Rivista Anarchica Online
Sul vagabondare
di Filippo Trasatti
"Il suo stato d'animo è quello di uno che abbia in sé dieci
prigionieri e un uomo libero, che è il loro
guardiano" (E. Canetti)
Vorrei tentare di annodare alcuni fili intorno a un tema che mi sta particolarmente a cuore: quello del
vagabondare. Si tratta di un'immagine, anzi di una serie di immagini collegate da un sentimento forte: il
desiderio di libertà che ci attraversa come un lampo nel corso della nostra vita quotidiana, quando la
sentiamo forte dentro di noi come un prigioniero che si agita. Una concrezione di impressioni che si
sviluppa verso l'alto come una stalagmite e sempre più attira lo
sguardo, fino a intralciare l'usuale cammino per le stanze della nostra esistenza. E proprio agli ostacoli si
deve guardare, un poco come i lapsus nell'analisi di Freud, per scoprire
l'inaspettato intorno a noi. Il vagabondo è per me prima di tutto chi individua e cerca di scavalcare
gli ostacoli della sua vita
quotidiana. Si direbbe che fugge da qualcosa, forse dalla sua gabbia.
Per sentirsi
libero Che cosa va cercando Thoreau nelle sue passeggiate per i
boschi, oltre i recinti che limitano le proprietà intorno
a Concord? Vuole trovare insieme alla libertà del suo movimento, la libertà del pensiero. Cerca
una forma nuova
di conoscenza. Vuol liberarsi dalle sue consuetudini quotidiane, farsi vagabondo senza terra per sentirsi a casa
propria ovunque, pur non avendo casa in nessun luogo. Nell'"arte del camminare" che Thoreau ci propone,
troviamo quasi un metodo di rigenerazione continua,
una tecnica per sfuggire all'angustia degli steccati conoscitivi. Questo vagabondare rapsodico,
allontanandosi dalle strade battute e dai pensieri fortificati è l'inizio di una conoscenza e di un modo
di
vivere diversi. Thoreau andava alla ricerca di una wilderness che ai suoi tempi ancora esisteva
per
rinnovarsi, per sentirsi libero. E il luogo di incontro con questa natura selvaggia era per lui la foresta.
Cercava uno sguardo diverso sulla natura che non fosse nè di predazione, né di contemplazione
passiva. "Il
mio desiderio di conoscere è discontinuo, ma il desiderio di rigenerare la mente in atmosfere
sconosciute,
esplorando zone non ancora percorse dalle mie gambe è perenne e costante" (Camminare,
SE Edizioni,
Milano, p.- 52). Thoreau è un esploratore, ma un esploratore dell'Ottocento che ha filtrato le
millenarie esperienze della
civiltà occidentale consapevole di ciò che la pratica dell'esplorazione ha significato, della sua
carica insieme
conoscitiva e distruttiva, delle luci e delle ombre che la civiltà ha gettato sui nuovi spazi conquistati.
Ma
soprattutto è un esploratore consapevole che ogni vera scoperta, ogni vera esplorazione è anche,
e talvolta
prima di tutto, un'esplorazione interiore alla ricerca delle terre selvagge, dei territori sconosciuti: "Siate dei
Colombo per interi, nuovi continenti e nuovi mondi dentro di voi, aprendo nuovi canali, non di commercio
ma di pensiero" (Walden, 397). E' difficile per noi abituati a pensare al globo attraverso le
carte geografiche, anche solo immaginare che
potessero esistere non più di un secolo fa ancora vasti territori bianchi sulla carta. Forse ci può
aiutare a
capire meglio il mito della frontiera americana, l'ansia certo prima di tutto di conquistare e di occupare, ma
anche di conoscere lo spazio vuoto dell'aldilà, il terreno più adatto per le proiezioni
immaginarie. Ma oggi che tutti gli spazi sono stati attentamente cartografati, che cosa resta da esplorare?
