Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 232
dicembre 1996 - gennaio 1997


Rivista Anarchica Online

Dalla resistenza al progetto
di Maria Matteo

Le radicali trasformazioni in atto nel mondo del lavoro richiedono un altrettanto profondo adeguamento dei progetti alternativi

L'autunno testè trascorso è parso muoversi all'insegna della fiera delle ovvietà: il prevedibile gioco delle parti all'interno della neonata maggioranza di sinistra l governo, una finanziaria dura, perchè di destra o di sinistra l'Italia "deve" entrare in Europa e "deve" quindi ridurre il debito e, conseguentemente, aumentare la pressione fiscale e tagliare la spesa pubblica. Le anime belle che ritenevano che il rosso cuore di questa sinistra avrebbe bastonato i redditi più alti e salvaguardato quel poco di servizi che rimanevano, magari riducendo le spese militari, constatano oggi a loro spese di essere degli allegri e sconsiderati utopisti.
Quel che forse non era del tutto scontato e certo conrtibuisce a rendere un po' più vivace il panorama sociale, è l'emergere di un'opposizione sociale vera, ossia di un'opposizione che ècapace di emanciparsi dala tutele del Partito della Rifondazione Comunista: la manifestazione dei sindacati alternativi che a Roma il 26 ottobre è riuscita a coinvolgere alcune decine di migliaia di lavoratori nonostante il silenzio di tutti i media ed il chiaro boicottaggio del PRC, ne è stata la più chiara dimostrazione.
Senza esagerarne ovviamente la portata, tale manifestazione ha segnalato la possibilità che il futuro prossimo venturo non sia all'insegna di una assai poco attraente pax catto-comunista e che il governo benedetto da sindacati e confindustria non è in grado di rispondere alle aspettative di chi riteneva che non ci fosse modo migliore per attuare una politica di destra che affidarne l'attuazione ad una compagine di sinistra. L'abile giochetto di Rifondazione, che pensava di continuare a tenere i piedi in due scarpe agendo nel contempo come partito di governo e come movimento di opposizione, sta alla lunga logorandosi e non si può escludere che non finisca col produrre forti lacerazioni.
Se tuttavia il fascino delle sirene rifondate pare oggi decisamente meno irresistibile di un anno fa, resta tuttavia sul terreno la questione irrisolta di dar corpo e forma organizzativa ad un'opposizione troppo spesso ancorata ad una dimensione meramente resistenziale dello scontro politico e sociale, un'opposizione le cui analisi e modalità d'intervento paiono ancora incapaci di adeguarsi ad una situazione politica, sociale, economica e, dato non certo secondario, culturale in rapida e profonda trasformazione, non solo nel nostro paese ma su un più vasto piano internazionale.
I cambiamenti che ci troviamo di fronte sono molteplici e di ampia portata anche se è senza dubbio oggi assai problematico tracciare un quadro netto e coerente nel quale individuare univoche linee di tendenza.
Nell'ultimo decennio abbiamo assistito alla fine dei modelli sociali che hanno dominato il nostro secolo. Un secolo che è stato segnato dalla pretesa che la produzione sia il fulcro attorno al quale si plasma l'ordine sociale, un ordine che si fonda sul delicato ma potente e pervasivo equilibrio tra produzione e ammortizzazione sociale di marca statuale.
La versione sovietica di tale concezione, caratterizzata da un'ideologia produttivista più rigida, meno duttile e flessibile e al contempo da una statualità di impronta più seccamente disciplinare, si è bruscamente frantumata nell'89. Il modello occidentale, certo più flessibile ed abile nel districarsi tra la necessità di mantenere un basso costo del lavoro ed alti profitti e il bisogno del tutto contestuale di evitare che l'eccessivo contrarsi delle condizioni di vita dei salariati dia luogo ad una diminuzione della domanda e quindi, ovviamente, del profitto, pare oggi in difficoltà.
La fabbrica non è più il centro della vita sociale, il luogo in cui si concentra la produzione e al contempo lo spazio fisico e simbolico dell'aggregazione operaia. Il lavoro stesso è profondamente cambiato in virtù dell'innovazione tecnologica ma non solo, poichè è la stessa filosofia della produzione che è mutata ed implica che il lavoratore aderisca ai fini aziendali, rendendosi disponibile ad adattarsi a condizioni di lavoro di volta in volta diversificate. Abbiamo in questi anni assistito al riemergere di lavori che si pensavano ormai scomparsi come il lavoro a domicilio, sevile e al tempo stesso sono apparse figure di lavoratori inedite, quali quelle, spesso decisive nei processi produttivi, di lavoratori formalmente autonomi ma che di fatto operano sotto lo streto controllo e alle dipendenze del committente. Precarietà, parcellizzazione, flessibilità estrema sono oggigiorno i segni distintivi del lavoro. A ciò si aggiunge il dato importante dello stabilizzarsi di ampie fasce di disoccupazione e sottoccupazione, non certo imputabili ad una crisi momentanea ma di fatto configurantesi come elemento strutturale nel panorama sociale: per la prima volta infatti assistiamo al fefnomeno che alla crescita della produzione non corrisponda un incremento dell'occupazione.

