Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 154
aprile 1988


Rivista Anarchica Online

Al di là degli slogan
di Arturo Schwarz

Ancora una volta utilizziamo il titolo "Al di là degli slogan" per un intervento sulla questione medio-orientale. Dopo la presa di posizione redazionale ("A" 152) ed il saggio di Gianfranco Bertoli ("A" 153), è ora la volta di Arturo Schwarz. Che, tra l'altro, passa in rassegna l'atteggiamento, le politiche e le stragi attuate dai regimi arabi contro i loro "fratelli" palestinesi. E demistifica la retorica "laica" e "progressista" tanto sbandierata dall'OLP.

Giorno dopo giorno, si allunga la lista dei palestinesi - perlopiù giovani e ragazzi - assassinati dall' esercito israeliano nei territori occupati. I mass-media, ai quali è peraltro impedito di svolgere la loro attività di documentazione in tutti gli altri paesi (arabi) della regione, hanno proposto all'opinione pubblica internazionale scene di una brutalità sconvolgente. Ancora una volta, chiunque si fosse illuso sulla possibile esistenza di eserciti "diversi", ha dovuto rendersi conto che la frase da noi spesso ripetuta - "L'uomo finisce dove comincia il soldato" - non è la solita frase fatta.
Che siano "al servizio" di stati democratici o di dittature medioevali, di "liberazione nazionale", "rivoluzionari", "proletari" o che altro, gli eserciti sono - e non possono che essere - strumenti di morte, di guerra, di repressione. Nella loro struttura interna e nelle loro finalità, nei "valori" che incarnano e nelle conseguenze che provocano, non possono differenziarsi tra loro più di tanto.
Proseguendo l'approfondimento storico e la riflessione sulla situazione medio-orientale (iniziati sul numero di febbraio con il redazionale "Al di là degli slogan" e proseguiti sullo scorso numero con il saggio di Gianfranco Bertoli ed il botta/risposta tra Maurizio Strini e Patrizio Biagi), proponiamo ora il testo dell'intervento di Arturo Schwarz nel corso del dibattito sulla questione medio-orientale tenutosi il 22 febbraio scorso presso il Circolo anarchico "Ponte della Ghisolfa" di Milano.
Nato in Egitto nel 1924 da famiglia ebrea, Schwarz è stato tra i promotori della costituzione della sezione egiziana (clandestina) della Quarta Internazionale (trotzkista). Arrestato, ha conosciuto il carcere ed il campo di concentramento. Nel '49 si trasferisce in Israele e vive dall'interno l'esperienza dei kibbutz. Trasferitosi successivamente a Milano, stringe numerosissimi rapporti con esponenti dei movimenti artistici d'avanguardia, di cui diventa uno dei principali editori e storici. Negli anni '50 dà vita alla casa editrice Schwarz (che pubblica tra l'altro Fascismo e gran capitale di Daniel Guerin).
Membro, negli anni '60, di varie organizzazioni anti-imperialiste (Comitato Vietnam - Sezione italiana del Tribunale Russell, segretario del Comitato di solidarietà militante con i popoli in lotta contro l'imperialismo, ecc.), è stato nel '68 uno dei delegati italiani al Congresso Culturale dell'Avana. Tra il '68 ed il '72 ha curato la pubblicazione della rivista Quaderni del Medio Oriente, cui hanno collaborato esponenti della sinistra israeliana (Matzpen) e palestinese (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina).
Candidato nelle liste elettorali del PSIUP (1963) e del Partito Radicale (1972) - allora si definiva "marxiano-libertario" - Schwarz, da un quindicennio è "approdato" all'anarchismo.