Forse la
wilderness si è spostata nel cuore della nostra stessa civiltà senza che ce ne siamo
accorti. Come nel Cuore
di tenebra di Conrad, chi ha il coraggio estremo di giungere fino ai limiti della nostra civiltà
trova quel
vuoto, quel cuore selvaggio e misterioso che credevamo di aver domato per sempre conquistando i nuovi
territori. E' forse in questo che si può rintracciare il senso più proprio del vagabondare,
oggi. L'ultimo vagabondo
americano, William Least Heat-Moon, insegnante di origine pellirossa, attraversa l'America per cercare
percorsi nuovi agli stessi abitanti dei luoghi, perché spesso ci sfugge proprio ciò che abbiamo
davanti agli
occhi e dobbiamo spostarci per vederlo. Strade blu è il taccuino di un vagabondo colto
alla ricerca di un'altra America attraverso le strade blu (le
strade secondarie che sulle cartine americane hanno questo colore). Lentamente emerge un'immagine
dell'America lontanissima da quella cui i giornali e i film ci hanno abituato; degli USA conosciamo a grandi
linee New York, San Francisco e Los Angeles, con la cultura che da lì proviene. Vagabondare mostra
i
limiti di un'identità culturale territoriale costruita appiccicando decalcomanie dall'alto. Mostra che non
ci
sono americani, più di quanto non ci siano italiani. Ed è proprio questo movimento di
attraversamento dei confini, delle frontiere a sfumare quei contorni
troppo netti con i quali siamo soliti rappresentarci la realtà. Consideriamo più spesso i limiti
come ostacoli
che come punti di relazione: se è chiara a tutti la funzione protettiva, di contenimento del limite, meno
praticata nella nostra cultura è l'immagine del limite come punto di passaggio, come relazione tra
territori
diversi. E' l'incontro con altre culture, ma non a caccia dell'esotico fine a se stesso; piuttosto si tratta di un
esercizio di sradicamento dal centro, un tentativo di vedersi con gli occhi dell'altro, un'affacciarsi su altre
culture, sapendo di non poter abbandonare la propria, cercandone i limiti, le incrinature, le brecce di
passaggio. Nelle sue peregrinazioni il vagabondo porta con sé la propria cultura; Thoreau non dimentica
neanche per un istante di essere un occidentale e anche se non porta con sé i suoi amati libri, continua
a
dialogare da lontano con gli autori che ama. Chatwin, per parlare di un altro vagabondo a noi
contemporaneo, è un occidentale profondamente colto che vagando tra le culture diverse riesce a vedere
con
occhi diversi quella in cui è immerso.
L'esperienza dello
sradicamento Forse nel vagabondare si riesce a cogliere meglio
quello che è uno dei segni della nostra epoca moderna:
l'esperienza dello sradicamento. Quel non riuscire più a rappresentarsi semplicemente come
un'unità dentro
a un cerchio magico, il confine, il sentimento di paura e di attrazione che lo sradicamento moderno produce,
vengono percepiti distintamente quando siamo lontani dalla Casa. L'allentarsi dei legami sociali viene
sperimentato volontariamente nell'esperienza della fuga solitaria.
Perché bisogna toccare la propria solitudine essenziale per unirsi agli altri più saldamente. In
fondo si vaga
anche per cercare quella comunità con gli altri che abbiamo perduto, una comunità senza forma,
senza
indirizzo che appare prima di tutto nel sentimento di un'appartenenza universale. Si vaga forse anche per
sentirsi fratelli del mondo. Il viaggio del vagabondo attraverso lo spazio e il tempo è metafora del
movimento interiore. L'abbandonare le cose, i luoghi, le persone conosciute porta lentamente il viandante
fuori dalle proprie abitudini. Ma qui è il punto importante. Ciascuno porta dentro di sé
la propria casa e la cerca nei luoghi che visita senza mai poterla trovare. Il vero
viaggio è interminabile ed è il mantenersi in questa incertezza, sempre perduti oppure sul punto
di trovare,
che rende incomparabilmente ricco d'esperienza il vagabondare. Vagabondare è uscire dal "luogo
comune" come abitudine di pensiero e anche come luogo dell'abitare
consueto. E' dunque prima di tutto riconoscere che viviamo in luoghi comuni, fatti da altri per noi, sentire
e vivere
un'inquietudine profonda che ci spinge a uscire, a muoverci nella direzione dei nostri desideri. "Se uno
avanza fiducioso nella direzione dei suoi sogni e cerca di vivere la vita che s'è immaginato,
incontrerà un
inatteso successo nelle ore comuni. Si lascerà qualcosa alle spalle, passerà un confine invisibile;
leggi
nuove, universali e più libere cominceranno a stabilirsi dentro e intorno a lui; oppure le vecchie leggi
saranno estese e interpretate in suo favore in senso più ampio" (Thoreau, Walden,
399).
|