Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 167
ottobre 1989


Rivista Anarchica Online

Isola, non ghetto
di Giuseppe Gessa

Che cosa rappresentano oggi i centri sociali autogestiti nell'universo delle forme di ribellione giovanile? In che termini si pone il problema dell'autoemarginazione di questi centri dal contesto sociale? Ne parliamo con un giovane anarchico, attivo nel movimento delle occupazioni a Milano. L'esigenza di una nuova progettualità.

Quali sono le caratteristiche salienti dei centri sociali attualmente attivi nella realtà milanese? Quali le differenze rispetto ai movimenti giovanili degli anni scorsi e da chi sono frequentati? Ne parliamo con Pietro, 21 anni, anarchico del Circolo Ponte della Ghisolfa, da anni attivo all'interno del movimento dei centri sociali e dell'occupazione di case.

I centri sociali occupati attualmente attivi a Milano sono tre - il centro Leoncavallo, che funziona ancora nonostante la demolizione delle scorse settimane, il centro di piazza Bonomelli e l'Acquario di porta Genova. Esistono inoltre altre realtà di aggregazione frutto di occupazioni passate o di assegnazioni da parte del comune; tra queste si possono segnalare, per l'impegno nel proseguire l'attività sociale, il centro sociale anarchico di via Torricelli e il centro di via Scaldasole. Altri centri operanti nelle città hanno però abbandonato un'attività di tipo politico.

I centri sociali milanesi fungono da punto di aggregazione di gruppi particolari di persone, che frequentano una particolare sede o sono un punto di riferimento comune per una certa area giovanile?

Si tratta di un'area giovanile abbastanza omogenea; costituita da studenti, persone che vivono generalmente di lavoro nero o comunque in situazioni di precarietà, con occupazioni come quelle dei pony-express o nei traslochi; mi riferisco ai frequentatori abituali dei centri, che non hanno un ruolo attivo nella gestione delle attività più specificatamente politiche.
Non si può parlare di aggregazioni giovanili come quelle della fine degli anni '70 in quanto solo una minoranza, legata a precise aree politiche, l'Autonomia nel caso del Leoncavallo o, per il centro sociale Acquario, una varietà di esperienze che vanno dall'ex-Virus a una parte del coordinamento delle case occupate, si fa promotrice della gestione politica dei centri.
Su un piano generale, la presenza di una minoranza politicizzata di fronte a un'area di persone che trovano nei centri sociali, e nella musica che vi si suona, solo un punto di aggregazione, può fare affermare che, in sé, questi centri non esprimono una volontà politica di cambiamento, ma un malessere generale, generico, che però non sfocia nella ricerca di una società diversa e in una volontà concreta di trasformazione, esprimono solo un rifiuto del presente. Se questo rifiuto può anche essere positivo, la mancanza di una progettualità e di una volontà propositiva per un ideale di società migliore rischia di trasformare questi centri in una sorta di ghetto, nei quali ci si rinchiude a consumare la propria incazzatura, senza riuscire ad uscire all'esterno e proiettare una volontà reale in qualcosa di diverso.

La critica più corrente ai giovani frequentatori dei centri è quella di porsi in antagonismo non solo nei rapporti con le autorità ma di chiudersi anche al contatto con gli abitanti dei quartieri dove i centri si trovano. Cosa puoi dire su questo?

Tra i centri sociali attuali, un lavoro attivo di contatto con il quartiere è stato fatto al centro Leoncavallo - che, bisogna ricordarlo, è attivo da più di dieci anni - grazie anche alle esperienze dell'asilo, dei gruppi di teatro, la palestra e altro.
In realtà questo non accade sempre e la stessa dizione di centro sociale per questi spazi non è molto appropriata: un centro sociale dovrebbe essere un posto dove si esprime la socialità del quartiere, un posto aperto almeno ai giovani che lo abitano. Oggi tutto questo ancora non c'è anche se nel passato ci sono state molte esperienze più positive.

Tu hai partecipato all'occupazione del centro la Villetta che, sia pure per pochi mesi, aveva rappresentato un'esperienza interessante di contatto della gente con i giovani occupanti.

La "villetta" era una villa situata all'interno di un parco in via Litta Modigliani, un lungo stradone che congiunge i quartieri Comasina e Quarto Oggiaro.
Si tratta di un classico quartiere-dormitorio che non offre prospettive di aggregazione di nessun tipo. Il parco in cui era inserita la villa era diventato un luogo di spaccio di eroina, dove i ragazzi andavano a bucarsi; ricordo che quando entrammo trovammo i prati trasformati in un tappeto di siringhe.
Il parco venne ripulito ed aperto alla gente del quartiere, la quale, forse perché lo conosceva come luogo di spaccio, vedendo i giovani impegnati a lavorarci, prese a frequentarlo con i bambini, che potevano finalmente giocare nel parco. La gente veniva e parlava con noi e, anche se per poco tempo, eravamo riusciti ad avviare un contatto con la popolazione. Il centro venne sgomberato dopo pochi mesi.
Tornando per un momento all'origine, al significato di centro sociale, dovrebbe emergere nei centri una volontà precisa di instaurare un rapporto con la gente del quartiere; questo significa anche una sorta di autocontrollo rispetto alle iniziative, dai concerti a tutta una serie di manifestazioni di rabbia a volte anche gratuita, al fine di essere comprensibili alle persone esterne alla realtà dei centri. Occupare un posto, aprirlo, per poi limitarsi ad organizzare concerti o pitturare la facciata, pone gli occupanti, nei confronti di una popolazione già restia ad esprimere volontà di cambiamento nella vita quotidiana, con le note difficoltà nell'accettare la presenza della diversità, nella condizione di non essere capiti e accettati.
Questo è un discorso che andrebbe sviluppato anche all'interno del coordinamento nazionale dei centri sociali, cosa che non viene fatta, in quanto sono privilegiate le tematiche portate avanti da specifici gruppi politici, tra i quali anche gli anarchici, tematiche che passano sopra una discussione, più concreta, sui centri sociali e sul modo di vivere questi spazi. Nemmeno sul bollettino di collegamento è emerso finora un dibattito aperto al di là di casi isolati.