Vorrei esporre alcuni fatti e circostanze - anche di carattere autobiografico - per tentare di dare un quadro più articolato di una situazione estremamente complessa che si presta facilmente alla teorizzazione di soluzioni "ideali". Nell'epoca storica che viviamo - dominata da una recrudescenza di fanatismo religioso e di sciovinismo - tali "soluzioni" si riveleranno, alla prova dei fatti, del tutto inattuabili.
Non ho l'intenzione di difendere una tesi. Sono parte in causa, nonostante il mio desiderio di essere obiettivo, la mia visione della realtà mediorientale non può beneficiare del distacco emotivo che s'impone per evitare un coinvolgimento sentimentale e un giudizio parziale. Inoltre, la mia valutazione della realtà quotidiana vissuta dagli abitanti di Israele e dei territori occupati, è viziata in partenza dall'impossibilità di raffigurarmi tutti i suoi aspetti.
Come vive un israeliano che subisce da quarant'anni la minaccia di genocidio proclamata apertamente e costantemente? Come reagisce alle violenze terroristiche che, dal 1921 (questa data segna l'inizio dei primi pogrom fomentati da Amin El Hussein(1), gran Mufti pronazista di Gerusalemme negli anni Venti e Trenta) continuano a colpire, anche in Israele, donne, bambini, anziani, colpevoli soltanto di essere nati ebrei? E qual è lo stato d'animo di un popolo costretto a vivere da rifugiati o da esiliati sulla propria terra? È arduo calarsi in una realtà non vissuta in prima persona.
Guardiamoci anche da una visione manicheista della questione. Siamo al centro di una gigantesca operazione di lavaggio del cervello che propone un'Israele gendarme dell'occidente e lunga mano dell'imperialismo yankee confrontato da una massa di rifugiati diseredati che lotta per la libertà. La realtà è molto più complessa e anche assai più semplice.
Più complessa non soltanto perché subentrano sentimenti irrazionali, quali l'integralismo islamico o il massimalismo ebraico, ma anche perché arabi e israeliani, volenti o nolenti, sono parte di un contesto geopolitico più grande di loro, che vede competere sinistramente gli interessi degli imperi statunitense e sovietico, e le ambizioni di un nazionalismo arabo sunnita che si scontra contro quello dell'espansionismo sciita.
Più semplice perché la via d'uscita all'attuale situazione di stallo è ovvia quanto ineluttabile, e presto o tardi s'imporrà: Israele deve ritirarsi dai territori occupati e agli arabi palestinesi deve essere consentito di esercitare liberamente il diritto all'autodeterminazione. Dopo l'evacuazione di Gaza e della Cisgiordania toccherà agli abitanti decidere la forma dello stato: totalmente indipendente o federato alla Giordania o altro ancora.
L'antisemitismo, di destra come di sinistra, di origine laica o religiosa, ha trovato nella situazione attuale un'occasione ideale per rilanciare le accuse più ripugnanti, ed è nostro compito combattere anche l'incitamento all'odio razziale che si avvale pure di una confusione semantica sapientemente coltivata. La propaganda antisemita non fa distinzione tra ebreo o israelita e israeliano o sionista. Inoltre, riversa sull'israeliano le colpe del proprio governo.

Lo stato d'Israele uno stato
Io sono nato da genitori ebrei, e mi considero ebreo anche se sono ateo, e se, dal punto di vista culturale, mi sento debitore di un cinese (Lao Tze), di un greco (Eraclito), di un ebreo olandese cacciato dalla propria comunità (Spinoza), di un russo (Bakunin), di uno svizzero (Jung), di un francese (Breton). Inoltre non sono sionista perché sono contro ogni motivazione teocratica o razziale. Del resto, sentirsi parte del popolo ebraico senza condividerne la religione o le aspirazioni nazionalistiche, è una condizione largamente diffusa tra noi.
Lo stato ebraico non è diverso da qualsiasi altro stato e i suoi governanti non sono migliori di altri. È fare nuovamente prova di razzismo pretendere che essi si comportino diversamente da come l'URSS si comporta in Afganistan o in Armenia, l'Inghilterra in Irlanda, gli Stati Uniti in America latina; oppure, nei propri territori, l'Africa del Sud, l'India, la Cina, il Giappone, l'Egitto, la Siria, il Libano, la Giordania, la Turchia, l'Iraq, l'Iran ecc. ecc. Eppure, soltanto gli ebrei e gli israeliani sono condannati per le colpe del governo israeliano, nonostante le più imponenti manifestazioni di protesta che ci siano state contro i massacri di palestinesi ad opera dei loro "fratelli" arabi si siano svolte proprio in Israele (400.000 ebrei manifestarono a Tel Aviv per protestare contro il massacro, ad opera dei falangisti, dei palestinesi nei campi di Sabra e Chatila); nonostante le condanne più dure della politica dei propri governanti partano proprio dagli israeliani.
In quanto anarchici sappiamo meglio di chiunque come lo stato sia il braccio armato di una classe sociale che per difendere i propri interessi non esita a fomentare guerre e a esercitare quotidianamente la violenza e la sopraffazione. Proprio noi dovremmo aspettarci dallo stato ebraico un atteggiamento in contraddizione con la sua stessa natura?
Mi si consenta ora di passare da considerazioni di natura più generale a ricordi e esperienze di carattere privato che possono chiarire quali sono, nella loro cruda realtà, i reali rapporti tra ebrei e musulmani.
Sono nato in Egitto dove ho abitato per 25 anni, sino all'aprile del 1949 e parlo quindi di esperienze vissute in prima persona. Non è vero che tra musulmani e ebrei ci siano sentimenti di tolleranza e tanto meno di benevolenza.
Diciamo le cose come stanno, e senza giri di parole. I musulmani provano per gli ebrei (e per tutti gli "infedeli" e le minoranze etniche come copti, drusi, bahai, curdi, ecc.) soltanto odio e disprezzo. Quando è possibile, il ricorso alla guerra santa (la gihad) ancora oggi è la conseguenza naturale della loro fondamentale intolleranza(2).
In Egitto sono stato tra i fondatori, nel 1944, della sezione egiziana della Quarta Internazionale. Fui arrestato più volte e passai quasi un anno nel campo di concentramento di Abukir. Gli unici compagni con cui ho potuto fraternizzare, sia in prigione, sia a Abukir, sono stati i copti. I "compagni" musulmani, nonostante militassimo nella stessa organizzazione, ci escludevano dalle mini-comuni che si erano formate nel campo per meglio sopravvivere.
Nel 1968, fui uno dei delegati italiani al congresso culturale dell'Avana. Nell'aereo che ci portava da Madrid a Cuba, un delegato siriano cominciò un lavoro di auto-propaganda, poiché ambiva alla presidenza di una delle commissioni. Arrivato alla mia fila, iniziò un cordialissimo colloquio; a un certo punto gli dissi che avevamo molte affinità essendo entrambi nati nel Medioriente, e precisavo di essere ebreo. Il volto del siriano tradì un sentimento di intenso odio e ribrezzo. Senza aggiungere una sola parola, si allontanò immediatamente troncando di netto il discorso iniziato.
Il disprezzo dei musulmani per gli ebrei ebbe modo di manifestarsi in forme particolarmente raccapriccianti. Qualche anno fa, tre fedayn di Al Fatah furono condannati a morte da un loro tribunale per avere stuprato una ragazza araba. La sentenza stabilì che fossero sotterrati nel cimitero ebraico. Le pietre tombali dei cimiteri ebraici del Monte degli Ulivi furono utilizzate a suo tempo dai giordani per la costruzione di latrine nella Gerusalemme araba.

