Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 207
marzo 1994


Rivista Anarchica Online

Follia in provincia
di Elena Petrassi

Chi è matto e chi normale? La risposta sembra facile, chi incontra un matto di solito lo riconosce, lo teme e lo fugge. I matti sono poetici e incantano, ma a distanza se non mettono in discussione la nostra normalità e non mettono in pericolo la nostra incolumità.
Di solito non ci si pongono molte domande sull'identità dei matti né tanto meno sulle loro vite che, a meno che non assurgano agli onori della cronaca nera non sono di grande interesse per i «normali»,
Tranne che in situazioni politiche e sociali molto particolari, come è avvenuto nel corso degli anni '60 e '70 (qualcuno comincia a dubitare che quegli anni siano mai esistiti), quando l'attività di Cooper, Laing e Basaglia, tanto per citare i nomi più famosi, aveva mutato, almeno in parte, la posizione dei folli non solo nella società ma anche nell'immaginario sociale.
Questo cambiamento in Italia si era concretizzato attraverso l'esperienza di Trieste, grazie allo stesso Basaglia e alla famosa e famigerata legge 180, che ha portato all'«apertura» o «chiusura» dei maniconi, a seconda di come la si pensa in proposito.
Legge rimasta legalmente non attuata per la mancanza di strutture nel territorio ed evidentemente per la mancanza di una volontà politica che spingesse verso la messa in opera di quanto necessario.
Invece la responsabilità dei malati è rimasta interamente a carico delle famiglie e le uniche cure utilizzate quelle farmacologiche. I reparti psichiatrici degli ospedali pubblici, che pure non hanno niente a che fare con i manicomi ben radicati nella nostra mente, finiscono con l'essere delle semplici aree di parcheggio dove i malati stazionano per qualche tempo così da dare sollievo ai loro familiari.
Sollievo perché, come dicevo prima, la follia è poetica solo nei libri, la sua realtà, se vissuta in prima persona, quando va a toccare persone a noi care o anche solo conosciute, ti colpisce con forza inaudita.
Ecco che ogni canale di comunicazione si spezza, il linguaggio del folle diventa a noi incomprensibile pur mantenendo una sua logica interiore.
E di solito non è un linguaggio incoerente, il delirio stesso possiede una sua ragione di essere che noi, nella nostra alterità, non possiamo comprendere, tanto più se siamo colpiti dal dolore che questa persona prova. Perché se anche non possiamo dire cosa è la follia, se anche non riusciamo più a comprendere la logica della mente folle, una cosa resta tangibile ai nostri occhi ed è il dolore, la paura, nostra e sua.
Resta invariata la incapacità di dare una definizione di follia, di malattia mentale anche se l'immagine di folle non è data una volta per tutte, varia a seconda di tempi e luoghi. In questi giorni è molto in voga parlare di depressione uno dei tanti «mali del secolo», un libro intervista scritto dallo psichiatra G.B. Cassano e dalla giornalista Serena Zoli ha avuto un grande successo di vendite sulla cui scia è nata a Milano l'«Idea», associazione per lo studio della depressione.
Associazione sponsorizzata anche dalla televisione di stato e da Piero Angela che ha inaugurato una nuova serie di Quark proprio con uno speciale sulla depressione, ospite Cassano, proprio la sera prima che questa iniziativa venisse presentata a Milano e senza che nella trasmissione se ne facesse il minimo accenno.
Forse sarebbe stato più corretto parlarne visto che l'eco della trasmissione ha senz'altro attirato molta più gente verso la neonata associazione che non un esplicito spot pubblicitario, a volte la pubblicità occulta funziona in maniera più efficace che non quella palese. Ma tant'è.
