Rivista Anarchica Online
Pace e transizione
di Filippo Trasatti
La notizia della morte di Ernesto Balducci, avvenuta nel maggio scorso, mi ha
scosso come una perdita
importante. Pur non conoscendolo personalmente, ho maturato per lui una certa stima ed affetto che di rado
capita
di attribuire a personaggi pubblici. E nonostante la perplessità che la sua appartenenza al mondo
cattolico mi
suscitava, l'ho sempre considerato come un interlocutore importante con cui discutere. Il suo temperamento
collerico trovava espressione in dibattiti spesso accesi, senza quel tocco di spettacolarizzazione che spesso li
caratterizza. La sua voce divenne ancor più pubblica e più nota l'anno scorso nel periodo della
guerra del Golfo
durante la quale fu attivo animatore di iniziative pacifiste, di un pacifismo che si sentiva sostanziato da una
riflessione
profonda e da una ricerca critica certamente non occasionali. Di questo percorso offre una preziosa
testimonianza l'antologia filosofica da lui curata per le scuole superiori intitolata: La pace.
Realismo di una
utopia, Principato, Milano 1983, che raccoglie testi intorno al problema della pace da Erasmo da
Rotterdam
ai giorni nostri. Nella scelta degli autori è possibile vedere in filigrana il retroterra culturale che fa da
sfondo
alle ricerche di Balducci: l'amore per gli umanisti, il confronto con la tradizione marxista, la ricerca di una
dimensione nuova e viva del cristianesimo oggi, la viva curiosità per gli apporti della psicoanalisi,
l'interesse
per quelle scoperte scientifiche che hanno un significato importante per l'intera umanità.
Queste coordinate si ritrovano nel suo ultimo libro, uscito quest'anno presso le Edizioni Cultura della Pace da
lui fondate: La terra del tramonto. Saggio sulla transizione.
La transizione di cui si parla nel sottotitolo è quella oltre la modernità. In questo senso il libro
si inserisce in
quel filone del dibattito contemporaneo sulla fine della modernità e il presunto inizio della
post-modernità.
Tanto basterebbe ad escluderlo dalle letture, dirà qualcuno; invece no perché, pur affrontando
questioni epocali,
lo fa in un modo non presuntuoso e apocalittico, sostanzialmente a mio parere per due ragioni: Balducci non
è e non vuol essere uno specialista e dunque nelle sue analisi adotta approcci diversi, mutuati dalla
psicoanalisi,
dall'etnologia, dalla genetica, dalla teologia, rischiando certamente un certo eclettismo, ma superando il rischio
di privarsi per sempre di una visuale più allargata sul mondo; seconda, o forse più importante
ragione, Balducci
non si fa schiacciare in quell'appiattimento storico, in quell'approccio da fine della storia, secondo alcuni critici
caratteristico degli ingegni postmoderni.
Libro di amplissimo respiro che ha il merito di connettere alcune tematiche fondamentali per la nostra epoca,
lette all'interno di una prospettiva di mutamento antropologico che, a suo parere, è già in corso
e che conduce
oltre i confini della modernità. Cerchiamo di capire meglio perché secondo lui (e non solo
secondo lui) la
modernità è in crisi e qual è la direzione verso la quale ci si sta muovendo.
L'epoca moderna, aperta dalle grandi scoperte geografiche (la data emblematica è ovviamente il 1492:
l'America) è caratterizzata da un'espansione continua e distruttrice fino ai confini del mondo, alla ricerca
di terre
da colonizzare, uomini da schiavizzare, spazi da invadere con il proprio modello culturale, sociale ed
economico. Un movimento di espansione dell'uomo europeo caratterizzato essenzialmente dalla conquista
dell'altro secondo due distinti modelli: assimilazione e subalternità. L'incontro con l'altro, generalmente
predatorio, si concludeva con un'effettiva rimozione dell'alterità dell'altro e con la riaffermazione
potente della
supremazia della propria identità e della propria cultura. Civiltà, quella occidentale moderna,
caratterizzata da
un paradigma i cui pilastri fondamentali oggi sono in crisi: progressivo trionfo della ragione scientifica,
assoggettamento del pianeta al dominio dell'uomo tecnologico, fede nel progresso illimitato.
