Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 193
estate 1992


Rivista Anarchica Online

Una protesta contingente

Grazie alla particolarità della mia condizione, godo del discutibile "privilegio" di appartenere ad una categoria di persone cui non viene chiesto (e anche se lo volessero non verrebbe concesso) di recarsi alle urne. Personalmente, quindi, non mi sono trovato a dover pormi il problema di una scelta tra l'astenermi o l'andare a votare. Non essendomelo posto, non posso neppure dire con certezza come l'avrei risolto. Tuttavia, proprio come non trovo niente di assurdo nel fatto che un "riformato" alla visita di leva si interessi all'obiezione di coscienza o un omosessuale alla questione del diritto di aborto, ritengo che possa essere lecito anche a me di riflettere, farmi delle opinioni e parlarne, sul tema della attualità e validità del tradizionale rifiuto assoluto del movimento anarchico alla partecipazione elettorale. Comincerò col dire che, anche se una sola volta, più di trent'anni fa e in un'epoca in cui non mi dichiaravo anarchico, ho votato anch'io, ho votato anch'io. Si trattava di "elezioni amministrative" e il mio voto (anche se mi ero già allontanato da quel partito, mi fosse indifferente e non mi aspettassi niente da un suo eventuale successo locale) andò al PCI che presentava come "capolista" un ex-sindaco della città.
Si trattava, indubbiamente, di una persona onesta e degna di rispetto. Senza ombra di dubbio la gestione dell'amministrazione comunale da parte della giunta da lui presieduta era stata molto più corretta e "pulita" di quella della giunta scudocrociata che le era succeduta. Ma non fu questo ad indurmi a votare quel partito e quell'ex-sindaco. Non si trattava, cioè, di una scelta che nasceva da considerazioni analoghe a quelle esposte da Elisabetta Minini nella sua lettera ("A" n. 190). Quel mio voto rientrava, piuttosto, nell'ambito del cosiddetto "voto di protesta". Non tanto, però, di una protesta contro il malgoverno, le inadempienze, l'avvio di disinvolte operazioni di speculazione edilizia, le ruberie, ecc. della giunta democristiana, quanto contro una "immagine" che mi disturbava: quella del Veneto "bianco" roccaforte del clericalismo, vivaio e serbatoio inesauribile della D.C. Insomma, di tutta la regione solo Venezia, il suo capoluogo, era la città che aveva avuto una giunta "rossa", l'unica località dove De Gasperi aveva potuto parlare in piazza solo per la presenza di ingentissime forze di polizia e col corollario di numerose "cariche" della Celere e scontri protrattisi per ore. Era, infine, una città dove non sembrava irragionevole ipotizzare una sconfitta elettorale del partito di governo. Ecco, non che la cosa avrebbe contato molto, ma mi sarebbe piaciuto (per un fatto "estetico"?, per una forma di "campanilismo"?, per un "capriccio" personale?: mettetela come vi pare) se la città dove ero nato e vivevo si fosse data un sindaco comunista e diversificata così dalle altre della regione. Ho citato questo episodio solo per dire che, proprio come tante e differenti possono essere le ragioni per cui uno si astiene dal recarsi a votare, le motivazioni che spingono un altro ad andarci e a fare una certa scelta possono essere le più svariate. Ora, se riconosco che le mie di allora possono apparire piuttosto "futili" e devo dire che quelle avanzale da Elisabetta Minini, seppur rispettabili, mi paiono abbastanza opinabili (non fosse che perché, volendo dare il proprio voto ad un candidato ritenuto onesto, bisogna darlo anche alla lista di cui fa parte e non è detto che quel voto, anziché contribuire all'elezione di quello, non sia determinante per il raggiungimento del "quorum" che permetterà l'elezione di un altro, fosse anche il più disonesto di tutti) nutro qualche dubbio anche sulla attualità e validità dell'astensionismo come scelta irrinunciabile e permanente.
