Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 140
ottobre 1986


Rivista Anarchica Online

Tra guerra e rivoluzione
di Umberto Marzocchi

19 luglio 1936: insurrezione popolare antifascista. 5 maggio 1937: assassinio di Berneri e Barbieri. Tra queste due date si situa l'eccezionale vicenda umana e sociale dei volontari anarchici italiani in Spagna. Il documento che pubblichiamo in queste pagine è un po' un diario, mese per mese, di quegli eventi. Ne è autore (con uno stile che a tratti suona datato) Umberto Marzocchi, che di quegli avvenimenti fu tra i protagonisti.

luglio 1936

Già la sera del 19 luglio i comunicati radio annunziavano che era scoppiato un pronunciamento militare in tutta la Spagna e che Barcellona era insorta per contrattaccarlo e schiacciarlo.
I giornali del 20 luglio contenevano lunghe ma ancora confuse cronache dalle quali appariva che in varie parti della Spagna il popolo resisteva ai generali faziosi, ribelli alla repubblica. In ognuna di queste cronache, la partecipazione degli anarchici della FAI e dei sindacati della CNT veniva messa in tal rilievo da far pensare, a noi specialmente che vivevamo in ansiosa aspettativa, ch'essi fossero i soli ad animare ed incitare il popolo a tener testa ai rivoltosi.
Nei giorni 21 e 22, le cronache annunziavano la conquista della caserma Atarazanas da parte del popolo, la capitolazione del colonnello Godded e degli ufficiali del comando della piazza di Barcellona, la morte eroica di Francisco Ascaso - conosciuto in Francia per avere organizzato a Parigi, nel 1927, un attentato al re Alfonso XIII, sventato dalla polizia con l'arresto dello stesso e di Durruti - la presa della caserma della Montagna a Madrid, l'occupazione di fabbriche, l'incendio di chiese, l'organizzazione spontanea, diretta da parte del popolo, dei servizi vitali della città. Al pronunciamento rispondeva l'insurrezione popolare: è la rivoluzione!
Fra gli anarchici, a Parigi e altrove in Francia, vi è febbre, andirivieni, entusiasmo. Anche qualche individualità battagliera dell'antifascismo italiano, come Angeloni, Rosselli ed altri si agita e interroga.
Abbiamo le prime notizie dirette dai compagni francesi di Tolosa e dal compagno Pasotti di Perpignano, che doveva essere per tutta la durata della guerra un magnifico intermediario tra noi e la Spagna. Apprendiamo che i compagni spagnoli si battono con armi di fortuna e che la morte fa solchi profondi nelle file popolane e fra gli anarchici che sono i più ardimentosi.
Ai generali faziosi, che utilizzano le guarnigioni sotto il loro comando, si uniscono la borghesia e il clero: sin dall'inizio il pronunciamento aveva assunto un carattere antirepubblicano e fascista. Ogni casa borghese, ogni sede di associazione o di ente notoriamente capitaliste, ogni chiesa - e ve ne sono molte a Barcellona e in Spagna - venivano trasformate in fortilizi fascisti, da dove la mitraglia e la fucileria falciavano a centinaia i popolani.
Eppure la risposta del popolo e degli anarchici fu così improvvisa, spontanea e potente da liquidare in pochi giorni quelle forze coalizzate entro la città e respingerle, inseguite dagli anarchici, già formatisi in centurie del corpo libero delle "Milicias Catalanas", fino a Lerida, a Setamo, dove vi furono combattimenti cruenti, alle porte di Huesca e di Saragozza. Dentro queste due città la codardia dei governatori della repubblica, che patteggiarono con i faziosi anziché incitare il popolo contro di essi come era avvenuto a Barcellona, provocò un massacro di anarchici e di rivoluzionari e permise che i franchisti vi si insediassero e fortificassero.
A Parigi passammo in rassegna tutte queste notizie. Decidemmo che Berneri sarebbe partito con qualche altro compagno, mentre noi restavamo per i primi urgenti bisogni, soccorsi in armi, medicinali ed altro materiale indispensabile ai combattenti spagnoli.
Berneri scrisse. A Perpignano si era trovato attorniato da molti altri compagni affluiti da ogni parte della Francia. Erano stati spinti verso la Spagna da una molla irresistibile. La presenza dell'anarchismo, artefice e propulsore d'impeti rivoluzionari, il sentimento della solidarietà, la consapevolezza che l'intervento di tutto un popolo nel conflitto sociale poteva far scaturire il fatto decisivo e rivoluzionario, da tempo agognato, contro il fascismo internazionale - allora espressione massima di potere tirannico e minaccia permanente di guerra mondiale - scosse tutti gli anarchici senza distinzioni. Michele Centrone, Girotti, Bifolchi, Perrone, Bonomini, Fantozzi, Berneri erano alla frontiera con molti altri. Organizzatori ed antiorganizzatori, anarchici puri senza aggettivi ed anarchici che avevano sempre lottato nei sindacati si erano ritrovati, accomunati da un proposito serio che bandiva tendenze ed appianava dissensi, trepidanti , impazienti, solidali fra loro e con i compagni spagnoli, cercando ciascuno di mettere a profitto le proprie capacità, le doti dello spirito e dell'intelligenza, senza capi, senza guide, senza ordinamenti né piani, ricchi di un solo patrimonio: una dose di magnifico buon senso, di coraggio, di decisa volontà, pronti ad offrire, se occorreva, anche la vita, per dare all'anarchismo, che faceva le sue prove generali in Spagna, la possibilità di concrete esperienze in un mondo che guardava attonito, da una parte maledicendo e dall'altra ammirando.
Durante quegli ultimi quindici giorni di luglio, l'attività nostra fu intensa. Avevamo stabilito un collegamento tra Rivoluzio Gilioli, io che mi trovavo clandestino, perché espulso, a Lilla, vicino alla frontiera belga, e Mantovani a Bruxelles, in Belgio. Il compagno francese Trucheux di Tolosa ci serviva da intermediario con i compagni spagnoli. Riuscimmo, mediante l'aiuto di Hoche Meurant, anarchico francese che abitava a Wattrelos, alla frontiera franco-belga, a realizzare qualche acquisto di fucili in varie fabbriche d'armi del Belgio ed il loro passaggio ai compagni spagnoli.
A Barcellona, intanto, Berneri assieme a Bifolchi, Rosselli, Angeloni, Calosso e qualche altro concludevano con i compagni della FAI e della CNT, tramite Diego de Santillan, un accordo per la costituzione di una colonna italiana composta da antifascisti combattenti volontari che si sarebbe inserita nella formazione Francisco Ascaso delle "Milicias Antifascistas Catalanas" in operazione sul fronte di Aragona.
Camillo Berneri aveva parlato alla grandiosa e solenne manifestazione anarchica a più di centomila persone nell'arena di Plaza de los Toros, portandovi il saluto e la solidarietà dell'anarchismo italiano alla lotta rivoluzionaria che l'anarchismo spagnolo stava sostenendo. I compagni che già risiedevano in Spagna: Fosco Fallaschi, Virgilio Gozzoli, Nicolò Turchinovich ed altri, si unirono al gruppo dei nuovi arrivati, che di giorno in giorno ingrossava.

