Rivista Anarchica Online
Tra
guerra e rivoluzione
di Umberto Marzocchi
19
luglio 1936: insurrezione popolare antifascista. 5 maggio 1937:
assassinio di Berneri e Barbieri. Tra queste due date si situa
l'eccezionale vicenda umana e sociale dei volontari anarchici
italiani in Spagna. Il
documento che pubblichiamo in queste pagine è un po' un diario, mese
per mese, di quegli eventi. Ne è autore (con uno stile che a tratti
suona datato) Umberto Marzocchi, che di quegli avvenimenti fu tra i
protagonisti.
luglio
1936
Già
la sera del 19 luglio i comunicati radio annunziavano che era
scoppiato un pronunciamento militare in tutta la Spagna e che
Barcellona era insorta per contrattaccarlo e schiacciarlo. I
giornali del 20 luglio contenevano lunghe ma ancora confuse cronache
dalle quali appariva che in varie parti della Spagna il popolo
resisteva ai generali faziosi, ribelli alla repubblica. In ognuna di
queste cronache, la partecipazione degli anarchici della FAI e dei
sindacati della CNT veniva messa in tal rilievo da far pensare, a noi
specialmente che vivevamo in ansiosa aspettativa, ch'essi fossero i
soli ad animare ed incitare il popolo a tener testa ai rivoltosi. Nei
giorni 21 e 22, le cronache annunziavano la conquista della caserma
Atarazanas da parte del popolo, la capitolazione del colonnello
Godded e degli ufficiali del comando della piazza di Barcellona, la
morte eroica di Francisco Ascaso - conosciuto in Francia per avere
organizzato a Parigi, nel 1927, un attentato al re Alfonso XIII,
sventato dalla polizia con l'arresto dello stesso e di Durruti - la
presa della caserma della Montagna a Madrid, l'occupazione di
fabbriche, l'incendio di chiese, l'organizzazione spontanea, diretta
da parte del popolo, dei servizi vitali della città. Al
pronunciamento rispondeva l'insurrezione popolare: è la rivoluzione! Fra
gli anarchici, a Parigi e altrove in Francia, vi è febbre,
andirivieni, entusiasmo. Anche qualche individualità battagliera
dell'antifascismo italiano, come Angeloni, Rosselli ed altri si agita
e interroga. Abbiamo
le prime notizie dirette dai compagni francesi di Tolosa e dal
compagno Pasotti di Perpignano, che doveva essere per tutta la durata
della guerra un magnifico intermediario tra noi e la Spagna.
Apprendiamo che i compagni spagnoli si battono con armi di fortuna e
che la morte fa solchi profondi nelle file popolane e fra gli
anarchici che sono i più ardimentosi. Ai
generali faziosi, che utilizzano le guarnigioni sotto il loro
comando, si uniscono la borghesia e il clero: sin dall'inizio il
pronunciamento aveva assunto un carattere antirepubblicano e
fascista. Ogni casa borghese, ogni sede di associazione o di ente
notoriamente capitaliste, ogni chiesa - e ve ne sono molte a
Barcellona e in Spagna - venivano trasformate in fortilizi fascisti,
da dove la mitraglia e la fucileria falciavano a centinaia i
popolani. Eppure
la risposta del popolo e degli anarchici fu così improvvisa,
spontanea e potente da liquidare in pochi giorni quelle forze
coalizzate entro la città e respingerle, inseguite dagli anarchici,
già formatisi in centurie del corpo libero delle "Milicias
Catalanas", fino a Lerida, a Setamo, dove vi furono
combattimenti cruenti, alle porte di Huesca e di Saragozza. Dentro
queste due città la codardia dei governatori della repubblica, che
patteggiarono con i faziosi anziché incitare il popolo contro di
essi come era avvenuto a Barcellona, provocò un massacro di
anarchici e di rivoluzionari e permise che i franchisti vi si
insediassero e fortificassero. A
Parigi passammo in rassegna tutte queste notizie. Decidemmo che
Berneri sarebbe partito con qualche altro compagno, mentre noi
restavamo per i primi urgenti bisogni, soccorsi in armi, medicinali
ed altro materiale indispensabile ai combattenti spagnoli. Berneri
scrisse. A Perpignano si era trovato attorniato da molti altri
compagni affluiti da ogni parte della Francia. Erano stati spinti
verso la Spagna da una molla irresistibile. La presenza
dell'anarchismo, artefice e propulsore d'impeti rivoluzionari, il
sentimento della solidarietà, la consapevolezza che l'intervento di
tutto un popolo nel conflitto sociale poteva far scaturire il fatto
decisivo e rivoluzionario, da tempo agognato, contro il fascismo
internazionale - allora espressione massima di potere tirannico e
minaccia permanente di guerra mondiale - scosse tutti gli anarchici
senza distinzioni. Michele Centrone, Girotti, Bifolchi, Perrone,
Bonomini, Fantozzi, Berneri erano alla frontiera con molti altri.
