Un'importante
esperienza di auto-produzione è stata la tournée
italiana del Living Theatre con il loro ultimo spettacolo "Mysteries
91", organizzato dal Circolo anarchico "Ponte
della Ghisolfa" di Milano. Cristina Valenti ripercorre la
storia di quest'opera teatrale la cui prima versione, datata
1964, scandalizzò e sconcertò saldando identità
artistica e pratica politica
È capitato a
più di un gruppo di teatro di (o forse a tutti) che in
situazioni di particolare difficoltà (esilio, emigrazione,
nomadismo, chiusura degli spazi o delle fonti di sostentamento) sia
stata la condizione di povertà e di sradicamento a
suggerire le nuove forme di sopravvivenza creative e che, in quei
casi, la cultura materiale della comunità si sia fatta essa
stessa oggetto di spettacolo. Così è stato per
Mysteries and Smaller Pieces, che il Living Theatre creò
collettivamente nel 1964 a Parigi, dove si trovava esule in seguito
alla chiusura del teatro americano da parte degli agenti del fisco.
Lo spettacolo faceva della povertà necessaria - di mezzi e
tecnologie - la virtù di un linguaggio comunicativo che
azzerava il livello delle convenzioni a teatro e intanto scopriva la
ricchezza inalienabile a disposizione dell'individuo attore: ossia
la possibilità di elaborare e montare i molti materiali
provenienti dalle pratiche di allenamento, dagli esercizi di
improvvisazione, dalle tecniche di meditazione e concentrazione, dai
moduli processuali del lavoro di gruppo. Il Living metteva in
scena se stesso, saldava identità artistica (ossia formazione
antiaccademica e autopedagogica) e pratica politica (ossia
dimensione anarchico-comunitaria di vita e di lavoro) nella
riflessione sui significati e le possibilità del rapporto
teatrale. Lo spettacolo scandalizzò e sconcertò.
Nessun testo drammatico, il palcoscenico pressoché
vuoto, eliminati i costumi e gli orpelli di scena, la negazione
totale di ogni codice di sviluppo narrativo. L'azione procedeva per
quadri, alcuni dei quali desunti dal repertorio delle produzioni
artistiche (come il primo, The brig dollar, dove gli attori
"fuggiti" dal Brig riproducevano il passo
cadenzato, dl marionette meccaniche, dei reclusi nella prigione per
marines) altri derivati dalle pratiche di training (come l'Accordo,
i Tableaux Vivants e Suono e movimento, ossia il coro senza
parole del cerchio di attori e spettatori e le invenzioni plastiche
e sonoro-gestuali improvvisate secondo i principi della libera
associazione e dell'automatismo), altri ancora tratti dai repertori
personali di singoli attori (il Raga, ossia il canto indù,
e le Street songs, canzoni di strada dell'amico poeta Jackson
MacLow), oppure ispirati a brani e pratiche di vita quotidiana (le
Odiferie, ossia i bastoncini d'incenso, il Respiro, il
Leone e lo Zh-Zh-Zh, vale a dire le tecniche della
meditazione yoga) e infine l'ultimo quadro, cioè la
materializzazione della visione artaudiana della peste: il flagello
sotto il quale "si disintegrano tutte le forme sociali". Il
cerchio si chiude nel nome di Artaud, la "folle musa" già
ispiratrice del Brig, e gli attori che compongono la piramide
dei cadaveri sono le vittime bruciate sul rogo del teatro: "che
lanciano segnali tra le fiamme", come voleva il grande
visionario francese. Quali segnali? Immagini di morte, campi di
concentramento, guerra sono evocate nella mente dello spettatore,
direttamente chiamato in causa dall'agonia degli attori che sono
andati a morire ai suoi piedi. "Sfido un qualsiasi spettatore
al quale simili scene violente abbiano trasmesso il proprio sangue -
la violenza del sangue essendo posta al servizio della violenza del
pensiero - sfido quello spettatore ad abbandonarsi, una volta uscito
di teatro, alle idee della guerra, della rivolta, dello sfacciato
assassinio", scriveva Judith Malina citando Artaud. Il
richiamo alla responsabilità individuale chiudeva
l'itinerario dei Mysteries, iniziato con l'immagine della
spersonalizzazione più totale, quella dei prigionieri del
Brig. In seguito alla prima parigina di ventisette anni fa, i
Mysteries hanno vissuto una lunga esistenza, fatta di una
prolungata permanenza in repertorio e di alcune riprese (le ultime
delle quali, sotto forma di seminario, a Parigi nel 1983 e a
Sant'Arcangelo nel 1986): un'esistenza garantita dalla condizione di
immortalità che non cessa di animare gli spettacoli nei quali
la memoria teatrale riconosce fonti di ispirazione e significati
duraturi. Tutte queste componenti: dello spettacolo di repertorio (e
quindi in qualche modo di presentazione del gruppo), dell'esperienza
teatrale di contenuto didattico e anche dello spettacolo-tributo da
rendere alla storia del Living, tutte queste componenti erano
presenti in Mysteries 91, recentemente realizzato a Milano.
