Rivista Anarchica Online
Una protesta contingente
Grazie alla particolarità della mia condizione, godo del discutibile "privilegio" di
appartenere ad una categoria
di persone cui non viene chiesto (e anche se lo volessero non verrebbe concesso) di recarsi alle urne.
Personalmente, quindi, non mi sono trovato a dover pormi il problema di una scelta tra l'astenermi o l'andare
a votare. Non essendomelo posto, non posso neppure dire con certezza come l'avrei risolto. Tuttavia, proprio
come non trovo niente di assurdo nel fatto che un "riformato" alla visita di leva si interessi all'obiezione di
coscienza o un omosessuale alla questione del diritto di aborto, ritengo che possa essere lecito anche a me di
riflettere, farmi delle opinioni e parlarne, sul tema della attualità e validità del tradizionale
rifiuto assoluto del
movimento anarchico alla partecipazione elettorale. Comincerò col dire che, anche se una sola volta,
più di
trent'anni fa e in un'epoca in cui non mi dichiaravo anarchico, ho votato anch'io, ho votato anch'io. Si trattava
di "elezioni amministrative" e il mio voto (anche se mi ero già allontanato da quel partito, mi fosse
indifferente
e non mi aspettassi niente da un suo eventuale successo locale) andò al PCI che presentava come
"capolista"
un ex-sindaco della città. Si trattava, indubbiamente, di una persona onesta e degna di rispetto.
Senza ombra di dubbio la gestione
dell'amministrazione comunale da parte della giunta da lui presieduta era stata molto più corretta e
"pulita" di
quella della giunta scudocrociata che le era succeduta. Ma non fu questo ad indurmi a votare quel partito e
quell'ex-sindaco. Non si trattava, cioè, di una scelta che nasceva da considerazioni analoghe a quelle
esposte
da Elisabetta Minini nella sua lettera ("A" n. 190). Quel mio voto rientrava, piuttosto, nell'ambito del cosiddetto
"voto di protesta". Non tanto, però, di una protesta contro il malgoverno, le inadempienze, l'avvio di
disinvolte
operazioni di speculazione edilizia, le ruberie, ecc. della giunta democristiana, quanto contro una "immagine"
che mi disturbava: quella del Veneto "bianco" roccaforte del clericalismo, vivaio e serbatoio inesauribile della
D.C. Insomma, di tutta la regione solo Venezia, il suo capoluogo, era la città che aveva avuto una giunta
"rossa", l'unica località dove De Gasperi aveva potuto parlare in piazza solo per la presenza di
ingentissime
forze di polizia e col corollario di numerose "cariche" della Celere e scontri protrattisi per ore. Era, infine, una
città dove non sembrava irragionevole ipotizzare una sconfitta elettorale del partito di governo. Ecco,
non che
la cosa avrebbe contato molto, ma mi sarebbe piaciuto (per un fatto "estetico"?, per una forma di
"campanilismo"?, per un "capriccio" personale?: mettetela come vi pare) se la città dove ero nato e
vivevo si
fosse data un sindaco comunista e diversificata così dalle altre della regione. Ho citato questo episodio
solo per
dire che, proprio come tante e differenti possono essere le ragioni per cui uno si astiene dal recarsi a votare, le
motivazioni che spingono un altro ad andarci e a fare una certa scelta possono essere le più svariate.
