Rivista Anarchica Online
Anarchici sul fronte del cinema
di Paolo Gobetti
Cinque anni fa, sulla rivista Il nuovo spettatore di cui era direttore, Paolo Gobetti pubblicava questa
panoramica della
cinematografia libertaria durante la Rivoluzione Spagnola del '36. La ripubblichiamo anche come omaggio alla memoria
dell'amico appena scomparso.
Nello scompartimento del treno di Zéro de conduite, in quel meraviglioso dialogo senza parole dei due ragazzi
Caussat e
Bruel che vanno in collegio, c'è forse la a, l'alfa di un cinema anarchico: nei ragazzi che, dopo il sogno di
libertà nella notte
della battaglia dei piumini nel dormitorio, si trovano sui tetti del collegio a gettare sassi contro il preside e le
autorità che
lo attorniano, con l'indimenticabile inno della libertà di Vigò e Maurice Jaubert, c'è invece la z,
l'omega di un cinema che
non ha avuto domani. Ma che ci può essere di più costituzionalmente irrealizzabile, per definizione utopico,
di un cinema
davvero libertario? Solo i commercianti, usi a contare seralmente i soldi ritirati al botteghino, possono tracciare (e
teorizzare) bilanci del
cinema americano, il cinema di consumo per eccellenza. Solo forse gli stalinisti possono tirare le somme dei vari realismi
(neo, socialisti, poetici o veri: e mettiamoci pure il verismo!) con la loro predisposizione all'ordine, alla burocrazia, alla
statistica, alla schedatura (tutte caratteristiche per altro tipiche tanto degli stati di polizia quanto di quelli democratici: e
già, infatti sono Stati; abbiam detto poco!). Ma il cinema anarchico, quand'anche c'è (o ci fosse)
è destinato a fare a meno degli storici: perché se fossero veri anarchici
si contraddirebbero in partenza; e se invece non lo sono non possono che esserne gli affossatori. (L'unica volta che ho letto
la definizione di montaggio anarco sindacalista è stato sull'Unità, ed era chiaramente usato con intento
molto critico:
l'autore l'usava addirittura come un insulto!). In questo breve scritto non voglio quindi, non ho certo la presunzione,
di fare una, sia pur condensatissima, storia del
cinema anarchico, ma semplicemente una qualche osservazione (e questa sì che vorrei anarchica) su quel momento
memorabile e irripetibile, in cui i lavoratori dell'industria dello spettacolo di Barcellona, all'indomani della grande battaglia
contro il colpo di stato militare, fascista e confessionale del 18 luglio 1936, si sve gliarono con il potere in mano. O
meglio, nessuno avrà più il potere, senza volerlo prendere, occuparono un posto che era
rimasto vuoto. Le organizzazioni sindacali (era la gloriosa Confederation National del Trabajo - Cnt) socializzarono le
imprese (con la rivoluzione non c'erano più padroni) e cercarono di mettere in moto tutto: vita, produzione,
società, idee,
attività. Un mondo apparentemente rovesciato, che in realtà poteva incominciare a camminare
diritto. In quei giorni i lavoratori della Catalogna, di Barcellona e dell'Aragona, con la loro fulminea rivoluzione
avevano
cancellato, la precedente organizzazione sociale, qualsiasi struttura statale. A quel tempo della Cnt facevano parte
più di
un milione, operai, contadini, artigiani. Companys, che fu poi presidente della Catalogna, (e che i franchisti fucilarono poi
brutalmente), il 19 luglio, alla Generalitat della Regione, dove si riunirono i comité rivoluzionari, offrì agli
anarchici le
chiavi della città, della regione: ma solo come qualcosa da abbattere. E si diede inizio a un colossale esperimento
di società
gestita direttamente dai sindacati (anarchici), da chi lavorava, per chi lavorava. In condizioni disastrose perché
mancava
tutto e c'era la guerra: i carri armati di Mussolini, gli Junkers di Hitler, i marocchini del generale Franco, appoggiati da
chiesa, possidenti e industriali, avanzavano da sud con i loro plotoni di esecuzione (non risparmiano neanche Garcia Lorca)
appoggiandosi alla "quinta colonna", che, spiace ricordarlo, si annidava in conventi e chiese, e sparava dai campanili.