Gli stati arabi contro i palestinesi
L'OLP pretende di volere uno stato laico e democratico dove arabi e ebrei potrebbero vivere in pace. Vediamo, alla luce dell'esperienza di questi ultimi vent'anni, quanto sia sincero questo proposito. Cominciamo a chiederci perché in Libano, in Siria, in Giordania e in Egitto, i palestinesi sono riusciti soltanto a farsi odiare dalle popolazioni ospitanti, tanto che "l'antipalestinesimo a livello di popolazione è diventato viscerale" (L. George, Le Monde, 6-7 marzo 1988). La verità è che in Egitto e in Siria i palestinesi si sono alleati con gli elementi più reazionari, i Fratelli musulmani, nel tentativo di rovesciare il regime che li aveva accolti, mentre in Libano e in Giordania hanno tentato di creare uno stato nello stato, imponendo tasse e esazioni di ogni genere, trattando da sudditi conquistati i loro ospiti, e imponendo loro ogni tipo di sopraffazione. Il risultato è che in Libano, prima i cristiani falangisti, poi i musulmani sciiti e persino i sunniti, infine i drusi, si sono ribellati ed è iniziata la guerra dei campi, non ancora conclusa, con i relativi massacri periodici. I 32 mesi di assedio dei campi palestinesi ad opera delle milizie Amal (espressione delle classi arabe più povere) hanno provocato 2500 morti, oltre 7500 feriti e la sparizione del campo di Sabra (8000 abitanti). (Le Monde, febbraio 1988).
In Siria e in Giordania, stati più forti del Libano lacerato da conflitti interconfessionali, la soluzione è stata più rapida e sbrigativa. Assad ha espulso i palestinesi verso il Libano. Nel settembre del 1970, per ostacolare i progetti egemonici dei palestinesi, Hussein ha scagliato contro di loro le sue legioni beduine, massacrando 3400 quadri. In Egitto è stata decretata la chiusura di tutti gli uffici dell'OLP e i funzionari e i civili palestinesi sono stati espulsi verso la Libia e altri paesi arabi.
Non dimentichiamo che gli stati arabi hanno una parte enorme di responsabilità nella creazione del problema dei rifugiati, perpetuato per servire da arma contro Israele(3). Questo l'appello diffuso da Radio Cairo il 16 maggio 1948: "Fratelli arabi di Palestina! I nostri sette eserciti libereranno in qualche giorno il territorio sacro profanato dalle bande criminali atee. Affinché gli ebrei, mille volte maledetti da Allah, non si vendichino vigliaccamente contro di voi prima del loro annichilimento totale, vi invitiamo a essere i nostri ospiti. Gli arabi vi aprono i loro focolari e i loro cuori. Vinceremo gli infedeli! Schiacceremo le vipere!".
Sappiamo come la promessa di accogliere fraternamente gli esuli palestinesi sia stata mantenuta. I campi d'internamento di Gaza furono creati dagli egiziani. Gaza era considerata territorio occupato. Il governatore militare dipendeva dal Ministro della guerra e aveva diritto di veto. Non fu mai permesso agli abitanti di prendere parte alla vita politica egiziana. Nel 1962 e 1963, tra i rifugiati esasperati dal regime di occupazione egiziano, apparvero dei manifesti che chiedevano di "cacciare i tiranni faraonici che ci affamano e ci opprimono".
Oggi in Giordania la situazione non è migliore. Nel campo di Bakaa sopravvivono precariamente oltre 200.000 palestinesi in condizioni catastrofiche e senza alcuna prospettiva di miglioramento. Le baracche, senza acqua corrente, sono di terra battuta e a un solo piano perché viene negato il diritto di costruire case di mattoni. Il risultato è che le abitazioni sono immerse nel fango durante la stagione delle piogge, sono gelide d'inverno, e forni d'estate(4).
Non si creda che l'atteggiamento aggressivo e intollerante dei palestinesi sia una loro caratteristica peculiare. Essi si adeguano al modo di esistere di tutti gli altri stati musulmani in Africa, come in Asia. Vorrei ricordare alcuni esempi tra i più clamorosi.
Il fanatismo islamico raggiunge la sua espressione più compiuta con Khomeiny che da anni continua una guerra costata ai contendenti milioni di morti. L'Iran manda al macello anche bambini di otto anni, massacra le minoranze etniche (i curdi), politiche (la sinistra laica) e religiose, i bahai. Ricordiamo che i bahai credono nell'unità della razza umana, nell'eguaglianza dell'uomo e della donna e nella necessità di rendere l'educazione obbligatoria e accessibile a tutti. La fede bahai è di carattere sincretico e s'ispira alla Torah ebraica, al Nuovo Testamento, al Corano e alla Bhagavad Gîtà.
In Indonesia, il massacro dei militanti del maggiore partito comunista dell'Asia è cominciato con l'incitamento all'odio contro le minoranze cinesi, parola d'ordine del Partito dei Fratelli musulmani (Parti Nachtadue Uluma Moslem). Col pretesto di una guerra santa condotta in nome dell'Islam, il "Movimento del 30 Settembre" (Gestapu) di Suharto-Nasution ha scatenato la repressione più feroce del nostro tempo contro democratici e comunisti; in meno di un anno, il genocidio delle minoranze etniche cinesi ha condotto al massacro di circa un milione di militanti indonesiani.