Ma anche di alcune altre componenti occorre tener conto, legate
all'anomalia del progetto.
Organizzazione
autogestita e autofinanziata
Mysteries 91,
che è andato in scena al teatro di Porta Romana dal 1° al
6 di ottobre, ha rappresentato un'autentica stranezza nel panorama
della produzione e della distribuzione teatrale italiana, ma
ha anche segnato una significativa continuità nella storia
dei rapporti fra il Living Theatre e il movimento anarchico del
nostro paese. A permettere la realizzazione e la messa in scena
dello spettacolo non è stato un centro di produzione, non
hanno concorso finanziamenti pubblici né sponsor privati, non
è intervenuta alcuna rete di distribuzione. Piuttosto, si è
attivata quella forma di organizzazione alternativa, autogestita e
autofinanziata, che ha conosciuto negli anni '70 momenti di
fantasiosa, creativa fortuna, ma che la burocratizzazione del mondo
dello spettacolo farebbe considerare oggi del tutto impraticabile,
oltre che un po' romantica e desueta. Tutto questo l'ha reso
possibile l'ostinazione del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa,
organizzatore insieme alla Libreria Utopia (che ne ha firmato anche
la coproduzione) di questa tournée alternativa del Living
Theatre, dopo la cancellazione di quella "ufficiale", che
avrebbe dovuto portare le ultime due produzioni americane del
gruppo. In realtà, all'origine di Mysteries 91 c'è
stato qualcosa di diverso o di più rispetto a
un'organizzazione di soccorso: si è trattato di un progetto
originale e un po' utopico di cui sono stati protagonisti gli attori
della diaspora del Living che, chiamata a raccolta da Serena Urbani
(responsabile e curatrice in Italia dell'Archivio del Living
Theatre) sono arrivati dalla Germania, dalla Francia, dall'Olanda o
dagli Stati Uniti per dare vita alla nuova versione dello
spettacolo. In questo senso, Mysteries 91 ha molto a che
fare con le modalità produttive dei primi Mysteries.
La diaspora ha oggi il valore necessitante dell'esilio di allora
e i contenuti teatrali sono ancora quelli dell'offerta
autobiografica in forma di spettacolo. Nel 1964 il Living lottava,
come Judith e Julian, per affermare la propria presenza all'interno
del territorio teatrale. E coi Mysteries metteva in scena se
stesso, le proprie tecniche e la propria storia, i propri obiettivi
di cambiamento e la straordinaria capacità di aggregare
attorno a tali obiettivi i singoli spettatori, e quindi la comunità
del pubblico. Oggi l'operazione degli attori della diaspora del
Living ha piuttosto il sapore di un atto di rivendicazione e di
devozione insieme: di rivendicazione di un ruolo e di una storia
ormai conquistati (a dispetto dei tentativi di rimozione operati
dalla cultura ufficiale) e di devozione rispetto alle proprie
radici (nel senso alto del termine: "il teatro come la
sinagoga" scriveva Julian Beck, "luogo in cui venerare"
e dar corpo ai propri ideali). Pur componendosi in gran parte dei
quadri originali, che si susseguono, con alcune variazioni,
nello stesso ordine, Mysteries 91 sembra però
derivare da un lavoro di collage più che di montaggio: sembra
aver usato il bisturi piuttosto che il collante delle attrazioni; e
la produzione di senso non appare cercata nell'insieme delle parti,
ma piuttosto nelle parti che compongono l'insieme: lavoro di sforzi
particolari, più che collettivi, fatto di tanti ritmi
discontinui piuttosto che di un unico respiro. Così il
Collage può ospitare atti di devozione personali, che
riflettono più la storia dei singoli attori che non quella
dello spettacolo che ha ospitato negli anni le storie di tanti
attori e quella del gruppo nel suo insieme. All'inizio la scena
della tortura, il corpo nudo appeso per i piedi, è
un'immagine molto forte, in grado di richiamare agli spettatori più
anziani i temi dell'Eredità di Caino, ossia del ciclo
di spettacoli che il Living ha realizzato a partire dagli anni '70,
e che un'attrice ha inserito perché in sintonia con la fase
che lei ha vissuto dentro il Living. Tanti attori, tante storie, e
uno spettacolo che nel ridar vita al passato ricorda (o anticipa,
che in questo caso fa lo stesso) quel che sarebbe avvenuto in
seguito.
