Rivista Anarchica Online
Non solo
in America
di Floriana Lipparini
I "custodi della terra" sono
giunti in volo dal Canada, dalle foreste ecuadoriane, dal nord dell'Argentina, dal mitico Ovest, dall'Amazzonia, dalle montagne della
Colombia. Erano Irochesi, erano Kolla, erano Cree, Mohawk, Shuar,
Krenak, Kogi, Mapuche, Kuna, Aguaruna e Yanohama. Donne e uomini,
giovani e anziani, di pelle chiara e di pelle scura, vestiti
all'indiana oppure all'occidentale, hanno parlato a noi "uomini
bianchi" a noi " fratelli minori", come poeticamente
ha detto Ramon Gil Barros, un Kogi della Sierra Nevada.
Ognuno di loro è portavoce di
un popolo, di una lotta; ognuno ha incarichi di responsabilità
in seno alle associazioni indie che si stanno organizzando in mezzo a
mille pericoli per il diritto alla vita e all'autodeterminazione;
qualcuno è addirittura un potente capo; e su tutti torreggiava
l'alta, imponente figura di Wallace Black Elk, uomo di medicina,
nipote del leggendario Alce Nero. Si sono riuniti per la prima volta in
Europa su iniziativa del "Centro studi Luigi Negro", in un
convegno intitolato appunto "Urihi. Incontro con la
civiltà dei custodi della terra" tenutosi a Milano il 13
e 14 febbraio. Perché "Urihi"? In lingua yanomani
significa "terra" la grande madre terra a cui tutti gli
indios sono legati da un profondo rapporto di rispetto e amore.
Quella terra che l'uomo bianco sta distruggendo e che gli indios
vogliono invece difendere: è venuto il momento - dicono i
libri sacri - di insegnare al fratellino minore che deve fermarsi,
che deve imparare proprio da quelle culture che per secoli ha tentato
di distruggere. Ma non è solo una battaglia
"ecologista" che li ha condotti da noi. Sono anche venuti a
dirci che abbiamo molti debiti nei loro confronti e in qualche modo è
giunta l'ora di pagarli. Ci chiedono di appoggiarli in uno storico
"rovesciamento": non la scoperta dell'America va celebrata
nel '92, ma la scoperta della cultura india, miracolosamente
sopravvissuta allo sterminio colonialista, ma sempre più in
pericolo. Cominciato praticamente nel momento
stesso in cui Cristoforo Colombo mise piede a terra nelle Antille, il
genocidio delle etnie amerindie non si è ancora fermato. Quali
sono le minacce che ora gravano su questi popoli già decimati?
È un lungo elenco:
deforestazione, desertificazione, urbanizzazione forzata,
sfruttamento intensivo del sottosuolo, macroprogetti industriali... Insomma, il modello produttivo
occidentale, totalmente estraneo allo spirito amerindio, È
questo il nuovo tipo di sterminio: non sempre uccide fisicamente come
facevano i conquistadores, però riesce ad annientare anche più
nel profondo. Se in passato l'incontro con i bianchi
scatenò negli organismi degli indios l'esplosione di malattie
mortali a cui erano impreparati, ora il confronto con quello che
definiscono il nostro "individualismo egoista" sta
sgretolando alla radice il tessuto base della loro convivenza, sta
cancellando la loro diversità, la loro unità di gente,
il loro senso collettivo. Cos'è un popolo, difatti, quando è
privato delle tradizioni, della lingua, della cultura? Perdere
l'identità, per un popolo, è come per un individuo
perdere la vita: questo ci sono venuti a dire gli indios con il loro
stupendo linguaggio ricco di immagini e di sentimenti, a volte
purtroppo banalizzato dalle non sempre felici traduzioni. Anche se il
convegno ha dato troppo spazio ai soliti interventi degli esperti -
in questo caso antropologi e responsabili di varie associazioni "di
appoggio" da Mani Tese a Survival International - mancando
quindi in parte l'occasione preziosa di far parlare il più
possibile gli amerindi, un rapporto diretto con gli indios si è
tuttavia creato, per la prima volta in Europa. I rappresentanti dei più
antichi popoli della terra ci hanno chiamato in causa: tu, uomo
bianco, hanno detto, puoi e devi fermare il nuovo genocidio. Puoi
boicottare le multinazionali che progettano strade e dighe; puoi far
pressione sul tuo governo affinché controlli in ogni sede
l'applicazione dei trattati e la destinazione degli aiuti economici;
puoi organizzare comitati di solidarietà e commissioni
permanenti di indagine "sul campo". Ma, soprattutto, puoi
creare una rete di informazioni non filtrata dalle grandi agenzie
affinché in tutto il mondo si dica finalmente la verità
sulla situazione degli indios. E su questa richiesta si sono
mobilitate le associazioni aderenti al convegno per dar
immediatamente vita a un gruppo di lavoro, con molto entusiasmo e una
gran voglia di "fare". Insomma, un incontro straordinario,
un evento probabilmente storico. Purtroppo, però, forse per
problemi di tempo, sono rimasti in ombra nodi centrali come la scelta
del modello di sviluppo su cui probabilmente i capi indios non sono
ancora d'accordo (tecnologia "occidentale" gestita dagli
indios o valorizzazione della loro economia tradizionale?), il ruolo
della cooperazione internazionale (quale tipo di aiuto, quale
solidarietà?), l'ambigua presenza dei religiosi (tramite non
di rado degli interessi di governi e multinazionali), e molti altri
che lo spazio non consente ora di citare. Che dire poi della totale
assenza di riflessioni sul nostro personale "diverso"? Il
genocidio delle culture "altre" è cominciato proprio
qui, in Europa, da Roma caput mundi. Una quantità di etnie
cancellate, una moltitudine di lingue tagliate in Italia, in Francia,
in Spagna, in Inghilterra.. Perché allora non imparare a
conoscere e amare anche le nostre minoranze? È
così che comincia il vero rispetto dell'altro, al di là
dell'emozione e della partecipazione che innegabilmente il grande
fascino della cultura amerindia suscita in noi europei, ormai tanto
lontani dalle radici.
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