Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 225
marzo 1996


Rivista Anarchica Online

Autonomia e libertà in Paul Goodman
di Pietro Adamo

Una concezione politico-sociale (e non solo) con cui vale la pena fare i conti.

Attivismo «creativo» e attivismo «trasgressivo»

«Per natura io non sarei fatto per la politica»: il rifiuto dell'azione politica tradizionale, nel contesto delle cosiddette democrazie occidentali, è ovviamente uno dei princìpi ispiratori dell'anarchismo goodmaniano. Ma, come per non pochi altri anarchici, l'azione propriamente politica non si riduce alle semplici operazioni di voto e delega della rappresentanza, ovvero alla sfera delle «funzioni coercitive dello Stato». A questa «politica della coercizione» Goodman oppone una teoria della «politica naturale» che si configura come un'estensione nell'ambito comunitario dei poteri creativi e immaginativi dell'individuo: le iniziative del privato in campo sociale «che non sono usuali, che affrontano un'opposizione iniziale e che devono guadagnarsi l'accettazione, sono politiche». Adattando una delle idee cardine dell'anarchismo classico, Goodman postula l'esistenza di una sfera sociale in cui ogni singolo sia libero di proporre esperimenti innovativi: in una «società libera» ciò non potrà configurarsi come una «politica coercitiva», perché, «se l'idea fosse erronea [...], allora il libero giudizio della gente resisterà con sicurezza, dal momento che in campo ci sono magari altre idee positive».
Nella scena contemporanea questo genere di attivismo è reso possibile dall'esistenza di aree di libertà, intese non solo come zone franche dal punto di vista sociale, ma anche come zone in cui può esplicarsi la libera azione del pensiero. A parere di Goodman non sono pochi gli esempi di come, nel corso della storia, «siano sorte grandi cose dall'ambito dell'economia quotidiana e dell'esistenza domestica». L'azione politica dei libertari consiste quindi nell'esercitare la loro creatività in spazi sociali e intellettuali in cui è possibile combattere il cosiddetto «sistema organizzato»: «ogni proposta nuova e radicale, relativa al campo della cultura e delle istituzioni», scrisse in Growing up Absurd, «inventa e scopre una nuova proprietà della natura umana», contrapponendosi così alla coercizione artificiale e alla «politica innaturale» dello stato.
Del resto, i libertari hanno a disposizione anche uno strumento di intervento più immediato e diretto nel loro confronto con il potere consolidato. In uno dei momenti più critici della sua carriera - la stesura del May Pamphlet nel corso del 1945 - Goodman indicò il fondamento di una politica libertaria nell'«incoraggiare un aumento di quelle precise azioni e atti per cui le persone sono di fatto sbattute in galera», fornendo - in questo caso - una giustificazione teorica della renitenza alla leva. Non si trattava di un semplice invito alla trasgressione generalizzata - tanto, notò, «non credo che il nostro piccolo numero intaserebbe le prigioni» - ma invece della richiesta che si prendesse atto della relazione tra la coercizione giuridica e quegli atti che minavano, in se stessi, la struttura del «sistema organizzato». Nel May Pamphlet Goodman si sforzò di mettere al servizio della nozione di «società naturale» - ovvero di una società fondata sulla crescita spontanea e articolata della comunità - le sue nozioni psicanalitiche e antropologiche, conferendo nuova attualità alle idee di Kropotkin. Appropriandosi di un termine di Auguste Comte, Goodman sostenne che la Società moderna (con la maiuscola) era fondata sulla «sociolatria», ovvero sulla «preoccupazione che le masse alienate dalla loro natura più profonda sentono per il corretto funzionamento della macchina industriale che dovrebbe assicurar loro un più alto tenore di vita». Il tratto caratteristico di questo tipo di organizzazione sociale consiste nell'introiezione, da parte dei cittadini, dei meccanismi repressivi: «la separazione tra gli interessi naturali e la condotta istituzionale non è solo il segno della coercizione, ma è anche potentemente distruttiva per la società naturale». Il libertario deve infine saper distinguere tra gli atti «dannosi per qualsiasi società» (per esempio l'omicidio) e quelli invece «dannosi» solo per i poteri costituiti.
Tuttavia le argomentazioni di Goodman si imperniano su una «liberazione» individuale, sui processi che conducono innanzi tutto alla maturazione etica dei singoli. Lo scopo della riflessione è di produrre «un allentamento della propria disciplina [sociale]»:
Una volta libero dal pregiudizio sugli atti criminosi, il libertario deve sempre agire di conseguenza. Se qualcosa suona vero per la sua natura, se sembra importante e necessario per se stesso e i suoi compagni nel momento presente, lo faccia con gioia e buona volontà morale. [...] Azione autonoma vuol dire vivere nella società attuale come fosse una società naturale.
Alla base dell'azione politica deve quindi trovarsi la consapevolezza del contrasto tra l'etica naturale del «mutuo appoggio», dei vincoli comunitari e dell'autonomia del singolo e le convenzioni sociali di cui il «sistema organizzato» si serve per mantenere il suo ordine fittizio. In questo senso le giustificazioni dell'intervento nelle faccende «politiche» si colorano, nell'ottica di Goodman, di profonde motivazioni etiche sul piano individuale: il libertario sceglie l'attivismo in primo luogo per rispetto nei confronti di se stesso e delle sue nozioni di «società naturale». La sua azione diventa così «espressione delle sue potenzialità più profonde» e più vere. Nel contempo, essa deve essere pragmatica: la trasgressione, per trasformarsi in politica, deve essere applicata, e non configurarsi come pura liberazione della mente. Contrapponendosi a «Croce e agli altri idealisti hegeliani», nei suoi quaderni Goodman scrisse di «sentirsi corrotto dalla libertà dello spirito, dallo studio di troppe opere di verità e bellezza, dalla mancanza di attenzione per la cultura popolare, dal non aver preso sul serio la politica spuria». L'alternativa era ciò che egli stesso aveva definito personalist politics: una estrinsecazione pratica - si tratti di un intervento «creativo» o di uno «trasgressivo» - della moralità individuale. Il punto di riferimento è Thoreau, insieme a quella tradizione di dissenso protestante che tanta parte ha avuto nel modellare l'anarchismo americano.

