Rivista Anarchica Online
La memoria dell'offesa
di Cristina Valenti
L'olocausto e il dovere del ricordo
in uno spettacolo dell'Odin Teatret. Un percorso attraverso il tunnel
della rievocazione. Le figure di Primo levi e Jean Amery, due
testimoni-chiave per evitare la deriva della memoria
"E' strano come ancora una
volta certi venti vadano a scompigliare le foglie proprio in quel
nord danese". Me lo scriveva un amico storico del teatro il
15 marzo scorso, riferendosi a Memoria, lo spettacolo scritto
e interpretato da Else Marie Laukvik, dell'Odin Teatret, che ho
finalmente potuto vedere nel suo attuale passaggio in Italia. Anni fa
lo stesso storico aveva intitolato "Da un osservatorio
particolare" un suo saggio che ripercorreva gli ultimi venti
anni di vita teatrale dal punto di vista tendenziosamente decentrato
del Nordisk Teaterlaboratorium di Holstebro: dove le incandescenze
americane e le rotture europee si sono fatte cultura di gruppo,
presenza sociale ed etica di un teatro che ha imposto il valore
pubblico dei propri spettacoli a partire dalle necessità e
dall'impegno individuali dei suoi singoli membri. Oggi
nell'osservatorio particolare del teatro danese il vento gelido del
razzismo e dell'antisemitismo ha scompigliato le foglie della
responsabilità intellettuale di chi fa teatro e ha costruito
uno spettacolo che muove dolcemente i flussi della memoria, che
soffia un alito caldo di vita nelle storie e nelle immagini: e
staccandole dal racconto ne ricostruisce una presenza immediatamente
agghiacciante.
Else Marie sceglie di raccontare storie
di sopravvissuti al Lager; la dimensione temporale è quella
della continuità e del presente: nessuna cesura, se non quelle
introdotte dai suicidi tardivi di due sopravvissuti d'eccezione,
Primo Levi e Jean Améry. Due morti che non allontanano quel
passato, ma lo avvicinano. "Ancora una volta si deve constatare,
con lutto, che l'offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e
le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il
tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione
umana), ma perpetuano l'opera di questo negando la pace al
tormentato": lo scriveva Primo Levi, pochi anni prima di
togliersi la vita, nello stesso libro nel quale rifletteva con tanta
lucidità sul suicidio di Jean Améry.
Strazio e sorridente abbandono
Siamo introdotti in un minuscolo
salotto. Sediamo su dei divanetti disposti a semicerchio. Un tappeto
per terra; due paraventi sullo sfondo ravvicinatissimo; un piccolo
tavolino tondo nel mezzo, ricoperto da una tovaglietta bianca di
pizzo sul quale sono posate una abat-jour, una teiera e una tazza da
the; due seggiole ai lati del tavolino.
Sulla sinistra è seduto un uomo
dallo sguardo buono, e un po' solenne, che imbraccia una fisarmonica.
Una donna sorridente è seduta sulla destra. I suoi occhi si
muovono velocissimi, fissandosi istantaneamente su di noi e
allontanandosi in un attimo, a pescare ricordi profondi e lontani,
per custodirli qualche tempo con dolore sotto le palpebre chiuse e
mostrarceli nel lampo di uno sguardo che trascolora lo strazio in
sorridente abbandono.
Per salvare il ricordo dalla deriva
occorre un esercizio costante e doloroso, una specie di ginnastica
che mantenga fresco e vivo il processo di rievocazione, e che diventa
obbligatorio, per i sopravvissuti, fare pubblicamente, attraverso la
scrittura o il racconto.
Questa donna racconta instancabilmente
nel suo salotto alcune storie a chi è disposto ad ascoltarle.
La prima è quella di Moshe. Fu rinchiuso che era appena un
ragazzo nel campo di Mauthausen e un giorno, durante l'assurdo e
degradante rito dello spidocchiamento, tutti in fila, nudi, sulla
neve, vide pian piano cadere gli altri prigionieri uccisi dal freddo
e dagli stenti . La sua mente si aggrappò fortemente a una
canzone che gli aveva insegnato il rabbino e raccolse tutte le forze
per riuscire a cantarla. Dalla sua bocca non uscì inizialmente
alcun suono, poi a poco a poco la voce arrivò. Moshe cantava a
gola spiegata mentre sentiva il rabbino che lo sosteneva: non cadere
Moshe...danza Moshe.