Nel Sudan, prima il governo di Hassan Mahdjub poi quello attuale perseguita i cinque milioni di negri che popolano le tre provincie meridionali del Sudan. Questi rifiutano il processo di arabizzazione totale che viene loro imposto da Khartoum. Da anni la lotta si è trasformata in lotta armata, le forze di liberazione del Sudan del Sud, con il nome di Anya-Nya si battono contro il governo di Khartoum.
Il fronte di liberazione dell'Azande (nome storico del Sudan del Sud) di cui l'Anya-Nya è l'ala militare, accusa apertamente gli arabi di genocidio. Joseph Oduko, primo presidente del Fronte di Liberazione dell'Azande, in una intervista pubblicata nel numero del Nouvel Observateur del 27 dicembre 1967, ha dichiarato: "Gli arabi vogliono la terra, la nostra terra, e per questo sono pronti a sterminarci. Essi sono sostenuti da tutto il mondo arabo... mentre noi siamo soli... ognuno sa che, per gli arabi, il negro del Sud è solo lo schiavo che si uccide quando rifiuta di obbedire... Non c'è oggi una vera democrazia in Africa. Il giorno in cui finalmente la parola sarà data al popolo africano le cose cominceranno a cambiare: tra l'altro, le frontiere attuali, che non corrispondono ad alcuna realtà etnica, e che sono state imposte al seguito del colonialismo, saranno rivedute e modificate e l'unità negra sarà più facile da farsi".
In Iraq, la politica razzista, culminata nel genocidio delle popolazioni curde continua da decenni, e malgrado tutti i cambiamenti di regime. Ricordiamo che questa politica di genocidio è stata denunciata anche dall'Unione Sovietica al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Per il governo iracheno la lotta contro i curdi è un mezzo eccellente per sviare l'attenzione delle masse dalla lotta di classe.
I rappresentanti del Partito comunista iracheno hanno dichiarato, nell'aprile 1967, al 7° Congresso del Partito socialista unitario a Berlino: "Migliaia di comunisti e di progressisti sono in prigione e vengono torturati nel corpo e nello spirito... I dirigenti attuali privano le forze nazionali della loro libertà... I dirigenti sciovinisti non hanno fatto nulla per risolvere il problema dei curdi... Hanno aperto la porta ai capitali stranieri... I dirigenti dell'Iraq lanciano slogan demagogici sulla solidarietà araba, la neutralità positiva e la lotta contro l'imperialismo. Ma la loro è una politica di compromesso con l'imperialismo e la reazione". In Siria, con il pretesto della mobilitazione antiisraeliana le minoranze etniche sono oppresse e perseguitate: nel Nord i curdi fanno le spese della politica razzista siriana, mentre nel Sud le fanno i drusi. Un episodio è sufficiente per illuminare la natura del regime clerico-militare siriano prima di Al-Atassi e ora di Assad (entrambi grandi proprietari terrieri), che si è alienato l'appoggio delle masse operaie e contadine e che rappresentano solo gli interessi della casta militare al potere.
Il 5 maggio 1967 il comandante Aduan Hamman, direttore responsabile della rivista Djaysh Al Sha'b, organo ufficiale dell'esercito, l'allievo ufficiale Fatih Samani, coredattore capo, e l'allievo ufficiale Ibrahim Khalas, autore di un articolo apparso in questa rivista il 25 aprile 1967, sono arrestati e processati per la pubblicazione di un articolo di Khalas il cui titolo è "Il modo per creare un uomo arabo nuovo".
Khalas aveva scritto tra l'altro "L'unica via per edificare la civiltà e la società araba è quella di creare l'uomo socialista arabo nuovo, convinto che Dio, le religioni, il feudalesimo, il capitalismo, il colonialismo, i ricchi e tutti i valori che sono prevalsi nella società precedente non sono che burattini imbalsamati nel museo della storia". Evidentemente il razzismo va di pari passo con il fanatismo religioso e la negazione dei valori umanistici.
In Egitto, la crisi arabo-israeliana serve da pretesto a Mubarak per continuare la persecuzione di tutti gli elementi di sinistra, anche di quelli più moderati, proseguendo così nella politica dei suoi predecessori: Nasser, Neguib e Faruk; persecuzione che va di pari passo con quella dei copti al Nord e dei nubiani al Sud. Lo sceicco Hassan el Bakuri, già ministro dei Wakf, spiegava: "Se affermiamo che gli arabi sono la migliore nazione proposta agli uomini è perché si tratta di un fatto rivelato dal Corano e di una verità enunciata nei suoi versetti". Per quanto riguarda il clericalismo della casta militare al potere basta ricordare che la Carta d'azione nazionale di Nasser esige dal cittadino "Una fede incrollabile in Dio, nei Suoi profeti, nei Suoi santi, che Egli ha inviato per guidare e portare la verità agli uomini, in ogni tempo e in ogni luogo".
Marx aveva denunciato il pericolo del panislamismo che si identifica con il pan-arabismo quando scriveva: "Il Corano e la legislazione musulmana che ne deriva riducono la geografia e l'etnologia a una distinzione comoda e semplice tra due paesi e due nazioni, i fedeli e gli infedeli. La nazione infedele è harbij, cioè nemica. L'islamismo non riconosce il diritto alla esistenza alle nazioni degli infedeli e postula uno stato di ostilità permanente tra musulmani e non credenti"(5).
