Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 224
febbraio 1996


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Tabacco e fiducia

In Waterworld il mutante Kevin Costner che cerca di sopravvivere a mollo nella brodaglia del nostro mondo sommerso deve vedersela con l'orda dei predatori cattivi. Costoro, fra i tanti stigmi sociali a disposizione, hanno scelto per caratterizzarsi il vizio del fumo. Non a caso, e non senza moti di paura e disgusto, vengono chiamati smokes, fumatori. Forse più ottimista, ma di certo meno sbrigativo, Wayne Wang architetta il suo Smoke, trattatello sulla fiducia urbana ed esempio della miglior narrativa cinematografica. Lo scrittore bianco in crisi, cui hanno ammazzato la moglie ed il figlio tanto atteso, dà fiducia al ragazzo nero che lo salva dalla sua dolente distrazione. Il tabaccaio all'angolo dà fiducia alla fiamma di un tempo che gliene ha già combinate parecchie - accoglie sulla coscienza una povera figlia intossicata e riluttante che non sa neppure se sia poi davvero sua e regala tutto ciò che ha perché qualcuno trovi il riscatto di sé. Lo stesso tabaccaio dà fiducia allo scrittore, e poi al ragazzo nero - che, prima o poi, restituirà -, e così via in quel gioco di persone incrociate che è la vita, non dimenticando di tirar dentro vecchie cieche sconosciute o giovani commesse di libreria. Tutti disposti perfino a sorbirsi una bugia purché ciò consenta di superare quelle sbarre d'acciaio in cui ci siamo rinchiusi non trovando più, da soli, la capacità di uscirne. Se è vero che sul proscenio c'è spesso un tabaccaio - impersonato da un Harvey Keitel in una stupenda prova d'attore - è anche vero che sempre il palco è invaso dal fumo. Soprattutto di sigaro: in dense volute mosse per la recente emissione dai polmoni o in più tenui e velate stagnazioni. Fumano un po' tutti e chi non lo fa ancora - come il ragazzo -, nonostante la tosse, sarà bene che cominci. Si fuma e si parla di fumo: si va dalla corte di Elisabetta I, ai tempi in cui il tabacco valeva come una terapia, dove ci ingegnava a pesare il fumo ad un aneddoto sul filosofo semiotico Michail Michajlovic Bachtin che, assediato a Leningrado, dotato di tabacco e non di carta, si è fumato il proprio manoscritto. Il fumo è quel collageno che fa socialità e che, laddove raggiunga il giusto grado di calore riconferisce umanità a chi l'ha perduta. Gli eventi sono la risultante dei rapporti umani e questi -facilitati da un fumo comune, da qualcosa che le persone hanno in un dentro solo in parte metaforico - sono i protagonisti eletti del film. Fra le poche strade a disposizione di chi voglia raccontare senza prosopopea, Wang ha scelto questa: un simbolo non comodo in epoca di nuovi e sempre più perentori divieti.

P.S.: Nell'apologo sulla fiducia non può mancare il coinvolgimento attivo del suo destinatario. Tocca allo spettatore, allora, accreditare chi racconta di eventi che, in narrazioni più serve del paradigma naturalistico, sarebbero invece canonicamente rappresentati: l'irruzione salvifica delle forze dell'ordine, per esempio, o l'apparizione esplicita del nuovo amore per uno dei protagonisti (William Hurt nei panni dello scrittore). Wang, in certi casi, si dimostra narratore economo e di gran discrezione: anche lui, coerentemente, si affida. Con il coraggio di mettere sul conto anche le eventuali inesattezze: come quando uno dei suoi eroi racconta di una fatidica ciucca di Chianti e l'immagine, invece, si accontenta di un Mateus Rosé.