agosto 1936

Si costituisce la Colonna. Infaticabile nel cercare, nel chiedere e nell'organizzare, il gruppo formatosi attorno a Berneri riesce ad ottenere armi, munizioni, abiti, muli e alla caserma Predalbes (ribattezzata Michele Bakunin), nel ridotto che poi dovevano occupare Pio Turroni e Giusti di Bologna e dal quale passammo tutti noi per essere equipaggiati prima di salire al fronte, si apprestarono i preparativi della prima Colonna internazionale, composta di anarchici e di antifascisti rivoluzionari, accorsi volontariamente a combattere il fascismo in terra iberica.
La sera del 19 agosto la colonna parte per il fronte. Nel tratto dalla caserma alla stazione sfila per le strade di Barcellona fra due ali di popolo plaudente coi suoi fucilieri, le sue mitragliatrici, i muli, la cucina da campo, gli uomini di sanità con il medico Ricciuli, l'automobile guidata da Umberto Calosso.
Alla stazione, uomini e materiale si stivano nella tradotta. Durante tutta la notte la folla si assieperà festosa attorno a quegli uomini offrendo loro vino, sigarette e cibarie, ed ogni stazione del percorso, a Manresa, a Terrasa, a lgualada, a Terragona, a Lerida dove arriveranno l'indomani, a giorno fatto.
Il comandante della Colonna è Angeloni, considerato il più esperto e tecnicamente capace, perché rivela qualità organizzative eccezionali ed un po' perché con quel suo modo di fare gioviale è il meno comandante di tutti. In ognuno è entrato un po' d'anarchismo e tutti cercano di sottrarsi al comando rimanendo nei ranghi, invisibili, recalcitranti.
Il 21 agosto la Colonna arriva a Vicien, piccolo villaggio rurale, che doveva divenire il nostro quartier generale, dove fu a visitarla Domingo Ascaso, fratello di Francisco, ucciso durante le giornate di maggio a Barcellona e allora commissario di guerra. Fu lui che diede alla Colonna l'idea di occupare l'altipiano della Galocha, a quota 521 - immensa protuberanza emergente dalla piana, bagnata dall'Isuela, che si stende piatta e uniforme entro il triangolo Huesca-Sariffena-Tardienta, di grande importanza strategica perché domina di fronte e di fianco la camionabile Saragozza-Huesca-Jaca - al quale Angeloni ebbe l'allegra idea di affibbiare il nome di "Monte Pelato".
Il 25 agosto la parte combattente della Colonna: i fucilieri con Bifolchi e i mitraglieri con Angeloni (il resto degli uomini che componevano la fureria, la sussistenza, la sanità, era rimasto a Castillo S. Juan, ribattezzato Castillo Michele Angiolillo) si accamparono a Monte Pelato e si dettero alacremente a trasformarlo in trincea, da dove si potesse uccidere senza essere uccisi e contrattaccare uscendovi non appena il nemico avesse dato segni di confusione.
Alle 4 del mattino del 28 agosto i fascisti attaccarono frontalmente e con intensità crescente Monte Pelato. Il primo combattente della libertà che cadde con la fronte spaccata da un colpo di fucile fu il vecchio e noto militante anarchico Michele Centrone. Più che sessantenne, meridionale, piccolo e magro, Michele era stato tra i primi a lasciare Parigi, dove da anni era esiliato, a correre dove si combatteva per l'esistenza di un popolo e la libertà di un mondo. Intransigente ma non settario, accompagnava con l'esempio l'ammirevole coerenza di una vita impiegata a servire l'ideale che divampava in ogni suo atto, in ogni sua espressione qualunque fossero la circostanza e il luogo. Era di quei militanti modesti e oscuri che fanno la forza delle idee. Per la tenacia, la rettitudine, la robustezza del pensiero, l'immutevole manifestazione dei sentimenti, la costante presenza in ogni azione dove si mette a repentaglio la vita e si disprezza la morte.
Respinto l'attacco frontale, ne seguirono altri, furiosi, ai lati. Sul fianco destro una pallottola ferì mortalmente Fosco Fallaschi che moriva qualche ora dopo. Era un'altra vita, dedita sin dalla fanciullezza all'ideale anarchico, che si spegneva per sempre. Fosco Fallaschi era un nome noto all'anarchismo internazionale. Operaio, autodidatta, si era fatto, a forza di sacrifici e di tenace applicazione allo studio, una vasta cultura che lo annoverava tra i migliori articolisti della "Protesta Umana" dove scriveva assiduamente. Poco conosciuto in Italia di questo scrittore la cui collaborazione andava piuttosto ai giornali di lingua spagnola. Spesso articoli suoi apparivano su "L'Adunata dei Refrattari" dividendo con gli anarchici italiani emigrati in America la laboriosa giornata delle attività e delle proteste anarchiche. Con la morte di Michele Centrone e di Fosco Fallaschi l'anarchismo riceveva il primo rude colpo e pagava il primo tributo di sangue alla solidarietà internazionale.
Sul fianco sinistro vennero colpiti a morte Giuseppe Zuddas, piccolo sardo, appartenente al movimento di Giustizia e Libertà, Mario Angeloni, mentre impavido attraversava un tratto di terreno scoperto per andare a lanciare qualche bomba sull'autoblinda fascista che si affannava a resistere e a sparare. Fu nell'inseguire i fascisti messi in fuga che Attilio Papperotto e Andrea Colliva, essendo usciti anzitempo dal parapetto, incontrarono una morte ardimentosa. Fra i feriti ci sono Mario Girotti, il nostro caro compagno di Bologna, Cavani di Modena, Matteuzzi ed altri che raggiungono gli ospedali delle retrovie.
Michele Centrone, Fosco Fallaschi, Giuseppe Zuddas, Attilio Papperotto e Andrea Colliva, vennero sepolti nel piccolo cimitero di Vicien ed a quelle tombe vennero in seguito allineate quelle di Vincenzo Perrone e di Bruno Gualandi, che morirono durante i combattimenti di settembre e di ottobre. Mario Angeloni moriva in un ospedale lontano dal fronte, credo a Barbastro, ed il suo cadavere veniva trasportato a Barcellona che gli tributava una commovente manifestazione di cordoglio, alla quale i compagni spagnoli associarono gli altri che in quel combattimento - che doveva passare alla storia come il più importante del fronte aragonese - avevano trovato egualmente una morte eroica.