Organizzatori ed antiorganizzatori, anarchici puri senza aggettivi ed
anarchici che avevano sempre lottato nei sindacati si erano
ritrovati, accomunati da un proposito serio che bandiva tendenze ed
appianava dissensi, trepidanti , impazienti, solidali fra loro e con
i compagni spagnoli, cercando ciascuno di mettere a profitto le
proprie capacità, le doti dello spirito e dell'intelligenza, senza
capi, senza guide, senza ordinamenti né piani, ricchi di un solo
patrimonio: una dose di magnifico buon senso, di coraggio, di decisa
volontà, pronti ad offrire, se occorreva, anche la vita, per dare
all'anarchismo, che faceva le sue prove generali in Spagna, la
possibilità di concrete esperienze in un mondo che guardava
attonito, da una parte maledicendo e dall'altra ammirando. Durante
quegli ultimi quindici giorni di luglio, l'attività nostra fu
intensa. Avevamo stabilito un collegamento tra Rivoluzio Gilioli, io
che mi trovavo clandestino, perché espulso, a Lilla, vicino alla
frontiera belga, e Mantovani a Bruxelles, in Belgio. Il compagno
francese Trucheux di Tolosa ci serviva da intermediario con i
compagni spagnoli. Riuscimmo, mediante l'aiuto di Hoche Meurant,
anarchico francese che abitava a Wattrelos, alla frontiera
franco-belga, a realizzare qualche acquisto di fucili in varie
fabbriche d'armi del Belgio ed il loro passaggio ai compagni
spagnoli. A
Barcellona, intanto, Berneri assieme a Bifolchi, Rosselli, Angeloni,
Calosso e qualche altro concludevano con i compagni della FAI e della
CNT, tramite Diego de Santillan, un accordo per la costituzione di
una colonna italiana composta da antifascisti combattenti volontari
che si sarebbe inserita nella formazione Francisco Ascaso delle
"Milicias Antifascistas Catalanas" in operazione sul fronte
di Aragona. Camillo
Berneri aveva parlato alla grandiosa e solenne manifestazione
anarchica a più di centomila persone nell'arena di Plaza de los
Toros, portandovi il saluto e la solidarietà dell'anarchismo
italiano alla lotta rivoluzionaria che l'anarchismo spagnolo stava
sostenendo. I compagni che già risiedevano in Spagna: Fosco
Fallaschi, Virgilio Gozzoli, Nicolò Turchinovich ed altri, si
unirono al gruppo dei nuovi arrivati, che di giorno in giorno
ingrossava.
agosto
1936
Si
costituisce la Colonna. Infaticabile nel cercare, nel chiedere e
nell'organizzare, il gruppo formatosi attorno a Berneri riesce ad
ottenere armi, munizioni, abiti, muli e alla caserma Predalbes
(ribattezzata Michele Bakunin), nel ridotto che poi dovevano occupare
Pio Turroni e Giusti di Bologna e dal quale passammo tutti noi per
essere equipaggiati prima di salire al fronte, si apprestarono i
preparativi della prima Colonna internazionale, composta di anarchici
e di antifascisti rivoluzionari, accorsi volontariamente a combattere
il fascismo in terra iberica. La
sera del 19 agosto la colonna parte per il fronte. Nel tratto dalla
caserma alla stazione sfila per le strade di Barcellona fra due ali
di popolo plaudente coi suoi fucilieri, le sue mitragliatrici, i
muli, la cucina da campo, gli uomini di sanità con il medico
Ricciuli, l'automobile guidata da Umberto Calosso. Alla
stazione, uomini e materiale si stivano nella tradotta. Durante tutta
la notte la folla si assieperà festosa attorno a quegli uomini
offrendo loro vino, sigarette e cibarie, ed ogni stazione del
percorso, a Manresa, a Terrasa, a lgualada, a Terragona, a Lerida
dove arriveranno l'indomani, a giorno fatto. Il
comandante della Colonna è Angeloni, considerato il più esperto e
tecnicamente capace, perché rivela qualità organizzative
eccezionali ed un po' perché con quel suo modo di fare gioviale è
il meno comandante di tutti. In ognuno è entrato un po' d'anarchismo
e tutti cercano di sottrarsi al comando rimanendo nei ranghi,
invisibili, recalcitranti. Il
21 agosto la Colonna arriva a Vicien, piccolo villaggio rurale, che
doveva divenire il nostro quartier generale, dove fu a visitarla
Domingo Ascaso, fratello di Francisco, ucciso durante le giornate di
maggio a Barcellona e allora commissario di guerra. Fu lui che diede
alla Colonna l'idea di occupare l'altipiano della Galocha, a quota
521 - immensa protuberanza emergente dalla piana, bagnata
dall'Isuela, che si stende piatta e uniforme entro il triangolo
Huesca-Sariffena-Tardienta, di grande importanza strategica perché
domina di fronte e di fianco la camionabile Saragozza-Huesca-Jaca -
al quale Angeloni ebbe l'allegra idea di affibbiare il nome di "Monte
Pelato". Il
25 agosto la parte combattente della Colonna: i fucilieri con
Bifolchi e i mitraglieri con Angeloni (il resto degli uomini che
componevano la fureria, la sussistenza, la sanità, era rimasto a
Castillo S. Juan, ribattezzato Castillo Michele Angiolillo) si
accamparono a Monte Pelato e si dettero alacremente a trasformarlo in
trincea, da dove si potesse uccidere senza essere uccisi e
contrattaccare uscendovi non appena il nemico avesse dato segni di
confusione. Alle
4 del mattino del 28 agosto i fascisti attaccarono frontalmente e con
intensità crescente Monte Pelato. Il primo combattente della libertà
che cadde con la fronte spaccata da un colpo di fucile fu il vecchio
e noto militante anarchico Michele Centrone. Più che sessantenne,
meridionale, piccolo e magro, Michele era stato tra i primi a
lasciare Parigi, dove da anni era esiliato, a correre dove si
combatteva per l'esistenza di un popolo e la libertà di un mondo.
