Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 28 nr. 242
febbraio 1998


Rivista Anarchica Online

Rom Stalker
a cura di Cristina Valenti

Uno spettacolo teatrale con dodici attori rom. La notte in cui ad Auschwitz sterminarono migliaia di zingari. I bambini rom tra scolarizzazione e razzismo. Una prima guida alla lettura della "questione zingara". Un dossier a più voci, per conoscere e capire

Teatro nomade, nomadi a teatro

Lredana Putignani, artista visiva e creatrice di eventi teatrali di confine, è entrata per la prima volta in un campo rom per prendere lezioni di fisarmonica. Da questo incontro con la gente e la cultura rom è nato un lavoro teatrale, ROM/STALKER, che è stato presentato nell'inverno scorso al Link Project di Bologna (che l'ha prodotto) e quindi, nel corso dell'estate, a Napoli e Cividale del Friuli.
Paolo Finzi, redattore di "A", è andato per la prima volta al campo nomadi per una festa (pressoché deserta) organizzata dalla scuola del figlio allo scopo di favorire la conoscenza fra genitori rom e gagé. Ne sono seguiti rapporti personali duraturi e una conoscenza più concreta (e anche più consapevole della distanza, quindi), ulteriormente ricercata, in seguito, attraverso letture e approfondimenti storici.
Il piccolo dossier che proponiamo raccoglie i risultati e le testimonianze di questi due diversi "viaggi fra i Rom", teatrale il primo, "privato" il secondo, ma entrambi in grado di favorire squarci più vasti di conoscenza: sulla natura e la vocazione di un lavoro artistico necessario, sui contenuti della diversità e sulle ragioni di questa e di molte altre storie di emarginazione e razzismo, fino alla memoria della shoa zingara, non sufficientemente ricordata e per molti versi rimossa.
Così estremo, il viaggio teatrale di Loredana Putignani fra i Rom, contiene invece, paradossalmente, gli elementi più autentici e profondi del lavoro teatrale. Il mestiere del teatro è nato col nomadismo degli attori. Di chi entrava nella professione del teatro si diceva che iniziava a "camminare". Sradicamento, promiscuità e "extraterritorialità" del teatro - una microsocietà dotata di modelli e norme di comportamento suoi propri - hanno attirato a più riprese la condanna e il pregiudizio della società stanziale (per non dire della scomunica della chiesa, che ha vietato per secoli agli attori la sepoltura in terra consacrata).
Uno strano paradosso: uscendo dai propri confini (istituzionali, convenzionali, culturali), il teatro incontra quel nomadismo che fa parte della sua storia e della sua vocazione (e che invece non gli appartiene più fino in fondo) e ne esce rigenerato. È questo il valore del lavoro di Loredana Putignani, ma anche di uno spettacolo come Barboni di Pippo Delbono, per non dire dell'esperienza che di tutte è stata la precorritrice: ossia il nomadismo teatrale del Living Theatre fra favelas e fabbriche occupate, carceri, manicomi e, più recentemente, centri sociali.
Il viaggio di Loredana fra i rom appartiene fino in fondo alla storia dei viaggi teatrali. Non motivato da un generico spirito di esotismo, ma dalla ricerca di un incontro autentico con l'altro, il progetto Rom/Stalker ha costruito possibilità di dialogo inusitate fra linguaggi e culture differenti; un viaggio che "volle essere comprensione di un paesaggio umano - per usare le belle parole di Ernesto De Martino - e sperimentò come problemi entrambi i termini del rapporto, i visitati e i visitatori, la terra percorsa e i suoi non occasionali pellegrini": regista, attori rom e spettatori insieme. Allo stesso modo si è concluso, in fondo, il viaggio fra i Rom di Paolo Finzi, che scrive: "Più mi interesso dei Rom, più mi occupo - in realtà - di noi gagé. O meglio, del potere".
Lo scritto di Loredana Putignani (Il tema del Residuo) è preceduto da una testimonianza "dalla parte del Link" di Silvia Fanti (Il crogiolo delle diversità). Il Link Project di Bologna ha prodotto e ospitato il progetto rom, proseguendo ed approfondendo una vocazione che ha fatto in questi anni dell'incontro fra culture un fondamento della sfaccettata esistenza di questo spazio ricavato negli ex magazzini delle Farmacie Comunali. Dell'allestimento racconta Massimo Marino (Tra le roulottes e il bosco), un critico teatrale sensibile e capace quando occorre di farsi "compagno di strada" delle esperienze più significative e anomale.
ROM/STALKER ha superato la sfida iniziale, prolungandosi fino ad una impensata tournée (12 Rom in viaggio per l'Italia su un pullmino guidato da Silvia Fanti) per poi scomparire, coniugando emblematicamente la sorte effimera del teatro con l'instabilità dei Rom: di nuovo dispersi, fra permessi di soggiorno scaduti e rientri forzosi nei paesi "d'origine".
Le vicende di Rom/Stalker finiscono così per congiungersi, inevitabilmente, allo sfondo storico e problematico introdotto dagli ultimi due contributi del dossier: quello di Paolo Finzi, sull'attualità della condizione rom (Così carini, poverini) e il brano tratto dal Dizionario del Lager, di Oliver Lustig (In una notte stellata) che riporta l'attenzione su una memoria quanto mai necessaria oggi, quando fra nuovi razzismi e vecchia ignoranza si moltiplicano i problemi che riguardano la convivenza fra etnie, mentre sono sempre più frequenti i drammatici e massicci passaggi di frontiera di popolazioni senza terra non solo per scelta.