le pesetas bruciate
Ma a Barcellona - chi ha vissuto quei momenti incredibili, ricorda quel mare di bandiere rosse, di entusiasmo rosso
che
saliva come rabbia, come una rifrazione di calore, da tutta la città, dalle Ramblas a Montjuich - la rivoluzione
andava
avanti: ha osato l'utopia: nelle piazze, davanti alle banche, la gente bruciava i soldi, le pesetas. Un mercato, forse primitivo,
ma davvero libero regolava gli scambi: il primo valore non erano i beni, ma la persona umana. In questa situazione non
può essere difficile immaginare quale fosse lo stato d'animo con cui i lavoratori dello spettacolo
hanno affrontato il compito di inventare il nuovo cinema tra entusiasmo, illusioni, confusione. Tra il 1932 e il 1936 erano
stati girati a Barcellona, da varie società, 57 film (a Madrid ancora meno, 48). Pellicole soprattutto musicali, o
folcloristiche
o clericali, e qualche commedia. Non si tratta di una grande industria, il che pone difficoltà, esiguità di
mezzi e di
attrezzature, ma d'altro canto, offre forse maggior libertà, maggior stimolo all'invenzione.Manco a dirlo la maggior
parte
dei registi si trova dall'altra parte: sono parecchi quelli che continuano la loro carriera negli studi di Berlino e di Roma.
Ma i lavoratori devono intanto risolvere vari problemi immediati. Il primo, quello della riapertura delle 114 sale
cinematografiche della città: già il 16 agosto il sindaco annuncia su Solidaridad obrera, il quotidiano della
Cnt un "progetto
di strutturazione economica" approvato in assemblea e il 9 riprendono le proiezioni: i lavoratori veglieranno a che non
vengano proiettati film di netta tendenza reazionaria che discreditino i principi di libertà e umanità difesi
dalla Cnt. I diritti
dei lavoratori erano opportunatamente garantiti, ma anche i proprietari o esercenti erano tutelati: avevano diritto a un
salario che poteva arrivare al doppio di quello di un operaio. L'altro problema, e chiaramente non il minore, è
quello della guerra. In questo clima di mobilitazione, prima di pensare
ai film a soggetto, c'è da soddisfare l'esigenza primaria di informazione e di lotta: documentare gli avvenimenti
della
rivoluzione e del fronte. Prima ancora che si costituisca l'organizzazione del Sie (Sindacato de la Industria del
Espetàculo) che
realizzerà tutte le pellicole anarchiche di Barcellona, sin dal luglio la Cnt mette in circolazione un documento che
all'inizio
si presenta semplicemente come "movimiento revolucionario" con l'immagine di una ardita combattente che brandisce un
fucile, prodotto dalla Oficina de Informacion y propaganda de la Cnt-Fai(1). Poi diventerà ufficialmente Reportaje
del
movimiento revolucionario en Barcelona. Sono riprese, effettuate da Ricardo Alonso, nei quattro giorni 19-23 luglio,
montate da Antonio Cànovas e con la direzione di Mateo Santos, e documentano , a caldo, l'atmosfera di quei
giorni: da
una parte la rabbia e l'odio per gli autori del sanguinoso tentativo di colpo di stato, i militari "faziosi", i borghesi e i
rappresentanti della Chiesa che da conventi e chiese trasformati in fortezze aprono il fuoco contro la gente "per odio
frenetico delle libertà"; dall'altra l'entusiasmo della città, la liberazione dei detenuti e la partenza per il
fronte aragonese
delle prime colonne anarchiche guidate da Durruti e Perez Farràs. È un documento, purtroppo oggi monco
(ne restano
20'91"), ma estremamente interessante, e che val la pena di studiare attentamente, e di rivedere. Sono le prime immagini
senza "censura borghese": l'operatore certo si sente sbalestrato, tra l'eccitazione, l'entusiasmo, la difficoltà di essere
ovunque e il desiderio di riprendere tutto. Così si affida all'istinto, al caso. Alcune immagini sono straordinarie.