Intransigente ma non settario, accompagnava con l'esempio
l'ammirevole coerenza di una vita impiegata a servire l'ideale che
divampava in ogni suo atto, in ogni sua espressione qualunque fossero
la circostanza e il luogo. Era di quei militanti modesti e oscuri che
fanno la forza delle idee. Per la tenacia, la rettitudine, la
robustezza del pensiero, l'immutevole manifestazione dei sentimenti,
la costante presenza in ogni azione dove si mette a repentaglio la
vita e si disprezza la morte. Respinto
l'attacco frontale, ne seguirono altri, furiosi, ai lati. Sul fianco
destro una pallottola ferì mortalmente Fosco Fallaschi che moriva
qualche ora dopo. Era un'altra vita, dedita sin dalla fanciullezza
all'ideale anarchico, che si spegneva per sempre. Fosco Fallaschi era
un nome noto all'anarchismo internazionale. Operaio, autodidatta, si
era fatto, a forza di sacrifici e di tenace applicazione allo studio,
una vasta cultura che lo annoverava tra i migliori articolisti della
"Protesta Umana" dove scriveva assiduamente. Poco conosciuto
in Italia di questo scrittore la cui collaborazione andava piuttosto
ai giornali di lingua spagnola. Spesso articoli suoi apparivano su
"L'Adunata dei Refrattari" dividendo con gli anarchici
italiani emigrati in America la laboriosa giornata delle attività e
delle proteste anarchiche. Con la morte di Michele Centrone e di
Fosco Fallaschi l'anarchismo riceveva il primo rude colpo e pagava il
primo tributo di sangue alla solidarietà internazionale. Sul
fianco sinistro vennero colpiti a morte Giuseppe Zuddas, piccolo
sardo, appartenente al movimento di Giustizia e Libertà, Mario
Angeloni, mentre impavido attraversava un tratto di terreno scoperto
per andare a lanciare qualche bomba sull'autoblinda fascista che si
affannava a resistere e a sparare. Fu nell'inseguire i fascisti messi
in fuga che Attilio Papperotto e Andrea Colliva, essendo usciti
anzitempo dal parapetto, incontrarono una morte ardimentosa. Fra i
feriti ci sono Mario Girotti, il nostro caro compagno di Bologna,
Cavani di Modena, Matteuzzi ed altri che raggiungono gli ospedali
delle retrovie. Michele
Centrone, Fosco Fallaschi, Giuseppe Zuddas, Attilio Papperotto e
Andrea Colliva, vennero sepolti nel piccolo cimitero di Vicien ed a
quelle tombe vennero in seguito allineate quelle di Vincenzo Perrone
e di Bruno Gualandi, che morirono durante i combattimenti di
settembre e di ottobre. Mario Angeloni moriva in un ospedale lontano
dal fronte, credo a Barbastro, ed il suo cadavere veniva trasportato
a Barcellona che gli tributava una commovente manifestazione di
cordoglio, alla quale i compagni spagnoli associarono gli altri che
in quel combattimento - che doveva passare alla storia come il più
importante del fronte aragonese - avevano trovato egualmente una
morte eroica.
settembre
1936
L'attività
degli anarchici italiani sul fronte di Huesca ed il suo collegamento
con la Francia, rimase intensa per tutto il mese di settembre. La
posizione sicura di Monte Pelato permetteva tutta una serie di
operazioni verso Huerrio, la Casa Bianca, il cimitero di Huesca. Nei
combattimenti che illustrano queste operazioni - consistenti nel
mettere una cintura attorno a Huesca ed alla rotabile
Saragozza-Huesca-Jaca caddero due giovani promesse dell'anarchismo
italiano: Vincenzo Perrone, credo fosse nativo di Salerno, e Bruno
Gualandi, di Bologna. In una ardimentosa impresa dell'autoblinda
trovò tragicamente la morte Giuseppe Barberis, piemontese, mentre
nella più scoperta delle posizioni di tutto il fronte, fra il
settembre e l'ottobre muoiono Amedeo Giannotti, Romeo Pontoni, e
Cosmo Pirozzo: fra i feriti i compagni Raffaelli di Montignoso e
Giovannardi di Parma, ed altri i cui nomi non ricordo. Fu
grazie al sacrificio di questi compagni che le posizioni vennero
mantenute e rafforzate. Il trincerone che dal cimitero di Huesca
raggiungeva la linea di fuoco a destra della città fino alle trincee
difese dai mitraglieri svizzeri e, più lontano, dalle formazioni del
POUM, era saldo; quella di sinistra, più scoperta, che racchiudeva
nel suo raggio l'osservatorio di Castillo Malatesta - dove i compagni
Dino Paini e Attilio Scarsi faranno per mesi paziente e deprimente
vigilanza - e si prolungava fino alla Casa Bianca, per imboccare la
linea di resistenza fino a Cimilla, Huerrio e molto indietro,
Castillo Figuieras fino a Tardienta, sede del comando comunista,
richiedeva una costante sorveglianza che, data la mancanza di armi
automatiche, solo la volontà di lotta dei militanti anarchici poteva
rendere efficiente. Intanto
a Parigi gli anarchici, Cieri, Gilioli e qualche altro, erano alle
prese con i comunisti che tentavano di svalorizzare l'azione degli
anarchici in Spagna e di ridurre la portata dell'azione di Monte
Pelato - che occupava di cronache elogiative la stampa internazionale
e invogliava gli antifascisti a partire per la Spagna (ne vennero
molti dall'America, fra i quali Libero Battistelli e numerosi
anarchici) - ad un semplice fatto d'armi senza importanza, mentre
Jesus Hernandez, ministro comunista dell'Educazione nazionale nel