Ora, se
riconosco che le mie di allora possono apparire piuttosto "futili" e devo dire che quelle avanzale da Elisabetta
Minini, seppur rispettabili, mi paiono abbastanza opinabili (non fosse che perché, volendo dare il
proprio voto
ad un candidato ritenuto onesto, bisogna darlo anche alla lista di cui fa parte e non è detto che quel voto,
anziché
contribuire all'elezione di quello, non sia determinante per il raggiungimento del "quorum" che
permetterà
l'elezione di un altro, fosse anche il più disonesto di tutti) nutro qualche dubbio anche sulla
attualità e validità
dell'astensionismo come scelta irrinunciabile e permanente. Non contesto affatto il discorso di A. Di Solata
("A" n. 191) né, tantomeno, quello di Paolo Finzi ("A" n. 190)
che trovo entrambi assai lucidi e convincenti. Tuttavia, essendo le elezioni, oggi più che mai, oltre che
uno
strumento per la conquista di una fetta di potere, anche una sorta di "sondaggio" degli umori della gente (e,
come tale, condiziona le scelte operative di una classe politica più interessata ad accattivarsi l'opinione
pubblica
che a questioni di contrapposizione ideologica) mi chiedo se non possa darsi il caso (nello stesso spirito con cui
gli anarchici non si sono mai tirati indietro dal partecipare ad uno sciopero o ad un corteo, quando ritenessero
di condividerne le motivazioni, anche se l'iniziativa veniva da partiti o gruppi molto lontani da noi sul piano
ideologico) di situazioni in cui sia lecito, e magari anche giusto, ricorrere anche al voto per esprimere una
protesta e una testimonianza di dissenso verso certe specifiche operazioni e manovre del potere. ll cosiddetto
"voto di protesta" che pure ha talvolta contribuito a "disturbare" certi "equilibri" e certi progetti del potere, non
gode in Italia di troppo buona fama. Lo si è visto, infatti, andare, nel dopoguerra all'"Uomo Qualunque"
del
commediografo Giannini. Più tardi, specie nel Sud, addirittura ai neofascisti di Almirante. Ora ne ha
goduto il
confusionario (e a mio avviso "fascistoide") movimento "leghista" di Bossi. Ma non è detto che
debba sempre essere così.
Mi spiegherò con degli esempi: quando, subito dopo l'introduzione (voluta ossessivamente da Craxi)
della
cosiddetta "Legge Jervolino Vassalli", ci sono state le elezioni amministrative a Milano, una affermazione
consistente della lista "antiproibizionista" non avrebbe certamente potuto cambiare niente, ma ciò non
toglie
che avrebbe certamente avuto un certo significato, i cui effetti, non fosse che nel senso di indurre la gente a
riflettere sulla portata e i contenuti reali di una legge (per me assurda, deprecabile e pericoloso segnale della
progressiva affermazione di una logica repressiva e ultrautoritaria) tanto incensata e vantata dai suoi estensori
e dall'ipocrita servilismo dei "media".
Certo, e qui devo dar ragione a Di Solata, non sarebbe potuto essere il voto di qualche anarchico ad influire. Ma,
appunto perché non si tratta di voler "vincere" o aiutare qualcuno a farlo, in una competizione elettorale,
bensì
dell'occasione per far sentire una voce di protesta e una "testimonianza" di segno libertario, anche i
quantitativamente insignificanti (1000? 100? 10?) voti degli anarchici avrebbero avuto il loro senso.
Andrò più in là. Senza con questo voler suggerire che degli anarchici possano nutrire
delle simpatie per
"Rifondazione comunista" e votare per quel partito, confesso che, in un momento di estrema arroganza della
Confindustria, di attacchi ai salari e alle pensioni, di licenziamenti massicci, ecc., non mi sarei rammaricato se
"Rifondazione" avesse ottenuto un grosso successo elettorale. Non perché dovuto ad una massiccia
adesione
popolare alla sua ideologia, ma come forma di protesta contro la politica economica del governo.
Per concludere, non posso che essere d'accordo con Paolo Finzi quando dice che: "Disertando le urne,
noi
vogliamo sottolineare che altro sono - dovrebbero essere - i mezzi con i quali si esprime la società
civile: mezzi
di azione diretta, di autogestione (o, se preferiamo, gestione dal basso) che tendano a delegittimare il Moloch
statale e la sua macchina stritolatrice delle libertà vere e dei diritti" ma è appunto quel
"dovrebbero essere"
che ci costringe ad ammettere di trovarci oggi in una situazione tale da ridimensionare quella proposta e farla
diventare un semplice "auspicio". Quando le vie che ci piacerebbe percorrere si rivelano impraticabili,
piuttosto di sederci per terra, "aspettando
Godot" può forse valere la pena di non formalizzarsi troppo e prendere in considerazione tutte le
possibilità di
far sentire la propria voce, anche quella meno attraente della partecipazione, "le cas échéant"
ad un voto che
si caratterizzi come, contingentemente, di tipo "protestatario".
Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)
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