Cristina Valenti

Il crogiolo delle diversità

Una cosa rara. Un progetto-limite è quello che il Link Project ha messo in piedi assieme a Loredana Putignani e 12 rom lo scorso inverno: nato da un'intuizione ed una folle determinazione della regista. Ci sostenevano i precedenti rapporti di una collaborazione con quella comunità rom, basata a Sasso Marconi, alla periferia di Bologna (dalle collaborazioni musicali col gruppo Diamant Brin alle feste rom organizzate da loro stessi al Link).
La scelta del Link di produrre questo progetto teatrale anomalo si è fondata su una forte attrazione per tutto ciò che è "diverso", al limite, più che per un interesse per le etnie. Il Link nell'arco di tre anni ha accolto - e in alcuni casi prodotto - numerose esperienze di teatro di ricerca attraversando le produzioni di diverse generazioni teatrali, da quelle nuovissime a quelle più consolidate, esprimendo nel tempo l'intenzione di seguire un teatro di "confine" (nel senso più ampio, non si parla di un genere).
Il progetto Rom Stalker ci dava l'occasione di mettere il Link stesso, in quanto garante e produttore dell'operazione, dentro il crogiolo delle diversità. Saremmo riusciti a incontrarci tutti quanti? Il Link, la regista, i rom, le tracce di Tarkovskij? Per il Link l'esperimento, più che consequenziale alle attività che lo avevano preceduto, ne era un condensato.
In questo caso si trattava di una somma di differenze che poteva risultare esplosiva. E così è stato. La miscela era composta da:
Il Link, che di per sé è un agglomerato di diverse identità (Link significa "connessione"), ovvero 50, 100 persone che sperimentano possibili e contradditori modi di incidere sulla cultura.
L'ideatrice del progetto, Loredana Putignani, spirito libero cresciuto con l'attore, poeta e regista napoletano Antonio Neiwiller, con cui ha condiviso il pensiero di un teatro di poesia necessario e profondo. Una donna che ha scelto un teatro di verità e non di finzione. Quale posizione più scomoda di una persona di teatro che detesta lo spettacolo? (compreso lo spettacolo di molte avanguardie).
E poi i 12 rom, gli "zingari". Una vera comunità: dalle 2 vecchie Maria e Rosa, l'una con la gonna ampia da zingara: una faraona senza Egitto, e l'altra con i capelli bianchi tirati e le braccia magre e forti: la Sibilla (così anche nello spettacolo), ai due leader cinquantenni: Dragan l'uomo libero: il musicista, e Dobrisav l'uomo liberato: lavoratore dall'età di 13 anni il cui unico parametro di giudizio è il denaro, sino ai due giovani Goran e Slobodan: sedicenni, l'uno aperto al mondo con spirito critico, l'altro aperto al sogno occidentale del benessere.
E poi le mogli, le donne, belle e forti. Il cane Rocky...
Non-attori, che però hanno saputo "stare al patto" ed inoltrarsi nella creazione di uno spettacolo che li ha visti vivi, mobili, creatori stessi della scena.
Infine il materiale di partenza, il sottotesto: Tarkovsky di Stalker che mostra la "zona", il luogo dell'oltre e del rimosso sociale.
La somma di tutto ciò è stata alchemicamente eccezionale, con degli alti altissimi e dei bassi bassissimi, che non staremo a raccontare qui.
C'è da riflettere comunque sul senso complessivo di quest'operazione. Dal punto di vista interno, come spettatori privilegiati, abbiamo osservato molti meccanismi e imparato che non tutte le barriere si possono abbattere.
Le difficoltà si sono presentate: a partire dalla perpetua instabilità del lavoro dettata da saliscendi umorale dei rom (è normale il bisticcio plateale, la fuga, l'ubriachezza, tanto quanto l'esplosione di energia inventiva).
Il problema della ripetizione, e la difficoltà a comprendere il concetto di prova ed in generale di teatro (per i rom è letteralmente un gioco).
La componente economica: è impensabile per un rom fare uno sforzo di adesione al progetto lavorativo senza adeguatissima e contrattatissima retribuzione (anche se poi sul lavoro sono molto generosi e si danno ampiamente).
Il mito della Società dello Spettacolo, che nella mente dei rom che ormai guardano la televisione (nei campi accanto alle roulottes svettano le antenne paraboliche e abbassando lo sguardo si vedono molte BMW, status symbol) li fa fantasticare su successi internazionali e pose da star (parliamo sempre dal punto di vista economico, non dell'atteggiamento).
Abbiamo però anche visto e conosciuto la forza del voler essere presenti (tanto nella vita che nel teatro), la capacità di improvvisare (non come tecnica, ma come dato di fatto, spontaneo e naturale: eccezionale in questo Maria, la vecchia ubriacona, che possiede un senso della scena e del ritmo teatrale da potersi permettere molte libertà), lo spirito di gruppo (in positivo e in negativo: nella sommossa e nel patto interno di lavorare al meglio), la bellezza dei visi che in abiti diversi dal quotidiano hanno mostrato una luce e una profondità regale. Un teatro del mondo.
Il tutto letto dall'occhio sensibile della regista che ha lavorato amplificando i segni della libertà interiore di queste persone ed organizzandoli per una scena, con l'intenzione di non bloccarli in strutture asfittiche e precostituite.
Dal punto di vista del riconoscimento esterno dell'operazione, abbiamo trovato alcune difficoltà e incomprensione specie nella fase di avviamento. A parte alcune promesse istituzionali non mantenute, ci è mancato piuttosto un appoggio morale da parte di un'intellighenzia teatrale bolognese, a differenza della critica che ne ha seguito lo sviluppo. C'è stato poi chi - come il Mittelfest, festival friulano improntato sul tema dell'identità - ha intuito il valore di un lavoro simile.
Resta ancora l'amaro di un rinnovato non riconoscimento dei rom da parte della città e della gente, dei potenziali spettatori. A chi capita di non sapere se replicherà lo spettacolo perché due attori sono stati portati in questura in un'altra città per il controllo dei permessi di soggiorno? (Questo è il nostro Nord).
La dimensione quindi del riconoscimento da parte della società italiana di quei 12 attori rom che nello spettacolo parlavano di sé, di sogno, di appartenenza, della cultura atavica della musica e della danza, è stata in parte ingoiata dal vivere quotidiano. Anche se per fortuna a teatro il pubblico l'ha esaltata e compresa.
"Rocky, vieni qua, qual è il tuo desiderio più profondo? Prendere i documenti". L'altro, il diverso, è sempre destabilizzante.

