Rivista Anarchica Online
Lettura di Kropotkin
di Mirko Roberti
Il pensiero di Kropotkin matura in un periodo storico in cui lo sviluppo
delle scienze e l'utilizzazione dei
suoi risultati influiscono largamente il pensiero sociale, economico, storico ed umanistico più
avanzato
dell'epoca. Il "socialismo scientifico" da una parte il "darwinismo sociale" dall'altra si contendono i
primati della scienza, le sue interpretazioni e le sue possibili implicazioni. Sotto questa spinta
"ambientale" e per la sua specifica formazione scientifica, Kropotkin viene ad elaborare un ampio
disegno teorico, non privo di ambizioni: innestare nel pensiero anarchico la dimensione scientifica al fine
di integrare entrambi all'interno di un quadro sistematico e razionale. Questa posizione, che
esercitò un
grande fascino e contemporaneamente provocò una serie interminabile di polemiche nel campo
anarchico, si qualificava in un duplice piano. Da una parte confutare alcune verità "scientifiche"
del
socialismo e di buona parte dell'intellighenzia "liberale", dall'altra, per converso, tentare
di dare una
sistemazione compiuta teorico-scientifica dell'anarchismo. Ai fini di una sua utilizzazione attuale,
il pensiero kropotkiniano risente di questa impostazione ed è
quindi necessario "selezionare" gli aspetti teorici superati e propri della sua epoca, da quelli che
conservano tutt'oggi grande attualità.
Nell'impostazione di Kropotkin il rapporto tra scienza e anarchia si configura come la
possibilità, da
parte dell'anarchismo, di utilizzare il metodo di indagine e di analisi classico della scienza. Scrive
Kropotkin, in "La scienza moderna e l'anarchia": "Recentemente, noi abbiamo sentito parlare molto del
metodo dialettico, che i socialdemocratici raccomandavano per elaborare l'ideale socialista. Noi non
ammettiamo affatto questo metodo, come del resto non lo riconosce nessuna delle scienze naturali....
Non una delle grandi scoperte del secolo scorso, nella meccanica, nell'astronomia, nella fisica, nella
chimica, nella biologia, nella psicologia, nell'antropologia, si deve al metodo dialettico. Tutte invece
sono
frutto del metodo induttivo-deduttivo, il solo veramente scientifico". L'identificazione di tale
metodo con l'anarchismo è, per Kropotkin, una cosa naturale; vi è in tale
posizione il tentativo di innestare il pensiero anarchico sulla tradizione dell'illuminismo francese,
sottraendolo contemporaneamente dal contesto storicistico-hegeliano di tradizione tedesca. Ne
consegue
che l'analisi e la critica della disuguaglianza e dello sfruttamento vengono condotte su molteplici piani
e con una visione sociologica e polivalente. Tipica è l'analisi dell'autorità. Mentre nella
tradizione
storicistica-hegeliana essa è vista come conseguenza dell'alienazione umana, come proiezione
e delega
delle proprie forze ad altre di natura estranea, in Kropotkin essa viene ricondotta all'interno di una
spiegazione scientifica di carattere antropologico ed etnologico. La legge, dice Kropotkin, espressione
ufficiale dell'autorità, presenta contemporaneamente due aspetti: il suo carattere è
"l'abile fusione" delle
consuetudini utili alla società, consuetudini che non avrebbero bisogno di leggi per essere
rispettate, con
altre consuetudini che offrono vantaggi ai soli dominatori e sono quindi dannose alle masse, e debbono
essere mantenute dal timore delle pene. La teoria kropotkiniana della scienza come strumento
"oggettivamente" libertario e rivoluzionario,
caratteristico atteggiamento da "enciclopedista francese", comune a Reclus e ad altri, non può
essere
oggi ritenuto attuale ed utilizzabile. Il suo concetto di evoluzione deterministica come progresso
continuo verso forme di vita sempre più "umane e civili" e quindi implicitamente libertarie ed
egualitarie,
risulta certo ottimistico di fronte all'esperienza storica degli ultimi settanta anni. Nondimeno esso
è
servito a mantenere un atteggiamento scientifico all'interno dell'anarchismo, soprattutto a porre le basi
per una sociologia libertaria, che via via ha utilizzato le nuove scoperte scientifiche per dare maggior
forza e razionalità al pensiero anarchico.
Dall'analisi delle grandi contraddizioni sociali e dello sfruttamento del lavoro umano da parte delle
classi
superiori, Kropotkin non vede altra soluzione socio-economica che il comunismo. A differenza di
Malatesta e altri che, pur essendo comunisti, ammettevano altri possibili sistemi o sottosistemi
economici, Kropotkin conclude che l'unico sistema privo di contraddizioni sociali e capace di rendere
"piena giustizia a tutti" è e rimane il comunismo libertario. Esso, a differenza del collettivismo
e di altri
sistemi mutualisti, è il sole in grado di superare completamente, attraverso l'abolizione del
salario e di
ogni altra legge del valore, tutte le inevitabili disuguaglianze e sperequazioni. Questo comunismo
che si esplica integralmente attraverso la semplice norma "ognuno secondo le sue
forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni", può essere realizzato solo con la completa abolizione
dello
Stato. La dimensione libertaria del comunismo kropotkiniano trova la sua conferma nello sviluppo
indefinito delle forze produttive, così che la libertà base per ogni "ulteriore
libertà" rimane quella dal
bisogno. Ma questa libertà-base non è sufficiente per creare una società
anarchica, perché quest'ultima,
come vedremo più avanti, va costruita attraverso un piano armonico delle strutture sociali,
economiche
e geografiche.