La donna racconta bevendo il the. Il
fiume delle sue parole si fa musica e canto, urla e risate, lamento e
dolce melodia. L'uomo la accompagna con la fisarmonica. Di tanto in
tanto introduce brevi parole per aiutare o assecondare il ricordo.
Moshe muove il primo passo. La sua
pelle rimane attaccata al ghiaccio, sotto i suoi piedi, e la neve
diventa rossa. Ma lui comincia a danzare, a danzare sempre più
forte e a cantare la canzone del suo rabbino, la canzone che lo ha
salvato da Mauthausen.
Per salti e strappi
La seconda storia è quella di
Stella. Anche lei è sopravvissuta allo sterminio. I nazisti
arrivarono nel suo paese e fecero un massacro di ebrei, uccisero
tutta la sua famiglia e ai bambini suoi compagni di giochi fu sparato
in bocca. Lei vide e scappò; si rifugiò in uno
scantinato sotto una stalla dové restò per diversi mesi
riuscendo miracolosamente a sopravvivere. I ricordi si mescolano a
canzoni, ordini, grida e dolci nenie. Il mondo infranto di Stella
ricompone i propri frammenti in un concerto di gesti, immagini,
parole, grida e sorrisi. Alla fine della guerra Stella esce dal suo
rifugio, rattrappita e piagata. Un giorno sente che in un paese
vicino ci sarà l'esecuzione di criminali nazisti. Vi si reca
quasi incosciente. I corpi dei nazisti pendono dalle forche, esposti
agli insulti della gente arrivata numerosissima da ogni luogo. Cosa
ci faccio io qui, si chiede Stella. Se ne va, e da quel momento
ricomincia a vivere. La donna si alza e volta il primo paravento
dietro di sé. Appare la fotografia di Primo Levi, un altro
sopravvissuto al Lager, che dopo essersi dato lo scopo di vivere per
raccontare, nel 1987 si è ucciso.
La donna si siede di nuovo e riprende a
narrare. Le storie sono le stesse, quella di Moshe e quella di
Stella, ma il racconto procede per salti e strappi, sono tagliati i
nessi discorsivi e rimangono le immagini centrali, come fotogrammi
scagliati con forza nella memoria, i frammenti delle canzoni si fanno
serrati e ossessivi...le urla, le risate, il tè, il raccontare
in salotto agli amici, il presente e il passato: gli
spettatori-testimoni sono introdotti nel tunnel della rievocazione e
attraversano un'esperienza che entrerà a far parte della loro
personale coscienza, oltre che del patrimonio comune della conoscenza
"storia". La donna racconta seduta, accompagnando le sue
parole con minuscoli gesti, ma è tutto il suo corpo a parlare
e a mostrare: ancorato alla seggiola come a una zavorra di realtà,
è percorso in ogni nervo e in tutti i muscoli dall'esperienza
dei suoi personaggi, e nel suo volto si dipingono i mille sentimenti
e le mille storie di chi ha attraversato l'orrore dello sterminio e
cerca di padroneggiare la deriva della memoria.
La donna si rialza una seconda volta e
gira l'altro paravento. C'è la foto di Jean Améry,
ossia Hans Mayer, il filosofo austriaco, teorico del suicidio, che fu
torturato dalla Gestapo perché attivo nella resistenza belga e
poi deportato ad Auschwitz perché ebreo. Nel '66 ha pubblicato
il suo libro L'intellettuale ad Auschwitz (che in Italia è
uscito solo nell'87, presso Bollati Boringhieri) e nel 1978 si è
ucciso.
Scriveva: "Chi è stato
torturato rimane torturato. (...) Chi ha subito il tormento non potrà
più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si
estingue mai. La fiducia nell'umanità, già incrinata
dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si
riacquista più".
