Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Tabacco e fiducia
In Waterworld il mutante Kevin Costner che cerca di sopravvivere a mollo nella brodaglia del nostro mondo sommerso
deve vedersela con l'orda dei predatori cattivi. Costoro, fra i tanti stigmi sociali a disposizione, hanno scelto per
caratterizzarsi il vizio del fumo. Non a caso, e non senza moti di paura e disgusto, vengono chiamati smokes, fumatori.
Forse più ottimista, ma di certo meno sbrigativo, Wayne Wang architetta il suo Smoke, trattatello sulla fiducia
urbana ed
esempio della miglior narrativa cinematografica. Lo scrittore bianco in crisi, cui hanno ammazzato la moglie ed il figlio
tanto atteso, dà fiducia al ragazzo nero che lo salva dalla sua dolente distrazione. Il tabaccaio all'angolo dà
fiducia alla
fiamma di un tempo che gliene ha già combinate parecchie - accoglie sulla coscienza una povera figlia intossicata
e
riluttante che non sa neppure se sia poi davvero sua e regala tutto ciò che ha perché qualcuno trovi il
riscatto di sé. Lo
stesso tabaccaio dà fiducia allo scrittore, e poi al ragazzo nero - che, prima o poi, restituirà -, e così
via in quel gioco di
persone incrociate che è la vita, non dimenticando di tirar dentro vecchie cieche sconosciute o giovani commesse
di libreria.
Tutti disposti perfino a sorbirsi una bugia purché ciò consenta di superare quelle sbarre d'acciaio in cui ci
siamo rinchiusi
non trovando più, da soli, la capacità di uscirne. Se è vero che sul proscenio c'è spesso un
tabaccaio - impersonato da un
Harvey Keitel in una stupenda prova d'attore - è anche vero che sempre il palco è invaso dal fumo.
Soprattutto di sigaro:
in dense volute mosse per la recente emissione dai polmoni o in più tenui e velate stagnazioni. Fumano un po' tutti
e chi
non lo fa ancora - come il ragazzo -, nonostante la tosse, sarà bene che cominci. Si fuma e si parla di fumo: si va
dalla corte
di Elisabetta I, ai tempi in cui il tabacco valeva come una terapia, dove ci ingegnava a pesare il fumo ad un aneddoto sul
filosofo semiotico Michail Michajlovic Bachtin che, assediato a Leningrado, dotato di tabacco e non di carta, si è
fumato
il proprio manoscritto. Il fumo è quel collageno che fa socialità e che, laddove raggiunga il giusto grado
di calore
riconferisce umanità a chi l'ha perduta. Gli eventi sono la risultante dei rapporti umani e questi -facilitati da un
fumo
comune, da qualcosa che le persone hanno in un dentro solo in parte metaforico - sono i protagonisti eletti del film. Fra
le poche strade a disposizione di chi voglia raccontare senza prosopopea, Wang ha scelto questa: un simbolo non comodo
in epoca di nuovi e sempre più perentori divieti.
P.S.: Nell'apologo sulla fiducia non può mancare il coinvolgimento attivo del suo destinatario. Tocca allo
spettatore, allora,
accreditare chi racconta di eventi che, in narrazioni più serve del paradigma naturalistico, sarebbero invece
canonicamente
rappresentati: l'irruzione salvifica delle forze dell'ordine, per esempio, o l'apparizione esplicita del nuovo amore per uno
dei protagonisti (William Hurt nei panni dello scrittore). Wang, in certi casi, si dimostra narratore economo e di gran
discrezione: anche lui, coerentemente, si affida. Con il coraggio di mettere sul conto anche le eventuali inesattezze: come
quando uno dei suoi eroi racconta di una fatidica ciucca di Chianti e l'immagine, invece, si accontenta di un Mateus
Rosé.
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