Rivista Anarchica Online
Fare e
dis/fare l'arte
di Antonio Schiavon
Ancora un volta, con il numero 4/88
della rivista Volontà dal titolo "Dis/fare
l'arte", ci troviamo a riflettere attorno all'arte, forse
perché siamo convinti che "in ogni artista ci sia un
anarchico, almeno all'inizio della sua attività"
(Szeeman).
Dell'arte come libertari siamo chiamati
anche ad osservare le implicazioni col potere: l'atto creativo, che è
"metodo di meditazione e... via verso la conoscenza" cioè
ancora "attività indispensabile per la ricerca della
libertà" (Lebel), è contrastato dal potere sin dal
suo nascere. Lo stimolo artistico, che è genuinamente
"eversivo", viene compresso in primis dal sistema
educativo: quando il bimbo usa totalmente i mezzi comunicativi vede
che l'attesa degli educatori è rivolta eminentemente ai segni
"verbali", così "l'esigenza umana" della
creazione-comunicazione viene ad atrofizzarsi (Read). Ma ancor più vasto è il
ruolo dell'industria culturale che impiega l'intellettuale "apologeta
del sistema", il critico, che deve rendere possibile il mutevole
mercato artistico (Schwarz), e il funzionario (secondo Baj colui che
colloca l'arte in una funzione "arredatrice", facendola
diventare "corruttrice dell'ambiente" e "glorificazione
dell'effimero") ad ideare mode e a mettere a punto musei.
Il museo è l'istituzione
congelante per antonomasia, pensiamo che il governo franchista voleva
acquistare "Guernica" di Picasso, secondo Ragon, che se
fosse stata collocata al centro del museo di Madrid avrebbe perso
ogni pregnanza accusatoria della dittatura spagnola.
Il potere non si fonda più sulla
violenza ma sulla "cultura universale" e la "comunicazione
mediatica" reagisce rapidamente alle "esigenze del
sistema": "il modello comunicazionale" è
"imposto dal potere" (Le Bot).
Ecco allora il secondo punto su cui il
"creatore anarchico" deve fissare la sua attenzione: in che
modo può continuare a produrre senza venir fagocitato né
dal mercante e neppure dall'autorità? Le ipotesi avanzate da
questo numero di "Volontà," sembrano essere due:
scegliere la "clandestinità" o operare in "quei
cunicoli di utopia sotto tutti i Beaubourg".
A sostenere il recupero di tutte le
forme d'arte popolari sono, forte della sua esperienza della "Bottega
dell'arte", artisti come Carriòn che descrive l'esperienza
dell'antiaccademia di Montevideo (operante dal 1960 alla chiusura
imposta dalla dittatura militare nel 1974) dove si è scoperta
"la bellezza del quotidiano" intervenendo "contro il
grigio integrale della vita della gente comune e della nostra".
Sostenitore della clandestinità
è Harloff, che descrive la sua esperienza di "pittura
come alchimia" e il suo lavoro come "terapia, ripetizione,
scoperta e possesso". Ma aldilà della diversità
di opinioni sulla collocazione dell'artista ci si ritrova tutti
all'interno dei fenomeni delle avanguardie storiche: dalle esperienze
del Die Brücke ai
primi futuristi, senza scordarsi dei dadaisti ("presto o tardi,
rinasce sempre il Dada" scrive Lebel). Altro terreno su cui sono accostabili
gli interventi di questo numero è il rimarcare la peculiare
differenziazione della concezione estetica anarchica rispetto a
quella cattolica o marxista: secondo noi l'arte deve essere creazione
individuale, non specchio del contingente, l'opera nasce dall'artista
non dalle dinamiche storiche complessive. Questo è uno dei
fattori che non rende possibile un avvicinamento tra la posizione
estetica libertaria e la concezione autoritaria (sia marxista sia
reazionaria) dell'arte come propaganda.
L'atto creativo, in secondo luogo, lo
vediamo sorgere da un processo di autoaffermazione, da un desiderio
di capirsi e capire, per cambiare.
Ma parlando d'arte rischiamo di correre
il rischio grossolano di considerare solo la pittura o le altre
produzioni "quotate in borsa" senza renderci conto che per
non museificarci "l'unica chance è fare della vita
un'opera d'arte": sarà quella che più ameremo e
che nessun mercante potrà "stimare".
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