governo del 4 settembre, pronunciava un discorso ostile agli
anarchici ed all'anarchismo, largamente riprodotto dalla stampa
comunista internazionale. La
corda era dunque tesa quando socialisti e comunisti italiani
convocarono a Parigi i rappresentanti di tutti i settori
dell'antifascismo, anarchici compresi, ad una riunione per esaminare
e decidere su di un possibile intervento collettivo in Spagna di
formazioni armate sotto il controllo dei partiti e con la formula del
Fronte Popolare. I comunisti intendevano costituire una brigata
internazionale che agisse nell'orbita del governo repubblicano di
Madrid e nel suo particolare interesse, inquadrata gerarchicamente e
già assoggettata alla politica estera, ancora imprecisa ma in seno
al partito comunista già delineata, ispirata da Mosca. L'intesa
non fu possibile. Cianca e Venturi, per Giustizia e Libertà, non
aderirono alla proposta; Antonio Cieri e Rivoluzio Gilioli, per gli
anarchici, protestarono veementemente affermando che in quella
riunione s'insultavano la rivoluzione catalana e i suoi morti e si
volevano umiliare gli anarchici. Sbatterono le porte e se ne
andarono.
ottobre
1936
Randolfo
Pacciardi non aveva aderito alla spedizione di Spagna come aveva
fatto Carlo Rosselli e Mario Angeloni. Si trovava a Metz, forse in
attesa che qualcuno andasse a sollecitare il suo intervento
nell'avventura. Questo qualcuno si presentò nella persona di Romano
Cocchi, allora maggiore esponente dei comunisti italiani all'estero,
che seppe deciderlo a prendere il comando della progettata formazione
che doveva, poi, essere denominata battaglione Garibaldi. Per
Pacciardi non era imbarazzante il seguire la politica di un governo
repubblicano, mentre per i comunisti l'avere un repubblicano al
comando di una formazione combattente composta in prevalenza da
comunisti significava adesione assoluta alla linea tracciata dal
Comintern, che aveva mutato atteggiamento, e da una politica di
attesa nei riguardi della Spagna era passato ad una politica
d'intervento indiretto, camuffato dalla formula del fronte popolare
costituitosi per la difesa della repubblica spagnola e del suo
governo. I
nuclei comunisti e socialisti vennero così convogliati sul centro di
Albacete dove si organizzavano i primi battaglioni delle Brigate
Internazionali, ma fu solo verso il 28 ottobre che il battaglione
Garibaldi fu costituito, quando cioè gli anarchici italiani ed i
loro amici avevano già al loro attivo decine di morti e di feriti, e
l'anarchismo spagnolo era stato orribilmente decimato nella lotta per
essersi generosamente gettato per primo nella mischia. Le
Brigate Internazionali vennero utilizzate per la prima volta sul
fronte di Madrid verso la fine del mese di novembre, a tre mesi dalla
battaglia di Monte Pelato, e questo particolare è bene sottolinearlo
perché i compagni possano istruire gli ignari e rispondere per le
rime a coloro i quali, calunniando gli anarchici, vorrebbero vantare
un diritto di priorità nell'intervento in difesa del popolo
spagnolo. Ma
gli anarchici italiani non parteciparono solamente alla vita attiva
del fronte. Essi vennero utilizzati in delicati servizi e venivano
loro affidati speciali incarichi dove erano richieste particolari
attitudini, capacità, coraggio e senso di responsabilità. Gli
anarchici italiani si distinsero in ognuna di queste importanti e
delicate missioni dalle quali talvolta dipendeva il successo di una
operazione di guerra, di una trattazione di armi, della
organizzazione di un ramo della produzione ecc... L'anima di tutte
queste attività concertate con i compagni spagnoli era Camillo
Berneri, onnipresente, instancabile, coraggioso, ponderato, che
viveva nella rivoluzione e per la rivoluzione. Egli si rivelava a
noi, che ben lo conoscevamo, come un essere nuovo, trasfigurato,
moventesi con disinvoltura in quell'ambiente instabile, intrigato,
dinamico, ascoltando, interpellando e rispondendo a tutti con la
parola precisa, chiara di chi sa, per avere lungamente meditato ogni
problema come se per lui fosse una vecchia conoscenza quando si
presentava agli altri per la prima volta. Camillo
Berneri era un rivoluzionario nato, che sapeva unire ad un pratico
senso di massima utilizzazione delle forze e delle intelligenze del
movimento il carattere paziente del maestro che persuade e desta
attorno a sé simpatie e consensi, la raffinata sensibilità
dell'anarchico profondamente convinto, coerente, giusto; roccia di
granito sulla quale le acque limacciose passano senza lasciare
impronta. Berneri
fu per noi l'anarchismo fatto persona. Ritrovavamo in lui la poesia
di Pietro Gori, l'intelligenza di Luigi Galleani, l'acume e l'azione
di Errico Malatesta. Questo filosofo compendiava in sé cinquant'anni
di anarchismo militante e lo offriva alla rivoluzione spagnola con
tale semplicità e chiaroveggenza che tutti, anarchici e non
anarchici, ne rimanevano come abbagliati. Egli ci fu guida sicura e
fiaccola sempre viva nel nostro operare sia al fronte che nelle
retrovie. Oggi ci sarebbe di prezioso consiglio. Noi non ci
consoleremo mai della sua perdita prematura.
