Ogni volta che un movimento sembra delinearsi attorno a dei valori universali,
ci troviamo rapidamente
confrontati alla questione nazionale, al bisogno di affermazione di identità represse. Questo è
ciò che certamente
sta accadendo in URSS e nell'Europa dell'Est: per assurdo, la storia accelerata dalle rivoluzioni della fine del
comunismo, ci riporta ai due secoli passati.
In un primo tempo, nella Polonia degli anni '80, ad esempio, l'aspirazione democratica e l'affermazione
nazionale non sembravano per niente contraddittorie rispetto al nazionalismo polacco e alle sue relazioni con
la religione e la storia. Oggi le cose sono cambiate: esiste una contraddizione apparente tra la modernizzazione
democratica e l'ondata dei nazionalismi che si esprimono in URSS o in Jugoslavia. Ma ancora bisogna tentare
di andare al di là della subitaneità delle cose, dell'espressione brutale di tal o tal altro
movimento, ancora occorre
tentare di non classificare questi movimenti, in funzione della simpatia che possono ispirare gli Armeni, della
vergogna che proviamo dinnanzi ai Baltici o della repulsione suscitata da quei presunti barbari che sono gli
Azeri e l'insieme dei mussulmani dell'URSS. Prodotto della storia, completamente dimenticati al centro di
ciò
che si potrebbe chiamare, con Orwell, l'Eurasia, questi popoli sorgono bruscamente nella storia. Il loro
nazionalismo ci sembra terrificante.
Lo è rispetto a molte considerazioni. Ma in cosa sarebbe meno legittimo rispetto a quello dei Lituani
e degli
Armeni? O a quello dei Tedeschi che avevamo tranquillamente eliminato dalle riflessioni europee che si
fondavano, senza dirlo, sulla perennità del muro. Che questo piaccia o no, il post-comunismo, il
post-guerra fredda, sono segnati dall'emergenza massiccia dei
nazionalismi, come se si trattasse di un sostanziale ritorno del XIX secolo, rinviandoci tutte in una volta
l'unità
tedesca, i Balcani, il Caucaso... Lo schema al quale eravamo più o meno abituati si riduce in frammenti:
sino
a quel momento, potevamo senza troppe difficoltà rifiutare il nazionalismo delle potenze dominanti per
ammettere, e in certi casi sostenere, quello delle minoranze e delle nazioni oppresse, liberi di scoprire un
sistema infinito di scatole cinesi ogni volta che un antico paese colonizzato accedeva allo statuto di
Stato-Nazione, opprimendo i suoi Berberi, i suoi Curdi, i suoi Bengalesi o i suoi Biafrani.
Questo metodo, quanto meno empirico, non può più funzionare. Ora, che sia o no legato a una
questione
religiosa, il nazionalismo conferma di essere la forma religiosa meglio condivisa al mondo. Lo si ritrova al
centro dei tre tipi di domande politiche con le quali ci dobbiamo confrontare: quella del processo di
affondamento del comunismo, quella dell'Europa e quella della Francia dove il meno che si possa dire è
che una
angoscia identitaria segna la vita politica; e io penso tanto alla persistenza di un nucleo di estrema destra che
alla maniera in cui si può reagire a sinistra alla vista di un foulard.
Ci si può eventualmente riferire a un paradosso constatando la presenza universale dei nazionalismi...
Il fatto
che l'affermazione dei particolarismi e delle singolarità si appropria di forme, di linguaggi
singolarmente
uniformi. Anche se si ha ogni volta una lingua propria, una storia, una religione o le varianti locali di una
religione, si ritrova la stessa cosa ovunque... E pertanto, è sempre una domanda di identità, di
affermazione di
una identità... Con, onnipresente, una confusione di termini, una confusione costante tra l'individuo e
il gruppo.
Strana contraddizione
Una cosa è parlare di identità di una nazione. Il concetto è discutibile ma lo si
può considerare come approccio
della questione nazionale. Altra cosa è l'identificazione degli individui con la loro nazione reale o
supposta,
l'affermazione dell'appartenenza nazionale o anche regionale come fondatrice della personalità. In altre
parole,
l'individuo avrebbe espresso l'essenziale a se stesso dichiarando la sua nazionalità. Si capisce bene la
confusione
quando questa risponde al sentimento di annientamento individuale e collettivo prodotto dallo Stato totalitario.
È abbastanza evidente in URSS, dove la maggioranza stessa, riallacciandosi con la pratica ortodossa,
cerca una
affermazione russa e sente come un fardello imposto la vocazione universalistica che il vecchio linguaggio
della
propaganda politica dava al popolo russo visto come portatore della bandiera dell'internazionalismo. Ma questa
confusione dell'individuale e del collettivo, della memoria ritrovata e dell'identificazione al gruppo è
evidentemente totalitaria nel senso più classico del termine.
La questione dell'identità nazionale non può concepirsi che nel suo movimento. In ultima analisi
è vissuta come
rivendicazione, nel processo di accesso al riconoscimento o alla costituzione di uno Stato-Nazione.