Il comunismo kropotkiniano, ammettendo il diretto passaggio dal sistema dello sfruttamento al
sistema
della libertà dal bisogno, implicava con la modalità libertaria della sua costruzione, una
forma spontanea
ed automatica di socializzazione. Affiora qui uno dei punti controversi del pensiero di Kropotkin:
l'automatismo deterministico e scientifico. Kropotkin veniva accusato, da parte anarchica, di
eccessivo ottimismo, se non di superficialità e
semplicismo. A queste critiche si aggiungevano le critiche marxiste e soprattutto le critiche di quella
grande corrente di pensiero del secolo scorso che dominò praticamente ogni atteggiamento
culturale e
scientifico di avanguardia: il darwinismo divenuto, con i suoi epigoni, "darwinismo sociale". Il
darwinismo sociale finiva col giustificare ogni forma di dominio e di oppressione. "La lotta per la vita"
e l'impossibilità di una forma sociale libera ed egualitaria veniva utilizzata non solo dal pensiero
borghese
ma anche da quello socialdemocratico di allora: infatti che cosa altro era la teoria
dell'élite, del comando
e della gerarchia nel pensiero socialista? Era riconoscere l'impossibilità dell'accordo non
coercitivo e
quindi un modo indiretto di critica "all'utopismo anarchico", alla sua fiducia nella libera, spontanea,
creativa ed appassionata socievolezza delle masse oppresse. Si trattava perciò, secondo
Kropotkin, di
dimostrare scientificamente non solo la possibilità di tale socievolezza, ma di
"trovarla" già in atto nel
mondo della natura e nello sviluppo dell'uomo. Con questa prospettiva di ampio respiro il pensiero
kropotkiniano tentò di definire un grande affresco
del mondo animale ed umano, attraverso quella visione "enciclopedica" e polivalente cui abbiamo
accennato sopra. Questa visione, che risentì in parte del clima culturale dell'epoca, conserva
però ancora
una straordinaria vitalità, specialmente l'analisi riguardante la storia comunale del
medioevo.
Abbiamo detto che la libertà dal bisogno, nel pensiero kropotkiniano e più in
generale nel pensiero
anarchico, non è sufficiente per realizzare l'anarchia. In altri termini la libertà, per poter
esprimere la sua
inesauribile vena creativa, deve passare dal segno negativo a quello positivo per farsi proposta concreta
e operativa. Ora, tutto questo trova conferma teorico-pratica nel piano armonico della
libertà e dell'eguaglianza, che
Kropotkin definì con geniale anticipazione ottant'anni fa. Tale piano si esplica attraverso due
aspetti
complementari: l'integrazione in ogni individuo del lavoro manuale con quello intellettuale, l'integrazione
geografico-sociale della città con la campagna. I due aspetti sono complementari perché
mirano al
superamento di due forme dello stesso fenomeno: la divisione gerarchica delle funzioni sociali. E
così
come il lavoro intellettuale è dominante rispetto a quello manuale, anche la posizione e la
funzione della
città è dominante rispetto a quella della campagna: ne risulta che non si può
integrare l'uno senza
integrare l'altro. I due aspetti così integrati costituiscono la struttura federalistica ed armonica
del piano
kropotkiniano. Questa duplice e contemporanea integrazione del lavoro, sia a livello individuale come
a quello sociale, assolve il compito della frantumazione del potere attraverso la socializzazione del
sapere
e di ogni funzione dominante. L'abolizione delle classi, nella visione sociologica di Kropotkin,
assume un disegno unitario e globale
di contemporanea ed immediata conversione dal sistema di sfruttamento e di dominio al sistema della
libertà: abolizione dello Stato e di ogni altra forma gerarchica socio-economica, decentramento
e
federalismo dal semplice al composto, abolizione della duplice divisione del lavoro per la loro
integrazione, pratica immediata di comunismo libero e di mutuo appoggio.... Vi è certo in
questa visione
una dose forse preponderante di ottimismo e di fiducia, essa però, a nostro avviso, ha accolto
i tratti
essenziali del disegno anarchico della società. Essa è vista come un grande organismo
dove tutte le
funzioni risultano interdipendenti attraverso la coesione del mutuo appoggio e dove vi è una
diversificazione sociale che non può mai farsi, con il decentramento e l'integrazione del lavoro,
meccanismo di dominio e di sfruttamento. Rispetto al problema dell'autogestione, la concezione
economica kropotkiniana concede credito ad un
sistema autarchico, che oggi risulta assolutamente inattuale; è questo un aspetto superato della
sua
dottrina, ma significativo in rapporto alla problematica dell'autogestione. La creazione delle strutture
sociali ed economiche decentrate veniva realizzata con l'ulteriore integrazione dell'industria con
l'agricoltura. Scrive Lewis Mumford in "La città nella storia": "Con quasi mezzo secolo
d'anticipo sul
pensiero tecnico ed economico contemporaneo, egli (Kropotkin) aveva intuito che la duttilità
e
l'adattabilità delle comunicazioni e dell'energia elettrica, unite alla possibilità di una
agricoltura intensiva
e biodinamica, avevano posto le basi di una evoluzione urbana più decentrata da svolgersi
attraverso
piccole comunità basate sul contatto umano diretto e provviste dei vantaggi della città
oltre che di quelli
della campagna". Con ottant'anni di anticipo Kropotkin aveva previsto che l'accentramento, grande
pregiudizio della
stupidità autoritaria, avrebbe continuato progressivamente a disumanizzare la vita: oggi i
rappresentanti
"borghesi" e quelli del socialismo autoritario dibattono i problemi ecologici...
Mirko Roberti
Pietro Kropotkin nasce a Mosca nel 1842, da una ricca famiglia
nobile. Arruolatosi ventenne
nell'esercito si interessa con sempre maggior passione sia di problemi geografici sia delle nuove idee
populiste, studiando Herzen e Proudhon. Dimessosi dall'esercito, continua per alcuni anni gli studi
geografici, finché nel 1871 si reca in Svizzera ed entra in contatto con gli ambienti anarchici
direttamente influenzati da Bakunin. L'anno successivo torna in Russia e vi svolge attività
rivoluzionaria ma viene arrestato ed incarcerato. Nel 1876 riesce avventurosamente a fuggire e si
stabilisce in Inghilterra, pur continuando a spostarsi da un paese all'altro. Fino al 1914 resta una delle
figure più influenti dell'anarchismo internazionale, con Malatesta ed E. Reclus. In questi anni
pubblica:
Parole di un ribelle (1885), La conquista del pane (1892), Campi, fabbriche
e officine (1898),
Memorie di un rivoluzionario (1899), Il mutuo appoggio (1902), La grande
rivoluzione (1909), La
scienza moderna e l'anarchismo (1912).
Nel 1914 prende posizione a favore dell'interventismo rivoluzionario entrando in polemica con
Malatesta. Nel 1917 torna in Russia e si schiera con la rivoluzione, criticandone però la
degenerazione
autoritaria imposta dai bolscevichi. Nel suo ritiro, nei dintorni di Mosca, scrive l'Etica
(1920).
Nell'estate del 1920 manda un appello ai lavoratori di tutto il mondo, in cui considera un fallimento
la rivoluzione autoritaria bolscevica. Muore l'8 febbraio 1921 ed i suoi funerali, seguiti da centomila
persone, sono l'ultima grande manifestazione anarchica in Russia. |
Il metodo scientifico
Gli anarchici non subiscono il fascino delle "parole altisonanti", poiché sanno che queste
parole servono
sempre a coprire o l'ignoranza - cioè l'investigazione incompiuta - o, ciò che è
peggio, la superstizione.