Dall'antinomianesimo alla Personalist Politics

Anche in questa prospettiva Goodman rientra pienamente nella tradizione libertaria statunitense: per lui, come per gli esponenti dell'anarchismo americano ottocentesco, l'esperienza della Riforma è uno dei punti cardine dello sviluppo della modernità e dello stesso ethos libertario. Si tratta di una delle «premesse dei tempi moderni»: il suo ruolo è stato quello di «liberare i singoli dalla dominazione dei preti» e di condurre poi alla «tolleranza della coscienza privata». L'argomento non sorprende: negli Stati Uniti l'esperienza della fondazione della nazione e dei suoi valori è inestricabilmente connessa all'eredità puritana, sia nei suoi aspetti «autoritari» sia nei suoi aspetti «liberatori». I riferimenti alla tradizione del libertarismo protestante attraversano quindi anche l'opera di Goodman con effetti epifanici. Nei suoi quaderni, dopo aver esposto alcune riflessioni su Emerson e Thoreau, l'ebreo Goodman annotò: «Comparo quindi la nostra situazione alla Puttana di Babilonia che affrontarono i Riformatori». Il suo romanzo forse più autobiografico, Making Do (1963), si chiude su una nota di speranza, con un invito a continuare nella battaglia e nella sperimentazione sociale, espresso non paradossalmente da una citazione del sermone che il predicatore separatista John Robinson predicò ai Padri Pellegrini in partenza per l'America nel 1620.
Nella cultura americana i temi associati al versante libertario del protestantesimo radicale - autonomia della coscienza individuale, obbligo morale del giudizio privato, valorizzazione del pluralismo, apologia dell'indipendenza delle comunità religiose (da cui i corollari dello sviluppo di un'etica antistatalista e della maturazione di un ethos decentralista) - ricompaiono costantemente. Lo stesso Goodman, con la sua usuale intuizione storica, ha distinto gli effetti storico-culturali prodotti dalla Riforma istituzionale e dalla «maggior parte delle sette» - che hanno consegnato l'individuo a una laicità consumistica e alla cieca sottomissione a un presunto «sistema economico razionale» - da quelli prodotti per esempio dalle «Chiese congregazionaliste», parte integrante della «storia» dell'anarchia. I suoi riferimenti a quella parte del patrimonio culturale dell'anarchismo americano legato al radicalismo protestante sono rilevanti. Nel contesto dell'analisi dell'azione politica libertaria, due aspetti saltano agli occhi: il riferimento alla tradizione antinomiana come base intellettuale per la trasgressione delle norme costitutive del «sistema organizzato» e l'interpretazione dell'intervento del singolo su base «personalistica».
Nella prospettiva di Goodman la consapevolezza dell'irrilevanza etica delle norme sociali e politiche e della loro funzionalità agli scopi del «sistema organizzato» è uno degli elementi che definisce l'identità libertaria. Ciò che contraddistingue l'azione degli anarchici è il loro superiore rispetto per le regole dell'associazione naturale, che conferisce loro un'«abitudine alla libertà» contrapposta all'«abitudine alla coercizione», nello stesso modo in cui l'antinomiano concepiva la liberazione come la maturazione personale di un'etica «trasgressiva» (rispetto alle regole del cristianesimo ortodosso) che gli concedeva libertà d'azione inusitata. Nel May Pamphlet il debito nei confronti di questo modello teologico-politico è esplicitato:
Il caso è uguale alla vecchia distinzione in teologia tra la legge antica e la nuova. Nella prima sono tutti colpevoli, nella seconda tutti si possono salvare con facilità. Vediamo nei fatti che chiunque abbia ancora vita ed energia sta continuamente manifestando una qualche forza naturale, ritrovandosi di fronte una coercizione innaturale.
Se questa «manifestazione» si configura come obbligo morale, l'azione politica diventa un'esigenza specificamente individuale, à la Thoreau. Di fatto, questa è una delle principali caratteristiche di Goodman. Taylor Stoehr, che ha curato le edizioni postume dei suoi scritti, ha dichiarato che parte del fascino personale di Goodman derivava dalla coerenza con cui egli cercava di mettere in atto la sua teoria dell'azione politica libertaria: da un lato «creatività» progettuale, dall'altro aperta «trasgressione». Uno degli aspetti più notevoli del suo stile e del suo pensiero è la costante presenza del suo «io» nelle pagine da lui scritte: Goodman ha sempre più accentuato questo elemento nei suoi libri, trasformando l'impersonale prosa del May Pamphlet nelle divagazioni aneddotiche di New Reformation (La nuova Riforma).