settembre 1936

L'attività degli anarchici italiani sul fronte di Huesca ed il suo collegamento con la Francia, rimase intensa per tutto il mese di settembre.
La posizione sicura di Monte Pelato permetteva tutta una serie di operazioni verso Huerrio, la Casa Bianca, il cimitero di Huesca. Nei combattimenti che illustrano queste operazioni - consistenti nel mettere una cintura attorno a Huesca ed alla rotabile Saragozza-Huesca-Jaca caddero due giovani promesse dell'anarchismo italiano: Vincenzo Perrone, credo fosse nativo di Salerno, e Bruno Gualandi, di Bologna. In una ardimentosa impresa dell'autoblinda trovò tragicamente la morte Giuseppe Barberis, piemontese, mentre nella più scoperta delle posizioni di tutto il fronte, fra il settembre e l'ottobre muoiono Amedeo Giannotti, Romeo Pontoni, e Cosmo Pirozzo: fra i feriti i compagni Raffaelli di Montignoso e Giovannardi di Parma, ed altri i cui nomi non ricordo.
Fu grazie al sacrificio di questi compagni che le posizioni vennero mantenute e rafforzate. Il trincerone che dal cimitero di Huesca raggiungeva la linea di fuoco a destra della città fino alle trincee difese dai mitraglieri svizzeri e, più lontano, dalle formazioni del POUM, era saldo; quella di sinistra, più scoperta, che racchiudeva nel suo raggio l'osservatorio di Castillo Malatesta - dove i compagni Dino Paini e Attilio Scarsi faranno per mesi paziente e deprimente vigilanza - e si prolungava fino alla Casa Bianca, per imboccare la linea di resistenza fino a Cimilla, Huerrio e molto indietro, Castillo Figuieras fino a Tardienta, sede del comando comunista, richiedeva una costante sorveglianza che, data la mancanza di armi automatiche, solo la volontà di lotta dei militanti anarchici poteva rendere efficiente.
Intanto a Parigi gli anarchici, Cieri, Gilioli e qualche altro, erano alle prese con i comunisti che tentavano di svalorizzare l'azione degli anarchici in Spagna e di ridurre la portata dell'azione di Monte Pelato - che occupava di cronache elogiative la stampa internazionale e invogliava gli antifascisti a partire per la Spagna (ne vennero molti dall'America, fra i quali Libero Battistelli e numerosi anarchici) - ad un semplice fatto d'armi senza importanza, mentre Jesus Hernandez, ministro comunista dell'Educazione nazionale nel governo del 4 settembre, pronunciava un discorso ostile agli anarchici ed all'anarchismo, largamente riprodotto dalla stampa comunista internazionale.
La corda era dunque tesa quando socialisti e comunisti italiani convocarono a Parigi i rappresentanti di tutti i settori dell'antifascismo, anarchici compresi, ad una riunione per esaminare e decidere su di un possibile intervento collettivo in Spagna di formazioni armate sotto il controllo dei partiti e con la formula del Fronte Popolare. I comunisti intendevano costituire una brigata internazionale che agisse nell'orbita del governo repubblicano di Madrid e nel suo particolare interesse, inquadrata gerarchicamente e già assoggettata alla politica estera, ancora imprecisa ma in seno al partito comunista già delineata, ispirata da Mosca.
L'intesa non fu possibile. Cianca e Venturi, per Giustizia e Libertà, non aderirono alla proposta; Antonio Cieri e Rivoluzio Gilioli, per gli anarchici, protestarono veementemente affermando che in quella riunione s'insultavano la rivoluzione catalana e i suoi morti e si volevano umiliare gli anarchici. Sbatterono le porte e se ne andarono.

ottobre 1936

Randolfo Pacciardi non aveva aderito alla spedizione di Spagna come aveva fatto Carlo Rosselli e Mario Angeloni. Si trovava a Metz, forse in attesa che qualcuno andasse a sollecitare il suo intervento nell'avventura. Questo qualcuno si presentò nella persona di Romano Cocchi, allora maggiore esponente dei comunisti italiani all'estero, che seppe deciderlo a prendere il comando della progettata formazione che doveva, poi, essere denominata battaglione Garibaldi.
Per Pacciardi non era imbarazzante il seguire la politica di un governo repubblicano, mentre per i comunisti l'avere un repubblicano al comando di una formazione combattente composta in prevalenza da comunisti significava adesione assoluta alla linea tracciata dal Comintern, che aveva mutato atteggiamento, e da una politica di attesa nei riguardi della Spagna era passato ad una politica d'intervento indiretto, camuffato dalla formula del fronte popolare costituitosi per la difesa della repubblica spagnola e del suo governo.
I nuclei comunisti e socialisti vennero così convogliati sul centro di Albacete dove si organizzavano i primi battaglioni delle Brigate Internazionali, ma fu solo verso il 28 ottobre che il battaglione Garibaldi fu costituito, quando cioè gli anarchici italiani ed i loro amici avevano già al loro attivo decine di morti e di feriti, e l'anarchismo spagnolo era stato orribilmente decimato nella lotta per essersi generosamente gettato per primo nella mischia.
Le Brigate Internazionali vennero utilizzate per la prima volta sul fronte di Madrid verso la fine del mese di novembre, a tre mesi dalla battaglia di Monte Pelato, e questo particolare è bene sottolinearlo perché i compagni possano istruire gli ignari e rispondere per le rime a coloro i quali, calunniando gli anarchici, vorrebbero vantare un diritto di priorità nell'intervento in difesa del popolo spagnolo.
Ma gli anarchici italiani non parteciparono solamente alla vita attiva del fronte. Essi vennero utilizzati in delicati servizi e venivano loro affidati speciali incarichi dove erano richieste particolari attitudini, capacità, coraggio e senso di responsabilità. Gli anarchici italiani si distinsero in ognuna di queste importanti e delicate missioni dalle quali talvolta dipendeva il successo di una operazione di guerra, di una trattazione di armi, della organizzazione di un ramo della produzione ecc... L'anima di tutte queste attività concertate con i compagni spagnoli era Camillo Berneri, onnipresente, instancabile, coraggioso, ponderato, che viveva nella rivoluzione e per la rivoluzione. Egli si rivelava a noi, che ben lo conoscevamo, come un essere nuovo, trasfigurato, moventesi con disinvoltura in quell'ambiente instabile, intrigato, dinamico, ascoltando, interpellando e rispondendo a tutti con la parola precisa, chiara di chi sa, per avere lungamente meditato ogni problema come se per lui fosse una vecchia conoscenza quando si presentava agli altri per la prima volta.
Camillo Berneri era un rivoluzionario nato, che sapeva unire ad un pratico senso di massima utilizzazione delle forze e delle intelligenze del movimento il carattere paziente del maestro che persuade e desta attorno a sé simpatie e consensi, la raffinata sensibilità dell'anarchico profondamente convinto, coerente, giusto; roccia di granito sulla quale le acque limacciose passano senza lasciare impronta.
Berneri fu per noi l'anarchismo fatto persona. Ritrovavamo in lui la poesia di Pietro Gori, l'intelligenza di Luigi Galleani, l'acume e l'azione di Errico Malatesta. Questo filosofo compendiava in sé cinquant'anni di anarchismo militante e lo offriva alla rivoluzione spagnola con tale semplicità e chiaroveggenza che tutti, anarchici e non anarchici, ne rimanevano come abbagliati. Egli ci fu guida sicura e fiaccola sempre viva nel nostro operare sia al fronte che nelle retrovie. Oggi ci sarebbe di prezioso consiglio. Noi non ci consoleremo mai della sua perdita prematura.