Ecco perché, quando si parla loro questo linguaggio, essi passano oltre, senza fermarsi, e
proseguono
il loro studio delle concezioni sociali e delle istituzioni del passato e del presente, seguendo il metodo
naturalista. E certo trovano che lo sviluppo della vita della società è infinitamente
più complesso (e più
interessante dal punto di vista pratico), di quanto si potrebbe supporlo attenendosi alle formule
metafisiche ed aprioristiche. Recentemente, noi abbiamo sentito parlare molto del metodo dialettico,
che i social-democratici
raccomandavano per elaborare l'ideale socialista. Noi non ammettiamo affatto questo metodo, come del
resto non lo riconosce nessuna delle scienze naturali. Per il naturalista moderno, questo "metodo
dialettico" appare come qualcosa di molto vecchio, di superato e di dimenticato da un pezzo,
fortunatamente, dalla scienza. Non una delle grandi scoperte del secolo scorso - nella meccanica,
nell'astronomia, nella fisica, nella chimica, nella biologia, nella psicologia, nell'antropologia - si deve al
metodo dialettico. Tutte invece sono frutto del metodo induttivo-deduttivo, il solo veramente
scientifico.
E poiché l'uomo è una parte della natura, poiché la sua vita personale e sociale
è pure un fenomeno della
natura - alla stregua della crescita di un fiore, o dell'evoluzione della vita nelle società delle
formiche e
delle api - non vi è nessuna ragione perché, passando dal fiore all'uomo, da un villaggio
di castori ad una
città umana, noi dobbiamo abbandonare il metodo che ci aveva servito così bene fino
allora, per cercarne
un altro nell'arsenale della metafisica. Il metodo induttivo-deduttivo, che noi adoperiamo nelle
scienze naturali, si è rivelato così efficace, che
negli ultimi cent'anni la scienza ha fatto progressi maggiori di quelli raggiunti nei due millenni precedenti.
E quando si cominciò (nella seconda metà del secolo scorso) ad estenderlo allo studio
delle società
umane, non si potè constatare un solo caso in cui questo metodo si fosse mostrato deficiente,
ed avesse
perciò autorizzato il ritorno alla scolastica medievale, risuscitata da Hegel. Ma c'è di
più. Allorché certi
scienziati, naturalisti, pagando un tributo alla loro educazione borghese, volleri insegnarci, col pretesto
di applicare la teoria scientifica di Darwin: "Schiacciate chiunque è più debole di voi:
tale è la legge della
natura!" - potemmo facilmente dimostrare con lo stesso metodo scientifico, che quegli scienziati
avevano
sbagliato strada: che una simile legge non esiste, che la natura c'insegna tutto l'opposto e che le loro
conclusioni non erano punto scientifiche. La stessa sorte capitò a coloro che volevano far
passare
l'inuguaglianza delle fortune per "una legge della natura", e lo sfruttamento capitalistico per la forma
più
vantaggiosa di organizzazione sociale. È appunto coll'applicazione ai fatti economici del metodo
delle
scienze naturali, che noi ci accorgiamo come le pretese "leggi" delle scienze sociali borghesi - compresa
l'economia politica attuale - non siano affatto delle leggi, ma delle semplici supposizioni, o meglio delle
affermazioni, che non si è mai tentato di verificare.
P. Kropotkin (da "La scienza moderna e l'anarchia",
1912)
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L'economia come fisiologia sociale
Del resto, a noi, anarchici, l'economia politica si presenta sotto un aspetto differente da quello che
le
attribuiscono gli economisti, siano poi borghesi o social-democratici. Essi non sanno rendersi conto di
ciò che sia una "legge naturale" - malgrado la loro grande predilezione per questa espressione
- perché
il metodo scientifico induttivo è assolutamente ignoto e agli uni e agli altri. Essi non s'accorgono
che
ogni legge di natura ha un suo carattere condizionale, poiché si esprime sempre
così: "Se nella natura
si presentano queste condizioni, il risultato sarà questo o quest'altro. - Se una linea
retta interseca un'altra
linea retta, in modo da formare degli angoli eguali dalle due parti del punto d'intersezione, le
conseguenze saranno le seguenti. - Se soltanto i movimenti che esistono nello spazio
interplanetare
agiscono sopra due corpi, e se non si incontrano altri corpi agenti su questi due a una distanza che non
sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpi si avvicinano con una data velocità
(legge della
gravitazione universale)". E così di seguito, ma sempre con il suo bravo se,
sempre con una condizione. Necessariamente adunque tutte le pretese leggi e teorie
dell'economia politica non sono in realtà che
delle affermazioni aventi questo carattere: "Ammettendo che si trovi sempre in un dato paese una
quantità considerevole di persone che non possono vivere un mese e neppure quindici giorni
senza
accettare le condizioni di lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma di imposte), o che
saran
loro offerte da quelli che lo Stato riconosce per proprietari del suolo, delle officine, delle vie ferrate, ecc.