Si sente
che l'improvvisazione può far meglio di tecnica, preparazione, regole quando ci si muove in accordo con
l'avvenimento
che si riprende. La qualità delle inquadrature dipende dal mestiere, ma la capacità di scelta dipende dalla
coincidenza di
quel che si sente con quel che accade. I miliziani hanno occupato gli studi cinematografici della Orphea-Film e di
Trilla, che diventano semplicemente Studio
n.1 e Studio n.2. In via Caspe 25 si istalla un comitato di produzione che, come riferisce ancora Solidaridad obrera, intende
dare al cinema "un orientamento sociale e innovatore, in sintonia con le aspirazioni delle masse che hanno lanciato la
grande epopea che si sta vivendo nella Penisola". Una cinquantina di persone è impegnata oltre che alla
realizzazione dei film, nella creazione di una biblioteca specializzata,
corsi di cinema, un comitato di propaganda. Aderisce all'impresa anche un operatore svizzero che già lavorava
in quegli
studi da cinque anni, Adrien Porchet. E lo portano a girare al fronte, sull'Ebro. I suoi ricordi, in un'intervista concessa
nell'ottobre 1981 a Michel Froidevaux (che stava preparando uno studio sulle collettivizzazioni) aiutano a ricostruire
l'atmosfera del tempo: Lavoravamo in 35mm. Avevo una Debrie da 120m e due piccole Bell & Howell da 30m
a mano, ed eran quelle che usavano
di più... Le bobine venivano inviate a Barcellona per lo sviluppo. Per il suono c'erano dei furgoni di registrazione,
ma il
tecnico del suono della Fox che se ne occupava aveva dichiarato di poter garantire la sonorizzazione solo a patto che gli
stendessimo un cavo dal fronte a Barcellona: così è chiaro che abbiam dovuto girare senza il suono! Quel
che era davvero
duro era il dover filmare, con la cinepresa in spalla, i compagni miliziani feriti, o morti. Io stesso sono stato ferito da
schegge di cannonate a Siétamo... Quando, nel novembre 36, Durruti è andato a difendere Madrid con una
parte della sua
Colonna, son ritornato a vivere a Barcellona (2).
senza bisogno di capi
L'impresa di inventare, anche con la pellicola, un mondo nuovo trascina tutti e compie miracoli. Le varie prove
maturano
le capacità di operatori e registi. Attraverso Los aguiluchos de la Fai por tierras de Aragòn (tre reportages
sulla presa di
Bujalaroz, la lotta a Pina de Ebro e a Siétamo), La batalla de Farlete, Barcelona trabaja para el frente si mette a
punto, oltre
all'organizzazione tecnica, un modo di presentare gli avvenimenti, uno stile nel riprendere le situazioni e sottolineare
problemi che mi pare diano un carattere particolare a questa produzione. Abbiamo visto, prima e poi centinaia di
documentari di guerra, dalle personali interpretazioni di Ivens, alle notizie cinematografiche dei cinegiornali tedeschi (Ufa
e Deutsche Wochenschau), dei Luce italiani, a quelle Pathé, Universal, Metro, ecc., per non parlare dei reportage
televisivi
di questi ultimi decenni: ma non mi pare che si siano raggiunti mai risultati come quelli che l'équipe della Sie
(Adrien
Porchet, Felix Marquet, Miguel Mutino come operatori, Juan Palleja come montatore) ottiene documenti come La columna
de hierro, Division heroica, El cerco de Huesca. Tutto molto semplice, un racconto diretto, piacevole, essenziale, qualche
enfasi di troppo nel commento (ma bisogna anche tener conto del momento). Sono i testi che dovrebbero essere proposti
agli studenti di una qualsiasi scuola per operatori cinematografici (o televisivi) di attualità. Che cosa scegliere per
raccontare storie che non sono travolgenti, che non sono scoop (certo non andrebbe bene a Mixer!), a volte non sono
particolarmente drammatiche (la guerra è drammatica, ma la vita dei combattimenti è umana, quotidiana).
