Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 186
novembre 1991


Rivista Anarchica Online

L'ultima chance

Sono riuscito finalmente a scrollarmi di dosso la mia profonda pigrizia sebbene sia stato tentato in precedenza di buttare giù qualche considerazione sulla rivista stessa ("A" proposito) e che investiva, a mio parere tutto il movimento anarchico.
Non posso sottrarmi ora dopo gli interventi di A. Pasquale su "A" 183, e la successiva lettera di M. Bookchin su "A" 185 sui temi del municipalismo e del bioregionalismo. Anche se posso trovarmi genericamente d'accordo circa le opinioni espresse da Pasquale relative alla tesi municipalista e rimproverare chi, come il movimento anarchico e libertario, si avvolge in uno stato aureo della purezza (a volte evidente) e di chi invece si rallegra del fatto che i Verdi stiano scivolando in una spirale politica tendenzialmente identica a quella precedente la loro apparizione sulla scena sociale (come in una sorta di autocompiacimento nel quale traspare il più delle volte una latente incapacità progettuale), penso sia necessario un ulteriore approfondimento per poter rendere attuabile questo strumento, che qui in Italia non ha ancora avuto un seguito. Il fatto che negli Stati Uniti questa pratica abbia trovato un terreno fertile, non significa che sia possibile operare un trasferimento contestuale identico, soprattutto per i diversi sistemi organizzativi delle due realtà, quella americana e quella europea. Il municipalismo, negli Stati Uniti, può ad esempio trovarsi avvantaggiato rispetto alle caratteristiche del governo locale italiano.
Il sociologo Raimondo Catanzaro afferma che "Una delle caratteristiche del governo locale italiano è la segretezza del processo decisionale. In pratica, tranne in alcuni grossi centri urbani dove è presumibile che la stampa eserciti un certo potere di controllo, si viene a conoscere soltanto la parte finale, vale a dire la delibera della giunta o del consiglio comunale. (...) in America invece la ripugnanza per la segretezza del governo fu un prodotto della sfiducia per l'aristocrazia, cosicché non soltanto esistono forme precise di pubblicità garantite soprattutto dai mass media locali (si pensi all'enorme sviluppo della stampa, della radio e della televisione in ogni comunità locale statunitense), ma tale pubblicità è consentita anche mediante la visibilità del braccio esecutivo. Tali caratteristiche del governo locale corrispondono ovviamente ad alcuni tratti salienti della società americana, tra cui vale la pena di ricordare soprattutto l'assenza di una classe aristocratica, e ciò che può definirsi come il modellarsi dello stato sulla società civile.
Al contrario in Italia il processo di formazione dello stato fu incentrato sull'esigenza di razionalizzare l'amministrazione, sottraendola nello stesso tempo a forme di pubblico controllo per impedire che i partiti potessero condizionare i processi amministrativi. (...) Ma tale sostituzione, se ha avuto come effetto l'unificazione forzata, politica e amministrativa del paese, ha anche prodotto un effetto di ritorno sull'organizzazione della società civile nelle comunità locali. La storia dell'Italia unita è anche storia dei tentativi delle forze sociali di organizzarsi nella società civile e degli ostacoli frapposti dallo stato mediante strutture e istituzioni formali e informali (non ultima il clientelismo)". (Citato in U. Bernardi Le mille culture, un testo che può entrare a far parte di una bibliografia sul localismo/municipalismo). Questo è uno degli aspetti che rende impossibile ogni tentativo di dare spazio alle culture locali e ogni ipotesi di autonomia. Ma in modo più ampio io mi chiedo se è possibile superare il concetto razional-burocratico di ente locale come è ancora oggi vissuto e pensato. Invece nutro molti dubbi circa un probabile dialogo aperto e proficuo con la base delle leghe, anche perché ho avuto modo di vedere direttamente quale sia il loro grado di politicizzazione. Per lo più si accontentano di ripetere automaticamente alcuni slogan, sostanzialmente acritici che hanno come nucleo fondamentale il generico motto "facciamo uno stato più piccolo in modo che noi possiamo così controllare le tasse e tutto andrà bene".
Esiste certamente un profondo malessere nei confronti dello stato, della burocrazia (perché la rivista non pubblica qualcosa su questo tema?) e dei partiti, che ha visto sorgere nuovi particolarismi, inizialmente nell'ambito della questione etnica, in un'accezione molto ristretta, fin ad assumere oggi una base regionale - la Lega appunto. Aldilà delle inaccettabili venature razziste che caratterizzano una parte di quel movimento, e che servono come alibi per il disinteresse generale, su almeno due punti - scrive De la Pierre - esso apporta elementi innovativi rispetto ai movimenti nazionalitari degli anni 60-70; la messa in discussione dell'artificiosa distinzione fra lingua e dialetto e in secondo luogo l'idea federalista (Il territorio dell'abitare).
E sul primo punto posso trovarmi d'accordo, sul secondo si tratterebbe di una riproposizione di una teoria che fa parte del patrimonio della sinistra libertaria, che oggi viene ripresa anche da alcune frange dei verdi.