- ecco le conseguenze che ne risulteranno. Fino ad oggi, l'economia politica non è stata altro
che una enumerazione di ciò che succede in simili
condizioni - senza però enumerare ed analizzare le condizioni stesse, senza esaminare
come queste
condizioni agiscano in ogni caso particolare, né ciò che le mantiene. Anche quando
queste condizioni
sono ricordate in un punto, si dimenticano un passo più in là. Ma gli economisti non si
limitano a simili
dimenticanze e rappresentano i fatti che si producono in seguito a queste condizioni come leggi
fatali
ed immutabili. Quanto all'economia politica socialista, essa critica, è vero, alcune
di queste conclusioni, oppure ne
spiega in modo diverso certe altre; ma sempre commette la stessa dimenticanza, e, ad ogni modo, non
si è ancora tracciato un proprio cammino, e rimane nel vecchio, seguendo le stesse rotaie. Il
più che
abbia fatto (con Marx) è l'aver preso le definizioni dell'economia politica
metafisica e borghese, per dire:
"Vedete bene che anche accettando le vostre definizioni, si arriva a provare che il capitalista sfrutta
l'operaio!". Ciò che suonerà forse bene in una polemica, ma non ha nulla a che vedere
con la scienza. In generale noi pensiamo che la scienza dell'economia politica vada
costituita in modo diverso; deve
essere trattata come una scienza naturale e deve segnarsi una mèta nuova; deve
occupare, in rapporto
colle società umane, un posto uguale a quello che occupa la fisiologia in rapporto con le piante
e gli
animali; deve diventare insomma una fisiologia della società. Il suo scopo deve
essere lo studio della
somma dei bisogni sempre crescenti delle società e dei mezzi diversi impiegati
(oggi e in altri tempi) per
soddisfarli; deve analizzare questi mezzi per vedere fino a che punto erano una volta e sono oggi
appropriati allo scopo; e in seguito - perché lo scopo finale di ogni scienza è la
predizione, l'applicazione
alla vita pratica (ed è un pezzo che l'ha detto Bacone) - essa dovrà studiare i mezzi di
soddisfare meglio
la somma dei bisogni moderni ed ottenere con la minore spesa d'energia (con economia)
i migliori
risultati per l'umanità in generale. Si capisce, così, perché noi arriviamo a
conclusioni tanto differenti sotto certi rapporti da quelle a cui
giungono la maggior parte degli economisti borghesi o social-democratici; perché noi non
riconosciamo
il titolo di "leggi" a certe correlazioni, da loro indicate; perché la nostra "esposizione" del
socialismo
differisce dalla loro, e perché noi deduciamo dallo studio delle tendenze e delle direzioni di
sviluppo che
osserviamo attualmente nella vita economica, conclusioni del tutto differenti dalle loro, per quanto
concerne il desiderabile ed il possibile; o in altri termini, perché noi arriviamo al comunismo
libertario,
mentre essi giungono al capitalismo statale ed al salariato collettivista. Siamo forse noi nel torto ed
essi nel vero? Può darsi; ma per verificare chi di noi ha torto o ha ragione
non basta fare dei commentari bizantini su ciò che questo o quello scrittore ha detto o voluto
dire, né
parlare della trilogia di Hegel, né soprattutto continuare a far uso del metodo
dialettico. Tutto ciò non si può fare che mettendosi a studiare i rapporti
economici, come si studiano i fenomeni
delle scienze naturali.
P. Kropotkin (da "La scienza moderna e l'anarchia",
1912)
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Comunismo popolare
Così si constata una figliazione diretta dagli "Arrabbiati" del 1973 e da Babeuf (1795) sino
all'Internazionale. Ma vi è pure figliazione nelle idee. Il socialismo moderno non ha nulla,
assolutamente nulla aggiunto
finora alle idee che circolavano nel popolo francese dal 1789 al 1794, e che il popolo francese
tentò di
mettere in pratica durante l'anno II della Repubblica. Il socialismo moderno ha solamente trasformato
in sistemi queste idee e trovato degli argomenti in loro favore, sia ritorcendo contro gli economisti certe
loro proprie definizioni, sia generalizzando i fatti dello sviluppo del capitalismo industriale nel corso del
diciannovesimo secolo. Ma mi permetterò d'affermare che, per quanto fosse vago, per
quanto mancasse d'argomenti cosidetti
scientifici e per quanto poco usasse il frasario pseudo-scientifico degli economisti borghesi, il
comunismo
popolare dei due primi anni della Repubblica aveva vedute più chiare e analisi più
profonde del
socialismo moderno. Era anzitutto il comunismo nel consumo - la municipalizzazione e la
nazionalizzazione del consumo - cui miravano i fieri repubblicani del 1792 quando volevano stabilire
i
loro magazzeni di grani e di commestibili in ogni comune, quando facevano un'inchiesta per fissare il
"vero valore" degli oggetti di "prima e di seconda necessità", e quando ispiravano a Robespierre
le parole
profonde che il superfluo solo delle derrate poteva essere oggetto di commercio:
ma il necessario
apparteneva a tutti. Nato dalle necessità stesse della vita burrascosa di quegli anni,
il comunismo del 1793, con la sua
affermazione del diritto di tutti ai viveri, ed alla terra per produrli, la sua negazione di diritti fondiari
all'infuori di ciò che una famiglia poteva coltivare essa stessa (il podere di "120 jugeri, misura
di 22
piedi") e il suo tentativo di municipalizzare il commercio, - questo comunismo andava più in
fondo delle
cose che tutti programmi minimi ed anche i considerandi massimi del nostro tempo. Ad ogni modo,
ciò che si impara oggi studiando la Grande Rivoluzione, è che fu la fonte di tutte le
concezioni comuniste, anarchiche e socialiste della nostra epoca. Non conosciamo ancor bene la nostra
madre di tutti noi; ma la ravvisiamo oggi in mezzo ai sanculotti, e comprendiamo quanto ci resta da
imparare da lei.
P. Kropotkin (da "La grande rivoluzione", 1909)
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Il mutuo appoggio
Così, quando più tardi la mia attenzione si rivolse ai rapporti tra il darwinismo e
la sociologia, non mi
trovai d'accordo con nessuna delle opere che furono scritte su questo importante argomento. Tutti si
sforzavano di provare che l'uomo, grazie alla sua alta intelligenza ed alle sue esperienze,
poteva
moderare l'asprezza della lotta per la vita tra gli uomini; ma essi riconoscevano anche la lotta per i mezzi
dell'esistenza di ogni animale contro i suoi congeneri, e di ogni uomo contro gli altri uomini, come "una
legge della natura". Io non potevo accettare questa opinione, perché ero persuaso che
ammettere una spietata guerra per la
vita, in seno ad ogni specie, e vedere in questa guerra una condizione di progresso, era formulare
un'affermazione non solo senza prove, ma non avente nemmeno l'appoggio dell'osservazione
diretta. Al contrario, una conferenza "Sulla legge dell'aiuto reciproco" tenuta ad un congresso di
naturalisti russi,
nel gennaio 1880, dal prof. Kessler, zoologo molto noto (allora decano dell'Università di
Pietrogrado),
mi colpì in quanto gettava una nuova luce su tutto questo problema. L'idea del Kessler era che,
a fianco
alla legge della Lotta reciproca, vi è nella natura la legge dell'Aiuto
reciproco, che è molto più
importante per il successo della lotta per la vita, e soprattutto per l'evoluzione progressiva della specie.
