Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 174
giugno 1990


Rivista Anarchica Online

La memoria dell'offesa
di Cristina Valenti

L'olocausto e il dovere del ricordo in uno spettacolo dell'Odin Teatret. Un percorso attraverso il tunnel della rievocazione. Le figure di Primo levi e Jean Amery, due testimoni-chiave per evitare la deriva della memoria

"E' strano come ancora una volta certi venti vadano a scompigliare le foglie proprio in quel nord danese". Me lo scriveva un amico storico del teatro il 15 marzo scorso, riferendosi a Memoria, lo spettacolo scritto e interpretato da Else Marie Laukvik, dell'Odin Teatret, che ho finalmente potuto vedere nel suo attuale passaggio in Italia. Anni fa lo stesso storico aveva intitolato "Da un osservatorio particolare" un suo saggio che ripercorreva gli ultimi venti anni di vita teatrale dal punto di vista tendenziosamente decentrato del Nordisk Teaterlaboratorium di Holstebro: dove le incandescenze americane e le rotture europee si sono fatte cultura di gruppo, presenza sociale ed etica di un teatro che ha imposto il valore pubblico dei propri spettacoli a partire dalle necessità e dall'impegno individuali dei suoi singoli membri. Oggi nell'osservatorio particolare del teatro danese il vento gelido del razzismo e dell'antisemitismo ha scompigliato le foglie della responsabilità intellettuale di chi fa teatro e ha costruito uno spettacolo che muove dolcemente i flussi della memoria, che soffia un alito caldo di vita nelle storie e nelle immagini: e staccandole dal racconto ne ricostruisce una presenza immediatamente agghiacciante.
Else Marie sceglie di raccontare storie di sopravvissuti al Lager; la dimensione temporale è quella della continuità e del presente: nessuna cesura, se non quelle introdotte dai suicidi tardivi di due sopravvissuti d'eccezione, Primo Levi e Jean Améry. Due morti che non allontanano quel passato, ma lo avvicinano. "Ancora una volta si deve constatare, con lutto, che l'offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l'opera di questo negando la pace al tormentato": lo scriveva Primo Levi, pochi anni prima di togliersi la vita, nello stesso libro nel quale rifletteva con tanta lucidità sul suicidio di Jean Améry.

Strazio e sorridente abbandono
Siamo introdotti in un minuscolo salotto. Sediamo su dei divanetti disposti a semicerchio. Un tappeto per terra; due paraventi sullo sfondo ravvicinatissimo; un piccolo tavolino tondo nel mezzo, ricoperto da una tovaglietta bianca di pizzo sul quale sono posate una abat-jour, una teiera e una tazza da the; due seggiole ai lati del tavolino.
Sulla sinistra è seduto un uomo dallo sguardo buono, e un po' solenne, che imbraccia una fisarmonica. Una donna sorridente è seduta sulla destra. I suoi occhi si muovono velocissimi, fissandosi istantaneamente su di noi e allontanandosi in un attimo, a pescare ricordi profondi e lontani, per custodirli qualche tempo con dolore sotto le palpebre chiuse e mostrarceli nel lampo di uno sguardo che trascolora lo strazio in sorridente abbandono.
Per salvare il ricordo dalla deriva occorre un esercizio costante e doloroso, una specie di ginnastica che mantenga fresco e vivo il processo di rievocazione, e che diventa obbligatorio, per i sopravvissuti, fare pubblicamente, attraverso la scrittura o il racconto.
Questa donna racconta instancabilmente nel suo salotto alcune storie a chi è disposto ad ascoltarle. La prima è quella di Moshe. Fu rinchiuso che era appena un ragazzo nel campo di Mauthausen e un giorno, durante l'assurdo e degradante rito dello spidocchiamento, tutti in fila, nudi, sulla neve, vide pian piano cadere gli altri prigionieri uccisi dal freddo e dagli stenti . La sua mente si aggrappò fortemente a una canzone che gli aveva insegnato il rabbino e raccolse tutte le forze per riuscire a cantarla. Dalla sua bocca non uscì inizialmente alcun suono, poi a poco a poco la voce arrivò. Moshe cantava a gola spiegata mentre sentiva il rabbino che lo sosteneva: non cadere Moshe...danza Moshe.
La donna racconta bevendo il the. Il fiume delle sue parole si fa musica e canto, urla e risate, lamento e dolce melodia. L'uomo la accompagna con la fisarmonica. Di tanto in tanto introduce brevi parole per aiutare o assecondare il ricordo.
Moshe muove il primo passo. La sua pelle rimane attaccata al ghiaccio, sotto i suoi piedi, e la neve diventa rossa. Ma lui comincia a danzare, a danzare sempre più forte e a cantare la canzone del suo rabbino, la canzone che lo ha salvato da Mauthausen.