La lotta all'eroina, fin dai circoli giovanili degli anni '70 sempre al centro delle iniziative dei centri sociali, è una presenza che continua ancora oggi?

Certamente, la lotta all'eroina riveste tuttora un grande interesse ed è al centro di molte iniziative dei centri sociali.
Esiste però, secondo me, un limite nel modo in cui questa battaglia viene condotta, privilegiando quella che è la piattaforma portata avanti dagli autonomi a livello nazionale e cioè la lotta alla legge Craxi sulle tossicodipendenze. Si tratta di un punto sicuramente importante, anche perché la legge Craxi, o meglio la volontà repressiva che le sta dietro, viene già ad essere applicata quotidianamente dalle forze dell'ordine nel controllo e in operazioni di fermo di polizia nei confronti di tutti quelli che hanno un aspetto diverso della norma.
L'analisi della realtà della tossicodipendenza dovrebbe però andare oltre la critica alla legge Craxi o alla condanna degli spacciatori, proprio perché il fenomeno dell'eroina ha assunto proporzioni così vaste che necessita di capacità di comprensione più profonde. È dalla domanda sul perché la gente si fa di eroina che bisognerebbe partire e i centri sociali dovrebbero essere in grado di porsi come un luogo in cui trovare stimoli a vivere e progettare qualcosa di diverso. Se si lascia allo stato il monopolio delle risposte a questi problemi, si deve ammettere una capacità davvero minima di intervento e presenza nel tessuto sociale.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito nelle città più grosse, scelte come sede per i campionati del '90, ad un intensificarsi delle operazioni repressive nei confronti delle fasce marginali della popolazione, dagli zingari ai "barboni". Si tratta di una strategia che coinvolge anche la realtà dei centri sociali, come lo sgombero del Leoncavallo sembra dimostrare?

Sicuramente un obiettivo che lo stato italiano si sta ponendo è quello di arrivare ai mondiali '90, che hanno poco a che fare con un campionato di calcio, realizzando una vetrina che consenta anche all'Italia di esprimere il proprio benessere, le proprie ricchezze e la propria tranquillità sociale. Ricordiamo che, dopo il terremoto di Città del Messico, in occasione degli ultimi mondiali, accanto alle baracche la strada che portava dall'aeroporto all'albergo era interamente ricostruita.
Il tentativo in atto non è solo quello di eliminare quelle realtà che si pongono in opposizione allo stato di cose vigenti ma, attraverso una soluzione più sottile, quella di creare una divisione tra i centri "buoni" e quelli "cattivi", quelli che dimostrano la propria disponibilità a trattare e quelli, come il Leoncavallo, che si sono difesi dallo sgombero della polizia, opponendo resistenza.
Il rischio connesso a questa politica, in particolare riguardo a quelle realtà che riceveranno in assegnazione uno stabile, è quello di perdere via via quella carica di opposizione che avevano nel momento in cui il centro sociale era attivo grazie a una occupazione.

Per concludere quali sono le motivazioni che, come anarchico, ti hanno portato ad agire nei centri sociali e quali sono le possibilità perché essi possano evitare il bivio tra una condizione marginale e l'integrazione?

Bisogna in primo luogo evitare di categorizzare rigidamente l'area dei giovani frequentatori dei centri sociali. Possiamo trovare affinità con l'esperienza dei circoli giovanili o con le bande metropolitane, fino alla non esigua presenza di giovani che oltre a frequentare i centri si recano allo stadio la domenica.
È vero che molti elementi portano il centro sociale verso il rischio di trasformarsi in un ghetto - esiste una comunicazione molto stereotipata, una musica, in genere l'hard core, ossessionante, quasi incomprensibile, che esprime però a pieno la carica di rabbia che cova in queste persone.
Non mi sento comunque di condannare una realtà che, sia pure con i difetti di cui parlavo, rappresenta un momento molto importante di aggregazione giovanile, in una società in cui l'aggregazione e il lavoro collettivo stanno sempre più scomparendo, anche in realtà collettive come il lavoro, dove l'attività è sempre più suddivisa in compartimenti che non consentono nemmeno di vedere la realizzazione del prodotto.
Per chiudere con un discorso e un'immagine che racchiuda in sé la critica ma anche il progetto di come i centri sociali potrebbero proporsi, potremmo parlare di una progettualità, una voglia di essere, anziché il ghetto, un'isola. Non si tratta solo di un gioco di parole, un ghetto è una cosa cupa, l'isola è verde, colorata, esprime una voglia di vivere, di crescere, una voglia di vivere assieme e che, soprattutto, può essere raggiunta da altri, sia pure con qualche sforzo.