Silvia Fanti
Link

Il tema del Residuo

Il progetto "rom" nasce nel maggio 1996 con alcune giornate di lavoro teatrale all'interno del campo profughi di Sasso Marconi (Bologna). In questi primi incontri si è formato un gruppo di 14 persone di età compresa tra i 4 e i 64 anni. Questo gruppo è una microsocietà considerata marginale, ma che porta in sé una forte - e oggi rara - identità, anche se carica di conflitti.
In questa forte identità c'è la possibilità che il gesto, la parola, possano essere portatori di una tradizione, di una origine, riconquistata attraverso la resa consapevole dell'atto e del linguaggio di una terra che è sempre terra di viaggio e di confine. (Il gruppo appartiene ad una comunità rom che anche quando viveva in Serbia non era stanziale).
Non a caso il lavoro non parte da un testo, né da una struttura interna precostituita, ma è un percorso che dall'interno fa emergere le voci, la possibilità che si attui una trasformazione, che il quotidiano diventi ALTRO.
È un processo in divenire che si costruisce nel lavoro di ogni giorno con l'energia e le forze del presente. In questo non c'è e non ci sarà rappresentazione, ma si tende alla costruzione di un evento.
Già dal primo periodo di prove si è tentato di creare uno spazio "teatrale" all'interno del campo (un capannone dove loro vivono la loro quotidianità), di sacralizzare un luogo quotidiano, assorbendo e trasformando la materia del vivere.
Gli incontri, basati all'inizio su improvvisazioni a tema libero, hanno permesso una conoscenza di base del Comportamento. Essendo non-attori, si è lavorato potenziando la loro gestualità e vocalità, cercando di fare aderire il comportamento ad un contesto alto: ad una costruzione poetica-musicale-spaziale, lontana dalla cosiddetta "loro cultura", ma molto vicina a loro come vissuto.
Infatti il tema-testo-contesto originario della Sacra Scrittura, del "Resto salvato", del nomadismo, dell'attraversamento del deserto, è per loro stato quotidiano dell'essere.
Questo nomadismo, resto, residuo, non verrà reso come emarginazione, sofferenza o precarietà; il tentativo è quello di rendere consapevole che ciò che la Storia-cultura emarginano è ciò che si salva ed ha una interezza (per interezza si intende ciò che è legato a un'origine: la bellezza viene dall'autentico).
Un tramite per la costruzione del contesto e le traiettorie mentali è il viaggio di Dante attraverso i tre Regni-stati dell'essere, il rapporto tra Dante e virgilio all'inizio del Purgatorio... di fronte alla massa incosciente e attonita... chiede quale sia la direzione.
Stati, immagini, sono per noi tramiti e termini di riferimento, metafore di condizioni con cui verificarsi: mettere in rapporto l'Alta Poesia alla Vita di chi pulisce i vetri ai semafori.
È un percorso di consapevolezza dove gli estremi, apparentemente estranei, si toccano e sono nell'UGUALE. Nodi di essere comuni a tutte le culture. Volutamente tutto ciò all'inizio non verrà dichiarato, ma si cercherà di far vivere a un livello più profondo mettendo in relazione primariamente i corpi vissuti con forme musicali che partono anche dagli stessi componenti del gruppo (essendo anche come tradizione dei musicisti, in seguito si inseriranno anche fisarmonicisti e attori italiani).
Il tema originario del Resto salvato, del Residuo, rimarrà sempre come suono di fondo.
I nessi comuni a tutte le culture sono cellule che possono ancora oggi restituire una possibilità dell'essere e del vivere. Il teatro in questo senso è un grande tramite.
... e pensando alla fine di questo viaggio è come se dovesse crearsi una sosta nella vita quotidiana per un evento in una casa momentanea e vitale che è la casa del teatro.