Questa ipotesi, che in realtà non era che lo sviluppo delle idee espresse dallo stesso Darwin
nella Origine
dell'Uomo, mi sembrò così giusta e di sì grande importanza, che da
quando ne ebbi conoscenza (nel
1883), cominciai a raccogliere dei documenti per svilupparla. Kessler non aveva fatto che indicarla
brevemente nella sua conferenza, e la morte (egli morì nel 1881) gli aveva impedito di tornarvi
sopra. Su un punto solo non potei accettare interamente le vedute del Kessler. Egli vedeva nei
"sentimenti
familiari" e nelle cure della prole la sorgente delle tendenze solidaristiche degli animali. Ma determinare
fino a qual punto questi due sentimenti hanno contribuito all'evoluzione degli istinti socievoli, e fino a
che punto degli altri istinti hanno agito nella stessa direzione, mi sembra una questione distinta e molto
complessa che non possiamo ancora discutere. Soltanto dopo che avremo ben stabilito i fatti dell'aiuto
reciproco tra le varie classi degli animali e la loro importanza per l'evoluzione, saremo in grado di
studiare ciò che appartiene, nell'evoluzione dei sentimenti socievoli, ai sentimenti familiari e
ciò che
appartiene alla sociabilità vera e propria; che ha certamente la sua origine nei più bassi
gradini
dell'evoluzione del mondo animale, fors'anche nelle "colonie animali". Quindi mi propongo, innanzi
tutto,
di stabilire l'importanza del fattore dell'aiuto reciproco nell'evoluzione, riservando a delle ulteriori
ricerche l'origine dell'istinto della solidarietà nella natura. (...) Dopo avere
esaminato l'importanza dell'aiuto reciproco nelle diverse classi di animali, dovetti esaminare
l'ufficio dello stesso fattore nell'evoluzione dell'uomo. Ciò era tanto più necessario in
quanto un certo
numero di evoluzionisti, che non potevano rifiutarsi di ammettere l'importanza dell'aiuto reciproco negli
animali, rifiutavano, come ha fatto Herbert Spencer, di ammetterlo nell'uomo. Nell'uomo primitivo,
sostengono costoro, la guerra di ciascuno contro tutti era la legge della vita.
Esaminerò, nei capitoli
dedicati ai selvaggi e ai barbari, fino a qual punto questa affermazione, che è stata troppo
compiacentemente ripetuta, senza critica sufficiente, dopo Hobbes, è confermata da quanto
sappiamo
dei periodi primitivi dello sviluppo umano. Dopo aver esaminato il numero e l'importanza delle
istituzioni dell'aiuto reciproco, formate dal genio
creatore delle masse selvagge e semiselvagge durante il periodo delle tribù, e ancor più
durante il
successivo periodo dei comuni rurali, e dopo aver constatato l'immenso influsso che queste istituzioni
primitive hanno esercitato nell'ulteriore sviluppo dell'umanità fino all'epoca attuale, fui spinto
ad
estendere le mie ricerche anche alle epoche storiche. Studiai particolarmente quel periodo, così
interessante, delle libere repubbliche urbane del medioevo, delle quali non s'è ancora
riconosciuto
abbastanza l'universalità né apprezzata l'influenza sulla nostra civiltà moderna.
Infine, ho cercato di
indicare brevemente l'immensa importanza che gli istinti di solidarietà, trasmessi
all'umanità dalla
ereditarietà di una lunghissima evoluzione, agiscono ancor oggi nella nostra società
moderna; in questa
società che si pretende poggi sul principio "ciascuno per sé e lo Stato per tutti", ma che
non l'ha mai
realizzato e non lo realizzerà giammai. Sì può obbiettare a questo libro che
tanto gli animali quanto gli uomini vi sono presentati sotto una luce
troppo favorevole; che si è insistito sulle loro qualità socievoli, mentre i loro istinti
anti-sociali ed
individualisti sono a malapena considerati. Ma questo era inevitabile. Noi abbiamo udito ultimamente
parlar tanto dell'"aspra e spietata lotta per la vita" che si pretendeva sostenuta da ogni animale contro
tutti gli altri animali, da ogni "selvaggio" contro tutti gli altri "selvaggi" e da ogni uomo civile contro
tutti
i suoi concittadini - e queste asserzioni sono così bene divenute articoli di fede - che era
necessario, a
bella posta, di opporre loro una vasta serie di fatti mostranti la vita animale ed umana sotto un aspetto
completamente diverso. Era necessario indicare la capitale importanza che hanno le abitudini sociali
nella
natura e nell'evoluzione progressiva, tanto delle specie animali quanto degli esseri umani; di provare che
esse assicurano agli animali una migliore protezione contro i loro nemici, e molto spesso delle
facilitazioni per la ricerca del loro alimento (provvigioni per l'inverno, migrazioni, ecc.), una maggiore
longevità e, di conseguenza, una più grande probabilità di sviluppo delle
facoltà intellettuali; infine era
necessario dimostrare che esse hanno dato agli uomini, oltre questi vantaggi, la possibilità di
cercare le
istituzioni che hanno permesso all'umanità di trionfare nella sua lotta accanita contro la natura
e di
progredire, nonostante tutte le vicende della storia. È questo che ho fatto. Questo è,
certo, un libro sulla
legge dell'aiuto reciproco, considerato come uno dei principali fattori dell'evoluzione; ma non è
un libro
su tutti i fattori dell'evoluzione; è un libro su tutti i fattori
dell'evoluzione e sul loro rispettivo valore.
Bisognava che questo primo libro fosse scritto, perché fosse possibile scrivere l'altro.
P. Kropotkin (da "Il mutuo appoggio", 1902)
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Il libero Comune
Quando noi diciamo che la rivoluzione sociale deve farsi coll'affrancamento dei Comuni e che solo
i
Comuni, assolutamente indipendenti, liberi della tutela dello Stato, potranno darci l'ambiente necessario
alla rivoluzione e il mezzo di compierla, ci si rimprovera di voler richiamare alla vita una forma della
società già sorpassata, che ha fatto il suo tempo. "Ma il Comune - ci si dice - è
un fatto d'altri tempi!