Etica libertaria e sperimentazione fallibilista

Questa concezione dell'attivismo politico, che si esplica in progettualità pratica e in trasgressione sociale, prefigura uno sviluppo del mutamento graduale e costante. Nonostante la piena comprensione del contrasto tra la vocazione riformista libertaria e l'ideologia rivoluzionaria abbia preso forma completa solo nel momento di massima frizione con le frange leniniste del Movement, sin dai primi anni Quaranta Goodman si dichiarò convinto che «una società libera non può essere l'imposizione di un ordine nuovo al posto di quello vecchio: è [invece] l'ampliamento degli ambiti di azione autonoma fino a che questi occupino gran parte del sociale». A suo parere ciò richiedeva un confronto continuo tra l'«innovatore» - soggetto/oggetto di una irrinunciabile personalist politics - e la comunità che rappresentava il suo reale punto di riferimento. L'innovazione stessa - ovvero il vettore di cambiamento sociale specificamente «libertario» - era contemporaneamente un atto di scoperta e un atto di conservazione: il suo punto di riferimento era una «natura umana» immutabile, per lo meno nei suoi tratti essenziali.
L'azione degli anarchici si configura quindi come una sperimentazione continua, un tentativo costante e ininterrotto di proporre «progetti pratici e analisi utopiche» ai gruppi sociali dominati dalla sociolatria, nel tentativo di portarli progressivamente dallo stato di Società a quello di comunità. In questo senso il libertario non rinuncia alla sua autonomia, né contamina la sua purezza di «eletto», se si impegna con tutte le sue forze in un confronto diretto con gli strumenti che il «sistema organizzato» ha forgiato a sua difesa. Nel capitolo finale di Growing up Absurd Goodman elenca in bell'ordine gli elementi costitutivi - mentalità, miti, istituzioni, esperienze educative - della Società, enucleandone sia le interpretazioni «sociolatriche» sia le potenzialità in senso libertario, descrivendo in pratica le sfere in cui è necessario impegnarsi per valorizzare l'approccio comunitario.
Goodman insisterà ripetutamente nel concettualizzare l'azione anarchica come azione millenarista piuttosto che utopista - anche in questo mediando probabilmente la terminologia dalla tradizione del protestantesimo radicale - intendendo con questo la ricerca di una soluzione «nel qui e ora», nell'ambito dei «gruppi naturali essenziali» per il libertario. Questa azione deve essere sperimentale e pragmatica, non deve rinunciare ai suoi obiettivi, ma non deve parimenti rinchiudersi in una logica massimalista: «sin dall'inizio i problemi e i fini ispirano e danno energia a un'iniziativa, creando mezzi e metodi; il problema o il fine viene trasformato e precisato mentre l'iniziativa viene sviluppata». Ed è in questa operazione, in questo continuo adattamento di logiche, mezzi e metodi alla situazione concreta e ai fini, che l'etica anarchica trova un punto di equilibrio tra il rapporto con il «sistema organizzato» - reso necessario dalla volontà di «agire» su di esso e dalla disponibilità ad «usare» in senso libertario gli strumenti che esso ha pervertito con la sua logica sociolatrica - e la conservazione dell'identità libertaria stessa. La concezione dell'intervento sociale di Goodman, sperimentale e «utopica», sembra riflettere quello spirito fallibilista che ha per molti versi modellato le dottrine epistemologiche e politiche di alcune delle comunità protestanti più estremiste. Per i fallibilisti non vi era modo di giungere a