Rivista Anarchica Online
Quale democrazia?
Vi scrivo perché stimolato dal mini-saggio di Murray Bookchin
("Comunalismo perché") ripreso
su "A" n. 215 da "Green Perspectives" del 31-10-'94. Devo dire di essere completamente
d'accordo (ormai non capita più così di sovente) con le tesi
sostenute nell'articolo in questione. Ciò che emerge finalmente con forza è
una critica serrata a
quel pressapochismo che sta sempre più limitando e stemperando l'anarchismo.
La questione della "democrazia", o meglio del processo decisionale (ché di
questo si tratta) è
basilare per l'anarchismo e per l'anarchismo "moderno" (ormai postmoderno) in particolare.
Bookchin, come spesso è accaduto, centra il problema: senza strumenti e strutture
definite dal
punto di vista decisionale, l'ipotesi anarchica non solo non è credibile, ma rischia di
sotterrare
se stessa sotto il conformismo, che è l'altra faccia, appena più velata,
dell'autoritarismo esplicito. È singolare che tale vuoto - della cui esistenza
spesso si è peraltro dibattuto, ma troppo spesso
con il timore dei "poveri di spirito" o con la grazia dei sanfedisti, con paure dettate da
atteggiamenti tutt'altro che sperimentali - permanga e venga legittimato, magari nel nome
della
"libertà". È d'altronde l'approccio squisitamente "liberale" di quanti
nascondono la propria paura della
democrazia dietro l'idiosincrasia per un "sistema" o una struttura di ambito decisionale. In
fondo
trattasi di atteggiamento elitario. È però singolare l'accorgersi così
poco di come invece gli
"estremisti", i massimalisti antiliberali ed antidemocratici del nostro movimento (e tali
accezioni
non vogliono né devono venire recepite come volgari ed offensive, trovando piena
cittadinanza
in una o più forme dell'anarchismo) presi nello sforzo sacrosanto di difendersi dal
liberalismo,
cadono poi nel liberalismo de facto. La società trasparente, su cui
ricordo interessanti dibattiti e seminari ancora sul finire degli anni
'70 indirizzati a sondare l'altro problema intimamente connesso relativo alla diade diritto
istituzionale-diritto naturale, è pericolosa proprio perché
deregolamentata e perciò autoritaria,
perché trae linfa (in molti ambiti ne abbiamo già prova nel presente, ad
esempio nella formazione
delle decisioni internamente alle multinazionali così come nelle congreghe mistiche
moderne o
post-moderne) dall'omogeneizzazione di fatto delle differenze, perché trae
giustificazione
dall'apparente "luogo comune" (ben eterodiretto), dall'ignoranza della "base" in ordine alla
complessità delle dinamiche economico-gestionali e di gruppo. Di certo
l'anarchismo socialista, più consono ad intuire lo iato reale (non unicamente
"ideologico") fra liberalismo ed anarchismo (e penso in particolare all'anarco-sindacalismo in
azione), è da tempo alle prese, nelle strutture di base nelle quali è inserito,
con la problematica
decisionale, ma vive o rischia di vivere ancora le strutture autodecisionali che i
lavoratori si
danno come un "momento" del proprio percorso, non messo in discussione, ma neanche
traslato
in termini di progetto, salvo poi riconoscerne la validità storica (ad es. nelle strutture
interne -
non in quelle di compartecipazione istituzionale - della CNT nella rivoluzione spagnola)
come
"riempitivo" insostituibile di quel "vuoto" sulla democrazia, che rischia di divenire un deficit
democratico, tanto che nei momenti determinanti il problema viene puntualmente alla luce e
tanto che può trasformarsi, anche per gli anarchici, o in empasse dinamica o in
tendenza
all'emulazione/assorbimento di forme mutuate o subite dalla "democrazia reale", ove il
mandato
si esprime con delega in bianco, non partecipativa, e che nulla ha a che fare con la
democrazia
diretta e meno ancora ne dovrebbe avere con l'anarchismo "in azione". Ma il dibattito
è fermo nel vuoto creato dal culto religioso del privato, dell'individuale, dalla
dittatura in pectore, speculare ad altre forme di dominio, persino della "minoranza di uno",
nel
dogmatismo acritico, il cui unico sbocco è giocoforza un soggettivismo rinchiuso in
se stesso e
l'abbandono della sfera pubblica, intesa come sfera politica.
Stefano d'Errico (Roma)
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