Se però ci si accontentasse di questo, si farebbe senz'altro torto alla modernità che al suo interno
ha elaborato
anche principi contraddittori rispetto al modello dell'espansione illimitata: quelli dell'uguaglianza tra i popoli,
dei pari diritti, del rispetto della diversità. Balducci sintetizza in questo modo una delle aporie
(cioè dei vicoli
ciechi, delle contraddizioni) della modernità: "Ecco la formulazione antinomica del vicolo cieco: la
cultura
dell'uomo moderno è universale perché di tappa in tappa ha maturato frutti che sono per tutti
gli uomini; la cultura
moderna non è universale perché la sua diffusione ha portato con sé la negazione, spesso
violenta, delle altre culture. Dall'antinomia si esce solo stabilendo, senza più perderla di vista, una
premessa: quella elaborata dalla
cultura moderna è un tipo di umanità tra innumerevoli tipi possibili".
Questa nuova consapevolezza è data proprio dai risultati che alcune scienze, costituitesi all'interno del
progetto
occidentale, hanno prodotto. Soprattutto l'etnologia e l'antropologia, scienze-chiave in questa fine di millennio,
sono servite a scardinare la visione della civiltà e dell'umanità universale, modellate su quelle
europeo-occidentali. Ma anche lo studio delle origini dell'uomo che ha mostrato l'infondatezza di più
vari razzismi, in
qualsiasi forma declinati, dato che il processo evolutivo dell'umanità è stato assolutamente
comune e che lo
sviluppo delle cosiddette "razze umane" è stato il prodotto nell'epoca più recente
dell'adattamento umano agli
ambienti della terra.
Inoltre, fatto molto importante, si è finalmente giunti a concepire i limiti della terra; la nascita di una
"cultura
ecologica" nel senso più alto del termine, in cui si riesaminano a fondo i rapporti tra l'uomo e la natura,
in cui
si capisce che è necessario assumersi la responsabilità delle proprie azioni sulla terra.
Ci sono almeno altri due "eventi" che possono essere considerate fratture fondamentali nella modernità
e a cui
Balducci non dedica, secondo me, sufficiente attenzione: lo sterminio degli ebrei e la bomba su Hiroshima.
Eventi
che sono invece assunti come centrali per la coscienza del mutamento epocale da altri pensatori, soprattutto
tedeschi, come Adorno e Gunther Anders e che conducono a una visione tragica dell'epoca
contemporanea.
Balducci sembra invece essere sostanzialmente ottimista: davanti al bivio evoluzione o annientamento totale,
già nel passato l'uomo ha saputo mostrare capacità e forze inaspettate per cambiare. Soprattutto
quando, nelle
ultime pagine del libro prospetta il superamento dello stato in direzione di una comunità mondiale
appoggiandosi
alle tesi di un antropologo, Marvin Harris, che così si esprime: "E' molto probabile che la nostra specie
non
sopravviverà al prossimo secolo, o addirittura ai prossimi cinquant'anni, se non saprà
trascendere l'insaziabile
volontà di sovranità ed egemonia caratteristica dello stato. E il solo modo per riuscirci
può essere proprio quello
di trascendere lo stato in sé stesso, con la creazione consapevole di nuovi sistemi per mantenere la legge
e
l'ordine su una base mondiale, e sostituendo la sovranità degli stati attuali con una federazione
mondiale". A
che conseguenze possa portare un certo modo d'intendere il nuovo ordine mondiale lo si è visto
abbastanza
chiaramente proprio in quella guerra del Golfo contro la quale, più degli altri, proprio lo stesso Balducci
aveva
alzato la voce. La proposta politica, la formulazione giuridica di un organismo che rappresenti la
comunità
mondiale fa acqua proprio perché l'immagine di una comunità mondiale è
sostanzialmente falsa. Non bisogna
lasciarsi illudere dalle immagini del villaggio globale, che sono il frutto dell'occidentalizzazione del mondo;
le differenze sul piano economico, politico, religioso, morale restano rilevantissime e non possono essere
cancellate, con un colpo di spugna, dall'immagine patinata di una nuova armonia mondiale.