Ricordiamo che le costituzioni di tutti gli stati arabi (con la sola eccezione di quella libanese) proclamano l'Islam religione di stato: Algeria (art. 4), Egitto (art. 5), Giordania (art. 2), Iraq (art. 3), Kuwait (art. 2), Libia (art. 5), Marocco (art. 6), Siria (art. 3)(6). L'ultimo Rapporto di Amnesty International per il 1987 dà ampi ragguagli sulle persecuzioni e i massacri di oppositori politici e delle minoranze etniche nei paesi arabi. Come in Indonesia, l'islamismo serve da alibi per la persecuzione della sinistra egiziana. Queste persecuzioni implacabili erano dirette, ai tempi di Nasser (non conosco la situazione attuale), da ex-nazisti: il capo della polizia politica egiziana, era l'ex SS Sturm Bahnführer Seipel che ha preso il nome di Emmad Zuher, mentre alti funzionari della Gestapo dirigevano i campi di concentramento dove furono assassinati gli elementi migliori e più coraggiosi del popolo egiziano: Willerman (che ha preso il nome di Nami Fahoum) dirigeva il campo di concentramento di Samara. L'influenza dei nazisti nella struttura del regime nasseriano è del resto enorme: i movimenti giovanili erano diretti dalla SS Moser, ricercato dai sovietici per crimini di guerra in Ucraina.
La sezione israeliana del Ministero della Propaganda egiziana era diretta da vari nazisti notori: Hans Applen (che ha assunto il nome di Salah Chaffar), Luis Heiden (autore della traduzione araba del Mein Kampf, best-seller nei paesi arabi), Erich Bunzel, Franz Bartel (El Hussein), Wilhelm Bockler, e la SS Baumann che hanno partecipato entrambi allo sterminio degli ebrei nel ghetto di Varsavia(7).
È il caso di stupirsi se la propaganda araba e gli scopi della guerra chiaramente dichiarati riprendevano senza alcuna modifica i temi e i fini nazisti della "soluzione finale del problema ebraico" preconizzata da Hitler? Le vignette che illustrano questo testo sono eloquenti al riguardo.
Vorrei anche ricordare alcune dichiarazioni significative per dare un'idea del clima di odio alimentato dai governanti arabi.
Il 14 maggio 1948, in conformità con la risoluzione delle Nazioni Unite, fu proclamata l'indipendenza di Israele. Lo stesso giorno gli eserciti dell'Egitto, Giordania, Siria, Iraq e Libano aggredirono il nuovo stato. Azzam Pacha, segretario della Lega araba dichiarò: "Sarà una guerra di sterminio e di massacri dei quali si parlerà come dei massacri dei Crociati e dei Mongoli" (citato dalla B.B.C. il 15 maggio 1948). Il Primo ministro iracheno a Radio Baghdad il 15 maggio 1948: "Schiacceremo il paese con i nostri fucili e distruggeremo ogni luogo dove gli ebrei cercheranno rifugio". Il Rettore dell'Università Al-Azhar del Cairo prometteva, prima ancora della dichiarazione d'indipendenza: "Getteremo a mare le bande sioniste criminali, e non rimarrà un solo ebreo in Palestina" (Radio Cairo, 18 e 24 marzo 1948).
Nel 1967, nei giorni che precedettero immediatamente lo scoppio del secondo conflitto il tono non è diverso: "L'ora "x" sarà fissata per scatenare l'attacco contro il nemico per distruggerlo e annientarlo... Già da oggi, il fronte occidentale della Giordania è diventato un luogo di massacro per Israele" (La voce degli arabi, Radio Cairo, 31 maggio).
Il presidente iracheno Aref indirizzandosi ai piloti della base di Habbaniya: "Figli miei, questo giorno è un giorno di vendetta e di lotta... Con l'aiuto di dio ci ritroveremo tutti a Tel-Aviv e a Haifa" (citato da Radio Baghdad, 1° giugno). Il quotidiano giordano Al-Kuds: "La morsa d'acciaio che strangolerà lo Stato gangster si è stretta" (31 maggio).
Le minacce di sterminio sono esplicite: "Il popolo arabo è fermamente deciso a cancellare Israele dalla faccia della terra e a restaurare l'onore arabo in Palestina" (Radio Cairo, 25 maggio). Il ministro siriano degli affari esteri dichiara: "Siamo pronti a prendere l'iniziativa della liberazione stessa e a fare scoppiare l'esistenza sionista aggressiva nella nostra patria araba" (citato da Al-Thoura, quotidiano damasceno, 20 maggio). Re Hussein: "Dobbiamo andare avanti nella via che porta alla cancellazione della nostra vergogna e alla liberazione della Palestina" (Al Khayat, quotidiano di Beirut, 2 giugno). Il presidente algerino Bumedienne: "Fratelli, la libertà reale della patria intera passa per la liquidazione dello stato dei sionisti" (Radio Algeri, 4 giugno).
Nel quadro di questa campagna non si esita a riesumare un famigerato falso antisemita dell'Ottocento: "Israele è stato costituito per realizzare il piano elaborato dai Savi di Sion nei loro famosi Protocolli, nei quali essi diffondono il loro veleno e indicano le direttive per eliminare la civiltà e rendere schiavi tutti i popoli, soggiogandoli al popolo cosiddetto eletto da Dio. Questo piano è diventato la costituzione del movimento sionista". (Cairo Review, N°. 21, 22 luglio 1967)(8).