verità ultime e definitive; tutte le strade restavano aperte; solo la controversia, la disputa, il conflitto, assicuravano la crescita della conoscenza e quindi il miglioramento continuo. Goodman sembra sposare in pieno istanze di questo genere, etiche prima ancora che epistemologiche e non rare nella tradizione anarchica. A suo parere è necessario «evitare la concentrazione del potere proprio perché gli uomini sono fallibili». La funzione delle istituzioni è quindi quella di incoraggiare la sperimentazione; esse non si fondano affatto sul bisogno di ordine, ma piuttosto sulla loro «utilità nello sviluppo delle potenzialità dell'intelligenza, della grazia e dell'intelligenza umana»: da questo punto di vista esse sono solo «deliberati esperimenti sociali». Era questa la prospettiva di alcuni padri fondatori. Madison, per esempio, spiegava nel seguente modo - sempre secondo Goodman - «i vantaggi del decentralismo»: «ogni unità autonoma può sperimentare; se l'esperimento fallisce, solo una piccola unità subisce il danno, mentre le altre possono evitarlo; se ha successo, lo si può imitare con vantaggio di tutti». L'insistenza di Goodman sul principio della libertà di discussione e di pensiero, che in questa ottica sperimentale ed «utopica» si rivela decisivo per la crescita della comunità, rivela non solo il suo rispetto per le conquiste della civiltà liberale, ma anche il suo debito nei confronti della tradizione libertaria protestante:
Per Milton, Spinoza o Jefferson, la libertà di discussione era la forza della società. La loro teoria era che la verità aveva potere, all'inizio debole, ma saldo e cumulativo, e nel libero dibattito la condotta corretta sarebbe emersa e avrebbe vinto. Né si aveva altro metodo per giungere alla verità, dal momento che non c'era altra autorità che potesse decretarla se non il popolo. E quindi per avere una politica saggia era essenziale che chiunque dicesse la sua; e più erano disparate le prospettive e profonde le critiche, tanto meglio.
Questa posizione goodmaniana antidogmatica si è dispiegata appieno proprio sulla questione dell'identità libertaria.
Non casualmente: ancora in New Reformation il «riformista» è stato costretto a difendersi dall'accusa di «collaborazionismo». E tuttavia già nel May Pamphlet, e in particolare in Reflections on Drawing the Line (Tracciare il limite), l'obiettivo principale era il tentativo di identificare questa problematica barriera. Goodman la definiva qui in termini «sperimentali» e individuali. Ogni libertario, fermo restando il suo impegno verso il cambiamento in senso «creativo» e/o «trasgressivo», traccia una «linea di confine» personale, frutto dei «conflitti interiori» che plasmano la sua personalità, della sua singolare storia privata, irriducibile a quella di chiunque altro: «qualcuno testimonierà nei loro tribunali, ma non pagherà le tasse; qualcun altro scriverà una lettera, ma non muoverà un passo; un altro ancora sarà disgustato dal semplice pane e digiunerà». Il ragionamento giunge al culmine ancora con un'argomentazione antinomiana: «l'uomo libero» non ha alcun bisogno di «tracciare la linea» nelle «assurde condizioni che ha disdegnato fin dall'inizio», poiché per lui - liberato da pregiudizi e autonomo nelle elaborazioni - i limiti posti dalla «coercizione innaturale» dello Stato sono analoghi alle altre «forze distruttive della natura bruta». In altri termini, la «linea» viene tracciata interiormente, quasi immunizzando il libertario dai nefasti influssi del «sistema organizzato».