Cercando di distruggere lo Stato per sostituirlo coi Comuni liberi, voi rivolgete gli sguardi al passato:
voi volete condurci in pieno medioevo, riaccendere fra di essi le guerre antiche, e distruggere le
unità
nazionali così faticosamente conquistate durante il corso della storia!". Ebbene, esaminiamo
questa critica. Constatiamo anzitutto che qualunque paragone col passato non ha che un valore
relativo. Perché la
nostra Comune non fosse realmente che un ritorno verso il Comune medievale, bisognerebbe che noi
riconoscessimo che il Comune potrebbe ancora rivestire le forme di sette secoli or sono. Ora, non
è
evidente che, stabilendosi ai nostri giorni, nel nostro secolo di ferrovie e di telegrafi, di scienza
cosmopolita e di ricerca della verità pura, il Comune avrebbe una organizzazione ben differente
da quella
avuta nel dodicesimo secolo, perché noi saremmo in presenza di un fatto assolutamente nuovo,
posto
in condizioni nuove e che necessariamente porterebbe conseguenze, in modo assoluto,
diverse. Inoltre, i nostri avversari, i difensori dello Stato, sotto le sue varie forme, dovrebbero ben
ricordare che
noi possiamo muovere a loro un'altra somigliante obiezione. Noi pure potremmo dire, e con
maggior ragione, ch'essi hanno lo sguardo rivolto al passato, poiché lo
Stato è pure una forma tanto antica quanto il Comune. C'è solo questa differenza:
mentre lo Stato
rappresenta nella storia la negazione di ogni libertà, l'assolutismo e l'arbitrio, il patibolo e la
tortura, la
rovina dei suoi sudditi; è invece appunto nell'affratellamento dei Comuni e nella sollevazione
dei popoli
e dei Comuni contro gli Stati, che noi troviamo le più belle pagine della storia. (...) Fra
il Comune del medioevo e la Comune che potrebbe stabilirsi oggi, e forse si stabilirà ben presto,
vi
saranno differenze essenziali: tutto un abisso aperto da sei o sette secoli di sviluppo dell'umanità
e da
faticose rudi esperienze. Esaminiamo le principali. (...) Il Comune medioevale poteva limitarsi
fra le sue mura, e, fino ad un certo punto, isolarsi dai suoi vicini.
Allorquando entrava in relazione con altri comuni, queste relazioni si limitavano, sovente, ad un trattato
per la difesa dei diritti urbani contro ai signori, o ad un patto di solidarietà per la mutua
protezione dei
loro dipendenti nei loro viaggi lontani. E quando vere leghe si formavano, come nella Lombardia, nel
Belgio, nella Spagna, queste leghe troppo poco omogenee, troppo fragili per la diversità dei
privilegi,
si scindevano ben presto in gruppi isolati o soccombevano sotto gli attacchi degli Stati
limitrofi. Quale differenza coi gruppi che si formerebbero oggi! Una piccola Comune non potrebbe
vivere otto
giorni senza essere costretta dalla forza delle cose a mettersi in relazioni correnti coi centri industriali,
commerciali, artistici, e questi centri a loro volta, sentirebbero il bisogno d'aprire le loro porte agli
abitanti vicini, delle comuni limitrofe, delle città lontane. (...) Il commercio e lo
scambio, atterrando i limiti delle frontiere, hanno anche distrutto le mura delle antiche
città. Essi hanno stabilito quella coesione che mancava nel medioevo. Tutti i punti abitati
dell'Europa
occidentale sono così intimamente legati fra di loro, che l'isolamento è, per essi,
divenuto impossibile:
non vi è villaggio anche appollaiato sulla cornice d'una montagna, che non abbia il suo centro
industriale
e commerciale verso cui gravita e con cui non può rompere. (...) Ma non è
tutto. Per il borghese del medioevo il Comune era uno Stato isolato, nettamente diviso dagli
altri colle sue frontiere. Per noi "Comune" non è più una agglomerazione territoriale;
è piuttosto un
nome generico; sinonimo di gruppo d'eguali, che non conoscono mura né frontiere. La Comune
sociale
cesserà ben presto d'essere un tutto precisamente definito. Ogni gruppo della Comune
sarà
necessariamente attratto verso gli altri gruppi affini delle altre Comuni; si unirà, si
federerà con essi, con
legami per lo meno solidi come quelli che lo riannodano ai suoi contadini, costruirà una Comune
d'interessi, i cui membri sono sparsi dentro mille città e villaggi. Un individuo troverà
la soddisfazione
dei suoi bisogni unendosi con altri individui dagli stessi gusti e abitanti cento altre Comuni.
P. Kropotkin (da "Parole di un ribelle", 1885)
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Il governo rivoluzionario
Un "governo rivoluzionario!". Ecco due parole che suonano stranamente all'orecchio di coloro che
si
rendono conto di ciò che deve significare la Rivoluzione Sociale e di ciò che significa
un governo. Due
parole che si contraddicono, si distruggono l'un l'altra. Si sono veduti, infatti, dei governi dispotici, - per
la sua essenza qualunque governo abbraccia la reazione contro la rivoluzione e tende necessariamente
al dispotismo; - ma non si è mai visto un governo rivoluzionario, ed a ragione. La
Rivoluzione, - sinonimo di "disordine", di rovesciamento in pochi giorni di istituzioni secolari, di
demolizione violenta delle forme stabilite di proprietà, di distruzione delle caste, di
trasformazione rapida
delle idee ammesse sulla moralità o meglio sull'ipocrisia che la sostituisce, di libertà
individuale e di
azione spontanea, - è precisamente l'opposto, la negazione del governo, sinonimo di "ordine
costituito",
di conservatismo, di mantenimento delle istituzioni vigenti, di soppressione d'ogni iniziativa ed azione
individuale. E nondimeno, noi sentiamo continuamente parlare di questo merlo bianco, come se un
"governo rivoluzionario" fosse la più semplice cosa del mondo, tanto comune e conosciuta da
tutti come
la regalità, l'impero o la teocrazia. (...) I pericoli ai quali si espone la rivoluzione, se si
lascia dominare da un governo eletto, sono così evidenti
che tutta una scuola di rivoluzionari rinuncia completamente a questa idea. Essi comprendono che
è
impossibile ad un popolo insorto, di darsi, mediante elezioni, un governo che non rappresenti il passato
e che non sia un ceppo attaccato ai piedi di un popolo, soprattutto quando si tratta di compiere quella
immensa rigenerazione economica, politica e morale, che noi chiamiamo Rivoluzione Sociale. Essi
rinunciano dunque all'idea di un governo "legale", almeno nel periodo che è una rivolta contro
la legalità
e preconizzano la "dittatura rivoluzionaria". - Il partito, - dicono essi, - che avrà rovesciato
il governo, si sostituirà colla forza al suo posto.
S'impadronirà del potere e procederà con metodo rivoluzionario. Prenderà le
misure necessarie per
assicurare il trionfo dell'insurrezione; abbatterà le vecchie istituzioni; organizzerà la
difesa del territorio.