Loredana Putignani
regista

Tra le roulotte e il bosco

Si sospendono le azioni, le musiche, i canti; le immagini cessano di colpirti. Si interrompe Rom Stalker e i dodici Rom di tutte le età in gruppo compatto avanzano verso il pubblico imbracciando sedie. Si schierano, seduti ad un metro da te e dagli altri spettatori della prima fila. Ti guardano (ci guardano) dritto negli occhi, come a scrutare dentro, ma senza soppesare gli sguardi nei quali si riflettono, solo chiedendo di essere guardati anche loro negli occhi.
Si mostrano, col sorriso. Cercano un contatto ravvicinato, uomini e donne che fino a quel momento hanno inscenato qualcosa che aveva l'andamento del rituale, in biblico tra presenza, verità assoluta e rappresentazione. Ora sono semplicemente felici di guardare e di essere guardati, di essere così come sono al centro del luogo dello sguardo, del Theatro.
Iniziano a interrogarci, a rivolgere quelle domande che potrebbe farti qualcuno che hai appena conosciuto e che vuole sapere qualcosa di te: "quanti anni hai?" ... "sei sposato?" ... "sei fidanzata?" ... Non è possibile non rispondere, anche se con l'imbarazzo che sempre prende lo spettatore quando un attore lo chiama in causa. Ma qui fin dall'inizio noi siamo in causa.
Si chiacchiera, spudoratamente o timidamente, non sembra neppure di essere a teatro. Poi il vecchio, il capotribù, stappa una bottiglia di vino, altri ne stappano e tutti bevono, attori e pubblico uniti, e divisi da quella linea immaginaria che scorre tra le file di sedie che si fronteggiano a specchio. I bicchieri, di plastica, vengono lanciati dietro la spalla sinistra: sei precipitato, con dolcezza, lentamente, di nuovo in atmosfere magiche. Ma in questa ferita che è trascorsa nel corpo della messa in scena abbiamo avuto la sensazione di avere incontrato una verità umana sconvolgente nella sua nudità diretta, nella sua semplicità; una verità che si affida alle finzioni del teatro e al loro smascheramento per rivelarsi, per chiederci di deporre i pregiudizi, per sussurrarci di provare ad ascoltare il nostro desiderio, la nostra libertà.
Lo spettacolo sta prima e dopo questo squarcio:
"Qual è il tuo desiderio più profondo?" ... "Carne. Mangio carne. tritacarne" ... "Io me ne vado. Vai, vai, sempre vai..." ... "Con me non scherza mai..." ... "Non credete più a niente" ...
Frasi brevi, spezzate, emergono da una tessitura musicale di corpi nello spazio, fantasmi che prendono vita in una grande sala bianca con colonnine squadrate, figure che vengono da un tempo e da uno spazio lontani, con canzoni struggenti, nelle quali la voce si incrina e si distende. Sembrano immateriali quei corpi nella loro fisica concretezza di donne anziane, minutissime o corpulente, in vestiti candidi o a fiori, nella melanconia e nella fierezza di ragazze affascinanti e misteriose, nell'energia trattenuta di uomini con la pancia e baffi o di giovani travestiti con giacche militari o di ragazzi avvolti in tuniche lunghe, orientali.
La prima parola che si comprende, tra i suoni di una lingua lontana, è "luce", ripetuta, nel semibuio squarciato da isole di azzurro. La vecchia donna, l'antenata, avanza agitando magicamente un ramo, mentre le altre visioni prendono consistenza a poco a poco, di fronte e alle spalle dello spettatore, e le nenie gitane portano in un altrove che sa di paesi percorsi in nomadismo perenne, di identità conservata attraverso i secoli separandosi dalla società normale. Di morti e di vivi, di morti che possono rinascere. Di radici e di nostalgia. Volti scuri, occhi neri che mandano bagliori. Lineamenti marcati.
Una tromba abbatte una porta: avanza un gruppo compatto, portando sedie, immagine ancora di movimento attraverso i confini, di case non erette a marcare un territorio ma portate sulle spalle, con la libertà, attraverso i conflitti. Non è un mondo arcaico, quieto, agreste quello evocato: in un angolo sarà presente per tutto il tempo dello spettacolo un uomo col volto coperto, agitando una spada contro l'aria, contro l'ombra azzurra che la luce lunare disegna sul muro, spada affilata, brandita contro le gole, mentre qualcuno cade e un cagnolino - anche lui della compagnia, della famiglia - gira intorno al corpo del morto, lo annusa, guaisce piano piano.
Immagini, emozioni, frammenti di frasi, nenie zingare e strazianti canzoni napoletane (ma anche Mahler e Tom Waits), accumula Rom Stalker, presentato in marzo in prima nazionale al Link di Bologna, uno spazio multimediale situato nei grandi spazi squadrati delle ex farmacie comunali, dove passa tutto quello che è ricerca, dal video, alla musica, al teatro. Un evento fuori dall'ordinario che impone e viola continuamente i confini della rappresentazione, perché in scena non ci sono attori, ma dodici Rom profughi dalla Bosnia, ospitati in un campo nomadi alle porte della città.
Là, tra le roulotte e il bosco, è nato questo work in progress che cambia respiro ogni sera, che vive delle intensità e delle timidezze di non attori che possono creare atmosfere magiche per i tre spettatori di una prova, e perdersi in tempi dilatati dall'emozione e dalla voglia di mostrarsi di fronte a trecento persone assiepate per la prima. Un lavoro nato quasi per caso e poi portato avanti con caparbietà e amore da Loredana Putignani e dal Link, iniziato in una cucina dove l'autrice era andata a prendere lezioni di fisarmonica da Dragan Nikolic, gran suonatore.
"Andavo da lui ogni giorno, vedevo la vita del campo, e così è nata questa idea. Nella sua casa venivano altri Rom. Vedevo i gesti, lui che non conosceva la musica ed era così musicale... Mi domandavo: loro sono zingari, io no; da dove è venuta questa Babele? I primi giorni che andavo al campo non mi riconoscevo più. Abbiamo iniziato a lavorare con tante persone, bambini, vecchi, Rom di tutte le età. Lo spazio era piccolissimo: faceva freddo, eravamo chiusi in una cucina, riscaldati dal fornello a gas. Mentre lavoravamo c'era gente che cucinava, scorreva la vita quotidiana, si intrecciava con le nostre improvvisazioni. Ma appena si entrava nel cerchio teatrale ci si trasferiva in un'altra dimensione. Molti non parlano bene l'italiano, lo capiscono poco. Non puoi spiegargli una tua idea e pretendere che loro la eseguano. Ma quando entrano in scena sono incredibili. Con le loro facce, le loro canzoni. Ci capiamo emotivamente".
Una prima prova aperta si è svolta al campo, poi l'ambientazione nello spazio del Link, e ora il progetto di continuare, di presentare questo evento in una situazione straordinaria, tipo un festival.
Mentre scorrono le azioni viene alla mente Kantor, con i suoi morti che tornano, con uno scavare visionario nella memoria, profonda. Ma questo spettacolo vive soprattutto nel segno di Antonio Neiwiller, del quale la regista è stata compagna d'arte e di vita: varca continuamente le frontiere tra l'urlo e il disegno razionale, tra il mito (Il Ramo d'oro di Frazer e la Commedia di Dante) e la verità, la diversità anche difficile da irregimentare di queste persone; rifiuta la partitura pre-scritta di un testo e vive di presenze e di cortocicuiti emozionali fulminanti.
Sullo sfondo, e nel titolo, "Stalker" di Tarkovskij, del quale entra in scena un dialogo tesissimo, quello in cui emerge la paura della "zona", un luogo che la società teme ed emargina. La zona qui diventa l'emblema di un altrove assoluto, come la società dei Rom che noi incrociamo tutti i giorni mentre chiedono l'elemosina per strada, ai semafori, un buco nero sociale che contiene una verità che forse abbiamo perso e che siamo noi a dover cercare, trovare.
È la verità dei desideri, dell'invenzione, della vita nonostante tutto libera. Dove il cuore, cantante magari attraverso un piccolo registratore, ha comunque bisogno dei soldi, che si possono anche buttare via, al vento, nell'aria senza confini per poi marciare per scomparire nella musica e poi riapparire, come nella fulminante immagine finale dello spettacolo.