Devozione e
documentazione
I Mysteries si
sono rivelati ancora in grado di mettere in scena il Living, ma
piuttosto sotto forma di racconti individuali, un po' più
frastagliati di quelli che componevano la prima versione, perché
tale è oggi la comunità del Living. Così il
viaggio che conduce gli spettatori ad esplorare l'intero mondo delle
percezioni sensoriali, dei suoni e degli odori, del contatto e delle
visioni, inoltrandosi fino alle sorgenti dell'esperienza
relazionale: dell'accordo e della disarmonia, della libera scelta e
del rigore combinatorio, dell'unione e della meditazione, questo
viaggio non si chiude nel cerchio artaudiano della violenza e della
peste (e del loro doppio), ma resta aperto fra un'immagine postuma
messa all'inizio e una non-conclusione in forma di happening
collettivo alla fine. L'insieme di queste considerazioni non
vuole essere un giudizio estetico né una considerazione
di valore. Nella ripresa di uno spettacolo di 27 anni prima c'è
una parte di devozione e una parte di documentazione; non c'è
più lo sconcerto e lo scandalo, ma c'è, negli
interpreti, il gusto del mostrarne le primitive ragioni e, nel
pubblico, l'attesa e la nostalgia, oppure l'attesa di provar
nostalgia: un sentimento che si può rivelare un'utile
palestra di pulsioni positive. In più c'è la
sensazione che si prova solitamente di fronte alle riproduzioni
teatrali (filmate o videoregistrate): quel misto di gratitudine e di
rimpianto, per cui siamo grati all'illusione della memoria, ma
rimpiangiamo l'esistenza effimera dello spettacolo consumata in un
tempo lontano dal nostro. Non me ne vogliano organizzatori e
protagonisti. Il mio ragionamento (contro, forse, qualche
apparenza) non vuole essere riduttivo. Lo scopo di accrescere il
rimpianto può essere straordinariamente alto e il risultato
ottenuto in questo senso è in piena sintonia con lo spirito
degli spettacoli storici del Living quando va ad attivare un utile
processo di autoanalisi nello spettatore che sperimenta i processi
auto-rappresentativi della formula "de la fabula
narratur". Molto di noi ci hanno raccontato questi Mysteries
91. Le rappresentazioni milanesi sono sempre iniziate fra
l'imbarazzo del pubblico per poi concludersi con grandi
manifestazioni di partecipazione collettiva. Con diversi contenuti e
significati, si sono ripresentati gli elementi che hanno
caratterizzato il rapporto attore-spettatore nella storia del
Living: la sfida dell'imbarazzo e la capacità di parlare ad
personam, guardando negli occhi l'interlocutore, o andandogli a
morire ai piedi, come nella scena già ricordata della peste.
A questa scena accennava Judith Malina in una poesia, con un
significativo, repentino passaggio dalla terza alla seconda persona,
in fine: "Nella peste sentiamo tutto questo / E fra gli
spettatori / In platea, / Che mormorano idiozie, mentre noi /
Gioiosamente soffriamo per loro, / Moriamo per te mentre / Tu mi
deridi".
I primi Mysteries a Parigi, ottobre 1964
Creazione collettiva: I primi Mysteries a Parigi, ottobre
1964, furono la nostra prima esperienza con questo procedimento.
Avvennero naturalmente, senza sforzo. (...)
Judith chiamò la serata Mysteries and Smaller
Pieces. In quel momento il significato diventò un po' più
chiaro.
Avevamo creato dei misteri senza sapere cosa fossero. Avevamo
eseguito il nostro primo esperimento di creazione collettiva senza
saperlo. Il modo di lavorare ci risultò organico.
Creazione collettiva: Un gruppo di persone che viene insieme.
Non c'è l'autore cui adeguarsi che ti strappa l'impulso
creativo. Distruzione delle soprastrutture della mente. Così
arriva la realtà. Seduti in circolo a parlare per mesi,
assorbendo, rigettando, creando un'atmosfera in cui non solo ci
ispiriamo a vicenda, ma dove ogni singolo si sente libero di dire
qualunque cosa voglia. Enorme palude giungla, un paesaggio di
concetti, anime, suoni, movimenti, teorie, fronde di poesia, stato
selvaggio, deserto, vagare. Quindi raccogli e riordini. Nel corso
del procedimento si presenterà una forma. La persona che
parla di meno può essere quella che ispira chi parla di più.
Alla fine nessuno sa più chi in realtà sia
responsabile di che cosa, l'io individuale scivola nell'oscurità,
ognuno è soddisfatto, ognuno prova una soddisfazione
personale maggiore del piacere solitario dell'"io". Una
volta che l'hai provato - il procedimento di creazione artistica in
collettivo - il ritorno al vecchio ordine sembra una retrocessione.
La Creazione collettiva è un esempio di Procedimento
di Autogestione Anarchico-Comunista che per il popolo ha maggior
valore di un lavoro teatrale. Creazione collettiva come arma segreta
del popolo.
Nel collettivo crei sia attraverso te stesso che attraverso
gli altri: inter-ispirazione. Superflash.
Allo stesso tempo il processo è tedioso, noioso, un
lavoro duro. Devi penetrare attraverso la noia. La noia, le
difficoltà sono le leve. Crea la noia. Crea la difficoltà.
Creiamo uno spazio in cui diventare così pazzi da dover
trovare la porta, la via d'uscita. Questa è una tecnica.
Provare una noia così profonda da uscirne fuori in un altro
luogo. Cage.
Noia, degradazione, oppressione, monotonia, privazione: le
masse stanno ora passando attraverso la noia, la sofferenza.
Creare un ambiente che attragga l'ispirazione. La Musa. Può
anche accadere facilmente, come per Mysteries. O a Kronstad.
Queste sono le tecniche di creazione collettiva.
Julian Beck La vita del teatro, Torino, Einaudi, 1975, pp. 95-97.