La comunità che non abbiamo

Nella conclusione di New Reformation Goodman tornò ai temi di Communitas, proponendo ai giovani di concentrarsi sui temi dello sviluppo delle libertà locali. La sua filosofia di decentramento urbanistico era per certi versi alquanto semplice: semplificare e disperdere (citato naturalmente Ernst Schumacher, il futuro autore di Piccolo è bello). I problemi tecnici erano superabili: «liberi cittadini» potevano facilmente risolverli, adottando criteri di riduzione dell'amministrazione, di federazione tra comunità, di controllo dal basso delle burocrazie. Tale progetto pratico di ristrutturazione politica e sociale della comunità metteva l'accento sull'eliminazione delle pastoie che lo Stato centralizzato e la burocrazia mettevano al libero sviluppo della professionalità, del mercato del lavoro, della vocazione dei singoli. Questa prospettiva pragmatica, fondata sul decentramento e la regionalizzazione, era incompatibile con la concezione dell'attivismo prevalente nel Movement, in cui il fine ultimo sembrava essere la conquista del «potere» in senso tradizionale. «I problemi del traffico, dell'ammasso di spazzatura, dell'inquinamento, della densità, del rinnovo urbano, della divisione in zone e l'uso di tecnologia urbana» sono centrali per rendere vivibili le città, affermò Goodman, ma «richiedono un tipo di pensiero professionale e di azione politica» diverso da quello dei giovani militanti. Anche in questo caso l'argomento si avvita al tema della comunità. Si tratta ovviamente di un elemento centrale nelle elaborazioni di Goodman, si tratti di pedagogia o urbanistica, di economia o politica, di autonomia individuale o di norme sociali. Non sorprendentemente, nei suoi testi e nel complesso dei suoi interventi, nonostante innumerevoli suggerimenti, prescrizioni e descrizioni, manca una trattazione esauriente - verrebbe quasi da dire: sistematica! - della sua concezione di comunità. Dobbiamo quindi ricostruirne le caratteristiche basandoci sulle indicazioni frammentarie e a volte vaghe presenti nei suoi testi e nei suoi interventi. Per quel che riguarda l'identificazione dell'ente «comunità», i punti di riferimento sembrano essere due, il primo di carattere intellettuale, il secondo di carattere storico. Pëtr Kropotkin nel Mutuo appoggio e in Campi, fabbriche, officine aveva fornito un paradigma di comunità che ha ispirato generazioni di pensatori, da Ebenezer Howard a Patrick Geddes, da Lewis Mumford a Ralph Borsodi, sino a Ernst Schumacher e Murray Bookchin. Kropotkin aveva auspicato la formazione di «piccole unità territoriali» autonome, unite tra loro da vincoli di associazione e federazione e fondate su una concezione del lavoro che metteva l'enfasi sulla sua integrazione armonica, e senza coercizione, con le altre attività umane. Urbanisti, architetti, sociologi, filosofi e «utopisti» vari hanno usato la visione di Kropotkin per valorizzare questo o quell'aspetto della comunità. Nel 1948 Goodman doveva anch'egli riconoscersi esplicitamente in questa «scuola» nella sua celebrazione del cinquantenario di Campi, fabbriche, officine. Se Kropotkin e coloro che ne erano stati ispirati rappresentano uno dei poli immaginativi della comunità di Goodman, l'altro è dato dalla concreta esistenza nell'America del passato di «piccole unità territoriali» che per alcuni versi soddisfacevano i criteri indicati nel Mutuo appoggio e in Campi, fabbriche, officine. Come abbiamo visto, Goodman riteneva che nell'America coloniale, e ancor più in quella degli Articoli di Confederazione, si fosse sviluppato uno spirito libertario e antigerarchico che aveva modellato interrelazioni sociali, stili