Massimo Marino
critico teatrale

Così carini poverini

Katiuscia, Meme e Mino. Sono stati loro i "miei" primi Rom. Quei tre bimbi (due femmine, un maschio) che cinque anni fa mio figlio Elio, all'inizio del suo percorso scolastico, trovò nella sua classe arancio, nella scuola materna di via Rovetta, a Milano.
Ricordo un cartellone, preparato dalle maestre. Avevano chiesto a tutti quelli della classe di indicare con chi preferivano stare, giocare. Sul cartellone erano riportati tutti i nomi dei bimbi, ciascuno collegato ad un altro da almeno una freccia (il bimbo preferito). In questo cartellone, alla fine, c'erano tre insiemi nettamente distinti, ciascuno dei quali composto da bimbi che preferivano relazionarsi esclusivamente con i componenti dello stesso insieme: i maschi, le femmine, i rom.
I gagé (come gli zingari definiscono i non-zingari) da una parte (seppure divisi in maschi e femmine), i rom dall'altra (troppo pochi, forse, per dividersi tra maschi e femmine). Apartheid? Non certo istituzionale, in questo caso, dal momento che in quella scuola comunale c'era e c'è - da parte delle maestre e della direttrice - un forte rispetto per i "diversi" (non solo zingari) ed una concreta attenzione per favorire il dialogo senza annullare le differenze. E allora? Apartheid sociale, lo chiamerei.
Alle feste di compleanno dei bambini, gli zingari non sono in genere invitati dalle famiglie gagé. Non certo per i bimbi in sé ("così carini, poverini") ma per le loro madri, così vistosamente diverse dalle altre. "E poi non puoi invitarli: loro arrivano e tornano al loro campo con un bus del Comune. Vuoi forse che io inviti a casa anche la madre, magari é la stessa che ha svaligiato l'appartamento della mia amica? E poi quell'altra madre l'hanno vista la settimana scorsa chiedere la carità davanti al supermercato."
Altro ricordo. La direttrice (una tosta, una che quando faceva ancora la maestra era finita sui giornali perché aveva impedito l'accesso in classe ad un prete intenzionato a benedire la classe: non siamo in una scuola confessionale, gli aveva spiegato sbarrandogli il passaggio e richiamandosi al carattere laico della Costituzione) promuove un sabato pomeriggio autunnale una piccola festa al campo-nomadi, con spettacolo, castagnata, ecc. con l'obiettivo dichiarato di favorire la reciproca conoscenza. Risultato: al campo di via Idro ci va solo una famiglia gagé della scuola (la mia), due o tre maestre, la direttrice.
Fu la mia prima volta al campo. Da allora ci sono tornato numerose volte, ho conosciuto meglio tante persone, ho stabilito qualche buon rapporto personale. Al contempo, ho misurato più volte la distanza che mi separa da quella cultura, da quelle abitudini di vita e di pensiero così diverse dalle nostre: diciamo che ho preso coscienza della mia "gagità", del mio essere (anche) un non-zingaro.
Ho letto decine di libri, dossier, riviste - la gran parte sui Rom, poche dei Rom. Mi sono messo in relazione con alcune delle persone (e ce ne sono di tanti tipi) che "si occupano" (brutto termine, ma spesso quanto crudamente vero) dei Rom (esistono anche gli ziganologi, anche questo ho appreso). Ho approfondito la storia di questo popolo decisamente strano, proveniente dall'India, approdato con successive ondate migratorie in Europa intorno al XV secolo: una storia quantomai anomala, caratterizzata da una progressiva dispersione territoriale, mai definitiva, che ha portato gli zingari oggi ad essere presenti - quasi sempre emarginati, malvisti, mal sopportati - in varia misura nei cinque continenti. Una storia di continue persecuzioni, alternate a (rari) momenti di tolleranza e a lucidi disegni di assimilazione forzata. Una storia che, fatte tutte le gigantesche differenze, richiama quella degli ebrei: e non a caso furono proprio zingari ed ebrei i due popoli - gli unici due - che il nazismo si propose di cancellare definitivamente dalla faccia della terra.
È questa della shoa zingara una delle pagine più terribili e meno conosciute di questo secolo che sta per finire. Ma è anche - come l'annientamento degli ebrei - la punta dell'iceberg del razzismo, dell'intolleranza, della non-accettazione del diverso che da secoli caratterizza gran parte delle nostre società e che fa di zingari ed ebrei i capri espiatori per così dire naturali, scontati. Ai quali si aggiungono, di volta in volta, gli albanesi di turno.
Più mi interesso dei Rom, più mi occupo - in realtà - di noi gagé. O meglio, del potere. Più che il flamenco o le vesti colorate, più della loro cultura e delle loro tradizioni, mi accorgo che ciò che davvero mi appassiona è la concretezza della loro diversità e delle reazioni che ciò provoca tra noi stanziali. Mi colpisce il perverso intreccio tra ignoranza e razzismo strisciante da una parte, omologazione istituzionale e sottili politiche di annientameno dall'altra. Scrivo Rom ma, in filigrana, leggo anche altre storie, altre emarginazioni. E cerco di capire.