Ma sono sempre
commoventi, perché inducono a partecipare ai piccoli fatti di uomini impegnati a difendere le loro idee, la loro
dignità, la
loro individualità. Senza bisogno di capi, di strutture coercitive, di formale disciplina, di emblemi altri che la mitica
bandiera rosso e nera. Queste caratteristiche, diciamo così, ideali, si possono ritrovare anche nella struttura formale
del
prodotto, potrebbe osservare il semiologo: preferenza per i campi lunghi, mancanza di enfasi nel montaggio, scarso uso
nel commento della "connotazione", comunque sempre diretta, a differenza dell'abuso di quella indiretta di nazisti e
fascisti. Un altro gruppo di documentari cerca invece una strada diversa, inserendo elementi narrativi a soggetto: si va da
El frente y la retaguardia di Joaquin Giner, a En la brecha di Roman Quadreny (ma soggettisti di entrambi sono Roman
Olivares e C. M. Baena), Bajo el signo libertario, di Les, coordinatore Juan Pallejà (che abbiamo visto montare
in
documentari precedenti), e infine La silla vacia diretto da Valentín R. Gonzales, fotografia di Felix
Marquet. Dall'altra
parte col passar del tempo i cineasti anarchici si rendono sempre meglio conto che il loro compito non è solo di
documentare - anche se il documento del movimento rivoluzionario è una di quelle testimonianze irripetibili che
vanno al
di là del semplice servizio della registrazione, - ma di partecipare alla lotta con l'elaborazione di un racconto
cinematografico, che deve aiutare a capire le ragioni della lotta, le caratteristiche degli ideali per cui ci si batte.
si respira fantasia
E sempre le riprese di attualità si evolvono in questi casi in documenti che non rifuggono da elementi
costruttivi
necessariamente (magari grossolanamente) a soggetto. Pensiamo agli agitkj sovietici del tempo della guerra civile,
pensiamo ai documenti di Ivens (in cui è sempre ben presente la personalità e il pensiero dell'autore), per
non dire poi del
lavoro di Jean Renoir - è proprio di quegli anni - La vie est à nous, metà documento
e metà costruito. È la caratteristica
prima dei film "militanti". E questi che stiamo esaminando lo sono a pieno diritto: anzi sarebbe bene sottolineare la
differenza sostanziale tra questi cine-tracts e le classiche pellicole di propaganda: fasciste, naziste, staliniste, grevi di
banalità, ripetizioni, schematismi, artifici e in definitiva di menzogne. Qui invece, come in generale nei film
militanti, si
respira fantasia, c'è sforzo di ricerca, di invenzione: anche se spesso si rimane alle buone intenzioni, sincere
ingenue, ma
poco realizzate Forse, dei film citati, quello più significativo, non tanto nel tema (un giovane ambizioso che
alla vista di un ferito di ritorno
dal fronte, si arruola volontario nelle milizie, e finisce per cadere in combattimento) quando nell'integrazione della
recitazione di un attore (José Pal Latorre) con le riprese documentarie, è La silla vacia di Valentín
R. Gonzalez. Quello che
è singolare è che in effetti l'elemento di finzione, in apertura abbastanza vistoso (o forse non ben
giustificato), scompare
poi e tutta l'attenzione viene presa dal racconto documentario della lotta sul fronte d'Aragona. Ricordiamo qualche
cifra: gli anarchici di Barcellona realizzano 17 film sulla guerra nel 1936, 25 nel 1937 e 6 nel 1938,
quelli di Madrid 4 nel '36 e 10 nel '37; a questi vanno aggiunte altre pellicole allora definite di propaganda: 7 a Barcellona
e 2 a Madrid, tutte nel 1937; a queste Roman Gubern, aggiunge 4 pellicole di complemento sempre girate a Barcellona nel
1937. Queste cifre dimostrano la ricchezza e varietà di questa produzione prima che l'andamento della guerra e la
politica
governativa (e soprattutto quella comunista) non riducono sostanzialmente la presenza di questo campo degli anarchici:
il consigliere dell'Economia della Generalità della Catalogna, il comunista Juan Comorera, decreta nel giugno 1937
che
il dipartimento dei servizi pubblici (da cui dipende lo Spettacolo) cessa di essere autonomo e passa sotto il controllo del
dipartimento dell'Economia; il 19 gennaio 1938 con un nuovo decreto decide la fine della socializzazione dei teatri e dei
cinema. Un anno prima della vittoria finale di Franco la rivoluzione è già stata definitivamente liquidata.