novembre 1936

Dalla Francia, dall'America e da altrove erano venuti nuovi contingenti. Rivoluzio Gilioli e Antonio Cieri erano con noi.
Gilioli, preciso, colto, abituato alla pratica dei cantieri edili, non rimase con noi, nella Colonna, ma messosi in diretto contatto con il comando spagnolo era riuscito a formare una compagnia di genieri, indispensabile in quelle terre accidentate, composta nella totalità di spagnoli. Non appena li ebbe istruiti ai lavori di fortificazione, Gilioli con i suoi magnifici uomini seguiva ogni combattimento e non appena i combattenti avevano conquistato una posizione, in breve tempo riusciva a renderla quasi inespugnabile.
Cieri venne alla Colonna. Ardimentoso, intrepido, esuberante, prese subito il comando di una compagnia di "bomberos" la cui funzione era analoga a quella degli "arditi" nelle formazioni militari.
Madrid era minacciata dalla tenaglia fascista. Durruti era partito con qualche migliaio di anarchici e portava un largo contributo alla resistenza dei madrileni. Tutte le volontà erano tese verso questo obiettivo; Madrid doveva essere liberata dalla stretta mortale; i fascisti non dovevano passare. Anche noi volevamo fare qualcosa per la città martire.
Il fronte aragonese si estendeva su circa 140 chilometri. Raccorciare e alleggerire quel fronte con una operazione che permettesse il concentramento di tutte le nostre forze su Saragozza per liberarla, fu il nostro progetto. Una volta raggruppate le forze attorno a Saragozza ed espugnata la città, ci promettevamo di continuare l'offensiva sulla Navarra e congiungerci ai miliziani di Bilbao e di Santander che combattevano sul fronte del Nord. Avendo impegnato le migliori truppe su Madrid, il nemico aveva lasciato in Aragona delle truppe scadenti e ridotte. Quell'offensiva, se fatta con rapidità e sorpresa, avrebbe obbligato i fascisti ad inviare rinforzi in Aragona e togliere truppe da altri fronti o dal grosso dell'armata che cinturava Madrid.
Il 18 novembre catturammo un prigioniero proveniente da Almudevar. Interrogato affermò che la forza concentrata in quella città non era superiore ai 3.000 uomini.
Almudevar, oltre che essere la città nativa degli Ascaso, e quindi un po' simbolica per la nostra Colonna che ne portava il nome, era un importante punto strategico, un nodo di comunicazioni, stradale e ferroviario, di primissimo ordine. La sua conquista ci avrebbe permesso di rompere il collegamento fascista tra Saragozza e Huesca, ambedue assediate dai miliziani. L'offensiva comportava un rapido susseguirsi di battaglie su Huesca, su Saragozza, su Jaca, di cui Almudevar era il cordone ombelicale, che avrebbero eliminato ogni focolaio di resistenza e liberato completamente quel fronte. Ci volle del bello per decidere il comando spagnolo che si arrese solo alle insistenze di Domingo Ascaso coadiuvato da Bifolchi e da Rosselli. Ma volle che l'azione fosse limitata ad Almudevar.
L'attacco ad Almudevar venne così concepito: Bifolchi avrebbe attaccato alla destra della città appoggiato da una batteria, che poi si mosse in ogni senso ed in tal maniera da meritarsi il nome di "batteria fantasma"; Rosselli, a cui era stato affidato il comando generale con Canzi, Cieri e Battistelli, che comandava una seconda batteria, dovevano avanzare al centro; Cristobal Garcia, anarchico spagnolo, doveva avanzare dall'ala sinistra, sulla Granja del Cuervo, verso Tardienta, da dove aspettavamo un rinforzo di mille uomini della divisione "Carlo Marx" promessoci dal comunista Del Barrio.
Gli uomini dell'ala destra sferrarono un'azione travolgente e raggiunsero subito le prime case di Almudevar, mentre le forze di centro, che seguivano con mosse concentriche le evoluzioni dei lati, occupavano con un salto di sei chilometri in avanti Monte FAI e Monte Capri. Attendevamo il segnale che ci avvertisse della occupazione di Santa Criteria, un forte che sovrastava Tardienta e che era in mano ai fascisti, per far muovere il lato sinistro, ma il segnale non venne e gli uomini di Del Barrio non giunsero.
Sapremo poi che i comunisti ci avevano ingannati promettendoci i mille uomini, che avevano deciso di non inviare mai poiché quel rinforzo avrebbe assicurato il successo ed accresciuto il prestigio degli anarchici sui quali, invece, era opportuno gettare discredito.
La batteria di Battistelli, sparati pochi colpi all'inizio dell'attacco, taceva da un pezzo mancandogli proiettili e cariche. Il combattimento durava da tre ore perdute in inutile attesa di rinforzi che non vennero mai, durante le quali i fascisti ebbero il tempo di concentrare su Almudevar rinforzi venuti da Huesca e da Saragozza in gran numero. La superiorità fascista era dovuta soprattutto alla deficienza del nostro armamento rispetto al loro ed all'obbligo di combattere su due lati soltanto e con il lato sinistro scoperto che ci esponeva a terribili sorprese di aggiramento. Dovemmo ritirarci e quella operazione, che nell'attacco ci era costata due soli feriti, nella ritirata fece una trentina di morti e numerosi feriti.
Vi trovarono la morte i compagni anarchici Natale Cozzucoli, Luigi Crisai, Vittorio Golinelli, Giuseppe Livolsi, Filippo Pagani, Corrado Silvestrini e l'anarchico francese André Couderuy. Fra i molti feriti il compagno Vincenzo Mazzone di Messina. Giuseppe Bifolchi aveva dimostrato di possedere capacità tecniche incontestabili, sangue freddo e coraggio magnifici; Antonio Ceri, che si era temerariamente avventurato molto in là con i suoi "bomberos", verso Alcalà de Gubierre, rimasto circondato dai mori, seppe districarsi e raggiungere le nostre linee.
Le posizioni conquistate di Monte FAI e di Monte Capri risultarono ottime, perché mettevano la camionabile a portata di tiro delle nostre mitragliatrici. Ma l'ostilità comunista, spinta fino al tradimento, l'incoscienza del comando militare catalano, la rabbia per il fallimento dell'impresa, dovuto esclusivamente alla insufficienza di armamento, disgustarono tutti.