Paolo Finzi

La mia carissima amica (e nostra apprezzata collaboratrice) Cristina Valenti mi aveva sollecitato a scrivere una scheda storica sui Rom, ad integrazione di questo servizio su Rom Stalker. Ho fatto tutt'altro: ma grazie ai miei appoggi in redazione spero che verrà pubblicato.

Rom Stalker

Un progetto di Loredana Putignani con 12 attori rom, con:
Rosa Nikolic', Dragan Nikolic', Goran Joksimovic', Zlatko Bojic', Ljliana Markovic', Svetlana Markovic', Husein Memeti, Maria Feratovic', Gevrie Memeti, Mikica Markovic', Slobodan Petrovic', Dobrisav Markovic'.
Assistenza alla regia: Marta Porzio. Luci: Paolo Liaci. Foto di scena: Nanni Angeli.
Una produzione Link, in collaborazione con l'associazione Gabbian Servizi Sociali, Comune di Bologna, Assessorato alla Cultura, Assessorato alle Politiche Sociali

Rom Stalker è stato presentato nell'estate 1997 al Teatro Nuovo di Napoli e al festival dedicato al tema dell'identità MITTELFEST di Cividale del Friuli (UD). Nel maggio '97 Rai Radio 3 Audiobox ha dedicato uno speciale al progetto Rom del Link/Putignani.
E' stato inoltre prodotto un libro omonimo edito dall'editore Campanotto con immagini dello spettacolo di Nanni Angeli, testi di Loredana Putignani, frammenti dai diari di Tarkovskij, note critiche di Massimo Marino

Loredana Putignani ha lavorato per 10 anni con Antonio Neiwiller e con Leo de Berardinis, Mario Martone e Claudio Morganti.

Proveniendo da esperienze di lavoro "teatralmente anomalo" con il Teatro dei Mutamenti e Teatri Uniti, ha realizzato diverse installazioni, "curando" dei luoghi: una stalla, una grotta a Santarcangelo, una chiesa e un Castello ad Arcidosso, un ex-convento a Napoli...

Un libro di Loredana Putignani

foto Nanni Angeli
Campanotto Conti Editore

Materiali splendenti, sussulti di vita e di forme teatrali, canzoni accumula Rom Stalker. Ma soprattutto volti e corpi che hanno lo stigma di una vita assolutamente diversa dalla nostra.
Questo libro racconta quel viaggio con foto, con brevi scritti incisi su fogli colorati o vergati a mano o sulla pagina bianca, con parti dei diari di Tarkovskij.
Sono materiali dello spettacolo e testimonianze che stanno prima, affianco, dopo lo spettacolo. Sul limite liquido e mosso dal mare dell'anima, profondo e increspato, dove verità e finzione si rimescolano e si differenziano, coesistono rappresentando ognuna un livello di realtà.
Come nella trasmissione radiofonica realizzata per "Audiobox" di Pinotto Fava, in questo libro non si dà documentazione dello spettacolo Rom Stalker, ma qualcosa d'altro. Una via d'accesso a scenari mentali e concretissimi che si interrogano sull'identità, sulla verità, sul rischio della comunicazione e sulle frontiere e i limiti dell'etnia, del teatro, della rappresentazione. E sul rischio della poesia e della libertà