Nei due anni della
loro rivoluzione gli anarchici riescono però a produrre settantacinque film più cinque lungometraggi a
soggetto, di cui
dobbiamo ancora occuparci. Il passaggio a questa produzione comporta un curiosissimo mediometraggio (30 minuti)
Nosotros somos asi! del già citato
Valentín R. Gonzáles, realizzato al Laboratorio n.2 del Sie. Siamo su un palcoscenico in cui si esibisce un
gruppo di
bambini, è il gruppo infantile Sie. Non si sa (il film non lo precisa) se siamo in un Ateneo dove si stimola la
creatività dei fanciulli, con una parte che si
esibisce davanti gli altri che fan gli spettatori. Quello che sorprende è per esempio il numero di una ragazzina
visibilmente
modellata su Shirley Temple che balla un tip tap indiavolato sopra una specie di tamburo (l'orchesta è la Demon's
Jazz
de Sie). Anche se la rivoluzione è già avvenuta, per i ragazzini non si sa bene che cosa dovrebbe
significare: cantare e
ballare e non studiare più matematica? Il film tira un po' avanti così, sembrerebbe girare un po' a vuoto (mi
pare che
proprio la tipica: il tempo non è più denaro, e per capire le cose ci vuol sempre il suo tempo); poi pian
piano si fa luce la
morale, anche questa in lenta evoluzione. C'è un bambino ricco, che vive in una bella casa con il pianoforte, che
con i
compagni con una certa superiorità e che si adatta a suonare con loro con una certa condiscendenza. Ma ecco che
il padre
viene accusato dal comitato rivoluzionario di essere un traditore e di fare il doppio gioco. Viene messa a soqquadro la sua
casa e arrestato. Ma la solidarietà dei ragazzi va al di là delle severe regole rivoluzionarie. La giustizia non
ha bisogno di
crudeltà, e la verità può essere più complessa di quel che sembra. Meglio dei grandi queste
cose capiscono i ragazzi, che
non fanno mancare al loro compagno l'amicizia e l'appoggio anche materiale. Il ragazzo commosso si integra nella
collettività e questo aiuterà anche il padre. "Così siamo noi, i rivoluzionari". Operina curiosa,
piena di contraddizioni, ingenuità, divagazioni. La morale è messa lì, senza troppe cerimonie, ma
i tempi
sono naturali, molte cose suggerite, senza neanche troppe preoccupazioni di efficacia. Ecco, è forse questo il tratto
un po'
insolito che ci colpisce, al confronto di tante pellicole, certamente più valide, ma ossessionate dall'efficacia
immediata a
tutti i costi, tipicamente comunista. (A parte che il pc spagnolo in quegli anni non si sogna neanche di affrontare film a
soggetto; i cortometraggi raramente sono impegnati a una propaganda, a una "militanza" un po' più complessa e
costruita:
rimaniamo spesso a livello de Il compagno fucile - esemplare pellicola didattica sul funzionamento del fucile, analoga a
quella fatta dal servizio dell'Esercito italiano, tanti anni prima sul "modello 91" - o di Por la unidad hacia la victoria di F.G.
Mantilla, pure interessante come reportage sulla riunione plenaria del Comitato centrale del partito comunista, a Valenza,
nel marzo 1937 con i discorsi di Diaz, Dolores Ibarruri, Camillo, Duclos, ecc., o di Nuovos amigo sulla visita ai pionieri
sovietici ad Artek).