Fine della fabbrica?
In un contesto sociale in cui il lavoro non nobilita l'uomo e certo ancor meno la donna, ma di fatto rappresenta uno dei vettori importanti da cui si dipana l'autopercezione di sè di ciascuno di noi, i fenomeni sovredescritti hanno grandi implicazioni non solo, del tutto ovviamente, sul piano sindacale, ma anche e soprattutto rappresentano gli elementi chiave di una vera e propria trasformazione di carattere antropologico. La fine della fabbrica fordista è anche la fine di quella comunità operaia che in un passato anche recente rappresentava un legame sociale capace di fornire identità ai singoli.
Oggi ciascuno di noi viene continuamente sollecitato ad una straordinaria fiera dei sensi, in cui stili di vita del tutto virtuali sono disponibili in tivù o via internet, ma si è persa la capacità di acquisire punti di riferimento stabili capaci di formare un'identità. Oggi uno può passare la settimana a lavorare dodici ore per la FIAT pur restando un lavoratore autonomo e poi vestirsi da guerriero della notte per trascorrere il sabato sera in una discoteca che fa tendenza, dove inconrterà il giovane disoccupato che si è comprato il giubbotto rubando autoradio e la casalinga che sbarca il lunario lavorando da casa con il proprio terminale per il servizio 12 della telecom.
Intendiamoci: non si vuole qui riproporre l'etica del produttore in opposizione a quella del consumatore, poichè certo la prima non appare in alcun modo più seducente della seconda, ma semmai segnalare un fattore importante nel determinare l'attuale diffusa anomia sociale. Un percorso identitario giocato sulla mistica della tuta blu non assume maggiore o minore connotazione libertaria della libertà da supermercato, che gode chi assume un modello esistenziale intercambiabile come una giacca.
Quel che è invece importante sottolineare è la necessità di adeguare la progettualità trasformatrice ad una società che va assumendo, sia pure senza dar luogo almeno per il momento ad un modello coerente e compiuto, caratteristiche inedite rispetto al passato. Specie se si tiene conto che non solo è cambiato l'ambito produttivo, ma si va altresì trasformando il ruolo degli stati nazionali che, in virtù del processo di globaliozzazione dell'economia, sempre meno assolvono la funzione di regolazione dello scontro tra le classi e non solo per il restringersi dello stato sociale, ma anche e soprattutto perchè il capitale, anche in virtù dei processi di finanziarizzazione dell'economia, assume vieppiù una dimensione sovranazionale che sfugge al controllo dei singoli stati nazionali. Gli organismi sovranazionali che in qualche modo avrebbero dovuto ereditare funzioni in precedenza appannaggio degli stati sono, peraltro, per lo più del tutto impotenti. Il che, certamente, contribuisce ad aumentare ulteriormente il tasso di anomia diffusa. Le politiche economiche deglil stati nazionali, poco, molto poco importa se in mano a governi di "destra" o di "sinistra", puntano a garantire le condizioni di offerta atte a rendere la propria area attraente per il capitale.
In certa misura, anche se non esclusivamente, l'affacciarsi alla ribalta di tendenze di carattere localistico, rappresenta il tentativo da un lato di salvaguardare dal "populismo" dello stato nazionale alcune zone "pregiate", dall'altro la speranza di potersi dotare di un più efficace ombrello protettivo. In ultima analisi, l'immane tragedia dell'ex-Jugoslavia non è forse stato anche un modo, poco raffinato ma efficace, per consentire alle parti più ricche e sviluppate delpaese di salire sul treno delle nazionidi prima classe? E non è una delle anime del leghismo nostrano la miriade di piccole imprese commerciali, tritate dalla concorrenza della grande distribuzione, che sognano di cavarsela in virtù dell'attenuazione della pressione fiscale?
In definitiva, dal sommario abbozzo testè tracciato, emerge un panorama in cui le coordinate a noi familiari risultano spostate, in fase di radicale ridefinizione e necessitano quindi non solo di un'attenta analisi, ma altresì richiamano la necessità, che già in apertura segnalavo, di pensare e sperimentare forme di conflitto sociale che sappiano tenerne conto. D'altro canto, le ripetute sconfitte cui in questi anni sono andate incontro le politiche meramente resistenziali, dovrebbe di per sè rappresentare uno stimolo forte a tentare di andare oltre. L'area del sindacalismo alternativo rappresenta oggi, nonostante le grandi difficoltà in cui si muove, una realta vera capace, come s'è visto a Roma il 26 ottobre, di sviluppare la propria iniziativa, prescindendo dall'interessata tutela del PRC. Nondimeno rischia di piegarsi su se stessa se non saprà assumere un più ampio respiro. Se, in una parola, non riuscirà a divenire elemento catalizzatore per la creazione di un humus sociale capace di costruire un nuovo legame sociale, un legame che si sedimenta nella pratica quotidiana e concreta dell'autonomia, in cui i servizi sociali non si contrattano con lo stato ma si costruiscono collettivamente, in cui si sperimentano modalità di fuoriuscita dal lavoro salariato che sappiano fornire chance di esistenza ai singoli e miglior qualità della vita a tutti.