Quale confederazione per quale pace?
Nell'OLP, l'organizzazione più progressista e più disponibile a un dialogo arabo israeliano è il Fronte Democratico di Liberazione della Palestina (FDLP) diretta da Nayef Hawatmeh. Vediamo quali sono le prospettive offerte agli israeliani, senza soffermarci sul fatto che il patto Nazionale palestinese del 1964 - tuttora vigente - prevede la distruzione dello Stato d'Israele e l'espulsione di tutti gli ebrei giuntivi dopo il 1948 (articoli 9, 19, 21, ecc. ). Posizione ribadita da George Habbash che tra altre amenità, definisce Israele "la bestia", "il tumore pericoloso" ecc. nel corso di un'intervista a Antonio Ferrari (Corriere della Sera, 27/2 e 8/3/1988).
Nel gennaio del 1970 in una dichiarazione di Hawatmeh al quotidiano francese Le Monde si accenna per la prima volta alla struttura del futuro stato palestinese: "Bisognerà edificare uno stato veramente democratico che farà parte di una grande federazione socialista araba nella quale il potere, tutto il potere, sarà esercitato dai consigli operai, dai consigli dei braccianti e dei soldati. Poco importa la forma costituzionale di questo nuovo stato, che potrà avere le strutture di una federazione o d'una confederazione di tipo jugoslavo o cecoslovacco. L'essenziale, sarà il suo contenuto sociale, la sua natura di classe, il tipo di governo"(9).
Un'intervista pubblicata quasi contemporaneamente su AfricAsie, ridimensiona considerevolmente la portata di questa dichiarazione. Vi si precisa infatti che "il futuro stato sarà integrato in una federazione o una confederazione araba (sull'esempio di quella jugoslava o cecoslovacca)"(10). In altre parole, non sarà lo stato palestinese ad avere una struttura federativa o confederativa, ma sarà la Palestina araba che farà parte di una più vasta federazione o confederazione che riunirà tutti gli stati arabi della zona.
Una dichiarazione posteriore rilasciata da Hawatmeh a Edouard Saab, corrispondente libanese di Le Monde, ripresenta la stessa formulazione ambigua: "Noi rifiutiamo le soluzioni d'ispirazione sciovinista, proponiamo la creazione in Palestina di uno stato democratico e popolare che comprenderebbe arabi e ebrei nel quadro di un sistema socialista, con il diritto per ciascuna comunità di conservare la propria cultura e di operare per il suo sviluppo. La forma costituzionale del nuovo stato non è un problema. Si potrà prendere in esame il modello jugoslavo e l'esistenza di governi autonomi che però dipendono tutti da un solo potere per quanto riguarda l'economia, la sicurezza e la politica estera"(11).
Se per "propria cultura" s'intende "propria religione", come precisato dallo stesso Hawatmeh nell'intervista a Fieneut citata prima, e se per "forma costituzionale del nuovo stato" ci si riferisce a una federazione o confederazione araba della quale dovrebbe fare parte una Palestina araba e non binazionale, come chiarito da Hawatmeh a AfricAsie, è chiaro che questa dichiarazione, così come tutte le altre formulate con la stessa ambiguità di termini, viene svuotata da ogni significato rivoluzionario.
Questi dubbi vengono rafforzati dalla lettura del Progetto di risoluzione presentato dal FDLP alla Conferenza mondiale dei cristiani per la Palestina: "Domandare ai rivoluzionari arabi di riconoscere il diritto all'autodeterminazione del popolo israeliano significa rovesciare i problemi e ignorare la specificità della questione palestinese, cioè il fatto che la creazione, da parte degli ebrei, di uno stato indipendente in Palestina (e diritto all'autodeterminazione significa diritto alla separazione) viola il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione"(12).
La risposta a questa posizione è data da un militante del Matzpen: "Noi chiediamo ai rivoluzionari arabi di essere internazionalisti e di riconoscere il diritto all'autodeterminazione della nazione ebraico-israeliana, perché di nazione si tratta e non di comunità religiosa come pretende Al Fatah nel suo programma. Non lo chiediamo per noi, ma nell'interesse della rivoluzione. Le masse qui vivono pensando che saranno sterminate e buttate a mare. Non puoi chiedere a una persona che la pensa in questo modo di unirsi a una lotta rivoluzionaria se non sa cosa gli succederà dopo la vittoria della rivoluzione. Per mobilitarla bisogna dargli un'alternativa all'attuale situazione, questa alternativa è l'autodeterminazione. Se dopo la rivoluzione la gente vuole separarsi ne ha il diritto; se gli ebrei preferiscono formare una entità a parte in un Medio oriente socialista lo possono fare. Una cosa non possono fare: opprimere un'altra nazione e realizzare i propri interessi a spese degli altri. Questo non fa parte del diritto all'autodeterminazione. Non hanno diritto allo stato d'Israele, fondato espellendo la popolazione indigena"(13). L'atteggiamento massimalista anche della frazione più avanzata dell'OLP, la mancanza di ogni prospettiva comune e la minaccia di genocidio che ha pesato per anni sulla popolazione israeliana fa il gioco della reazione e ha permesso di bloccare i progressi dei movimenti di sinistra e di favorire la creazione di un governo di unione nazionale che vede alleati l'estrema destra dell'ex-terrorista Shamir e il leader laburista Peres. Il governo ha dato un violento colpo di timone a destra e adottato una serie di provvedimenti pro-capitalisti: congelamento dei salari, incoraggiamento degli investimenti esteri, lotta contro i sindacati, ecc.; contemporaneamente, i circoli sciovinisti annessionisti rinforzano le loro posizioni, spalleggiati dai fanatici religiosi.
La logica della storia impone la fine dello sciovinismo e del razzismo, quindi il superamento dei nazionalismi. Ma la logica della storia non è ineluttabile, bisogna lottare per attuarla.
Il razzismo, dividendo le masse oppresse, le rende vulnerabili ai colpi della reazione e allontana indefinitamente la prospettiva della rivoluzione socialista. Il militante rivoluzionario deve dunque stare attento a non cadere nel trabocchetto della reazione e denunciare in ogni occasione e senza sosta tutti i tentativi di trasformare la lotta per l'emancipazione dell'umanità in una lotta per l'asservimento razzista dei popoli e delle minoranze etniche.
La strada della liberazione dei popoli non passa per la via dell'umiliazione razzista dei popoli. La libertà è indivisibile e nessun popolo sarà libero se un solo altro popolo - ovunque esso si trovi, qualunque esso sia - sarà asservito. È chiaro che non si potrà fare nessun passo avanti sulla via della soluzione fin quando uno dei due protagonisti negherà l'esistenza dell'altro; fin quando si confonderà l'identità nazionale con quella confessionale. Questo reciproco riconoscimento, chiaro e senza ambiguità, è di per sé un atto rivoluzionario. Le difficoltà che si incontrano nell'ottenerlo danno la misura dell'enormità delle responsabilità storiche che incombono oggi sui due protagonisti di questo dramma. Auguriamoci che nel loro stesso interesse, nell'interesse quindi della rivoluzione, arabi ed ebrei potranno ritrovarsi sulla via della fratellanza; una fratellanza cementata dalla lotta per una nuova Israele e una nuova Palestina, socialiste, libertarie e felici.