inclinazione al populismo
Passiamo ora ai lungometraggi a soggetto, che hanno una consistenza modesta: sia quantitativamente (5 in tutto), sia
qualitativamente. Il più conosciuto è forse Aurora de esperanza. Vi si è messa al lavoro
l'équipe del Sie che si è irrobustita
nel lavoro documentario, con la direzione dell'esordiente Antonio Sau: ritroviamo Porchet, Marquet, Palleja. Vi si ritrova
essenzialmente il populismo che è stata l'inclinazione più diffusa dell'anarchismo in campo letterario. Sono
i tipici romanzi
che piangono sulle sciagure del popolo, affamato, disoccupato, osteggiato, come quelli della madre Federica Montseny e
che hanno fatto piangere e indignare generazioni letterarie; e in tutti c'è la promessa del riscatto, la prospettiva della
speranza. Chissà perché non c'è un bel classico anarchico che vada oltre queste premesse e queste
speranze per diventare
un'autentica opera d'arte? Dello stesso stampo le non poche opere teatrali che hanno per decenni invaso i palcoscenici degli
Atenei senza che anche in questo campo si facesse un passo avanti. Da questo punto di vista i due film drammatici che
prendiamo in esame (l'altro è Barrios bajos) cercavano già di andare un po' oltre. Il cinema forse poteva
essere davvero
il linguaggio adatto per un'arte anarchica, come già lo era stato per il comunismo rivoluzionario sovietico. Dalla
rivoluzione
d'ottobre a Sciopero e Le straordinarie avventure di Mr. West, passano quasi sette anni. Al cinema delle Sie e del Friep
(3) di Madrid, sono stati concessi solo pochi mesi.Aurora de esperanza è il tipico film non riuscito, pieno di
suggerimenti,
d'esordio, con tutta una serie di problemi, oltre che tematici di narrazione e di struttura cinematografica, posti, affrontati,
ma non risolti. E non è poco. Ricordiamo ancora una volta qual era la situazione del cinema barcellonese all'epoca:
poco
più di 4 anni di produzione regolare di film sonori, - meno di una sessantina: lo stesso Buñuel, quando aveva
voluto
dimostrare il suo genio cinematografico, aveva dovuto andare a lavorare a Parigi.In queste condizioni Aurora de esperanza
non è affatto un film minore: la prima parte, con la descrizione minuziosa prima di un ambiente operaio che aspira
a un
modesto benessere (la casa decorosa, persino le brevi vacanze), e poi del progressivo crollo di tutte le aspirazioni sotto i
colpi implacabili della peste del secolo, la disoccupazione, richiama a un verismo abbastanza corretto, contenuto e pulito,
con qualche caduta nella maniera e nel prevedibile, ma che non sfigura al confronto con tanti altri esempi di quel periodo,
nel cinema francese, italiano, o americano: certo si sente l'imitazione. Poi nelle seconda parte e nel finale l'ispirazione
cambia e si guarda piuttosto al cinema sovietico (o a quello tedesco immediatamente pre-hitleriano; Kuhle wampe, per
esempio). L'ambizione è di raggiungere i toni epici: ma si rimane a metà; alcune scene non sono prive di
efficacia, ma
manca forse la piena convinzione. La soluzione - la rivoluzione - arriva un po' imprevista (anziché scontata). Oggi
fa un
po' sorridere che la sollevazione dei generali di Franco sia l'occasione per la soluzione dei problemi dei disoccupati. Forse
nel '36 ci si badava di meno. O forse no: e infatti il film ebbe un successo limitato. Ma come soggetto di riflessione
è
ricchissimo di elementi e di spunti.Chiaramente Sau e i suoi collaboratori si sono messi a tavolino e han cercato di costruire
la loro pellicola. Ma non han trovato l'ispirazione. Hanno imitato, correttamente, esempi più o meno validi: e han
messo
insieme uno spettacolo che, se non altro, rispecchia le incertezze, le aspirazioni, l'atmosfera piena di contraddizioni,
inquietudine ed entusiasmo del momento. E' un primo esperimento, che pur restando assai al di qua di quanto si raggiunge
nel campo del documentario, è coraggioso e pieno di insegnamenti. Con Barrios bajos il discorso è diverso.
Certo meno
ambizioso, il film di Pedro Puche sceglie decisamente l'imitazione dei film di bassifondi tipici del cinema francese del
tempo. A parte qualche oscurità, e un troppo facile ottimismo (o pessimismo), muovendovi entro gli schemi del
genere,
opportunatamente adattato allo spirito del '37, il film è abbastanza compatto, narrato correttamente e non manca
di interesse
nella attenta descrizione del bar in cui si svolge la vicenda, e dei tipi che lo frequentano. Anche qui non si riesce a uscire
dalle convenzioni del genere e lo spirito anarchico rimane nelle intenzioni e nella tesi della superiorità morale dei
cosidetti
reietti della società. Anche nella struttura il film risente dell'origine teatrale del testo, che aveva conosciuto un
notevole
successo sui palcoscenici di Barcellona.