Il fenomeno delle leghe, a dispetto del mio pessimismo, andrebbe analizzato a fondo, cercando di evidenziare i limiti e le potenzialità. Per quel che riguarda il bioregionalismo ho già avuto modo di esprimere le difficoltà che incontra questo progetto (sulle pagine di "A" 106 e 176) che non ritengo un'alternativa al municipalismo, almeno come la penso io. In passato sono esistite, per esempio, delle federazioni pirenaiche che univano con trattati le valli poste da una parte e dall'altra della catena montuosa, che sono state represse con l'avvento dello stato nazionale, ma non solo. Quando penso al bioregionalismo, vedo in esso la possibilità di ricostruire un tessuto federativo basato su un comune denominatore: una federazione montana, una federazione fluviale... e il comune denominatore non per forza di cose deve essere uno solo; su uno stesso territorio possono compenetrarsi una federazione etnica ed una montana...
Certamente mi trovo sostanzialmente d'accordo con Bookchin circa le critiche che muove al libro di Sale, Le regioni dell'abitare, edito da Eleuthera che ho letto malvolentieri, trovandolo di una semplicità allarmante, sprofondando a volte nel ridicolo. La cornice concettuale da cui prende avvio e nello stesso tempo si legittima, è quella della cosmologia Gaiana che apre e conclude il libro talmente ossessionante nella sua ripetitività da pensare che l'autore abbia bisogno di crederci veramente e per questo abbia bisogno di ripeterselo.
Si tratta di "verità fondamentali di Gea", di "principi di Gea", di "leggi di Gea", e altre definizioni letterarie fatte sull'ipotesi Gaia di Lovelock che Sale fa propria e l'innalza al rango di nuova divinità, che detta leggi a tutta la sfera umana; la legge della diversità, della complementarietà, della cooperazione, la legge non-gerarchica... (quest'ultima non mi riesce chiara, che sia un non-senso?), secondo lo schema: la scienza ci dice com'è la natura, vogliamo andare contro natura? (Ranci docet). Invece dovremo porre l'attenzione al fatto che probabilmente non esiste una scienza della natura, ma piuttosto una scienza della conoscenza della natura, e le speculazioni di Sale stravolgono le idee dell'ecologia sociale. Ma non è questa la sede per recensire il libro di Sale (che lo faccia AAM Terra Nuova a cui piace questa vaghezza d'idee) , anzi spero che nessuno ci perda più tempo di una semplice lettura. Esistono però molti approcci e percorsi teorico-pratici che si sono attivati in questi ultimi anni, alla ricerca di un localismo diverso, dove gli spazi non appaiono tutti uguali, contrariamente a tutti i pensieri universalizzanti che hanno cancellato le qualità peculiari dei luoghi. Mi riferisco allo sfondo teorico-filosofico da cui Alberto Magnaghi prende le mosse per una rinascita del locale e di una riappropriazione del territorio.
Ci vengono forniti anche alcuni strumenti per allargare il ventaglio di critiche all'ordine esistente: lo spazio geometrico euclideo le cui figure sono ritenute perfettamente riproducibili e trasferibili da un luogo all'altro secondo leggi universali; l'impoverimento delle individualità territoriali, ridotte a contenitori di attività e funzioni che trovano altrove la loro razionalità, sorrette dai principi della crescita illimitata e dal paradigma della modernizzazione (quello che in passato Marx ha chiamato la missione civilizzatrice del capitalismo)... Degli appunti di lavoro li ho riscontrati anche nella teoria dell'eco-sviluppo che richiede come condizione necessaria l'auto-organizzazione della popolazione interessata al proprio sviluppo, che è per definizione endogena, e che riguarda anche i temi dei bisogni, dell'identità e degli stili di vita (rimando alla lettura de I nuovi campi della pianificazione di I. Sachs).
Un grande sforzo teorico e pratico deve essere investito per vagliare attentamente il materiale a nostra disposizione, analizzare tutte queste opzioni a condizione però di ripensare all'anarchismo. Forse questa è veramente l'ultima chance che ci viene data per poter gettare le basi per una società libertaria e dovremo porci anche delle domande del tipo: cosa possiamo decentralizzare? !Tutto! O alcune cose rimarrebbero inevitabilmente centralizzate, e quali? E chi dovrebbe gestirle? E' sufficiente l'idea federalista per risolvere i problemi che oltrepassano il territorio comunale? O esistono alcune lacune che non sono state prese in considerazione...
Un'altra metà del lavoro deve essere fatta per poter creare gli strumenti che sul piano decisionale possono invertire la situazione attuale; cioè come passare dall'eteronomia all'autonomia (il modello di T. Gibson ci può aiutare?). Anche se noi avessimo attuato una politica di tipo municipalista e magari oggi la base delle leghe fosse dalla nostra parte, è molto probabile che sarebbe rimasto immutato quell'apporto attivo che noi richiediamo. Nel migliore dei casi la partecipazione comunitaria, che è il nocciolo della tesi municipalista, si sarebbe ridotta al semplice voto comunale. Inoltre le difficoltà dei nuovi movimenti sociali a rapportarsi al locale allo specifico ha diverse spiegazioni.
Come scrive A. Tosi "Tra i fattori decisivi va citata, per il nostro paese, la sostanziale estraneità della tradizione autogestionaria alla cultura di sinistra e ai movimenti sociali che hanno in genere condiviso i presupposti centralistici e unitari della tradizione amministrativa". (Il territorio dell'abitare).
E allora diffondiamo il germe dell'autogestione. Perché la rivista non pubblica o ripubblica dei saggi o articoli sull'autogestione? Ci sarebbero molte altre cose che viaggiano disordinatamente nella mia mente ma per ora penso che basti.
Scusatemi per le citazioni e i rimandi.

Polemik alias Gaetano Ricciardo
(Vigevano)