Per coloro che non vorranno riconoscere la sua autorità, - la ghigliottina; per coloro, popolo
o borghesi,
che rifiuteranno d'obbedire agli ordini che darà per regolare la marcia della Rivoluzione, - ancora
la
ghigliottina. - Ecco, come ragionano i Robespierre in erba, coloro che della grande epopea del secolo
scorso non ricordano che i giorni della sua fine, e coloro che ne hanno appreso solo i discorsi dei
procuratori della repubblica. Per noi, anarchici, la dittatura di un individuo o di un partito, - in
fondo, la stessa cosa, - è
definitivamente condannata. Noi sappiamo che una Rivoluzione Sociale non si dirige collo spirito di un
solo uomo o di un gruppo. Noi sappiamo che governo e Rivoluzione sono incompatibili; l'uno deve
uccidere l'altra, qualunque sia il nome dato al governo. Noi sappiamo che la forza e la verità del
nostro
partito sta nella sua formula fondamentale: - "Nulla si fa di buono e di durevole senza la libera iniziativa
del popolo, ed ogni potere tende ad ucciderla"; per questo i migliori dei nostri, se le loro idee non
dovessero essere più vagliate dal popolo che le deve mettere in esecuzione e diventassero
padroni di
questo arnese formidabile - il governo - a guisa da muovere tutto a modo loro, otto giorni dopo
bisognerebbe pugnalarli. Noi sappiamo dove conduca qualunque dittatura, anche la meglio intenzionata,
- alla morte della Rivoluzione. E sappiamo, infine, che questa idea di dittatura, il prodotto malsano del
feticismo governativo, ha sempre perpetrato la schiavitù, come il feticismo
religioso. (...) Lasciar stabilire un governo qualunque, un potere forte e ubbidito, significa
ostacolare sin dal principio
la marcia della Rivoluzione. Il bene che potrebbe fare questo governo è nullo, il male immenso.
Infatti,
di che si tratta, che cosa intendiamo noi per Rivoluzione? - Non già un semplice cambiamento
di governi,
ma la presa di possesso da parte del popolo di tutta la ricchezza sociale, l'abolizione di tutti i poteri che
non hanno mai cessato di intralciare lo sviluppo dell'umanità! È con decreti emanati da
un governo che
questa immensa Rivoluzione economica può essere compiuta? Noi abbiamo visto, nel secolo
scorso, il
dittatore rivoluzionario polacco Kosciusko decretare l'abolizione della servitù personale; - la
servitù durò
ancora ottant'anni dopo questo decreto. Noi abbiamo visto la Convenzione, l'onnipotente Convenzione,
la terribile Convenzione, come dicono i suoi ammiratori, - decretare la divisione per testa
di tutte le terre
comunali riprese ai signori. Come tanti altri, questo decreto restò lettera morta, perché,
per metterlo in
esecuzione, bisognava che i proletari delle campagne facessero una nuova Rivoluzione, e le Rivoluzioni
non si fanno a colpi di decreti. Perché la presa di possesso della ricchezza sociale da parte del
popolo
divenga un fatto compiuto, occorre che il popolo si senta forte e sicuro, scuota la servitù alla
quale è
troppo abituato, agisca di sua testa e proceda arditamente senza aspettare ordini da nessuno. Ora, la
dittatura, anche quando fosse la meglio intenzionata del mondo, impedirà precisamente tutto
questo, pur
essendo incapace di far progredire in altro modo la Rivoluzione.
Ma se il governo, - fosse anche un governo rivoluzionario ideale, - non crea una forza nuova e non
presenta alcun vantaggio per il lavoro di demolizione che dobbiamo compiere, - noi possiamo ancor
meno contare su lui per la susseguente opera di riorganizzazione. Il cambiamento economico che
risulterà dalla Rivoluzione Sociale sarà così immenso e profondo, dovrà
mutare talmente tutte le
relazioni odierne basate sulla proprietà e lo scambio, - che è impossibile, a uno o a pochi
individui, di
elaborare le forme sociali che devono nascere nella società futura. Questa elaborazione di nuove
forme
sociali non può farsi che col lavoro collettivo delle masse. Per soddisfare alla immensa
varietà delle
condizioni e dei bisogni che nasceranno il giorno in cui la proprietà individuale sarà
abolita, occorre la
flessibilità dello spirito collettivo del paese. Qualunque autorità esterna non sarà
che un inciampo, un
impedimento a questo lavoro organico da compiersi, e, quindi, una fonte di discordie e di odi. Ma
è tempo di abbandonare questa illusione, tante volte smentita e tante volte pagata a sì
caro prezzo,
di un governo rivoluzionario. È tempo di dire una volta per tutte e d'ammettere questo assioma
politico,
che un governo non può essere rivoluzionario.
P. Kropotkin (da "Parole di un ribelle", 1885)
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L'integrazione del lavoro
Una volta, gli uomini di scienza, e particolarmente quelli che maggiormente contribuirono ai
progressi
della fisica, non disprezzavano il lavoro manuale. Galileo fabbricava colle sue mani i suoi telescopi.