novembre
1936
Dalla
Francia, dall'America e da altrove erano venuti nuovi contingenti.
Rivoluzio Gilioli e Antonio Cieri erano con noi. Gilioli,
preciso, colto, abituato alla pratica dei cantieri edili, non rimase
con noi, nella Colonna, ma messosi in diretto contatto con il comando
spagnolo era riuscito a formare una compagnia di genieri,
indispensabile in quelle terre accidentate, composta nella totalità
di spagnoli. Non appena li ebbe istruiti ai lavori di fortificazione,
Gilioli con i suoi magnifici uomini seguiva ogni combattimento e non
appena i combattenti avevano conquistato una posizione, in breve
tempo riusciva a renderla quasi inespugnabile. Cieri
venne alla Colonna. Ardimentoso, intrepido, esuberante, prese subito
il comando di una compagnia di "bomberos" la cui funzione
era analoga a quella degli "arditi" nelle formazioni
militari. Madrid
era minacciata dalla tenaglia fascista. Durruti era partito con
qualche migliaio di anarchici e portava un largo contributo alla
resistenza dei madrileni. Tutte le volontà erano tese verso questo
obiettivo; Madrid doveva essere liberata dalla stretta mortale; i
fascisti non dovevano passare. Anche noi volevamo fare qualcosa per
la città martire. Il
fronte aragonese si estendeva su circa 140 chilometri. Raccorciare e
alleggerire quel fronte con una operazione che permettesse il
concentramento di tutte le nostre forze su Saragozza per liberarla,
fu il nostro progetto. Una volta raggruppate le forze attorno a
Saragozza ed espugnata la città, ci promettevamo di continuare
l'offensiva sulla Navarra e congiungerci ai miliziani di Bilbao e di
Santander che combattevano sul fronte del Nord. Avendo impegnato le
migliori truppe su Madrid, il nemico aveva lasciato in Aragona delle
truppe scadenti e ridotte. Quell'offensiva, se fatta con rapidità e
sorpresa, avrebbe obbligato i fascisti ad inviare rinforzi in Aragona
e togliere truppe da altri fronti o dal grosso dell'armata che
cinturava Madrid. Il
18 novembre catturammo un prigioniero proveniente da Almudevar.
Interrogato affermò che la forza concentrata in quella città non
era superiore ai 3.000 uomini. Almudevar,
oltre che essere la città nativa degli Ascaso, e quindi un po'
simbolica per la nostra Colonna che ne portava il nome, era un
importante punto strategico, un nodo di comunicazioni, stradale e
ferroviario, di primissimo ordine. La sua conquista ci avrebbe
permesso di rompere il collegamento fascista tra Saragozza e Huesca,
ambedue assediate dai miliziani. L'offensiva comportava un rapido
susseguirsi di battaglie su Huesca, su Saragozza, su Jaca, di cui
Almudevar era il cordone ombelicale, che avrebbero eliminato ogni
focolaio di resistenza e liberato completamente quel fronte. Ci volle
del bello per decidere il comando spagnolo che si arrese solo alle
insistenze di Domingo Ascaso coadiuvato da Bifolchi e da Rosselli. Ma
volle che l'azione fosse limitata ad Almudevar. L'attacco
ad Almudevar venne così concepito: Bifolchi avrebbe attaccato alla
destra della città appoggiato da una batteria, che poi si mosse in
ogni senso ed in tal maniera da meritarsi il nome di "batteria
fantasma"; Rosselli, a cui era stato affidato il comando
generale con Canzi, Cieri e Battistelli, che comandava una seconda
batteria, dovevano avanzare al centro; Cristobal Garcia, anarchico
spagnolo, doveva avanzare dall'ala sinistra, sulla Granja del Cuervo,
verso Tardienta, da dove aspettavamo un rinforzo di mille uomini
della divisione "Carlo Marx" promessoci dal comunista Del
Barrio. Gli
uomini dell'ala destra sferrarono un'azione travolgente e raggiunsero
subito le prime case di Almudevar, mentre le forze di centro, che
seguivano con mosse concentriche le evoluzioni dei lati, occupavano
con un salto di sei chilometri in avanti Monte FAI e Monte Capri.