di pensiero, modelli di convivenza e una particolare concezione della vita comunitaria, e che, a suo dire, era sempre pronto a riemergere nelle complesse vicende dell'ethos americano, sino alla «piccola anarchia» di Berkeley. Se l'enfasi sul decentramento e i suoi corollari pratici costituisce il tratto più appariscente del progetto di ricostruzione comunitaria di Goodman, la sua insistenza sui valori dell'individualità e del conflitto ne è forse l'aspetto più originale. Come abbiamo visto, Goodman per certi versi immaginava la comunità come una palestra per sperimentazioni sociali, politiche, economiche, sessuali, ecc.; in questo locus della mente gli individui avrebbero dovuto interagire esplicando al massimo le loro potenzialità e la loro creatività, offrendo i propri peculiari contributi, si trattasse di invenzioni tecniche, soluzioni sociali, nuovi stili di vita. Nel contempo i membri della comunità, consapevoli della natura «fallibile» di ogni istituzione e di ogni progettualità, avrebbero esaminato razionalmente e senza pregiudizio le proposte che venivano avanzate. Nonostante qualche mancanza - non mi sembra che negli scritti di Goodman sia presente una riflessione specifica e articolata sugli spazi del dissenso nella sua comunità ideale o, di converso, sui metodi e gli strumenti legittimi che quest'ultima potrebbe usare per liberarsi degli «esperimenti» non graditi - questo modello riflette una nuova consapevolezza della natura della società complessa: la «comunità» goodmaniana, pur fondata sulla condivisione di legami primari, è altresì basata sul riconoscimento che la differenza costituisce anch'essa un valore fondante e positivo.
Le esperienze comunitarie tradizionali potevano a volte divenire «tiranniche, illiberali e statiche»: l'alternativa era il rifiuto della «provincialità» e del «conformismo» e l'adozione di una mentalità «cosmopolita e razionalista, postcentralista e posturbana», non aliena dal produrre novità e innovazione. Da questo punto di vista il riferimento era il kibbutz israeliano (in cui forse venivano riposte troppe speranze). La proposta di Goodman, per quanto non del tutto precisata ed elaborata, è ancora oggi viva e vitale. I tentativi di dar vita a comunità autonome nell'ambito della controcultura non hanno dato risultati troppo felici: come ha scritto Ronald Creagh, storico del movimento comunitario, «il rigetto dei leader, la loro assenza, il rifiuto anarchico di riconoscere un'autorità al gruppo in quanto tale, persino di ricercare il consenso, la diffidenza rispetto all'opinione collettiva, non hanno quindi portato al superamento dei problemi». Le comuni che più debbono all'ethos anarchico sono state spesso un fallimento. Non a caso Murray Bookchin, che ha partecipato personalmente a esperimenti comunitari (tra cui quello celebre di Cold Mountain Farm), ha costruito la sua recente ipotesi di «municipalismo libertario» su una serie di premesse e di analisi che mostrano palesi assonanze e affinità con quelle esposte da Goodman trent'anni fa. Il caso di Bookchin è emblematico. All'interno dello stesso movimento libertario pare oggi registrarsi un nuovo interesse per i progetti di trasformazione sociale a «spizzichi». In una situazione storica in cui le speranze rivoluzionarie in senso «classico» appaiono irrimediabilmente impraticabili, i libertari cominciano a misurarsi con i dilemmi posti dalla società tardoindustriale usando metodologie pragmatiche non lontane dall'ideale di Goodman: non pochi iniziano a pensare che per giungere a una società giusta sia prima necessario avere una società tollerabile. E questo pare un obiettivo tanto realistico quanto utopico.