Non contesto affatto il discorso di A. Di Solata ("A" n. 191) né, tantomeno, quello di Paolo Finzi ("A" n. 190) che trovo entrambi assai lucidi e convincenti. Tuttavia, essendo le elezioni, oggi più che mai, oltre che uno strumento per la conquista di una fetta di potere, anche una sorta di "sondaggio" degli umori della gente (e, come tale, condiziona le scelte operative di una classe politica più interessata ad accattivarsi l'opinione pubblica che a questioni di contrapposizione ideologica) mi chiedo se non possa darsi il caso (nello stesso spirito con cui gli anarchici non si sono mai tirati indietro dal partecipare ad uno sciopero o ad un corteo, quando ritenessero di condividerne le motivazioni, anche se l'iniziativa veniva da partiti o gruppi molto lontani da noi sul piano ideologico) di situazioni in cui sia lecito, e magari anche giusto, ricorrere anche al voto per esprimere una protesta e una testimonianza di dissenso verso certe specifiche operazioni e manovre del potere. ll cosiddetto "voto di protesta" che pure ha talvolta contribuito a "disturbare" certi "equilibri" e certi progetti del potere, non gode in Italia di troppo buona fama. Lo si è visto, infatti, andare, nel dopoguerra all'"Uomo Qualunque" del commediografo Giannini. Più tardi, specie nel Sud, addirittura ai neofascisti di Almirante. Ora ne ha goduto il confusionario (e a mio avviso "fascistoide") movimento "leghista" di Bossi.
Ma non è detto che debba sempre essere così.
Mi spiegherò con degli esempi: quando, subito dopo l'introduzione (voluta ossessivamente da Craxi) della cosiddetta "Legge Jervolino Vassalli", ci sono state le elezioni amministrative a Milano, una affermazione consistente della lista "antiproibizionista" non avrebbe certamente potuto cambiare niente, ma ciò non toglie che avrebbe certamente avuto un certo significato, i cui effetti, non fosse che nel senso di indurre la gente a riflettere sulla portata e i contenuti reali di una legge (per me assurda, deprecabile e pericoloso segnale della progressiva affermazione di una logica repressiva e ultrautoritaria) tanto incensata e vantata dai suoi estensori e dall'ipocrita servilismo dei "media".
Certo, e qui devo dar ragione a Di Solata, non sarebbe potuto essere il voto di qualche anarchico ad influire. Ma, appunto perché non si tratta di voler "vincere" o aiutare qualcuno a farlo, in una competizione elettorale, bensì dell'occasione per far sentire una voce di protesta e una "testimonianza" di segno libertario, anche i quantitativamente insignificanti (1000? 100? 10?) voti degli anarchici avrebbero avuto il loro senso.
Andrò più in là. Senza con questo voler suggerire che degli anarchici possano nutrire delle simpatie per "Rifondazione comunista" e votare per quel partito, confesso che, in un momento di estrema arroganza della Confindustria, di attacchi ai salari e alle pensioni, di licenziamenti massicci, ecc., non mi sarei rammaricato se "Rifondazione" avesse ottenuto un grosso successo elettorale. Non perché dovuto ad una massiccia adesione popolare alla sua ideologia, ma come forma di protesta contro la politica economica del governo.
Per concludere, non posso che essere d'accordo con Paolo Finzi quando dice che: "Disertando le urne, noi vogliamo sottolineare che altro sono - dovrebbero essere - i mezzi con i quali si esprime la società civile: mezzi di azione diretta, di autogestione (o, se preferiamo, gestione dal basso) che tendano a delegittimare il Moloch statale e la sua macchina stritolatrice delle libertà vere e dei diritti" ma è appunto quel "dovrebbero essere" che ci costringe ad ammettere di trovarci oggi in una situazione tale da ridimensionare quella proposta e farla diventare un semplice "auspicio".
Quando le vie che ci piacerebbe percorrere si rivelano impraticabili, piuttosto di sederci per terra, "aspettando Godot" può forse valere la pena di non formalizzarsi troppo e prendere in considerazione tutte le possibilità di far sentire la propria voce, anche quella meno attraente della partecipazione, "le cas échéant" ad un voto che si caratterizzi come, contingentemente, di tipo "protestatario".

Gianfranco Bertoli
(carcere di Porto Azzurro)