Attendevamo il segnale che ci avvertisse della occupazione di Santa
Criteria, un forte che sovrastava Tardienta e che era in mano ai
fascisti, per far muovere il lato sinistro, ma il segnale non venne e
gli uomini di Del Barrio non giunsero. Sapremo
poi che i comunisti ci avevano ingannati promettendoci i mille
uomini, che avevano deciso di non inviare mai poiché quel rinforzo
avrebbe assicurato il successo ed accresciuto il prestigio degli
anarchici sui quali, invece, era opportuno gettare discredito. La
batteria di Battistelli, sparati pochi colpi all'inizio dell'attacco,
taceva da un pezzo mancandogli proiettili e cariche. Il combattimento
durava da tre ore perdute in inutile attesa di rinforzi che non
vennero mai, durante le quali i fascisti ebbero il tempo di
concentrare su Almudevar rinforzi venuti da Huesca e da Saragozza in
gran numero. La superiorità fascista era dovuta soprattutto alla
deficienza del nostro armamento rispetto al loro ed all'obbligo di
combattere su due lati soltanto e con il lato sinistro scoperto che
ci esponeva a terribili sorprese di aggiramento. Dovemmo ritirarci e
quella operazione, che nell'attacco ci era costata due soli feriti,
nella ritirata fece una trentina di morti e numerosi feriti. Vi
trovarono la morte i compagni anarchici Natale Cozzucoli, Luigi
Crisai, Vittorio Golinelli, Giuseppe Livolsi, Filippo Pagani, Corrado
Silvestrini e l'anarchico francese André Couderuy. Fra i molti
feriti il compagno Vincenzo Mazzone di Messina. Giuseppe Bifolchi
aveva dimostrato di possedere capacità tecniche incontestabili,
sangue freddo e coraggio magnifici; Antonio Ceri, che si era
temerariamente avventurato molto in là con i suoi "bomberos",
verso Alcalà de Gubierre, rimasto circondato dai mori, seppe
districarsi e raggiungere le nostre linee. Le
posizioni conquistate di Monte FAI e di Monte Capri risultarono
ottime, perché mettevano la camionabile a portata di tiro delle
nostre mitragliatrici. Ma l'ostilità comunista, spinta fino al
tradimento, l'incoscienza del comando militare catalano, la rabbia
per il fallimento dell'impresa, dovuto esclusivamente alla
insufficienza di armamento, disgustarono tutti.
dicembre
1936
Cominciarono
le snervanti giornate della guerra di posizione. Il nostro sembrava
un settore del fronte completamente abbandonato. Se
occorre coraggio in battaglia, per noi, che eravamo dei
rivoluzionari irrequieti, ne occorreva uno moralmente superiore per
continuare senza un lamento e senza una protesta la vita di trincea,
nel fango e nel ghiaccio, in pieno inverno, con una temperatura
talvolta sui venti gradi sotto zero, con i budelli allagati dalla
pioggia. Montavamo di notte la guardia intirizziti dal freddo e
riposavamo su un po' di paglia nelle buche di Casa Bianca, dentro le
tombe del cimitero di Huesca e sotto le tende bucherellate. Vita da
bestie! La
sopportavamo con paziente stoicismo perché, coscienti del nostro
compito, sapevamo che per la prima volta l'anarchismo stava dando la
misura della sua capacità costruttiva, e noi ci sentivamo in un
certo senso le sentinelle avanzate delle conquiste sociali in atto
con la rivoluzione spagnola. Il
contraccolpo della mancata presa di Almudevar incise profondamente
sul nostro stato d'animo e sulla vita stessa della Colonna. Ci
vedevamo condannati all'inoperosità, all'isolamento, al sacrificio. I
compagni che avevano ancora enormi riserve di entusiasmo ed i più
giovani sopportavano male la prospettiva di una lunga inattività del
fronte. Cieri, i fratelli Perissino, Tomaso Serra, Vindice Rabitti,
Gigi Evangelisti e molti altri si sentivano bruciare dal fuoco sacro
dell'azione e, più d'ogni altro, imprecavano contro i responsabili. Ricordo
una riunione accaloratissima, tenuta al Castillo Malatesta, presente
Berneri, durata circa 24 ore, durante la quale vennero precisate
molte cose, chiarificate molte responsabilità, esaminata la
situazione in modo spassionato e concreto. Fra i compagni riuniti ve
n'erano che dall'agosto si trovavano in linea, in mezzo ai topi, ai
disagi e ai pidocchi, incuranti degli acciacchi che indolorivano il
corpo, dovuti spesse volte a dissenterie, intossicazioni ed altri
mali comuni alla vita di trincea. Essi avevano combattuto tutte le
battaglie di quel fronte e non intendevano assolutamente rimanere
immobili a marcire in trincea. Gli
uomini di Giustizia e Libertà erano, nella quasi totalità,
rientrati chi a Barcellona chi in Francia. La Colonna era diventata
una formazione anarchica nella maggioranza dei suoi componenti. Una
decisione che definisse la questione del comando della Colonna nei
confronti del governo catalano e del comando militare s'imponeva. Tutti
avevamo grande stima per uomini come Rosselli e Battistelli e non
risponde al vero l'affermazione di Aldo Garosci, contenuta nel suo
libro "La vita di Rosselli", che mi fa ostile a Carlo
Rosselli. Io ero amico di Carlo e ci conoscevamo profondamente sino
da Parigi. Non avevamo le stesse idee e partivamo da considerazioni
