Sono riuscito finalmente a scrollarmi di dosso la
mia profonda pigrizia sebbene sia stato tentato in precedenza di
buttare giù qualche considerazione sulla rivista stessa ("A"
proposito) e che investiva, a mio parere tutto il
movimento anarchico. Non posso sottrarmi ora dopo gli interventi di A.
Pasquale su "A" 183, e la successiva lettera di
M. Bookchin su "A" 185 sui temi del municipalismo e del
bioregionalismo. Anche se posso trovarmi genericamente d'accordo
circa le opinioni espresse da Pasquale relative alla tesi
municipalista e rimproverare chi, come il movimento anarchico e
libertario, si avvolge in uno stato aureo della purezza (a volte
evidente) e di chi invece si rallegra del fatto che i Verdi stiano
scivolando in una spirale politica tendenzialmente identica a quella
precedente la loro apparizione sulla scena sociale (come in una
sorta di autocompiacimento nel quale traspare il più delle
volte una latente incapacità progettuale), penso sia
necessario un ulteriore approfondimento per poter rendere attuabile
questo strumento, che qui in Italia non ha ancora avuto un
seguito. Il fatto che negli Stati Uniti questa pratica abbia
trovato un terreno fertile, non significa che sia possibile
operare un trasferimento contestuale identico, soprattutto per i
diversi sistemi organizzativi delle due realtà, quella
americana e quella europea. Il municipalismo, negli Stati Uniti, può
ad esempio trovarsi avvantaggiato rispetto alle caratteristiche del
governo locale italiano. Il sociologo Raimondo Catanzaro afferma
che "Una delle caratteristiche del governo locale italiano è
la segretezza del processo decisionale. In pratica, tranne in alcuni
grossi centri urbani dove è presumibile che la stampa eserciti un
certo potere di controllo, si viene a conoscere soltanto la parte
finale, vale a dire la delibera della giunta o del consiglio
comunale. (...) in America invece la ripugnanza per la segretezza
del governo fu un prodotto della sfiducia per l'aristocrazia,
cosicché non soltanto esistono forme precise di pubblicità
garantite soprattutto dai mass media locali (si pensi all'enorme
sviluppo della stampa, della radio e della televisione in ogni
comunità locale statunitense), ma tale pubblicità è
consentita anche mediante la visibilità del braccio
esecutivo. Tali caratteristiche del governo locale corrispondono
ovviamente ad alcuni tratti salienti della società
americana, tra cui vale la pena di ricordare soprattutto l'assenza
di una classe aristocratica, e ciò che può
definirsi come il modellarsi dello stato sulla società
civile. Al contrario in Italia il processo di formazione dello
stato fu incentrato sull'esigenza di razionalizzare
l'amministrazione, sottraendola nello stesso tempo a forme di
pubblico controllo per impedire che i partiti potessero condizionare
i processi amministrativi. (...) Ma tale sostituzione, se ha avuto
come effetto l'unificazione forzata, politica e amministrativa del
paese, ha anche prodotto un effetto di ritorno sull'organizzazione
della società civile nelle comunità locali. La
storia dell'Italia unita è anche storia dei tentativi delle
forze sociali di organizzarsi nella società civile e degli
ostacoli frapposti dallo stato mediante strutture e istituzioni
formali e informali (non ultima il clientelismo)". (Citato in U. Bernardi Le mille culture,
un
testo che può entrare a far parte di una bibliografia sul
localismo/municipalismo). Questo è uno degli aspetti che
rende impossibile ogni tentativo di dare spazio alle culture locali
e ogni ipotesi di autonomia. Ma in modo più ampio io mi
chiedo se è possibile superare il concetto
razional-burocratico di ente locale come è ancora oggi
vissuto e pensato. Invece nutro molti dubbi circa un probabile
dialogo aperto e proficuo con la base delle leghe, anche perché
ho avuto modo di vedere direttamente quale sia il loro grado di
politicizzazione. Per lo più si accontentano di ripetere
automaticamente alcuni slogan, sostanzialmente acritici che hanno
come nucleo fondamentale il generico motto "facciamo uno stato
più piccolo in modo che noi possiamo così controllare
le tasse e tutto andrà bene". Esiste certamente un
profondo malessere nei confronti dello stato, della burocrazia
(perché la rivista non pubblica qualcosa su questo tema?)