dicembre 1936

Cominciarono le snervanti giornate della guerra di posizione. Il nostro sembrava un settore del fronte completamente abbandonato.
Se occorre coraggio in battaglia, per noi, che eravamo dei rivoluzionari irrequieti, ne occorreva uno moralmente superiore per continuare senza un lamento e senza una protesta la vita di trincea, nel fango e nel ghiaccio, in pieno inverno, con una temperatura talvolta sui venti gradi sotto zero, con i budelli allagati dalla pioggia. Montavamo di notte la guardia intirizziti dal freddo e riposavamo su un po' di paglia nelle buche di Casa Bianca, dentro le tombe del cimitero di Huesca e sotto le tende bucherellate. Vita da bestie!
La sopportavamo con paziente stoicismo perché, coscienti del nostro compito, sapevamo che per la prima volta l'anarchismo stava dando la misura della sua capacità costruttiva, e noi ci sentivamo in un certo senso le sentinelle avanzate delle conquiste sociali in atto con la rivoluzione spagnola.
Il contraccolpo della mancata presa di Almudevar incise profondamente sul nostro stato d'animo e sulla vita stessa della Colonna. Ci vedevamo condannati all'inoperosità, all'isolamento, al sacrificio.
I compagni che avevano ancora enormi riserve di entusiasmo ed i più giovani sopportavano male la prospettiva di una lunga inattività del fronte. Cieri, i fratelli Perissino, Tomaso Serra, Vindice Rabitti, Gigi Evangelisti e molti altri si sentivano bruciare dal fuoco sacro dell'azione e, più d'ogni altro, imprecavano contro i responsabili.
Ricordo una riunione accaloratissima, tenuta al Castillo Malatesta, presente Berneri, durata circa 24 ore, durante la quale vennero precisate molte cose, chiarificate molte responsabilità, esaminata la situazione in modo spassionato e concreto. Fra i compagni riuniti ve n'erano che dall'agosto si trovavano in linea, in mezzo ai topi, ai disagi e ai pidocchi, incuranti degli acciacchi che indolorivano il corpo, dovuti spesse volte a dissenterie, intossicazioni ed altri mali comuni alla vita di trincea. Essi avevano combattuto tutte le battaglie di quel fronte e non intendevano assolutamente rimanere immobili a marcire in trincea.
Gli uomini di Giustizia e Libertà erano, nella quasi totalità, rientrati chi a Barcellona chi in Francia. La Colonna era diventata una formazione anarchica nella maggioranza dei suoi componenti. Una decisione che definisse la questione del comando della Colonna nei confronti del governo catalano e del comando militare s'imponeva.
Tutti avevamo grande stima per uomini come Rosselli e Battistelli e non risponde al vero l'affermazione di Aldo Garosci, contenuta nel suo libro "La vita di Rosselli", che mi fa ostile a Carlo Rosselli. Io ero amico di Carlo e ci conoscevamo profondamente sino da Parigi. Non avevamo le stesse idee e partivamo da considerazioni diverse per arrivare a conclusioni molte volte opposte, ma le sostanziali realizzazioni degli anarchici spagnoli avvicinandolo vieppiù ai postulati di Proudhon e di Bakunin, rafforzavano i legami della nostra amicizia. Non avevamo motivi di ostilità verso di lui e le ragioni che c'indussero ad invitarlo a lasciare il comando erano di natura ben diversa.
Rosselli era uomo politico e come tale si occupava di troppe cose alla volta: il suo giornale a Parigi, il movimento di G.L., le relazioni con personalità estere per assicurare i traffici di materiali, di tecnici, di armi - era divenuto in alcune circostanze anche il plenipotenziario del governo catalano - ed il... comando militare della Colonna. Al fronte, praticamente le cose andavano così: egli era il comandante simbolico, mentre chi effettivamente comandava la Colonna era Giuseppe Bifolchi, nostro compagno. Il fallito attacco su Almudevar aveva messo in chiara evidenza questa deprecabile deficienza.
In quella riunione convenimmo che la Colonna non poteva continuare a fare la guerra ai fascisti con un comandante accreditato presso il comando ed il governo catalano che era sempre assente dalla zona di operazioni, e un comandante il quale doveva effettivamente provvedere al fabbisogno della colonna e disporre tecnicamente delle cose e degli uomini per regolarne il movimento, ed era in ogni senso ostacolato nella sua opera perché non riconosciuto ufficialmente dal governo e comando militare catalani. Il dilemma era questo: o Rosselli rimaneva con la Colonna e rinunciava quindi al suo lavoro politico, o passava il comando a Bifolchi.
Delegato insieme ad altri compagni dall'assemblea mi recai da Rosselli, che era degente all'ambulanza svizzera sul fronte per una flebite che lo faceva enormemente soffrire e lo immobilizzava, per comunicargli la nostra decisione. Rosselli comprese immediatamente i motivi da noi avanzati e, d'intesa con Battistelli che rimase fino all'ultimo con noi, rassegnò le sue dimissioni e si dichiarò soddisfatto che lo sostituissimo con un uomo del valore e della competenza di Bifolchi del quale si stimava sinceramente amico.
Dovevamo riferire al Comité Regional della CNT-FAI e provvedere all'investitura di Bifolchi a comandante della Colonna in sostituzione di Rosselli. Partimmo senza riposarci alle tre del mattino dal Castillo Angiolillo Berneri, Bifolchi, Russo - che era capitano di una formazione del POUM e ci aveva chiesto la cortesia di condurlo a Barcellona - ed io, con l'automobile di Rosselli guidata da Equo Gilioli, fratello di Rivoluzio, caduto il 20 maggio 1937 al fronte. L'occhio mi dolorava per una accentuata congiuntivite, contratta durante l'operazione di Almudevar, e rimanevo silenzioso mentre, traversata Lerida e terminati gli argomenti di discussione, gli altri si appisolarono. Gilioli conduceva l'automobile ravvolta nel silenzio e, era fatale, anch'egli affranto dalla stanchezza, ebbe un momento di abbandono sul tratto della camionabile che va da Lerida a Tarragona e ci trovammo con l'auto, che era passata tra due alberi della lunga fila costeggiante la strada, adagiata sul fianco destro su di un campo appena seminato. Il colpo fu rude ed il primo ad avere l'esatta percezione della posizione nella quale ci trovavamo fu Berneri, la cui testa aveva sfondato la tela del tetto ed era passata attraverso l'intelaiatura facendosi leggere escoriazioni al capo ed alla faccia. Bifolchi aveva un occhio ammaccato, Russo si lamentava per il suo braccio destro; il ferito era Gilioli che aveva riportato un largo e profondo taglio all'arcata sopraccigliare, io ero incolume. Abbandonammo l'automobile, ricoverammo Gilioli all'ospedale di Terragona e proseguimmo in treno per Barcellona.
Là ricevemmo l'assicurazione che si stava preparando un'offensiva sul fronte aragonese. Rientrammo gonfi di speranze e comunicammo ai compagni che ben presto saremmo entrati anche noi in azione.
La notte del 31 dicembre ci trovò affratellati, uomini di tutte le nazionalità e di tutte le ideologie, ad una cenetta offerta da anarchici e federali spagnoli nel "comidor" di Castillo Angiolillo e vi pronunciammo discorsi inneggianti alla vittoria ed alla solidarietà internazionale.
Intanto la stampa spagnola ci informava che a Valencia erano stati arrestati i nostri compagni Gino Bibbi, Giovanni Fontana e Umberto Tommasini, accusati dai comunisti di aver trafficato armi per il fronte di Aragona.