Per salti e strappi
La seconda storia è quella di Stella. Anche lei è sopravvissuta allo sterminio. I nazisti arrivarono nel suo paese e fecero un massacro di ebrei, uccisero tutta la sua famiglia e ai bambini suoi compagni di giochi fu sparato in bocca. Lei vide e scappò; si rifugiò in uno scantinato sotto una stalla dové restò per diversi mesi riuscendo miracolosamente a sopravvivere. I ricordi si mescolano a canzoni, ordini, grida e dolci nenie. Il mondo infranto di Stella ricompone i propri frammenti in un concerto di gesti, immagini, parole, grida e sorrisi. Alla fine della guerra Stella esce dal suo rifugio, rattrappita e piagata. Un giorno sente che in un paese vicino ci sarà l'esecuzione di criminali nazisti. Vi si reca quasi incosciente. I corpi dei nazisti pendono dalle forche, esposti agli insulti della gente arrivata numerosissima da ogni luogo. Cosa ci faccio io qui, si chiede Stella. Se ne va, e da quel momento ricomincia a vivere. La donna si alza e volta il primo paravento dietro di sé. Appare la fotografia di Primo Levi, un altro sopravvissuto al Lager, che dopo essersi dato lo scopo di vivere per raccontare, nel 1987 si è ucciso.
La donna si siede di nuovo e riprende a narrare. Le storie sono le stesse, quella di Moshe e quella di Stella, ma il racconto procede per salti e strappi, sono tagliati i nessi discorsivi e rimangono le immagini centrali, come fotogrammi scagliati con forza nella memoria, i frammenti delle canzoni si fanno serrati e ossessivi...le urla, le risate, il tè, il raccontare in salotto agli amici, il presente e il passato: gli spettatori-testimoni sono introdotti nel tunnel della rievocazione e attraversano un'esperienza che entrerà a far parte della loro personale coscienza, oltre che del patrimonio comune della conoscenza "storia". La donna racconta seduta, accompagnando le sue parole con minuscoli gesti, ma è tutto il suo corpo a parlare e a mostrare: ancorato alla seggiola come a una zavorra di realtà, è percorso in ogni nervo e in tutti i muscoli dall'esperienza dei suoi personaggi, e nel suo volto si dipingono i mille sentimenti e le mille storie di chi ha attraversato l'orrore dello sterminio e cerca di padroneggiare la deriva della memoria.
La donna si rialza una seconda volta e gira l'altro paravento. C'è la foto di Jean Améry, ossia Hans Mayer, il filosofo austriaco, teorico del suicidio, che fu torturato dalla Gestapo perché attivo nella resistenza belga e poi deportato ad Auschwitz perché ebreo. Nel '66 ha pubblicato il suo libro L'intellettuale ad Auschwitz (che in Italia è uscito solo nell'87, presso Bollati Boringhieri) e nel 1978 si è ucciso.
Scriveva: "Chi è stato torturato rimane torturato. (...) Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai. La fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più".