qualcosa di nuovo
Comunque si ha la sensazione che anche i cineasti del Sie non siano molto convinti da queste prove. E l'attenzione dal
melodramma si porta ad altri generi. A parte il discutibile esperimento di tradurre sullo schermo la commedia di Jacinto
Benavente No quiero... no quiero! in cui blandamente si critca la grande borghesia, per opera di un regista non certo
progressista come Francisco Elias (e si pensi che il film continua a essere proiettato nella Spagna franchista nel 1940 senza
intralci!), ci sarebbe da occuparci di 2 film comici. Il primo, Nuestro culpable di Fernando Mignoni, prodotto a Madrid
dalla Cnt, pare una commedia riuscita, coi toni leggeri e umoristici che ricordano René Clair, sulla semplicissima
morale
che i più grandi ladri difficilmente si trovano in prigione; messa in ridicolo dunque la morale borghese, con il
rapitore che
si fa giocare dall'amante del banchiere e finisce in prigione dove però, grazie al banchiere, fa una vita da gran
signore. Alla
fine però milioni e ladri s'involeranno per davvero! Pare, però, che la critica del tempo lo abbia stroncato
per il tono
allegro, poco adatto alla situazione drammatica del paese. E' un film che ci auguriamo di poter vedere al più presto,
perché
potrebbe fornire un contributo importante, e significativo, al nostro bilancio.L'altro, Paquete, el fotografo publico numero
uno, scritto e diretto da Ignacio Farrés Iquino e prodotto dalla Fai è del 1938; durava una cinquantina di
minuti e descriveva
le peripezie di un fotografo ambulante che si serve di tutti i trucchi possibili per aumentare la sua clientela. Purtroppo non
si è conservato e non si sa molto altro, salvo che anche grazie alla buona interpretazione degli attori, alla sua grazia
e
originalità, ebbe un notevole successo commerciale negli ultimi mesi della guerra. Ugualmente del 1938 è
un altro
documentario di montaggio Amancer sobre España, lungometraggio, (la copia incompleta della Filmoteca è
di 45 minuti)
prodotto dalla Sia (Solidaridad internacional antifascista) a Barcellona, diretto da Luis Frank e Juan Palleja. Sarebbe
interessante paragonarlo a quelli del periodo più felice della produzione Sie.Neanche due anni, e l'entusiasmo del
luglio
del '36 è svanito: è scomparsa la speranza (non solo dell'aurora) concreta di mettere le basi di una nuova
società, costruita
sulla socializzazione, la collettivizzazioni del sindacato e delle comuni, in linea con le utopie del comunismo libertario.
In questa disperazione (non è qui il momento di indicare le maggiori responsabilità del fallimento) anche
il cinema
anarchico, prima ancora di nascere, chiude i suoi esperimenti, le sue esperienze, i suoi tentativi, gli abbozzi che dovrebbe
dagli vita. C'erano le premesse, le premesse di qualcosa di nuovo. L'unico canto vero di un modo di vivere, di amare, di
essere felici e infelici, nuovo, libertario rimane (anch'esso senza domani) L'Atalante. Ancora Vigo, per finire.
1. Fai sta per Federacion Anarquista Ibérica (vedi N.S. n.11). 2. Citato
in Cinéma et anarchie, Ginevra 1984. 3. Federacion regional de la industria cinematografica y
de espectaculos publicos de la Cnt.
Paolo Gobetti: un ricordo
Sabato 25 novembre è morto a Torino Paolo Gobetti. Paolo nasce nella nostra città il 28 dicembre 1925
da Piero e Ada.