La forma di depressione di gran moda ai nostri giorni è la sindrome maniaco-depressiva o, come viene chiamata più elegantemente oggi, disturbo affettivo bipolare. Il malato affetto da tale disturbo passa attraverso fasi alterne di eccitazione maniacale appunto e fasi depressive che a volte lo conducono al suicidio.
La nuova psichiatria tende a imputare questo genere di disturbo a cause in gran parte di tipo biologico: o genetico o bio-genetico. Infatti le terapie proposte per questi disturbi sono di tipo farmacologico o di tipo elettroconvulsivante, cioè o sedativi o elettroshock.
Ma non è detto che si guarisca, forse sì, forse no, dipende, il diavolo viene comunque cercato essenzialmente all'interno del paziente, come se l'interazione con i propri simili e con l'ambiente non avesse quasi nessun effetto.
Quel che voglio sottolineare con questa premessa è l'ideologia che sta dietro questo tipo di spiegazioni scientifiche riduzioniste: chi cerca il gene della follia è anche alla ricerca del gene dell'omosessualità e forse dell'intelligenza e così di seguito.
Non mi dilungo oltre in questa sede perché vorrei ritornare su questo argomento in un articolo di più ampio respiro, ma queste premesse erano necessarie per parlare di un libro che mi è piaciuto. Il libro in questione si intitola Storie di pazzi e di normali. La follia in una città di provincia dello scrittore esordiente Mauro Covacich (Theoria 138, pagg. 100, L. 14.000).
Egli racconta con un taglio a mio parere molto visuale, quasi cinematografico, e quasi in forma di diario, la sua esperienza di operatore del «servizio animazione» del dipartimento di salute mentale di Pordenone. La storia da lui narrata ci porta prima in una chiesetta di provincia dove Mario, «l'emigrante squilibrato» mangia ceri e distrugge paramenti sacri con pari furia, mosso da una energia interiore che gli impedisce qualsiasi sosta e qualsiasi sollievo alla tensione. Nella chiesa Mario non è solo, è in compagnia di Erica che prega e borbotta. Dopo avere accompagnato Mario al suo ricovero al dipartimento «Diagnosi e cura» di Sacile, l'autore ci porta con Erica nella casa da lei abitata con Marisa. E poi con Marisa a «Villa Aurora» il centro di cura dove incontriamo Aldo, Monica e Ilde.
Ognuno dei pazienti diventa in questo percorso, insieme a Max e Sergio, gli infermieri e a Mirago, lo psichiatra, inconsapevolmente attore di una nuova commedia umana. Usare il termine tragedia sarebbe in questo contesto inappropriato. Perché il dolore e la sofferenza restano, perché gli psicofarmaci vengono utilizzati ma dove l'interazione tra matti e normali esiste, sia all'interno di Villa Aurora che all'esterno, nei luoghi di lavoro che hanno accolto alcuni di questi malati (Marisa lavora in un maglificio, Aldo è bibliotecario, quasi tutti seguono un corso di storia dell'arte all'interno di Villa Aurora) rende le vite di queste persone vivibili per loro e per i loro familiari nonostante la malattia.
Questo tipo di terapia globale non sarà risolutoria, non li renderà a una normalità per i più impraticabile, ma lascerà i pazzi interamente umani nonostante la loro diversità.
Non va dimenticato che parte globale di questa terapia è la psicoterapia, anch'essa in fase di ridiscussione a più livelli, dove le origini del male vengono cercate anche nel vissuto personale dei malati e nei loro rapporti con i genitori. Benché l'autore espliciti all'inizio che vorrebbe raccontare questa storia con l'occhio del cronista medioevale, non riesce, per fortuna, a sfuggire all'incantamento della follia, alla follia come «parola proibita», come diceva Foucault e si arrende senza resistenza alla «impenetrabilità della follia e all'intraducibilità del suo linguaggio».
E dato che spesso le storie dei «senza voce» restano occultate nel fluire del tempo ecco perché un narratore che dà loro parola visibile e udibile non è più solo cronista ma testimone vivo e partecipe della sofferenza, ecco perché questo libro mi è piaciuto.