C'è un altro filone, a mio parere molto interessante, che corre lungo tutto il libro, ed è quello
di una nuova visione
della storia, in un'epoca che, come abbiamo detto più sopra, sembra caratterizzarsi proprio per
l'evaporazione
della storicità. Orwell, che Balducci cita di passaggio, aveva in 1984
immaginato un mondo totalitario governato
dal Grande Fratello in cui era fondamentale per la sopravvivenza del sistema la pratica della distruzione del
passato: "chi controlla il passato, controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato", questo era
lo slogan del Partito. La differenza fondamentale tra quell'antiutopia e il mondo in cui viviamo sta nel modo di
manifestazione del potere, che là era evidentemente visibile (il Partito era ovunque) e che per noi
è diventato,
per usare un'espressione di Guy Debord, "spettacolo".
In questa situazione diventa cruciale delineare quelle linee di resistenza alla società dello spettacolo che
nel giro
di vent'anni ha praticamente conquistato il pianeta. Una coincidenza mi ha colpito: nel giro di qualche giorno
leggendo Balducci, un' intervista a Canevaro (decisamente consigliabile, pubblicata sul n.14 del mensile
Una
città, giugno 1992) e parlando con un amico, ho ritrovato un riferimento comune al
concetto di resistenza della
memoria. Balducci parla dell'importanza di quel filone di studi storici che indagano la resistenza della memoria
in uno stato di oppressione: i paesi socialisti prima del crollo, ma anche gli studi sui lager nazisti. Canevaro si
spinge più in là e paragona l'universo dei campi di concentramento al mondo dei nostri giorni.
"Le
caratteristiche dell'universo concentrazionario sono analoghe, ma con una sorta di contrappeso, a quelle
dell'universo consumistico. Così ad esempio da un lato abbiamo l'assenza assoluta di informazioni e
dall'altro
il bombardamento e la schiavitù dei media. Da un lato la spersonalizzazione più totale (...) e
dall'altro l'invasione
di gadget, accessori ecc. la ricerca del colore, dell'appariscenza che in realtà, però, uniformano
e
spersonalizzano. Si direbbe che nel nostro mondo la situazione rispetto a quella dei campi si è
capovolta, ma
non ne siamo usciti". La conclusione, analoga a quella di Balducci, è che quelle esperienze possono
oggi
insegnarci qualcosa per trovare delle linee di resistenza.
Aggiunge Canevaro: "La resistenza dev'essere non resistenza qui per andare altrove, ma resistenza e basta,
resistenza totale. Ma altrettanto fondamentale è la costruzione del condiviso, della resistenza in due,
in tre, in
quattro, della solidarietà".
Alla base di questa resistenza sta la capacità di tener desta la memoria, anzi etnologicamente parlando,
le memorie.
Balducci ripropone qui una concezione della storia assai lontana da quella implicita nella disciplina che tutti
abbiamo studiato (e che si continua a studiare) a scuola. La grande Storia è sostanzialmente storia dei
vincitori,
una sorta di caterpillar che spiana la strada ai movimenti dominanti, che seppellisce le culture diverse, le
minoranze, gli sconfitti sotto il peso dei documenti dei vincitori. Sono venute alla luce "isole di storia" (una
bella espressione di Marshall Sahlins) non riducibili al percorso della storia occidentale, in sostanza una
varietà
di tempi storici che non possono essere costretti nell'alveo del progresso dalla preistoria al postmoderno,
perché
hanno in sé una concezione radicalmente diversa del tempo, dello spazio e del ritmo storico. Siamo
dunque
ritornati all'antropologia come scienza cruciale che ci consente di vederci dall'esterno, di sospendere le nostre
categorie in uno sguardo differente, venuto da lontano, e che può aiutarci anche qui nelle metropoli
occidentali
a costruire quelle linee di resistenza di cui parlavamo.
Questa mi sembra oggi una questione molto importante su cui Balducci ha il merito di portare l'attenzione: la
resistenza della memoria, intesa non solo come memoria personale, ma come salvaguardia delle memorie che
costituiscono il mosaico variopinto dell'umanità. Dentro questo cerchio incompiuto
dell'umanità, della
differenza e della comunità dell'umano, dorme ancora il germe del cambiamento.
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