diverse per arrivare a conclusioni molte volte opposte, ma le
sostanziali realizzazioni degli anarchici spagnoli avvicinandolo
vieppiù ai postulati di Proudhon e di Bakunin, rafforzavano i legami
della nostra amicizia. Non avevamo motivi di ostilità verso di lui e
le ragioni che c'indussero ad invitarlo a lasciare il comando erano
di natura ben diversa. Rosselli
era uomo politico e come tale si occupava di troppe cose alla volta:
il suo giornale a Parigi, il movimento di G.L., le relazioni con
personalità estere per assicurare i traffici di materiali, di
tecnici, di armi - era divenuto in alcune circostanze anche il
plenipotenziario del governo catalano - ed il... comando militare
della Colonna. Al fronte, praticamente le cose andavano così: egli
era il comandante simbolico, mentre chi effettivamente comandava la
Colonna era Giuseppe Bifolchi, nostro compagno. Il fallito attacco su
Almudevar aveva messo in chiara evidenza questa deprecabile
deficienza. In
quella riunione convenimmo che la Colonna non poteva continuare a
fare la guerra ai fascisti con un comandante accreditato presso il
comando ed il governo catalano che era sempre assente dalla zona di
operazioni, e un comandante il quale doveva effettivamente provvedere
al fabbisogno della colonna e disporre tecnicamente delle cose e
degli uomini per regolarne il movimento, ed era in ogni senso
ostacolato nella sua opera perché non riconosciuto ufficialmente dal
governo e comando militare catalani. Il dilemma era questo: o
Rosselli rimaneva con la Colonna e rinunciava quindi al suo lavoro
politico, o passava il comando a Bifolchi. Delegato
insieme ad altri compagni dall'assemblea mi recai da Rosselli, che
era degente all'ambulanza svizzera sul fronte per una flebite che lo
faceva enormemente soffrire e lo immobilizzava, per comunicargli la
nostra decisione. Rosselli comprese immediatamente i motivi da noi
avanzati e, d'intesa con Battistelli che rimase fino all'ultimo con
noi, rassegnò le sue dimissioni e si dichiarò soddisfatto che lo
sostituissimo con un uomo del valore e della competenza di Bifolchi
del quale si stimava sinceramente amico. Dovevamo
riferire al Comité Regional della CNT-FAI e provvedere
all'investitura di Bifolchi a comandante della Colonna in
sostituzione di Rosselli. Partimmo senza riposarci alle tre del
mattino dal Castillo Angiolillo Berneri, Bifolchi, Russo - che era
capitano di una formazione del POUM e ci aveva chiesto la cortesia di
condurlo a Barcellona - ed io, con l'automobile di Rosselli guidata
da Equo Gilioli, fratello di Rivoluzio, caduto il 20 maggio 1937 al
fronte. L'occhio mi dolorava per una accentuata congiuntivite,
contratta durante l'operazione di Almudevar, e rimanevo silenzioso
mentre, traversata Lerida e terminati gli argomenti di discussione,
gli altri si appisolarono. Gilioli conduceva l'automobile ravvolta
nel silenzio e, era fatale, anch'egli affranto dalla stanchezza, ebbe
un momento di abbandono sul tratto della camionabile che va da Lerida
a Tarragona e ci trovammo con l'auto, che era passata tra due alberi
della lunga fila costeggiante la strada, adagiata sul fianco destro
su di un campo appena seminato. Il colpo fu rude ed il primo ad avere
l'esatta percezione della posizione nella quale ci trovavamo fu
Berneri, la cui testa aveva sfondato la tela del tetto ed era passata
attraverso l'intelaiatura facendosi leggere escoriazioni al capo ed
alla faccia. Bifolchi aveva un occhio ammaccato, Russo si lamentava
per il suo braccio destro; il ferito era Gilioli che aveva riportato
un largo e profondo taglio all'arcata sopraccigliare, io ero
incolume. Abbandonammo l'automobile, ricoverammo Gilioli all'ospedale
di Terragona e proseguimmo in treno per Barcellona. Là
ricevemmo l'assicurazione che si stava preparando un'offensiva sul
fronte aragonese. Rientrammo gonfi di speranze e comunicammo ai
compagni che ben presto saremmo entrati anche noi in azione. La
notte del 31 dicembre ci trovò affratellati, uomini di tutte le
nazionalità e di tutte le ideologie, ad una cenetta offerta da
anarchici e federali spagnoli nel "comidor" di Castillo
Angiolillo e vi pronunciammo discorsi inneggianti alla vittoria ed
alla solidarietà internazionale. Intanto
la stampa spagnola ci informava che a Valencia erano stati arrestati
i nostri compagni Gino Bibbi, Giovanni Fontana e Umberto Tommasini,
accusati dai comunisti di aver trafficato armi per il fronte di
Aragona.
gennaio/marzo
1937
I
tre anarchici italiani non erano stati arrestati a Valencia dalla
polizia di Stato su ordine del governo centrale, ma da una speciale
polizia di partito che, attraverso complicità ben definite, li
consegnò alla "Jefatura de Policia" quali...
controrivoluzionari, e come tali andarono a finire per qualche
settimana in prigione. La protesta degli anarchici divenne protesta
di molta stampa, di sindacati, e di formazioni militari che
quell'arresto privava di un prezioso ausilio, senza il quale diverse
operazioni militari fu gioco-forza rimandare e nuovamente studiare.