gennaio/marzo 1937

I tre anarchici italiani non erano stati arrestati a Valencia dalla polizia di Stato su ordine del governo centrale, ma da una speciale polizia di partito che, attraverso complicità ben definite, li consegnò alla "Jefatura de Policia" quali... controrivoluzionari, e come tali andarono a finire per qualche settimana in prigione. La protesta degli anarchici divenne protesta di molta stampa, di sindacati, e di formazioni militari che quell'arresto privava di un prezioso ausilio, senza il quale diverse operazioni militari fu gioco-forza rimandare e nuovamente studiare. Il ministro della Difesa, Prieto, dovette personalmente intervenire per farli rilasciare.
I nostri compagni erano muniti di regolare documentazione e di speciali salvacondotti, rilasciati dal ministero della Difesa e dallo stesso Prieto, per delicati compiti di sabotaggio presso il nemico fascista ed incarichi di grande rilievo che solo un ingegnere e aviatore come Bibbi, tecnici quali Fontana e Tommasini potevano soli portare facilmente in porto. Ma i bolscevichi avevano preso un tale sopravvento ed influenzavano in tal maniera funzionari e istituzioni che governo e ministri ne uscivano esautorati, ed anche i documenti la cui autenticità era insospettabile venivano messi in dubbio o discussi o addirittura invalidati.
Liberati, i nostri compagni dovettero subire una caccia all'uomo spietata, organizzata dai bolscevichi. Questo episodio, unito a molti altri, dà una pallida idea di quanto fossero dispotici certi metodi e quanto le interferenze del partito comunista sugli affari più delicati del governo e della guerra fossero diventate massicce.
Il fronte aragonese continuava "sin novedades". Degni di elogio erano tra di noi un gruppo di combattenti svizzeri, mitraglieri e sanitari.
I sanitari amministravano, con sapienza ed abnegazione, l'ospedaletto da campo, da noi denominato Ambulanza Svizzera, sito tra il Castillo Angiolillo ed il cimitero di Huesca, sulla strada nazionale. Ne era direttore un professore, chirurgo di grande talento, già celebre nel suo paese. Simpaticissimo, modesto, mite, egli considerava la scienza una missione, ed era accorso in Spagna per un dovere verso l'umanità. Era circondato da medici coscienziosi che mal nascondevano le loro simpatie per la Russia ed il partito bolscevico.
Il nostro caro professore aveva per noi anarchici italiani una speciale predilezione e ben presto ci fece conoscere l'evoluzione del suo pensiero con un'appassionata dichiarazione di anarchismo, che non mancammo di festeggiare nella spoglia intimità della sua stanzetta. Fu in quella occasione che ci palesò i suoi timori e ci narrò i piccoli intrighi dei suoi colleghi, i ripetuti tentativi per attirarlo dalla loro parte, le piccole miserie ed i piccoli odii di cui veniva attorniato da quando si erano resi conto ch'era nutrito di ben altri sentimenti.
Lo incontrai dopo i fatti di maggio, vagante per le vie di Barcellona, inutile a sé ed agli altri, in un periodo in cui negli ospedali immenso era il bisogno di medici e di chirurghi. Avrebbe voluto rientrare in Svizzera, ma il tribunale della sua città lo aveva condannato a sei mesi di prigione per essere espatriato clandestinamente in un'epoca in cui la Svizzera non rilasciava passaporti ai medici che dubitava si recassero in Spagna. Il governo Negrin aveva messo l'ostracismo su questo scienziato, che aveva effettuato operazioni ritenute miracolose, perché i suoi colleghi dell'Ambulanza Svizzera lo avevano reso sospetto al partito comunista spagnolo.
La consegna era di attendere e per tre mesi attendemmo sul fronte di Huesca fra disagi inauditi, impazienze e irrequietezza di uomini venuti per combattere, disposti ad accettare anche la morte purché si creasse il fatto che li portasse all'azione. I compagni mal sopportavano quel ripetersi ogni giorno le stesse cose, quel lavoro estenuante del piccone e della pala impiegato ad un continuo fare e disfare, quella presenza del nemico nella città di Huesca assediata che sapevano vulnerabile e a portata di tiro se avessimo avuto il materiale adatto per l'offensiva, quella sensazione di abbandono e d'isolamento che prendeva alla gola, torceva i nervi ed inaspriva gli animi trasformando uomini da ragionevoli in irascibili, esigenti, ingiusti. La sofferenza che provammo durante quei tre mesi su quel pezzo di fronte solo chi la patì può misurarla. Vi furono dei compagni che progettarono azioni equivalenti al suicidio; altri che fecero dei colpi di mano d'una temerarietà insensata, spinti dal bisogno di "sgranchirsi le gambe". Tre mesi di pieno inverno, ai piedi della catena dei monti pre-pirenaici, fra lo scatenio degli elementi; tre mesi senza un'azione di attacco o di difesa, erano veramente insopportabili.
I giovani mordevano il freno. Fra i più decisi a rompere l'attesa erano Cieri, i fratelli Perissino, Gigi Evangelisti, Bernardini ed altri compagni di un'audacia a tutta prova.
A Barcellona moriva il compagno Bolzamini.

