Rivista Anarchica Online
Violenza rivoluzionaria e no
di R. Brosio
Come strumento di lotta, la violenza è polivalente. I risultati
diretti che produce sono specifici e
determinati, ma, come tali, si confondono con lo strumento stesso e non hanno, da questo punto di vista,
vera importanza. Quelle che contano sono le conseguenze mediate, cioè gli effetti che, a loro
volta,
derivano dai risultati diretti della violenza. Essi non sono univoci. Al contrario, possono essere assai
variati, a seconda della situazione, dei momenti, delle persone. Un colpo di pistola al cuore uccide,
sempre e ovunque. Ma il significato, la valutazione e la portata dell'atto, possono modificarsi parecchio,
da un caso all'altro, a seconda di chi ha premuto il grilletto, chi si è preso la pallottola, quando
e perché,
eccetera. Lo stesso discorso, fatte le debite proporzioni, vale per tutte le manifestazioni violente
della nostra epoca
e di quelle passate, dagli attentati dinamitardi alle bastonature, dai rapimenti alle sassate in piazza.
L'opinione potrà sembrare cinica, a certi pacifisti ad oltranza. Disgraziatamente,
però, è l'unica ad avere solide radici nella realtà. È un fatto che la
violenza sia stata
usata da tutti, nella storia: progressisti e reazionari, ribelli generosi e macellai protetti dal sistema,
minoranze etniche e maggioranze politiche. Ciascun gruppo l'ha usata per scopi diversi, ottenendo
risultati diversi, anche se gli effetti immediati (morti, feriti, danneggiati) restavano sempre gli stessi. I
piagnistei che i membri delle classi dirigenti ci fanno ascoltare, per ogni "deprecabile fatto", tentano solo
di far dimenticare questa realtà. Tentano di dimostrare che tutte le violenze sono uguali,
per poter esercitare, tranquillamente e senza
confronti, la propria, quella "giusta" perché organizzata e impunita. Nonostante tutto,
comunque, tra
la violenza "spontanea" delle minoranze e quella organizzata dello Stato, esiste, una fondamentale
differenza a livello di effetti immediati, ed è una differenza quantitativa. Gli eccidi e le distruzioni
provocati dalle guerre e dalla repressione sono immensamente superiori a quelli derivanti
da qualunque
altra forma di violenza. Per questa ambiguità di fondo, quindi, non si può sostenere
che la violenza, in sé, sia rivoluzionaria. Il problema non è stabilire la liceità
o l'efficace in assoluto, ma, più concretamente, verificare quali tipi
di violenza siano compatibili con il fine anarchico. Come tutti, anche gli anarchici sono ricorsi alla
violenza, nella loro lotta, ormai secolare, contro lo
sfruttamento e l'autorità. Bisogna però riconoscere che, da questo lato, hanno
dimostrato un equilibrio
forse non constatabile in nessun'altro raggruppamento rivoluzionario. Essi hanno usato la violenza,
senza complessi di sorta, ogni volta che la hanno giudicata adatta allo
scopo per cui agivano, ed allora se ne sono assunti serenamente la responsabilità, di fronte agli
sfruttati
e di fronte alla storia. Nello stesso tempo, l'hanno rigettata come criminosa e controrivoluzionaria
quando si è rivelata inutile, o incompatibile con i fini del proprio progetto di libertà e
uguaglianza. Soprattutto, hanno sempre rifiutato la violenza indiscriminata, a
testimoniare, nei fatti, il
riconoscimento di quella polivalenza di cui si parlava prima, la preoccupazione costante di usare
strumenti coerenti, sul piano strategico come su quello etico, con gli scopi della loro azione. Tre
sono le forme di violenza che l'anarchismo, nel corso della sua storia ha messo in atto e dimostrato
di accettare: la violenza "difensiva", quella che chiameremo "propagandistica", e quella "giustiziera".