"Aveva visto qualcosa arrivare"
Al termine del suo saggio su Améry,
contenuto in I sommersi e i salvati, Primo Levi scrive: "Gli
scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo in
Lager". É stato - ed abbiamo - detto che qualche anno
dopo Primo Levi stesso dovette veder esaurito lo scopo di raccontare,
che si era prefisso. Ma c'è forse qualcosa di più, ed è
Else Marie a dircelo nel suo spettacolo. Elie Wiesel, il premio Nobel
per la pace (autore di Celebrazione chassidica e Contro la
melanconia), era un bambino ad Auschwitz e conserva un ricordo
preciso di Primo Levi: gli occhi sereni e in qualche modo distanti di
quel ragazzo, nei quali lui bambino trovò la serenità e
la distanza per sopravvivere. Elie Wiesel è stato intervistato
dopo il suicidio di Primo Levi e ha detto che secondo lui Levi "aveva
visto qualcosa arrivare".
La donna si siede e racconta per la
terza volta. Le storie son diventate brandelli, sintesi di immagini
folgoranti, urla senza voce, e poi più niente. Il silenzio.
Viene in mente la celebre immagine di Helene Weigel, la bocca
spalancata senza grido di Madre Courage nell'allestimento del
Berliner Ensemble. Anche la tomba di Bertolt Brecht è stata
profanata con scritte insultanti in questa recente recrudescenza di
fanatismo razzista. Cosa avevano visto arrivare gli occhi profondi e
lontani di Primo Levi?
Un altro intellettuale del teatro sta
dicendo in questi giorni parole illuminanti. È Heiner Muller, forse
il più grande drammaturgo vivente, le cui opere sono state al
bando nella Germania dell'Est e che ora si rifiuta di nutrire
speranze nella riunificazione delle due Germanie all'insegna del
capitalismo.
"Quando le folle di Lipsia hanno
cominciato a urlare 'Noi siamo un solo popolo' - ha detto
in una recente intervista - mi è venuto in mente che Brecht
parlava di popolazione, mai di popolo". E ha aggiunto che la
riunificazione arriva con anni di anticipo e che bruciare le tappe
"significa far uscire i nostri scheletri dall'armadio".
Quali scheletri? "Ad esempio la fatale fusione tra antisemitismo
e anticomunismo, che è tipicamente tedesca proprio perché
i primi dirigenti comunisti, come Rosa Luxemburg, erano ebrei".
Peso e obbligo della memoria
Le storie che Else Marie racconta sono
tratte dal libro di Yaffa Eliach Hasidic Tales of the Holocaust.
L'attrice dice di voler tenere in piedi
lo spettacolo fino a quando non sarà riuscita a mostrarlo a
tutte le persone a cui tiene, nelle diverse parti del mondo. Sembra a
doppia ragione una risposta all'imperativo di Primo Levi: perché
si fa carico del peso e dell'obbligo della memoria -
come si legge nel programma di sala - e fa di questo peso e di questo
obbligo uno scopo esistenziale ed etico; e perché si sottrae
al rischio della stereotipizzazione del ricordo, che così lo
scrittore descriveva: "un ricordo troppo spesso evocato, ed
espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in
una forma collaudata dall'esperienza, cristallizzata, perfezionata,
adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue
spese". Il racconto di Else Marie segue, attraverso le sue tre
"versioni" il procedimento inverso: dalla forma
"perfezionata", liricamente e sintatticamente, alle sue
scaturigini informali, allo stato "greggio"
dell'esperienza, dove le immagini e i sentimenti si presentano in un
groviglio, prima di dipanarsi in racconto, e sono condensati in
percezioni simultanee, prima di sgranarsi in sequenze organiche.
Ma è anche uno spettacolo che
sembra corrispondere alle ragioni iniziali dell'Odin Teatret e
spiegarle. Ricordando le difficoltà dei primi tempi, proprio
Else Marie diceva: "Alcuni pensavano che vivevamo ai margini
della società, senza fare niente di utile e, peggio niente di
accettabile". Dopo ventisei anni due attori portano in giro per
il mondo uno spettacolo che ammette pochissimi spettatori, ma che
tutti possono vedere alla "distanza" di mezzo metro,
costruito per rispondere ad esigenze personali e che rimarrà
in piedi fino a quando queste esigenze non saranno adempiute: ma
anche uno spettacolo la cui visone, o meglio, il cui attraversamento
sarebbe necessario a
tutti.
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