(1) Per la collusione tra Amin El Husseini e il regime nazista si veda Miriam Novitch: "Israel doit étre anéanti", Presses du Temps Présent, Paris s.d., pp. 132-143; per quella tra Gamal Abdel-Nasser e i neo-nazisti, lo stesso testo: pp. 144:48.


(2) Sulla tragica sorte delle minoranze etniche e religiose nei paesi arabi esiste una documentazione sterminata, si veda anche Novitch, op. cit. pp. 172-178 e Jean Goll: "Le mirage palestinien", C.I.D., Bruxelles 1969, pp. 17-20, 24-31.


(3) Sull'origine e lo sviluppo del problema dei rifugiati si veda Novitch, op. cit., pp. 67-93.


(4) cfr. Véronique Maurus: "Avec les Palestiniens de Jordanie dans le camp de réfugiés de Bakaa", in Le Monde, 17 febbraio 1988.


(5) Marx: "War Declared/Musulman and Christian" in New York Daily Tribune, n. 4054 (15-4-1854), ripreso in Karl Marx/Friedrich Engels, Werke, Dietz Verlag, Berlin 1961, vol. X, p. 170; trad. it. in La questione orientale, L. Mongini, Roma 1903, p. 223.


(6) Peaslee: Constitutions of Nations, Martinus Nijhoff, L'Aja 1965, vol. I, pp. 436, 562, 601, 991; Vol. II, pp. 474, 537, 1138.


