Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 158
ottobre 1988


Rivista Anarchica Online

Proudhon al Sud
di Ottavia Fara

Tutti si lamentano della presunta latitanza dello Stato al Sud. E ne sollecitano una presenza più incisiva e visibile: caserme, investimenti, leggi speciali, ecc... E se invece l'unica strada percorribile per il riscatto del Sud fosse l'abolizione, o per lo meno l'indebolimento dello Stato? Come, tra l'altro, proponeva oltre un secolo fa Pierre-Joseph Proudhon.

Sono apparsi recentemente su vari giornali, ed in particolare sul quotidiano "La Repubblica", alcuni servizi dedicati alla "questione meridionale". Trattandosi di una questione eterna, poiché eternamente irrisolta, essa è oggetto ormai di un dibattito permanente, nel quale mi sembra opportuno inserire anche un contributo di ispirazione libertaria.
Sulle pagine di "Repubblica" si parla, in verità, della nascita di una "nuova questione meridionale", per il fatto che l'eterno problema viene presentato nei termini di un vero e proprio capovolgimento degli estremi del rapporto Nord/Sud: non più un Sud come terra di sfruttamento e "colonizzazione" da parte del Nord, bensì un Nord che, pur lavorando duramente e onestamente, pur reggendo quasi da solo tutto il peso dell'economia nazionale, si trova poi depauperato dal Sud, al quale lo stato elargisce regolarmente svariati miliardi di lire, destinati al risanamento dell'economia e delle strutture sociali nel Meridione, in realtà incamerati dai gruppi dirigenti locali (tutti ovviamente più o meno avviluppati nei tentacoli della piovra mafiosa).
Insomma, le potenzialità di espansione economica del Nord che, se lasciate libere, permetterebbero a questa parte del Paese di raggiungere i vertici della scala economica mondiale, sono invece brutalmente e vergognosamente bloccate dalla presenza di quell'enorme parassita rappresentato dalle regioni meridionali, regioni che, ormai, secondo il parere non solo dell'articolista di "Repubblica" ma anche di alcuni insigni specialisti in materia, solo il continuo afflusso di denaro, prodigalmente elargito loro dal nostro governo, salverebbe dalla caduta in condizioni di vita da Terzo Mondo.
Mi astengo da qualsiasi presa di posizione in favore dell'una o dell'altra parte, in primo luogo perché mi sembra che la questione sia ancora molto ingarbugliata e che i dati non siano in numero sufficiente da permettere una decisione obbiettiva, in secondo luogo perché la questione, ben lungi da dar luogo a faziosità, campanilismi o "guerre civili" a colpi di articoli a stampa, chiede piuttosto di essere risolta con urgenza estrema. E, su questo punto, la soluzione proposta da "Repubblica" (2 settembre) mi lascia a dir poco allibita; cito testualmente: "Rendere più evidente la presenza dello stato: meno clientelismo, più rispetto per i cittadini, più servizi, più magistrati, più poliziotti, più uomini di cultura, giornali più liberi. In altre parole, una nuova classe dirigente".
Premesso che non capisco come l'intensificata presenza dello stato possa conciliarsi col maggior rispetto dei cittadini e la maggior libertà di stampa, non posso far a meno di riconoscere l'assoluta improponibilità di tale soluzione.
Ma come, rafforzare la presenza dello stato in un territorio nel quale tutti i problemi sono sorti proprio dal momento in cui questa presenza vi si è installata? Invece di precipitarsi a tamponare le falle, l'unico sistema di intervento che il nostro governo sembra conoscere, è necessario affrontare il problema davvero radicalmente, e queste "radici" non si possono e non si devono cercare al di fuori della storia.
Solo il cosciente ripensamento della storia, per il quale mi accingo a fornire qui alcune tracce direttive, può permetterci di ricostruire in maniera completa il quadro delle origini, della natura, degli sviluppi della questione meridionale.