Non sempre i singoli avvenimenti rientrano univocamente in una delle tre categorie, e i loro stessi confini
tendono a volte a confondersi. Cionondimeno, insieme, definiscono in modo sufficientemente preciso
l'arco della violenza rivoluzionaria - libertaria. La violenza difensiva è stata, spesso, di tipo
insurrezionale e collettiva, volta a strappare alle classi
dirigenti importanti conquiste sociali, o a proteggere quelle già realizzate dagli attacchi
dell'autorità. L'abbiamo chiamata difensiva perché si è manifestata,
generalmente, come "risposta" popolare a
situazioni di pesante repressione, di soffocamento totalitario di ogni fermento innovativo. Come tale,
ha avuto spesso una matrice non unicamente anarchica: Kronstadt, l'Ucraina machnovista, la Spagna
del
'36, sono gli esempi più noti del passato, in cui gli anarchici parteciparono con altre forze,
più o meno
numerose, all'organizzazione della lotta armata. Altre volte, invece, furono gli anarchici in prima
persona a dover gestire la violenza difensiva: agli inizi
del secolo, negli Stati Uniti, e poco più tardi in Spagna, i militanti anarco-sindacalisti presero
le armi per
salvare le proprie organizzazioni dallo sterminio contro gli sbirri privati di Pinkerton o i
"pistoleros" del
padronato spagnolo. La violenza che abbiamo chiamato propagandistica è una delle costanti
più tipiche della lotta anarchica.
Ad essa si è fatto ricorso per mettere in evidenza fatti di particolare gravità, quando
l'importanza
dell'avvenimento da propagandare rendeva macroscopicamente inadeguate proteste più
platoniche. Non
ha, in genere, coinvolto le persone, ma si è sempre appuntata contro i simboli del potere,
monumenti,
edifici, eccetera ed è sempre stata, come si suol dire, firmata. Se, a volte, gli effetti immediati
sono andati
al di là delle intenzioni, questo è stato per errore, per caso fortuito, per fatalità,
non per criminale volontà
omicida degli anarchici. Anche il caso, famoso, della strage al Diana (Milano, 1921) va visto in questa
prospettiva: in esso è certo lo sbaglio degli attentatori nel collocare la carica esplosiva, e quasi
certa la
provocazione poliziesca che lo favorì. La violenza giustiziera, a differenza della precedente,
è invece volontariamente diretta contro le persone.
Anche qui, però, non in modo indiscriminato, non in modo terroristico. Gli anarchici che, specie
nel
passato, hanno spesso usato questa forma di lotta, hanno sempre voluto colpire singoli individui,
responsabili diretti e coscienti dello sfruttamento, della repressione, dell'omicidio legalizzato. Hanno
compiuto un atto di giustizia non decretato in nessun tribunale, ma ciononostante valido per le colpe
particolarmente gravi degli uccisi. Gli esempi sono molteplici (Bresci, Caserio, gli attentatori di
Mussolini, eccetera) e qualcuno può sembrare contraddittorio con la tesi sopra
espressa. Specie nella Francia della cosiddetta Belle Epoque si sono avuti attentati in apparenza
indiscriminati, sul
tipo di quello compiuto da Emile Henry, che lanciò una bomba in un caffè affollato di
borghesi. Ma anche questi attentati (rari, per altro) hanno una loro spiegazione, da ricercarsi nel
clima di estrema
repressione vigente allora, nelle condanne durissime con cui i giudici colpivano i militanti rivoluzionari,
nello sfruttamento del lavoro, bestiale e disumano come mai. Tutto sommato, nemmeno Henry
colpì alla
cieca: colpì quelli che reputava i colpevoli della miseria e delle sofferenze delle classi lavoratrici,
i
borghesi ben pasciuti che affollavano i caffè. Concludiamo questa specie di "carrellata" sulla
violenza libertaria, con una considerazione. Anche
quando si è rilevata uno strumento di lotta accettabile, la violenza non è mai stata l'unico
strumento usato
dagli anarchici. Ad essa, è sempre stata affiancata la propaganda delle idee, la diffusione della
coscienza
rivoluzionaria, il tentativo costante di costruire, ogni volta che è stato possibile, strutture
concrete di
libertà e uguaglianza. A noi non interessa generare sentimenti confusi, tensioni anonime, paure
irrazionali. A noi interessa la consapevolezza del popolo degli sfruttati, la sua partecipazione volontaria
alla lotta per l'emancipazione. Fuori di questa prospettiva, qualunque violenza è sempre
crimine e non
è anarchica.
R. Brosio
|