Massimo Marino

In una notte stellata

Birkenau era, tra tutti i campi di concentramento nazisti, il più orrendo. Tra le dozzine di campi che lo componevano, il più infernale era nel 1944 il campo E, detto Zigeunerlager, Lager degli zingari. Dei più di 200.000 zingari caduti vittime del nazismo, 22.696 furono trasportati a Birkenau-Auschwitz, nel campo E, che appunto per questo fu chiamato Zigeunerlager. Nell'estate 1944, quando gli ebrei deportati dall'Ungheria furono messi nel campo E, gli zingari superstiti erano rimasti soltanto 8-10.000. Noi, provenienti dalla Transilvania settentrionale, fummo ammassati nelle baracche a destra del viottolo che divideva in due il campo. Gli zingari erano nelle baracche a sinistra. Erano stati lasciati insieme alle loro famiglie e così si erano impadroniti anche dello spazio che c'era tra le baracche. Noi, invece, temevamo di oltrepassare il corridoio che c'era davanti alle baracche. Eravamo appena arrivati e non avevamo ancora potuto renderci conto di che mondo fosse quello in cui ci avevano scaraventato. In quell'inizio d'estate, tutti i Blockalteste e Vertreter, i padroni, meglio, gli dei onnipotenti che disponevano di pieni poteri nelle baracche, erano zingari. Non zingari qualunque, ma scelti tra i più brutali, tra quelli che avevano commesso furti e saccheggi, omicidi e altri crimini a dozzine. In una torrida notte dell'estate 1944, tutto d'un tratto risuonò l'ordine: Blocksperre! Chiusura delle baracche! Saranno state le 22. Fino all'alba il campo fu scosso dal frastuono dei motori degli automezzi e dal latrare dei cani lupo, dalle urla delle SS e dai gemiti degli zingari, accompagnati da pianti e maledizioni senza fine. In quell'interminabile notte stellata, furono gasati e bruciati tutti gli zingari ancora in vita a Birkenau-Auschwitz, nel Lager E. Tutti, senza eccezione: dai bimbi nati nel campo alle giovani zingare dal sangue ardente; furono bruciati anche tutti i Blockalteste e i Vertreter, i semidei che disponevano di ogni potere su di noi e, insieme a loro, pure le zingare che predicevano il futuro osservando una conchiglia, un fagiolo o le carte da gioco e che, anche in quegli ultimi minuti, si illudevano di arrivare al giorno in cui il campo sarebbe stato abbattuto e le loro carovane sarebbero risorte. Allora tutto sarebbe tornato come una volta: le collane di perle avrebbero ancora tintinnato sui seni rotondi delle loro procaci ragazze durante le frenetiche danze; sì, perché bisognava recuperare tutte le feste di matrimonio e di battesimo perdute dal giorno in cui nelle pianure della Sassonia, nei villaggi della Turingia, nelle periferie delle città del Belgio e sugli asfalti dell'Olanda, automezzi militari e SS con i mitra pronti a sparare avevano circondato i loro carri, le loro carovane, mentre loro venivano caricati sui camion e deportati. Lì, in quella notte stellata, chiusi in automezzi neri come la pece, furono portati tutti nelle camere a gas. C'erano gli eredi dei famosi contrabbandieri della seta di Lione, c'erano quelli che con i loro canti e balli avevano allietato, per secoli, i signori dei castelli del Reno. Era gente che non poteva vivere senza sentirsi libera, che voleva muoversi a proprio piacimento e percorrere città e villaggi, che voleva girovagare per strade, monti e valli, amare liberamente e farsi giustizia secondo le proprie leggi e consuetudini, avendo come testimoni la luna e le stelle soltanto. All'alba ci spingemmo fino all'orlo del piazzale davanti alle baracche - non osavamo ancora oltrepassare quel limite - e, attoniti, guardammo la lunga fila delle baracche dall'altra parte. Non c'era segno di vita. Un vuoto spaventoso. Le grandi porte spalancate: sembravano delle enormi tombe svuotate, profanate. La volta del cielo era coperta da un fitto, soffocante strato di fumo nerastro, violaceo. E a questo fumo si mescolavano, di tanto in tanto, enormi lingue di fuoco, mentre dai camini dei crematori si sprigionavano scintille che, scontrandosi, si spegnevano come stelle cadenti. In quella notte non si erano sentiti fischi di locomotive, né sferragliare di treni. Erano invece spariti gli zingari. Nella parte del campo occupata da loro non si muoveva più niente. Soltanto il denso, violaceo, soffocante strato di fumo scendeva sempre giù, sulle baracche vuote, dalle grandi porte spalancate.
Nel campo E non c'erano più zingari. Neanche uno era rimasto in vita. Eppure il campo E continuò a chiamarsi Zigeunerlager, campo degli zingari.