A questo proposito si rivela di utilissima consultazione un testo, abbastanza sconosciuto purtroppo, di uno dei padri (se non "il" padre) del movimento anarchico: Pierre-Joseph Proudhon.
Il testo in questione si intitola: "Del principio federativo" e la sua composizione risale al 1863, due anni soltanto dopo la proclamazione dell'unità d'Italia. In quest'opera Proudhon, che già nel 1840 non esitava a definire se stesso "anarchico" (era un atto coraggioso per un'epoca in cui l'aggettivo costituiva ancora un vero e proprio insulto e il termine "anarchia" non significava altro che disordine, caos) espone un sistema di organizzazione della vita sociale ispirato ai più autentici principi libertari e da proporsi in sostituzione all'attuale sistema degli apparati statali. Tale proposta prende il nome di "federalismo", per il fatto che difende, come unica forma di rapporto sociale in grado di conservare completamente la libertà del singolo, la sua umanità e la sua indipendenza, il rapporto federativo. In una società ormai liberata da gerarchie e da burocrazie costruite dall'autorità statale, Proudhon auspica l'instaurarsi, fra gli esseri umani, di una fitta rete di rapporti federativi, dapprima a livello di gruppi professionali, poi di unità territoriali sempre più vaste (che possono continuare a chiamarsi comuni, province e stati, ma ormai del tutto svuotati dal significato che attualmente attribuiamo loro) fino alla costruzione di una gigantesca federazione europea, o addirittura mondiale.
Per Proudhon, l'essenza del rapporto federativo è di natura economica: si tratta cioè di un rapporto che ha come unico scopo l'ottenimento di vantaggi di tipo economico, e che, in quanto tale, pone i contraenti su un piano di assoluta parità (ciascuno dà quanto riceve), pone loro delle condizioni che li vincolano in misura minima e, soprattutto, può essere sciolto in ogni momento (a differenza per esempio del contratto sociale di Rousseau, che viene stipulato agli albori dell'umanità e poi da questa "ereditato" per sempre).
Ma come attuare il principio federativo?
È possibile, sia pure all'interno di una società organizzata per mezzo di strutture statuali, dar vita a federazioni?
Proudhon cerca, a questo punto, di scendere a un compromesso con la realtà: dal momento che la distruzione dell'apparato statale è cosa di non facile e non immediata realizzazione, egli si chiede se sia possibile, pur conservando, almeno in parte, strutture organizzative statali, dar vita a rapporti di tipo federativo. E questo è il luogo che ci interessa da vicino, perché è esattamente a questo proposito che Proudhon affronta il problema dell'Italia. Problema al quale egli ha dedicato, oltre che il capitolo centrale del "Principio Federativo", anche uno scritto su "La federazione e l'unità in Italia" e diversi interventi giornalistici.
L'Italia, infatti, essendosi appena unificata, non ha ancora potuto darsi una organizzazione statale a livello nazionale: essa si presenta, nel 1861, ancora come un aggregato di piccoli stati di dimensioni regionali. Ebbene, la proposta di Proudhon è la seguente: NON CREARE UNO STATO NAZIONALE, BENSÌ UNA LIBERA FEDERAZIONE DI STATI REGIONALI.
In Italia, dunque, Proudhon sperava di veder finalmente attuato il suo progetto di una federazione tra piccoli gruppi amministrativi, a carattere regionale appunto, nei quali il potere estremamente indebolito e fortemente decentrato e la preminenza del rapporto di tipo economico (paritario) su quello di tipo politico (gerarchico) avrebbero garantito la massima autonomia e il massimo rispetto dell'indipendenza e della libertà, tanto agli individui quanto ai gruppi professionali e alle amministrazioni regionali.