e dei partiti, che ha visto sorgere nuovi particolarismi,
inizialmente nell'ambito della questione etnica, in un'accezione
molto ristretta, fin ad assumere oggi una base regionale - la
Lega appunto. Aldilà delle inaccettabili venature razziste
che caratterizzano una parte di quel movimento, e che servono
come alibi per il disinteresse generale, su almeno due punti -
scrive De la Pierre - esso apporta elementi innovativi rispetto
ai movimenti nazionalitari degli anni 60-70; la messa in discussione
dell'artificiosa distinzione fra lingua e dialetto e in secondo
luogo l'idea federalista (Il territorio dell'abitare). E
sul primo punto posso trovarmi d'accordo, sul secondo si tratterebbe
di una riproposizione di una teoria che fa parte del patrimonio
della sinistra libertaria, che oggi viene ripresa anche da
alcune frange dei verdi. Il fenomeno delle leghe, a dispetto
del mio pessimismo, andrebbe analizzato a fondo, cercando di
evidenziare i limiti e le potenzialità. Per quel che
riguarda il bioregionalismo ho già avuto modo di esprimere le
difficoltà che incontra questo progetto (sulle pagine di
"A" 106 e 176) che non ritengo un'alternativa al
municipalismo, almeno come la penso io. In passato sono
esistite, per esempio, delle federazioni pirenaiche che univano con
trattati le valli poste da una parte e dall'altra della catena
montuosa, che sono state represse con l'avvento dello stato
nazionale, ma non solo. Quando penso al bioregionalismo, vedo in
esso la possibilità di ricostruire un tessuto federativo
basato su un comune denominatore: una federazione montana, una
federazione fluviale... e il comune denominatore non per forza di
cose deve essere uno solo; su uno stesso territorio possono
compenetrarsi una federazione etnica ed una montana... Certamente
mi trovo sostanzialmente d'accordo con Bookchin circa le critiche
che muove al libro di Sale, Le regioni dell'abitare, edito
da Eleuthera che ho letto malvolentieri, trovandolo di
una semplicità allarmante, sprofondando a volte nel
ridicolo. La cornice concettuale da cui prende avvio e nello
stesso tempo si legittima, è quella della cosmologia
Gaiana che apre e conclude il libro talmente ossessionante nella
sua ripetitività da pensare che l'autore abbia bisogno di
crederci veramente e per questo abbia bisogno di ripeterselo. Si
tratta di "verità fondamentali di Gea", di
"principi di Gea", di "leggi di Gea", e altre
definizioni letterarie fatte sull'ipotesi Gaia di Lovelock che Sale
fa propria e l'innalza al rango di nuova divinità, che detta
leggi a tutta la sfera umana; la legge della diversità, della
complementarietà, della cooperazione, la legge
non-gerarchica... (quest'ultima non mi riesce chiara, che sia un
non-senso?), secondo lo schema: la scienza ci dice com'è la
natura, vogliamo andare contro natura? (Ranci docet). Invece
dovremo porre l'attenzione al fatto che probabilmente non esiste
una scienza della natura, ma piuttosto una scienza della conoscenza
della natura, e le speculazioni di Sale stravolgono le idee
dell'ecologia sociale. Ma non è questa la sede per recensire
il libro di Sale (che lo faccia AAM Terra Nuova a cui piace
questa vaghezza d'idee) , anzi spero che nessuno ci perda più
tempo di una semplice lettura. Esistono però molti
approcci e percorsi teorico-pratici che si sono attivati in questi
ultimi anni, alla ricerca di un localismo diverso, dove gli spazi
non appaiono tutti uguali, contrariamente a tutti i pensieri
universalizzanti che hanno cancellato le qualità peculiari
dei luoghi. Mi riferisco allo sfondo teorico-filosofico da cui
Alberto Magnaghi prende le mosse per una rinascita del locale e di
una riappropriazione del territorio. Ci vengono forniti anche
alcuni strumenti per allargare il ventaglio di critiche all'ordine
esistente: lo spazio geometrico euclideo le cui figure sono
ritenute perfettamente riproducibili e trasferibili da un luogo
all'altro secondo leggi universali; l'impoverimento delle
individualità territoriali, ridotte a contenitori di attività
e funzioni che trovano altrove la loro razionalità, sorrette
dai principi della crescita illimitata e dal paradigma della
modernizzazione (quello che in passato Marx ha chiamato la missione
civilizzatrice del capitalismo)... Degli appunti di lavoro li
ho riscontrati anche nella teoria dell'eco-sviluppo che richiede
come condizione necessaria l'auto-organizzazione della
popolazione interessata al proprio sviluppo, che è per
definizione endogena, e che riguarda anche i temi dei bisogni,
dell'identità e degli stili di vita (rimando alla lettura
de I nuovi campi della pianificazione di I. Sachs). Un
grande sforzo teorico e pratico deve essere investito per vagliare
attentamente il materiale a nostra disposizione, analizzare tutte
queste opzioni a condizione però di ripensare
all'anarchismo. Forse questa è veramente l'ultima chance
che ci viene data per poter gettare le basi per una
società libertaria e dovremo porci anche delle domande del
tipo: cosa possiamo decentralizzare? !Tutto! O alcune cose
rimarrebbero inevitabilmente centralizzate, e quali? E chi dovrebbe
gestirle? E' sufficiente l'idea federalista per risolvere i
problemi che oltrepassano il territorio comunale? O esistono alcune
lacune che non sono state prese in considerazione... Un'altra
metà del lavoro deve essere fatta per poter creare gli
strumenti che sul piano decisionale possono invertire la situazione
attuale; cioè come passare dall'eteronomia all'autonomia (il
modello di T. Gibson ci può aiutare?). Anche se noi avessimo
attuato una politica di tipo municipalista e magari oggi la base
delle leghe fosse dalla nostra parte, è molto probabile che
sarebbe rimasto immutato quell'apporto attivo che noi richiediamo.
Nel migliore dei casi la partecipazione comunitaria, che è il
nocciolo della tesi municipalista, si sarebbe ridotta al semplice
voto comunale. Inoltre le difficoltà dei nuovi movimenti
sociali a rapportarsi al locale allo specifico ha diverse
spiegazioni. Come scrive A. Tosi "Tra i fattori decisivi va
citata, per il nostro paese, la sostanziale estraneità della
tradizione autogestionaria alla cultura di sinistra e ai movimenti
sociali che hanno in genere condiviso i presupposti centralistici
e unitari della tradizione amministrativa". (Il territorio
dell'abitare). E allora diffondiamo il germe
dell'autogestione. Perché la rivista non pubblica o
ripubblica dei saggi o articoli sull'autogestione? Ci sarebbero
molte altre cose che viaggiano disordinatamente nella mia mente ma
per ora penso che basti. Scusatemi per le citazioni e i
rimandi.