aprile 1936

Cadde su questa piena di risentimenti e di sconforto la risposta del comando ai nostri insistenti, ripetuti solleciti di azione. Si permetteva, tuttavia, che un gruppo di volontari della Colonna partecipasse ad una operazione sul versante opposto alle nostre posizioni, preludio ad una offensiva su posizioni nemiche da tempo occupate e solidificate.
L'operazione non presentava sufficienti garanzie di successo e di protezione e lasciava Bifolchi scettico mentre gli ardimentosi pensavano che con audacia e rapidità l'obiettivo sarebbe stato egualmente raggiunto: in fondo avevano ragione l'uno e gli altri.
Dovevo partecipare alla spedizione, ma venni ricoverato all'ospedale di Barbastro per l'improvviso peggioramento dell'occhio destro, una forte congiuntivite da trauma che trascinavo dall'azione su Almudevar, proprio alla vigilia della partenza del gruppo, comandato da Antonio Ceri ed Aldo Perissino, su due camion diretti ad Apies.
Tomaso Serra, un magnifico compagno sardo tutto fede e bontà, che mi venne a trovare all'ospedale di Barbastro qualche giorno dopo l'azione, mi narrò la vicenda di quella spedizione ardimentosa coronata da innumerevoli audacie.
L'azione ebbe inizio nella notte tra il 7 e l'8 aprile. Dopo molte peripezie e contrattempi, all'alba dell'8 i nostri avevano raggiunto il "carrascal" di Apies e si erano nascosti agli occhi del nemico, appollaiato sulle colline antistanti, dietro gli alberi ed i cespugli di quel bosco. La posizione era scomoda e rischiavamo ad ogni momento di essere visti ed accerchiati, di perdere il contatto con le altre formazioni di cui vicinissimo il battaglione P. Kropotkin composto di giovani anarchici, che venne in seguito decimato dall'aviazione fascista.
Intervenne il comando spagnolo. Bernardini, un compagno triestino che parlava lo spagnolo a meraviglia, parlamentò. Bisognava occupare la posizione che stava di fronte, far tacere le mitragliatrici che da una fattoria denominata "Casa Becha", posta sull'erta della collina, sparavano all'impazzata. I nostri insistevano che conveniva attendere la sera, che con il favore dell'oscurità avrebbero potuto prendere la posizione attaccandola ai fianchi, di sorpresa, che attraversare i 500 metri di terreno scoperto che separavano il bosco dalla collina era correre a suicidio certo. Non si ascoltano ragioni: il comando ordina, bisogna avanzare.
Ed i nostri compagni avanzano, con i fucili-mitraglia in testa ed i fucilieri sparsi ai lati. Li accoglie una prima scarica nemica che ferisce per primo Gigi Evangelisti (Gigi il bello, come lo chiamavamo noi) al sortire del bosco. Nell'azione muore un altro giovane e coraggioso compagno: Luigi Trapasso (Orsetto).
Casa Becha viene espugnata, l'azione è riuscita con poche perdite e molto coraggio: un'azione degna di arditi e rivoluzionari.
Dal tetto alcuni compagni si erano lasciati cadere dentro la casa ancora occupata da qualche fascista, e fu in questa operazione che Aldo Perissino venne ferito ad una gamba. Non essendo riusciti ad arrestare l'emorragia, il ferito venne fatto evacuare al posto di soccorso di Apies. Da quel momento non dovevamo più rivederlo. Lo cercammo, il fratello Corrado ed io - alcuni giorni dopo che era ritornata la calma - inutilmente, andando di ospedale in ospedale fino a Barcellona e viceversa. La sola spiegazione plausibile che si possa dare a quella scomparsa è che ferito e portaferiti siano stati sorpresi dall'esplosione di una bomba e uccisi.
Aldo Perissino era il terzo di tre fratelli e una sorella, tutti anarchici. Figli di un pittore di grande talento e di squisita sensibilità, passarono da una vita agiata nella loro indimenticabile Venezia ad una vita di lavoro e di privazioni a Parigi, dove erano stati costretti ad emigrare a causa delle persecuzioni dei fascisti che si accanivano soprattutto su Mario, il secondo e più battagliero dei quattro.
Alto, aitante, intelligentissimo, Aldo aveva una natura ardente e riflessiva. Aveva abbracciato le nostre idee con entusiasmo e convinzione: era una delle migliori speranze per il nostro movimento. In quell'azione ebbe un comportamento eroico, un tatto ed una generosità superiori: seppe incitare, confortare, ragionare, decidere. Era un uomo d'azione, un rivoluzionario nato.
Nella notte, mentre ispezionava la posizione conquistata per rendersi conto che tutto fosse a posto, Antonio Cieri veniva colpito alla tempia da una fucilata, sparata da una collina vicina occupata dal nemico, e cadeva fulminato. Originario di Vasto, Cieri era venuto giovanissimo alle nostre idee. Temperamento vulcanico, audace, deciso, egli aveva partecipato alla difesa di Parma minacciata dai fascisti di Italo Balbo, con gli arditi del popolo, ed assieme a Guido Picelli contribuì efficacemente, dal fortino inespugnabile che era divenuta Parma vecchia di oltre torrente , ad una resistenza che obbligò i fascisti, come a Sarzana nel luglio 1921, a retrocedere. I parmensi si ricordano ancora quel giovane biondo che andava di gruppo in gruppo ad animarli, e gli adulti che ebbi modo d'incontrare a Parma dopo la liberazione ne parlano ancor oggi con commozione ed affetto come di un loro concittadino.
Con Cieri e Perissino perdevamo due elementi preziosissimi, sia per il movimento e l'idea, sia per la lotta rivoluzionaria in Spagna. Erano di quei militanti che avevano tutto affrontato della vita: la lotta, la miseria, la galera, l'esilio e pur rimanevano radicati all'anarchismo più tenacemente che mai, portando il loro contributo alla causa che rendeva vieppiù incerta l'esistenza, irta di pericoli e d'insidie, militanti dei quali sentivamo accrescere prepotente il bisogno ogni qualvolta uno di essi ci veniva a mancare per restituire il suo corpo alla madre terra.
Non fu possibile mantenere le posizioni occupate con quell'azione. La controffensiva fascista fu terribilmente micidiale. Carri armati e aeroplani in numero spettacolare si gettarono su quegli uomini sprovvisti di mezzi motorizzati, che opponevano una eroica ma atrocemente impari resistenza. Le forze leali dovettero cedere ed anche "Casa Becha" venne evacuata.
I nostri compagni italiani e spagnoli si batterono come forsennati, utilizzando con astuzia i più piccoli anfratti del terreno, sparpagliandosi in ordine di guerriglia per non offrire un troppo visibile bersaglio al nemico, con disperazione ma con magnifico spirito di solidarietà ingigantita dal pericolo e dalla morte. In quella tremenda battaglia caddero altri anarchici italiani: Angiolino Brignani, Vittorio Ortore, Raffaele Morote, Giuseppe Pesel, Carlo Poli, Raffaele Serra; fra i feriti Bernardini di Trento ed altri i cui nomi non ricordo. I superstiti, affranti, laceri, doloranti, tristi per la perdita di tanti compagni, dopo una breve sosta all'ospedale di Barbastro, partirono alla volta di Barcellona dove, il 25 aprile, a seguito di accordi presi con il comando spagnolo, anche il resto della Colonna, che era rimasto sul fronte di Vicien, con Bifolchi, Canzi e Battistelli, li raggiunse.
I nostri compagni avevano al loro attivo sette mesi consecutivi di fronte: una estate ed un inverno pieni. Non si poteva pretendere di più dalla resistenza fisica di un uomo; molti di noi avevano perduto parecchi chili, con grande rammarico del nostro furiere di Castillo Malatesta, Marcello Bianconi, esile natura di oltre cento chilogrammi.
Ma bisogna insistere, perché è il lato vero della questione, che non furono tanto gli insuccessi di Almudevar e di Apies a decidere il ritorno della Colonna a Barcellona, quanto la condannata inoperosità del fronte di Huesca, voluta dal governo centrale e dai bolscevichi, preoccupati soltanto del tentativo di diminuire il prestigio degli anarchici ostacolando in ogni modo e con ogni mezzo, anche il più infame, ogni loro azione, e la campagna in favore della militarizzazione delle Milizie ed il loro inserimento nell'esercito popolare, che andava assumendo un tono ed una piega minacciosi per i recalcitranti.
Noi ci eravamo recati in Spagna con dei propositi ben chiari, ed anche se antifascisti intendevamo rimanere quali rivoluzionari e anarchici. Nessun raggiro e nessuna prepotenza ci avrebbe obbligati ad essere i soldati di un governo, e tanto meno di quel governo che si era lasciato prendere la mano per un lato dai borghesi dei ceti medi: funzionari, professionisti, commercianti, piccoli proprietari, attirati dal Partito Comunista con la formula del Fronte Popolare allargato, e per l'altro lato dai bolscevichi che esercitavano sul governo una pressione indecente con il ricatto delle armi russe.
A Barcellona, i compagni si erano tutti sistemati alla meglio: chi nella caserma Spartacus, chi al gruppo Malatesta, chi presso i compagni i quali, come Gialluca e la buona Maria, davano il meglio di sé nelle industrie collettivizzate di Barcellona, dai primi giorni della lotta fino all'esodo finale. Berneri e Barbieri, Mastrodicasa e Fantozzi, Fosca Corsinovi e Tosca Tantini, occupavano un appartamento del primo piano al n .2 di piazza del Angel all'angolo di via Layetana.
Come si vede, i compagni erano sparsi e solo punto di collegamento era la sezione dell'USI che occupava due stanzette del palazzo della CNT ben custodite da Celso Persici, Domenico Ludovici del "Risveglio" di Ginevra, Virgilio Gozzoli che redigeva con Berneri "Guerra di Classe", e tutti curavano la propaganda e le relazioni con il movimento anarchico internazionale.
Avevamo tenuto una lunga e burrascosa riunione al gruppo Malatesta ed erano affiorati fra i compagni intenzioni e propositi diversi. Alcuni avrebbero visto di buon occhio gli anarchici inseriti nel battaglione Garibaldi, comandato da Pacciardi, che stava preparando un'azione sul fronte di Huesca (risultato poi essere la battaglia di Cimilla, di cui parla Fausto Nitti in "Il Maggiore è un Rosso", che fece vuoti profondi nel battaglione), magari per quell'azione soltanto, dove già erano andati Battistelli (che vi trovò la morte), Canzi, Mariotti e qualche altro; altri sostenevano, in primo luogo, che si volevano umiliare gli anarchici col decidere un'azione su quel fronte proprio nel momento in cui la Colonna era stata messa nell'obbligo di rientrare a Barcellona per la caparbietà del comando spagnolo nel rifiutare credito alle nostre insistenze di rendere operativo quel fronte, ed in secondo luogo, che se non si otteneva dal comando l'autorizzazione di riorganizzare la Colonna in corpo franco, indipendente politicamente ed in condizione di agire con ampia libertà di movimento, da utilizzarsi in colpi di mano e in operazioni marginali che avrebbero permesso di mantenere il carattere combattente e rivoluzionario allo stesso tempo, meglio valeva che ognuno di noi riprendesse la sua personale libertà, rendendosi utile in qualche collettività anarchica o dove meglio credesse.
Il 27 aprile Camillo Berneri commemorava alla radio Antonio Gramsci, onorandone l'antifascista, l'uomo di cultura, l'avversario politico con parole di commovente fraternità.
Questa era la situazione e l'atmosfera che respiravamo a Barcellona quando fummo di sorpresa investiti dai fatti di maggio.