(7) Per un'ampia documentazione sui nazisti nell'amministrazione egiziana si veda Novitch, op. cit., pp. 109, 122-132.


(8) Sono centinaia le dichiarazioni analoghe, per una scelta più ampia della mia, cfr. Novitch, op. cit., pp. 59, 65, 69-72, 115-121, 161-67.


(9) Nayef Hawatmeh: "Per una soluzione democratica ai problemi palestinesi e israeliano" (Le Monde, 27-1-1970), in Quaderni del Medio Oriente, n. 7 (Maggio 1970), p. 39.


(10) Nayef Hawatmeh: "Per uno Stato multirazziale in Palestina" (AfricAsie, 19-1/1-2-1970) in Quaderni del Medio Oriente, n. 7 (Maggio 1970), p. 37.


(11) Intervista di Nayef Hawatmeh a Edouard Saab in Le Monde, 31-5/1-6-1970.


(12) Progetto di risoluzione presentato dal FDLP alla Conferenza mondiale dei cristiani, Beirut, 1970, in Quaderni del Medio Oriente, n. 8 (Novembre 1970), p. 23.


(13) citato da Michele Sacerdoti in "Diario israeliano", Quaderni del Medio Oriente, n. 9 (Dicembre 1970), pp. 34-35.

L'altra Israele si fa sentire

Sul n. 30 (gennaio/febbraio 1988) del bollettino The Other Israel ("L'altra Israele"), organo del "Comitato israeliano per la pace israelo-palestinese", sono pubblicati - tra gli altri - i seguenti due documenti, che testimoniano dell'esistenza e della vivacità dell'opposizione alla politica del governo di Shamir-Peres.
Il primo documento, intitolato "Il vero istigatore" (in polemico riferimento alle tesi governative, secondo cui la rivolta palestinese sarebbe esclusivamente frutto di manovre dell'OLP), è costituito dalla risoluzione adottata il 16 dicembre scorso dal citato "Comitato israeliano per la pace israele-palestinese" (e pubblicata il 20 dicembre scorso sul quotidiano
Ha'aretz).
Il secondo documento riproduce il testo della petizione, proposta dal movimento Yesh Gvul ("C'è un limite") e firmata da 160 riservisti (tra cui un maggiore ed alcuni capitani) dell'esercito israeliano. Il 5 gennaio di quest'anno è stato effettuato il primo arresto di questi riservisti obiettori: Ofer Kasiv, 23 anni, rifiutatosi di raggiungere il suo Corpo a Gaza, è stato subito condannato a 28 giorni. Il suo processo ha avuto una forte risonanza sui mass-media, provocando - tra l'altro - numerose nuove adesioni alla petizione dei 160.
Il 23 gennaio, poi, due enormi dimostrazioni contro la politica governativa nei territori occupati hanno avuto luogo a Tel Aviv (90.000 partecipanti) ed a Nazareth (35.000).
Ecco, nell'ordine, i due documenti.


Il vero istigatore

Il sangue dei giovani palestinesi che è versato quotidianamente nei territori occupati macchia le mani di tutti i ministri del governo d'Israele - di Yitzhak Rabin e di Yitzhak Shamir, di Shimon Peres e di Ariel Sharon. Questo governo di cosiddetta "Unità nazionale" è unito nel negare al popolo palestinese il diritto di vivere nel proprio stato sovrano ed indipendente.
Il regime di occupazione nella striscia di Gaza e in Cisgiordania è il vero istigatore. L'occupazione è la causa della ribellione e del sollevamento. Le deportazioni, le "detenzioni amministrative", le demolizioni delle case, la confisca della terra per i coloni, l'umiliazione quotidiana dei palestinesi fermati ai blocchi stradali, questo è ciò che istiga, ciò che infiamma i territori occupati.
Chiediamo alla popolazione israeliana di gridare il suo rifiuto e di fare ascoltare la sua protesta. Chiediamo un'inchiesta completa e indipendente sulla condotta dell'esercito d'Israele e sulle guardie di frontiera nei territori occupati; un'inchiesta su tutti i casi di spari, ferimenti, uccisioni, di tutti gli esempi di umiliazioni e di maltrattamenti.
Noi diciamo che esiste una sola via per raggiungere una soluzione politica e fermare lo spargimento di sangue da entrambi i lati: aprire le negoziazioni tra il governo di Israele e l'Organizzazione di Liberazione della Palestina per avviare la creazione di uno stato palestinese indipendente affiancato allo stato di Israele.


C'è un limite

Il popolo palestinese è in rivolta contro l'occupazione israeliana. Più di vent'anni di occupazione e di repressioni non hanno fermato la lotta palestinese per la liberazione nazionale. Il sollevamento nei territori occupati e la repressione brutale da parte delle forze di difesa d'Israele (FDI) illustra drammaticamente il costo terribile dell'occupazione e l'assenza di soluzioni politiche. In quanto riservisti del FDI dichiariamo che non possiamo più sopportare il peso della responsabilità per questa negazione morale e politica. Noi proclamiamo che rifiuteremo di prendere parte a soffocare il sollevamento e l'insurrezione nei territori occupati.