Il padre è una delle più significative figure della cultura antifascista torinese, fondatore ed editore, tra
l'altro, del periodico
"Rivoluzione liberale" e collaboratore dell'"Ordine Nuovo" di Gramsci, duramente bastonato dai fascisti alla fine del '25
e morto in esilio a Parigi nel febbraio del '26. Paolo non conosce dunque suo padre, ma cresce nell'ambiente di quella
cultura politica del "socialismo liberale" (di cui
Piero, appunto, è stato l'ispiratore primo) che, collegandosi con i movimenti emancipativi della classe operaia,
sfocerà nel
lavoro teorico-pratico di "Giustizia e Libertà" e nella costituzione delle bande partigiane "G.L.", cui il giovanissimo
Paolo
aderirà assieme alla madre, partecipando alla lotta armata in Val di Susa. L'esperienza partigiana segnerà
fortemente tutta
la sua vita: "Era quel momento di utopia che nella vita capita, appunto, una sola volta. Però se capita quella volta
poi te
lo ricordi per tutto il resto. Forse è quello che ti dà il senso a tutti i movimenti e agli anni successivi"
(1). Nell'immediato dopoguerra aderisce al PCI, diventando critico cinematografico dell'Unità di Torino, poi
collaboratore di
"Cinema Nuovo" e fondando infine nel 1959 "Il nuovo spettatore cnematografico". Nel 1956, l'anno della rivoluzione
ungherese, aveva espresso pubblicamente il suo dissenso rispetto alle posizioni del PCI, votando contro la mozione
congressuale del Partito e scrivendo la "Confessione di un critico comunista", in cui si affermava: "La libertà
è la
condizione prima della creazione artistica. Ma non solo la libertà dalla censura, la libertà dalle imposizioni
dei produttori;
soprattutto la libertà di pensare senza schemi, di rivedere continuamente le proprie opinioni, le proprie convinzioni
confrontandole con l'infinità varietà e ricchezza della vita". Nel 1962, l'anno della "rivolta di Piazza
Statuto", realizza
"Scioperi a Torino", sulle lotte operaie alla Michelin, alla Lancia e alla Fiat, prima esperienza italiana di cinema militante
(con la collaborazione di Franco Fortini, Goffredo Fofi, Sergio Liberovici): la macchina da presa è tenuta in spalla,
il suono
è registrato in presa diretta. Nel 1966 fonda l'Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza (ANCR),
che raccoglie documenti cinematografici
sull'antifascismo e sulla resistenza italiana ed europea, materialmente salvando immagini di enorme valore documentario
(tra cui l'unico filmato esistente di Malatesta e il discorso di Duccio Galimberti a Paralup, Valle Stura, Cuneo, "culla" di
uno dei primissimi nuclei partigiani). In quest'ambito nascono i filmati "Lotta partigiana" del 1975, "Prime bande" del
1983, "Racconto interrotto" del 1992, ritratto del padre Piero. In occasione della Biennale di Venezia del 1976, avvia
ricerche e lavori sulla rivoluzione spagnola, che lo avvicinano
all'esperienza e alla storia del movimento anarchico. Sarà questo per Paolo un incontro decisamente significativo:
la
"rivoluzione spagnola (...): quel momento culminante in cui la fedeltà agli ideali (...) Non viene a patti, a
compromessi, non
si piega alle esigenze ignobili della 'ragion di stato', e dà quella che è forse la lezione più bella di
tutta la storia del nostro
secolo" (2). Dall'incontro con la storia dell'anarchismo spagnolo nasceranno i video "L'esperienza delle
collettività anarchiche
spagnole" e "Gli anarchici italiani in Spagna tra guerra e rivoluzione" (quest'ultimo in collaborazione con Claudio Venza
e col Centro Studi Libertari), realizzati sulla base di ben quattrocento ore di interviste in video a militanti anarchici italiani
e spagnoli, oggi in gran parte scomparsi. Si tratta in un fondamentale patrimonio della memoria storica del movimento
anarchico. La disponibilità di Paolo verso
di noi si è del resto manifestata in molte occasioni: presenza in convegni e dibattiti, collaborazione alla
realizzazione di
mostre e rassegne video (con prestito di preziosi materiali). Lo ricordiamo come un uomo libero, come il compagno
che, fuori ed oltre i vincoli del ruolo e dell'ufficialità, sapeva
entrare in un rapporto autentico con gli interlocutori più diversi, dai vecchi militanti ai giovani dei centri
sociali. Paolo è sepolto in montagna, la montagna delle sue passioni: la lotta partigiana e l'alpinismo. Come
ha scritto nell'83: "E'
difficile descrivere la gioia di trovarsi in giro per le montagne; con un fucile in mano, in un mondo in cui non esiste
più
un'organizzazione statale, in cui non esiste più il potere (che è sempre degli altri), (...) Ti senti vicino ad
altri giovani che
credono come te alla possibilità di costruire qualcosa che vada meglio, che istituzionalizzi la mancanza di potere"
(3).
I compagni del Circolo "C. Berneri" di Torino
1) P. Gobetti, L'Utopia, in "Il nuovo spettatore. Le prime bande", Torino, 1983, p.
83 2) P. Gobetti, Presentazione a U. Tommasini, l'anarchico triestino, Milano, ed. Antistato, 1984,
p.8 3) P. Gobetti, Prefazione a Le prime bande, cit., p.10
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