Newton, nella sua infanzia, imparò a maneggiare gli
arnesi da operaio. Egli esercitava il suo giovane spirito a immaginare macchine ingegnosissime, e
quando
iniziò le sue ricerche nel campo dell'ottica, seppe fare da sé le lenti dei suoi strumenti
e costruire il
celebre telescopio, che, nella sua epoca, fu una cosa ammirevole. Leibniz si dilettava di inventare
macchine: molini a vento e carrozze senza cavalli preoccupavano il suo spirito, non meno che le
speculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divenne botanico aiutando suo padre, che era giardiniere,
nel lavoro quotidiano. Insomma per quei grandi genii, il lavoro manuale non era ostacolo alle ricerche
astratte, anzi le favoriva. (...) Ai giorni nostri, tutto ciò è mutato. Col pretesto
di applicare il principio della divisione del lavoro, noi
abbiamo scavato un fossato fra il lavoratore intellettuale e il lavoratore manuale. (...) Da una
parte, abbiamo uomini dotati di facoltà inventive, ma che non hanno né l'istruzione
scientifica
necessaria, né i mezzi di fare esperimenti per lunghi anni. E, d'altra parte, abbiamo uomini istruiti
ben
preparati per l'esperimentazione, ma sprovvisti di qualsiasi genio inventivo perché la loro
istruzione fu
troppo astratta, troppo scolastica, troppo secondo i libri, e per l'ambiente in cui essi vivono (la stessa
osservazione dovrebbe esser fatta relativamente ai sociologhi, sopra tutto agli economisti. Quanti, anche
tra i socialisti, studiano i libri e i sistemi, invece di studiare i fatti della vita sociale). E non
voglio ancora
dir nulla del sistema dei brevetti di invenzione, che divide e sparpaglia gli sforzi invece di
combinarli. Lo slancio di genio levantesi a volo, che caratterizzò gli operai all'aurora del
periodo industriale
moderno, è completamente mancato nei nostri scienziati ufficiali. E così
continuerà ad essere finché essi
resteranno estranei al mondo, alla vita, piantati in mezzo ai loro libri polverosi; finché essi non
diventeranno veri operai, all'opera tra altri operai, nei bagliori dell'altoforno, o presso il focolare della
macchina nell'officina, o davanti al tornio del meccanico; finché essi non si faranno marinai, per
vivere
sul mare fra i marinai, o pescatori sulla barca da pesca, o boscaiuoli nella foresta, o contadini fra i
solchi. I nostri critici d'arte, quali Ruskin e la sua scuola, non hanno cessato di ripeterci, da qualche
tempo, che
non possiamo sperare una rinascita dell'arte, finché i mestieri manuali saranno ciò che
sono. Essi ci hanno
dimostrato che l'arte greca e l'arte romana furono generate dai mestieri manuali. Altrettanto si
può dire
dei rapporti fra il lavoro manuale e la scienza; la separazione di quello da questa condurrebbe l'uno e
l'altra alla decadenza. Quanto alle grandi ispirazioni, di cui purtroppo si è tanto trascurato
di parlare nella maggior parte delle
discussioni sull'arte che ebbero luogo negli ultimi tempi, - ispirazioni che mancano ugualmente nel
dominio della scienza, - non possiamo aspettarcele se non da un'umanità che, spezzando le sue
catene
e i suoi impacci attuali, si lascerà guidare dai principii superiori della solidarietà e
abolirà la dualità che
esiste ancora nelle nostre teorie d'etica e nella nostra filosofia. È evidente che tutti possono
ugualmente gustare la gioia delle ricerche scientifiche. La varietà delle
inclinazioni è tale che alcuni troveranno maggior piacere nella scienza, altri nell'arte, e altri
ancora in
qualcuno dei numerosi rami della produzione delle ricchezze. Ma qualunque sia la sua occupazione
preferita, ognuno sarà tanto più utile in quanto possederà una seria cultura
scientifica. E, di chiunque
si tratti, - scienziato o artista, fisico o sociologo, storico o poeta, - ognuno acquisterebbe maggior valore
se passasse una parte della sua vita nell'officina, o nella fattoria, o, meglio ancora, nell'officina e nella
fattoria. Essere a contatto con l'umanità che lavora al suo compito quotidiano, e giungere alla
soddisfazione di sapere ch'egli pure si sdebita dei propri doveri di produttore non privilegiato della
ricchezza sociale, sarebbe per lo scienziato, come pure per l'artista, uno slancio di vita nuova, un
aumento del genio creatore. Come comprenderebbero meglio l'umanità, lo storico e il
sociologo, se la conoscessero, non già
attraverso i libri, non da un piccolo numero di suoi rappresentanti, ma nella sua integralità, e
dopo averla
veduta nella sua vita, nel suo lavoro, nei suoi affari di tutti i giorni! Come la medicina sarebbe
più
fiduciosa relativamente all'igiene, e quanto minore assegnamento farebbe sulle sue ricette, se i giovani
medici fossero gl'infermieri degli ammalati, e se le infermiere e gl'infermieri ricevessero l'istruzione dei
medici del nostro tempo! Come il poeta sentirebbe meglio le bellezze della natura, come sarebbe
più
profonda la sua conoscenza del cuore umano, se, contadino egli stesso, contemplasse il levar del sole
stando in mezzo ai coltivatori della terra, e se lottasse contro la tempesta al fianco dei marinai, suoi
fratelli, e se conoscesse la poesia del lavoro e del riposo, i dolori e la gioia della lotta e della vittoria!
-
"Greift nur hinen ins volle Menschleben", diceva Goethe. "Ein jeder lebt's - nicht
vielen ist's bekannt".
Ma come son pochi i poeti che seguono il suo consiglio! La così detta "divisione del lavoro"
è nata sotto un regime che condannava la massa degli operai a
lavorare duramente per tutto il giorno e per tutta la vita allo stesso genere di fastidioso lavoro. Ma se
consideriamo quanto siano poco numerosi i veri produttori di ricchezza, nella nostra società
attuale, e
come il prodotto dei loro sforzi sia sprecato, siamo costretti a riconoscere che Franklin aveva ragione
di dire che cinque ore di lavoro ogni giorno sarebbero sufficienti ad assicurare a ciascun membro di una
nazione civile il benessere che oggidì è accessibile soltanto a pochi, purché
ognuno si assumesse la sua
parte di lavoro nella produzione. Ma abbiamo fatto qualche progresso, dal tempo in cui viveva
Franklin, e alcuni di tali progressi
verificatisi nel ramo di produzione che finora era rimasto più in ritardo, - l'agricoltura - furono
da noi
segnalati in un nostro libro. Anche in questo ramo, la produttività del lavoro può essere
accresciuta in
proporzioni considerevoli, e il lavoro stesso può esser reso facile e gradevole. Ebbene: se
ognuno facesse la propria parte di produzione, e se tale produzione fosse socializzata, come
ci sarebbe indicato da un'economia sociale mirante alla soddisfazione dei sempre crescenti bisogni di
tutti, - allora resterebbe ad ognuno più della metà della giornata di lavoro, per dedicarsi
all'arte, alla
scienza o a qualsiasi altra distrazione preferita. E il lavoro di ognuno nel campo artistico o
scientifico sarebbe tanto più profittevole in quantoché
ognuno avrebbe impiegata l'altra metà della giornata per un lavoro produttivo. L'arte e la scienza
ci
guadagnerebbero se fossero coltivate soltanto per pura inclinazione e non con uno scopo mercantile.
D'altra parte, una società organizzata sul principio che tutti i suoi membri dovessero partecipare
alla
produzione sarebbe ricca abbastanza per poter decidere che ognuno, a una certa età - a quaranta
o
cinquant'anni, per esempio - fosse esonerato dall'obbligo morale di partecipare direttamente
all'esecuzione del lavoro manuale necessario, così che potesse dedicarsi interamente a ricerche
scientifiche, a lavori d'arte o di qualsiasi altro genere. Così si garantirebbe pienamente la
libera ricerca nelle nuove regioni dell'arte e della scienza, la libera
creazione, il libero sviluppo di ognuno. E una tale società non conoscerebbe la miseria in seno
all'abbondanza. Ignorerebbe la dualità di coscienza di cui è compenetrata la nostra vita
e che paralizza
ogni nobile sforzo, e si slancerebbe liberamente verso le più alte regioni del progresso
compatibile con
la natura umana.
P. Kropotkin (da "Campi, fabbriche, officine", 1898)
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