Terra di conquista
Per quanto agli occhi dei nostri contemporanei possa apparire bizzarra, la proposta di Proudhon si rivela estremamente significativa nel momento in cui l'autore stesso espone, con una lucidità e una chiaroveggenza davvero straordinarie, le conseguenze in cui sarebbe incorsa (e in cui effettivamente è incorsa) l'Italia, se avesse attuato (come effettivamente ha attuato) uno stato unitario invece di uno stato federativo. Proudhon rileva che, nel momento stesso in cui l'Italia si è costituita come stato unitario su piano nazionale, sono nate anche la questione romana e, appunto, la questione meridionale: la prima relativa al rapporto tra stato e chiesa, la seconda al rapporto tra Nord, piemontese, e Sud, ex-borbonico. E tali questioni, nate insieme allo stato italiano, connaturate potremmo dire alla sua essenza più profonda, non potranno estinguersi in altro modo che con l'abolizione dello stesso.
Anche lo stato italiano, infatti, così come tutti gli altri stati della cui formazione la storia ci è testimone, ha avuto come fattori genetici la violenza, la prevaricazione, l'usurpazione. Esso ha tratto origine dall'estensione, del tutto illegittima e imposta mediante un atto di forza, delle leggi e dei sistemi amministrativi piemontesi a tutto il territorio nazionale. Le regioni del Sud, in particolare, vennero considerate dalla classe dirigente settentrionale come una vera e propria terra di conquista, passibile di una vera e propria spoliazione e colonizzazione, le quali furono attuate mediante l'imposizione di un sistema fiscale insostenibile e l'invio di contingenti militari con lo scopo di sradicare, con le maniere "forti", il male endemico di quelle regioni: il brigantaggio.
Quello che gli statisti piemontesi del 1861 non compresero, e che l'attuale classe dirigente sembra continuare a non voler comprendere, è che la "questione meridionale" è connaturata all'essenza dello stato italiano, e continuerà ad esserlo, perché all'origine di esso ci fu quell'atto di prevaricazione, di oppressione, di autentica invasione, violenta e del tutto illegittima, di una parte dell'Italia nei confronti dell'altra parte, in poche parole: del Nord nei confronti del Sud. E come pretendere, allora, che questa iniziale violenza venga come per miracolo dimenticata, e non continui, invece, a gravare sulla successiva storia del nostro paese, quasi come una eredità infamante, alla quale tuttavia il nostro passato e il nostro destino ci impediscono di sottrarci?
L'analisi della situazione dell'Italia post-unitaria condotta da Proudhon affronta in seguito altri problemi, come la condizione generale del proletariato italiano (che nel nuovo stato non sembra avere alcuna possibilità di risollevare le proprie sorti) o la politica estera (l'Italia si inserisce come nuova potenza nello scacchiere europeo rompendo il precario equilibrio tra gli altri paesi, per ciascuno dei quali rappresenta un nuovo possibile antagonista) e la critica costante al principio dell'"unità" del paese, al quale tanto Mazzini quanto i Savoia hanno sacrificato principi ben più nobili quali l'uguaglianza e la democrazia. Questi ultimi, osserva Proudhon, sono assolutamente incompatibili con il concetto di "stato unitario"; infatti, laddove l'unità richiede necessariamente un potere autoritario e un dirigismo sia politico che economico, l'uguaglianza, la libertà e la democrazia richiedono invece lo smantellamento dell'apparato burocratico nazionale a favore di una amministrazione decentrata, l'eliminazione dell'apparato militare a favore di patti di non belligeranza tra gli stati, la fine di un sistema di rapporti sociali imposto dall'alto a favore di un sistema di legami e di contratti costruito a partire dal basso; insomma: l'estinzione progressiva dell'autorità statale, e dell'istituzione statale stessa, a favore della libera società federativa.
L'insegnamento dunque che le pagine di Proudhon ci lasciano, come spunto di riflessione e forse, un giorno, di azione, è il seguente: la questione meridionale, così come la questione romana e tutte le altre questioni che costituiscono la spina nel fianco dello stato italiano, non può risolversi altrimenti che con l'abolizione, o per lo meno l'indebolimento, dello stato stesso, e con la costruzione di un sistema di organizzazione sociale del tutto diverso, del tutto nuovo, perché non più originato da un atto di prevaricazione e di conquista, bensì dalla serena e consapevole adesione di ogni singolo individuo ad un insieme di rapporti umani volti a preservare la sua libertà, la sua indipendenza, la sua capacità di espressione vitale, sociale e economica, al di fuori e al di là di qualsiasi struttura coartante.