione di chi vuole dare qualcosa che non possiede a qualcuno che non desidera riceverla. Questa la tua condizione, Nico, ad ogni livello. Ed ora sei lì, su quel palcoscenico, a scimmiottare balbettando la stessa impossibilità nel rapporto teatrale, e urli, ripeti, ritorni su sillabe e parole fino a stordirci, imbambolarci e renderti così accettabile.
Accettiamo la tua presenza perché non l'avvertiamo più. Il tuo eccesso ti conferma fra gli invisibili, fra le frange sfilacciate di una società che nasconde il disagio e la malattia, a volte segregandoli, altre volte, più raffinatamente, esasperandone la visibilità e rendendola perciò insostenibile. Ma qui, a teatro, accettiamo che ci sia qualcuno che pretende di darci qualcosa che noi non vogliamo ricevere. Lo accettiamo. Non è questo l'orrore più grande?
Non siamo anche noi nel baratro dell'orrore? Quello stesso scavato da chi si è messo fuori, abbandonando compagne e compagni, non riconoscendo figli e responsabilità e prospettive. Quando lo spettacolo finisce, l'orrore lo abbiamo attraversato, ma non il tuo, il nostro. Quello di tempi in cui il disincanto è diventato imperativo, ed è servito per irridere gli altri imperativi, quelli dell'impegno personale e collettivo, della solidarietà e della presa in carico. Poi è servito a sopportare le nuove colate di piombo, non più delle armi, ma della droga, della malattia, dell'indifferenza, della rincorsa al successo. In Sud America ho ritrovato il peso del pensiero e della parola, dicevo a Pepe. Là, le persone uscite dalla dittatura sanno che pensare una cosa o l'altra non è indifferente. Che dire una cosa o l'altra non è lo stesso, ha conseguenze concrete. Là, questa sensazione di inutilità e indiffferenza che avvertiamo nelle sorti e nelle scelte personali sembra non riguardare in alcun modo la vita del pensiero e l'universo delle parole. Le tue parole, Nico, rotolate su loro stesse fino a soffocare la fonte del pensiero, sono l'estremo portato degli anni del disincanto. Solo che a quel disincanto sei tu ad offrire, dal palco, uno specchio inclinato, e noi ne proviamo orrore, ma solo per un attimo. In fondo, non è successo niente. Erano parole.

Cristina Valenti

Di eroina, diAIDS, di ragazzi che si vendono
"Quando ero piccolo aprii gli occhi e guardai la vita... faceva male".
Nell'inverno del 1994 scrissi queste parole per iniziare un racconto. Lo terminai alla fine dell'estate. Non so quando ho iniziato a pensare al teatro, forse subito, forse poi - so che una sera mi sono chiuso nell'andito di casa mia e ho iniziato a parlare da solo, usando quelle parole. Ricordo che sin da bambino vedevo il mondo come un enorme maiale sempre pronto a trangugiare tutto: le donne, gli uomini, le cose. E quel mondo dovevo vomitarlo, in un modo o nell'altro.
Nico è una storia che parla di eroina, di AIDS, di ragazzi che si vendono in piazza... cose che fanno parte del mio mondo, in qualche maniera ne hanno sempre fatto parte, ma non mi hanno mai "attraversato" in prma persona - mi ruotano attorno come le zanzare affamate d'estate: mordono, pungono, fanno male e lasciano dei segni, ma non uccidono. Parla di un figlio che chissà di che colore ha gli occhi.
Parla di come sia facile innamorarsi del ragazzo dagli occhi che sanno di grano... Non sono arrivato a Nico per poter parlare di AIDS, droga e marchette, è esattamente il contrario: ho usato le cose che "sono" in questo mondo per poter partorire Nico, un essere nuovo. Giancarlo ha accetato di essermi compagno in questo viaggio e di guidare il mio delirio fino al teatro. Adesso Nico c'è, ha una sua propria vita e il mio compito è finito: devo solo prestargli il mio corpo quando gli serve.

Alessandro Lay