(Oliver Lustig, Dizionario del Lager, La Nuova Italia 1996, pp. 221-223)

Leggere i Rom
Per fare questa scheda ho inforcato la Vespa e sono andato a trovare il mio amico Franco Pasello, panettiere, obiettore totale negli anni '70 (si fece quasi due anni di carcere militare e poi civile, caso più unico che raro), anarchico con il "trip" degli zingari da ormai 7 anni (E pensare che quando iniziò a frequentare i campi-nomadi e veniva in redazione a parlarcene, non riuscivo a capire il suo trasporto e lo trattavo con un misto di tenerezza e sufficienza...).
Conosce e frequenta più zingari lui - a Milano e dintorni, nei campi "ufficiali" come nei piccoli accampamenti abusivi continuamente mobili - di tanti Rom in carne ed ossa: una vera e propria miniera di conoscenze umane, oltre che un fotografo ormai storico. Se ti vuol far vedere i "suoi" zingari, preparati a visionare qualche migliaio di foto, ordinate in album numerati. Ci sono più libri sui Rom a casa sua che nelle sedi di certe organizzazioni che si occupano di Rom. Il fatto è che la maggioranza delle case editrici sono assolutamente sconosciute, al di fuori del circuito commerciale "normale": tant'è vero che nella maggior parte dei casi nemmeno gli amici della Libreria Utopia - che da vent'anni ci aiutano a reperire i libri necessari per "A" (e ce li imprestano per le riproduzioni) - ci possono essere d'aiuto.
Tanta premessa solo per spiegare che i pochissimi testi che qui segnalo (fra i tanti che Franco ha disposto in diverse pigne sul suo tavolo) sono accomunati esclusivamente dalla loro relativa reperibilità e non costituiscono assolutamente una scelta qualitativa né organica.
Per una visione d'insieme sulla questione Rom (storia, cultura, problematiche sociali, lingua, ecc.) può essere utile il numero del febbraio '97 della rivista mensile "Il calendario del Popolo" (Via Rezia 4, 20135 Milano) curato dall'Opera Nomadi di Milano (da me recensita su "A" 237, giugno '97).
Fresco di stampa (è uscito lo scorso autunno per i tipi di Rusconi) è Nomadi per forza di Krzysztof Wiernicki.
Un classico della ziganologia internazionale è Mille anni storia degli zingari, di Francois de Vaux de Foletier; l'ultima edizione è del '90 per i tipi della Jaca Book (via Rovani 7, 20123 Milano). E' un librone tosto, che affronta la cultura Rom da numerosi punti di vista.
L'urbanistica del disprezzo (Campi Rom e società italiana) a cura di Piero Brunello, edito da Manifestolibri (Via Tomacelli 146, Roma) nel '96 in collaborazione con l'ARCI. E' una raccolta di numerosi saggi, ognuno dedicato alla realtà e alle problematiche degli insediamenti zingari in una specifica località (Milano, Mestre, Novara, ecc). Ne esce un quadro puntuale ed al tempo stesso allucinante del razzismo diffuso. Ancora una volta la questione Rom diventa la cartina al tornasole di problematiche che non riguardano solo gli zingari, lo loro "sporcizia" è la nostra, i divieti alla libera circolazione dei nomadi diventano l'altra faccia della "blindatura" della nostra società. Un libro fondamentale.
Alle recenti ondate migratorie dalle terre martoriate dell'ex-Yugoslavia, alle attività dei gruppi impegnati nel sostegno ai Rom ed alla politica delle autorità è dedicato l'interessante Zingari profughi (Popolo invisibile) curato da Carla Osella (dell'Associazione Italiana Zingari Oggi) e pubblicato dalle ottime edizioni del Gruppo Abele (via Giolitti 11, 10123 Torino).
Nella Collana Verde delle edizioni Sensibili alle Foglie (via Empolitana km 2.300, 00019 Tivoli - RM) è uscita nel '92 la raccolta di poesie e testi teatrali Romane Krle ("Voci zingare") con una bella premessa di Piero Colacicchi. Tutti scritti di Rom, pubblicati nella loro lingua con traduzione italiana a fronte.
L'esperienza di un militante di una formazione marxista eterodossa (Socialismo rivoluzionario) a contatto con una piccola (ma socialmente esplosiva) realtà di zingari a Genova è riportata in Zingari e Gagé (Al campo sosta di Molassana) di Emilio Robotti, pubblicato nel '96 da Prospettiva Edizioni (via degli Ausoni 9, 00185 Roma).
Sulla persecuzione nazista contro gli zingari mi limito a segnalare un libretto uscito nel '96 con il patrocinio della Provincia di Roma: Zigeuner (Lo sterminio dimenticato), Sinnos Editrice (viale Giulio Cesare 151, 00192 Roma), ricco di testimonianze dirette (così rare tra gli zingari ex-deportati).
Sullo scorso numero di "A", nel Tamtam, abbiamo segnalato Rom, una cultura negata, della ziganologa Daniell Soustre de Condat, fondatrice del Comitato Internazionale per la difesa giuridica dei bambini nomadi. Questo libro, notevole per la cura grafica, è distribuito gratuitamente (cfr. appunto "A" 241, pag.8).
Prodotto e distribuito da Lunaria (un'associazione impegnata nella promozione della solidarietà internazionale, del volontariato, ecc.) con il contributo della Comunità Europea, è appena uscito un cd-rom (mai termine fu più appropriato) dal titolo Zingari e Gagé. Pensato (anche) per le scuole medie superiori, si articola su due percorsi: i temi (storia, cultura, i diritti, l'organizzazione sociale, i bambini, ecc.) e le storie (un'aggressione razzista, una visita al campo del Foro Boario di Roma, ecc.). Può essere richiesto (gratis) a Lunaria, via Salaria 89, 00198 Roma.
Concludo questa rapida (e assolutamente non-organica) rassegna, con la citazione di un libro curato dal Consiglio d'Europa nel lontano '85, edito in Italia da Lacio Drom/Centro Studi Zingari (via dei Barbieri 22, 00186 Roma): Zingari e viaggianti. Un libro esemplare per precisione e sensibilità nell'affrontare un tema così complesso.

Paolo Finzi