"Aveva visto qualcosa arrivare"
Al termine del suo saggio su Améry, contenuto in I sommersi e i salvati, Primo Levi scrive: "Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager". É stato - ed abbiamo - detto che qualche anno dopo Primo Levi stesso dovette veder esaurito lo scopo di raccontare, che si era prefisso. Ma c'è forse qualcosa di più, ed è Else Marie a dircelo nel suo spettacolo. Elie Wiesel, il premio Nobel per la pace (autore di Celebrazione chassidica e Contro la melanconia), era un bambino ad Auschwitz e conserva un ricordo preciso di Primo Levi: gli occhi sereni e in qualche modo distanti di quel ragazzo, nei quali lui bambino trovò la serenità e la distanza per sopravvivere. Elie Wiesel è stato intervistato dopo il suicidio di Primo Levi e ha detto che secondo lui Levi "aveva visto qualcosa arrivare".
La donna si siede e racconta per la terza volta. Le storie son diventate brandelli, sintesi di immagini folgoranti, urla senza voce, e poi più niente. Il silenzio. Viene in mente la celebre immagine di Helene Weigel, la bocca spalancata senza grido di Madre Courage nell'allestimento del Berliner Ensemble. Anche la tomba di Bertolt Brecht è stata profanata con scritte insultanti in questa recente recrudescenza di fanatismo razzista. Cosa avevano visto arrivare gli occhi profondi e lontani di Primo Levi?
Un altro intellettuale del teatro sta dicendo in questi giorni parole illuminanti. È Heiner Muller, forse il più grande drammaturgo vivente, le cui opere sono state al bando nella Germania dell'Est e che ora si rifiuta di nutrire speranze nella riunificazione delle due Germanie all'insegna del capitalismo.
"Quando le folle di Lipsia hanno cominciato a urlare 'Noi siamo un solo popolo' - ha detto in una recente intervista - mi è venuto in mente che Brecht parlava di popolazione, mai di popolo". E ha aggiunto che la riunificazione arriva con anni di anticipo e che bruciare le tappe "significa far uscire i nostri scheletri dall'armadio". Quali scheletri? "Ad esempio la fatale fusione tra antisemitismo e anticomunismo, che è tipicamente tedesca proprio perché i primi dirigenti comunisti, come Rosa Luxemburg, erano ebrei".

Peso e obbligo della memoria
Le storie che Else Marie racconta sono tratte dal libro di Yaffa Eliach Hasidic Tales of the Holocaust.
L'attrice dice di voler tenere in piedi lo spettacolo fino a quando non sarà riuscita a mostrarlo a tutte le persone a cui tiene, nelle diverse parti del mondo. Sembra a doppia ragione una risposta all'imperativo di Primo Levi: perché si fa carico del peso e dell'obbligo della memoria - come si legge nel programma di sala - e fa di questo peso e di questo obbligo uno scopo esistenziale ed etico; e perché si sottrae al rischio della stereotipizzazione del ricordo, che così lo scrittore descriveva: "un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall'esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese". Il racconto di Else Marie segue, attraverso le sue tre "versioni" il procedimento inverso: dalla forma "perfezionata", liricamente e sintatticamente, alle sue scaturigini informali, allo stato "greggio" dell'esperienza, dove le immagini e i sentimenti si presentano in un groviglio, prima di dipanarsi in racconto, e sono condensati in percezioni simultanee, prima di sgranarsi in sequenze organiche.
Ma è anche uno spettacolo che sembra corrispondere alle ragioni iniziali dell'Odin Teatret e spiegarle. Ricordando le difficoltà dei primi tempi, proprio Else Marie diceva: "Alcuni pensavano che vivevamo ai margini della società, senza fare niente di utile e, peggio niente di accettabile". Dopo ventisei anni due attori portano in giro per il mondo uno spettacolo che ammette pochissimi spettatori, ma che tutti possono vedere alla "distanza" di mezzo metro, costruito per rispondere ad esigenze personali e che rimarrà in piedi fino a quando queste esigenze non saranno adempiute: ma anche uno spettacolo la cui visone, o meglio, il cui attraversamento sarebbe necessario a tutti.