L'identificazione perde evidentemente la sua forza nel quadro di uno Stato Nazione costituito da lungo tempo,
ripiegato sulle sue frontiere e che non abbia obiettivi di conquista. Ma in questo caso in cui il nazionalismo si
conferma sorpassato nel senso in cui non produce alcuna prospettiva, dove non offre alcuna promessa
d'avvenire, nessun immaginario sostitutivo viene a rimpiazzare il patriottismo. E' quel che sta accadendo in
Francia dove l'internazionalismo non si è mai imposto, dove le strutture successive che l'hanno invocato,
la
SFIO come il PC, sono ritornati al discorso nazionale, in entrambi i casi dopo una decina di anni d'esistenza.
I1 solo sogno oltre frontiera sarebbe stato il colonialismo. In quanto all'Europa non è che una litania,
non esiste
un immaginario europeo, né un messianismo europeo.
Meglio: gli intellettuali non si sono mai frequentati così poco in Europa...
Le relazioni più dirette sono con l'Est. Risultato, l'ideologia meglio strutturata in Francia, la più
resistente, dà
luogo al nazionalismo. È un po' disperante ma sarà così fin tanto che la struttura della
rappresentazione sarà
nazionale, fino a che imporrà il discorso. Esiste una strana contraddizione: anche se la cultura vissuta
o
consumata è da lungo tempo cosmopolita, se di fatto essa traduce un mondo urbano internazionale,
anche se
questo mondo è sempre più presente, in termini di comunicazione, è quasi impossibile
eliminare il sentimento
di appartenenza.
Sistema difensivo
Come è rivendicata oggi, l'identità nazionale è la versione soft, il prodotto di
sostituzione delle vecchie tipologie
razziali. Queste tipologie impregnano la letteratura popolare francese, ma non solo la letteratura popolare, dato
che la si ritrova anche tra i dandy a partire da Paul Morand (1): luoghi comuni e profondamente radicati come
quello dei tratti caratteriali inerenti una razza, l'ebreo, il tipo mediterraneo. Anche se non si è mai troppo
lontani
dalla definizione delle brune e delle bionde nel dizionario di Flaubert, questa caratterizzazione razziale ha
sempre funzionato. Basta vedere a cosa risponde l'abate Grégoire in occasione del concorso di Metz
(2).
Salvo che questa tipologia delle razze serviva ieri a denunciare le razze inferiori o le razze perverse e perniciose
e che funziona diversamente oggi.
Ormai il criterio identificatorio si rivendica: il razzismo funziona come sistema difensivo.
Prima di denunciare e di attaccare l'altro gruppo, bisogna prima definire il proprio, stabilire i criteri di
appartenenza. Ho ribaltato in maniera paradossale, insieme a Brice Couturier, una questione in realtà
seria,
affermando che non esisteva una questione ebraica ma una questione goy (3), che il problema
dell'identità era
quello dell'appartenenza a una maggioranza e non quello dell'appartenenza a una minoranza. Questo è
quel che
esprime Pamiat, caricatura dei nazionalismi maggioritari: in URSS si sa più o meno cosa significa essere
armeno, lituano, si sanno distinguere le nazionalità minoritarie della cittadinanza sovietica, ma come
essere
russi, come distinguere il Russo dal Sovietico? Stessa questione, evidentemente, per il Francese di Francia,
disperatamente francese, senza che il minimo segno allogeno venga a distinguere la sua discendenza. Il
nazionalismo, da qualsiasi parte provenga, è reazionario nel senso letterale del termine: cerca di
rispondere con
l'affermazione identitaria, con il radicamento nella terra e nel passato, all'angoscia delle antiche nazioni
egemoniche. Da questo punto di vista, la Francia e la Russia si assomigliano, questi due Stati-Nazione che
hanno fondato un immaginario collettivo sulla missione storica che a partire dalle rivoluzioni, si erano
auto-attribuite. E l'una e l'altra si risvegliano alla fine di un sogno, cercando invano una nuova identità,
una purezza
del loro essere che sarebbe anteriore all'universalismo di un messaggio al giorno d'oggi caduco.
(traduzione di Elena Petrassi
da La règle du jeu, n. 3, gennaio 1991)
1) Morand ha fatto una classificazione degli Orientali, dai Levantini ai Cinesi, dando come comune
denominatore una
furbizia che rende pericoloso ogni viaggio a est di Atene. Quanto agli ebrei, essi hanno la particolarità
di pullulare in
alcune città, specialmente a New York. L'Americano, infine è un bambinone un po' incapace
di levarsi al di sopra del
suolo, così che Paul Morand prediceva, qualche anno prima della guerra, che gli Stati Uniti non
avrebbero mai avuto una
aviazione militare.
2) Nel 1788, l'accademia di Metz coronò l'abate Grègoire per il suo saggio sulla
rigenerazione fisica, morale e politica
degli ebrei. In quest'opera, Grégoire risponde a diverse idee, affermando che le donne ebree non sono
fatalmente
ninfomani, pur avendo una natura generosa, e che contrariamente ai luoghi comuni, gli uomini ebrei non hanno
le
mestruazioni. Il testo risponde evidentemente anche alle affermazioni più classiche concernenti il
denaro, la religione e
l'Alleanza.
3) Riflessioni sulla questione goy, Luogo comune 1988.