maggio 1937

L'atteggiamento dei comunisti era stato discusso alla riunione degli anarchici italiani nel salone del gruppo Malatesta. Si era venuti alla determinazione di mantenere fra noi il più stretto contatto possibile e di concentrarsi, nel caso di diretta minaccia alle nostre persone, alla Sezione italiana del Comité de Defensa della CNT e alla caserma Spartacus. Purtroppo questa decisione fu di difficile attuazione data la rapidità degli avvenimenti, che sorpresero tutti gli anarchici di Barcellona, compreso Domingo Ascaso, sempre bene informato, che venne proditoriamente assassinato in Gracias, in pieno centro di Barcellona, mentre scendeva dall'automobile.
Nelle prime ore del pomeriggio del 3 maggio due camion carichi di guardie civiche sostavano davanti all'immobile della Centrale Telefonica in piazza di Catalogna. Contemporaneamente forti nuclei di guardie appiedate e gruppi armati del PSUC (Partito Socialista Unificato Catalano - Comunisti) occupavano gli edifici situati attorno alla Centrale e i punti strategici della città.
La Centrale Telefonica sino dal 19 luglio 1936 da ente privato era divenuta industria collettivizzata, controllata dalla CNT con l'adesione degli operai della base iscritti alla UGT. Il governo aveva decretato di statalizzare l'economia, su proposta dei comunisti i quali speravano di conquistare politicamente il governo una volta fossero riusciti a togliere dal controllo dei sindacati tutta l'economia catalana. Governo e comunisti perseguivano da tempo l'obiettivo di instaurare un capitalismo di Stato o, magari, di una restaurazione del capitalismo privato, il che, secondo i loro calcoli, avrebbe attirato le simpatie, e forse il sostegno, dei governi capitalisti d'Inghilterra e di Francia, facendoli andare oltre il "non intervento", ed avevano votato una feroce ostilità alle collettività libertarie, odio fisico agli anarchici e guerra spietata alla FAI ed alla CNT.
L'assalto alla Centrale Telefonica fu il primo tentativo di colpo di Stato comunista, al quale dovevano seguire sviluppi di conquista politica e tattica che avrebbero fatto del Partito Comunista Spagnolo il padrone della situazione e degli agenti bolscevichi russi gli arbitri della politica estera spagnola. Questo pensavamo fosse il piano dettato da Stalin, poi confermato dai fatti, al momento in cui ci disponevamo a contrastarlo.
Il tentativo di occupazione dei locali della Centrale Telefonica venne respinto dagli stessi lavoratori dell'ente. Il popolo reagì con la straordinaria rapidità dei popoli emancipati e naturalmente rivoluzionari. Seppe immediatamente individuare i responsabili e chiese la destituzione ed il deferimento ad un tribunale popolare di Rodriguez Salas, commissario generale dell'ordine pubblico, di Aiguadè, ministro della salute pubblica, di Juan Comorera, commissario di Abastos (approvvigionamenti), tutti e tre noti comunisti iscritti al PSUC di cui Comorera era segretario.
Ovunque i lavoratori eressero barricate. I compagni nostri rimasero là dove gli avvenimenti li avevano sorpresi senza che fosse stato loro possibile effettuare il benché minimo spostamento. I più si trovavano concentrati in scarso armamento alla caserma Spartacus e al Comité de Defensa, dove era Bifolchi; Zambonini, il coraggioso compagno che venne fucilato in Italia dai tedeschi, era con molti altri al Sindacato dell'alimentazione dove venne gravemente ferito alla faccia; Angelo Bruschi era al Sindacato dei metallurgici, altri al Sindacato dei tessili in piazza Catalogna, ed io con Corrado Perissino, Emanuele Granata e Verde (l'Argentino) al Comité de Defensa di piazza di Spagna.
Il bilancio di quelle terribili giornate, che durarono dal 3 al 7 maggio, fu di 500 morti e più di 1.400 feriti, nella quasi totalità appartenenti al movimento anarchico ed ai sindacati aderenti alla CNT.
Camillo Berneri - ho già narrato in una serie di articoli sul "Libertario" i particolari di questo assassinio e attribuite le responsabilità - fu assassinato nella notte tra il 5 e il 6 maggio e venne raccolto dalla Croce Rossa nel tratto di strada che separa il lato destro della piazza del Angel (dove dimorava) dalla piazza della Generalidad, parallelo alla calle Roland. Francesco Barbieri, arrestato dagli stessi assassini camuffati da poliziotti, venne trovato morto sulla Ramblas de las Flores. Li identificammo il mattino del 6 all'Ospedale Clinico, Canzi, Fosca Corsinovi, Vincenzo Mazzone e io.
L'assassinio dei nostri compagni portava tutte le stigmate dell'assassinio politico e ci fu facile identificarne il movimento politico al quale appartenevano gli autori, che erano poi gli stessi che avevano assassinato Domingo Ascaso, Jean Ferrand, nipote di Franciso Ferrer, Andres Nin, segretario del POUM, Kurt Landau, rivoluzionario austriaco, Marc Rein, figlio di Raffaele Rein Abramovich della Commissione Esecutiva della IIa Internazionale, Hans Beimler, ex deputato comunista tedesco.
Altri italiani erano stati assassinati perché appartenenti alla Colonna Italiana o ad altre formazioni combattentistiche della FAI e della CNT: Adriano Ferrari, Lorenzo Peretti e Pietro Marcon che vennero sepolti nello stesso cimitero accanto a Camillo Berneri e Francesco Barbieri.
Il 20 maggio moriva al carrascal n.2 nella posizione denominata Torraza, Rivoluzio Gilioli. Mentre la sua compagnia del Genio stava fortificando la posizione, venne colpito da un proiettile al basso ventre perforandogli in più parti l'intestino. Trasportato all'ospedale di Barcellona, ci morì tra le braccia sereno, contento di morire per la causa alla quale sin dall'infanzia aveva, dalla sua Modena all'esilio, dato sempre il meglio di sé. Con la morte di Gilioli si chiudeva, nel 1937, la lunga fila degli anarchici italiani morti per un'affermazione ideale di solidarietà internazionale e per la liberazione del popolo spagnolo.
Molti furono gli anarchici che rimasero in Spagna fino alla fine delle ostilità, fino alla disfatta e all'esodo immane. Molti furono anche gli anarchici italiani incarcerati, trattenuti in prigione senza conoscere il motivo della loro detenzione; molti quelli che si incorporarono nelle formazioni anarchiche spagnole e subirono di queste le sorti; molti quelli che rimasero nelle collettività agricole o industriali fino al loro violento scioglimento.
Il contributo dato dagli anarchici italiani a questa parentesi rivoluzionaria spagnola fu completo, disinteressato, sincero; un poema di generosità, di solidarietà fraterna, di audacia, di coerenza ideale, di sublime volontariato, che ha avuto il suo seguito nella lotta di liberazione in Italia.

Questo saggio di Umberto Marzocchi, scritto negli anni '60 e finora inedito, apparirà nel volume - di prossima pubblicazione - che l'Archivio Famiglia Berneri (piazza dello Spirito Santo 2, 51100 Pistoia, tel. 0573/365335) sta preparando per ricordare Camillo Berneri nel 50° anniversario della sua morte.