Il ministro della Difesa, Prieto, dovette personalmente intervenire
per farli rilasciare. I
nostri compagni erano muniti di regolare documentazione e di speciali
salvacondotti, rilasciati dal ministero della Difesa e dallo stesso
Prieto, per delicati compiti di sabotaggio presso il nemico fascista
ed incarichi di grande rilievo che solo un ingegnere e aviatore come
Bibbi, tecnici quali Fontana e Tommasini potevano soli portare
facilmente in porto. Ma i bolscevichi avevano preso un tale
sopravvento ed influenzavano in tal maniera funzionari e istituzioni
che governo e ministri ne uscivano esautorati, ed anche i documenti
la cui autenticità era insospettabile venivano messi in dubbio o
discussi o addirittura invalidati. Liberati,
i nostri compagni dovettero subire una caccia all'uomo spietata,
organizzata dai bolscevichi. Questo episodio, unito a molti altri, dà
una pallida idea di quanto fossero dispotici certi metodi e quanto le
interferenze del partito comunista sugli affari più delicati del
governo e della guerra fossero diventate massicce. Il
fronte aragonese continuava "sin novedades". Degni di
elogio erano tra di noi un gruppo di combattenti svizzeri,
mitraglieri e sanitari. I
sanitari amministravano, con sapienza ed abnegazione, l'ospedaletto
da campo, da noi denominato Ambulanza Svizzera, sito tra il Castillo
Angiolillo ed il cimitero di Huesca, sulla strada nazionale. Ne era
direttore un professore, chirurgo di grande talento, già celebre nel
suo paese. Simpaticissimo, modesto, mite, egli considerava la scienza
una missione, ed era accorso in Spagna per un dovere verso l'umanità.
Era circondato da medici coscienziosi che mal nascondevano le loro
simpatie per la Russia ed il partito bolscevico. Il
nostro caro professore aveva per noi anarchici italiani una speciale
predilezione e ben presto ci fece conoscere l'evoluzione del suo
pensiero con un'appassionata dichiarazione di anarchismo, che non
mancammo di festeggiare nella spoglia intimità della sua stanzetta.
Fu in quella occasione che ci palesò i suoi timori e ci narrò i
piccoli intrighi dei suoi colleghi, i ripetuti tentativi per
attirarlo dalla loro parte, le piccole miserie ed i piccoli odii di
cui veniva attorniato da quando si erano resi conto ch'era nutrito di
ben altri sentimenti. Lo
incontrai dopo i fatti di maggio, vagante per le vie di Barcellona,
inutile a sé ed agli altri, in un periodo in cui negli ospedali
immenso era il bisogno di medici e di chirurghi. Avrebbe voluto
rientrare in Svizzera, ma il tribunale della sua città lo aveva
condannato a sei mesi di prigione per essere espatriato
clandestinamente in un'epoca in cui la Svizzera non rilasciava
passaporti ai medici che dubitava si recassero in Spagna. Il governo
Negrin aveva messo l'ostracismo su questo scienziato, che aveva
effettuato operazioni ritenute miracolose, perché i suoi colleghi
dell'Ambulanza Svizzera lo avevano reso sospetto al partito comunista
spagnolo. La
consegna era di attendere e per tre mesi attendemmo sul fronte di
Huesca fra disagi inauditi, impazienze e irrequietezza di uomini
venuti per combattere, disposti ad accettare anche la morte purché
si creasse il fatto che li portasse all'azione. I compagni mal
sopportavano quel ripetersi ogni giorno le stesse cose, quel lavoro
estenuante del piccone e della pala impiegato ad un continuo fare e
disfare, quella presenza del nemico nella città di Huesca assediata
che sapevano vulnerabile e a portata di tiro se avessimo avuto il
materiale adatto per l'offensiva, quella sensazione di abbandono e
d'isolamento che prendeva alla gola, torceva i nervi ed inaspriva gli
animi trasformando uomini da ragionevoli in irascibili, esigenti,
ingiusti. La sofferenza che provammo durante quei tre mesi su quel
pezzo di fronte solo chi la patì può misurarla. Vi furono dei
compagni che progettarono azioni equivalenti al suicidio; altri che
fecero dei colpi di mano d'una temerarietà insensata, spinti dal
bisogno di "sgranchirsi le gambe". Tre mesi di pieno
inverno, ai piedi della catena dei monti pre-pirenaici, fra lo
scatenio degli elementi; tre mesi senza un'azione di attacco o di
difesa, erano veramente insopportabili. I
giovani mordevano il freno. Fra i più decisi a rompere l'attesa
erano Cieri, i fratelli Perissino, Gigi Evangelisti, Bernardini ed
altri compagni di un'audacia a tutta prova. A
Barcellona moriva il compagno Bolzamini.
aprile
1936
Cadde
su questa piena di risentimenti e di sconforto la risposta del
comando ai nostri insistenti, ripetuti solleciti di azione. Si
permetteva, tuttavia, che un gruppo di volontari della Colonna
partecipasse ad una operazione sul versante opposto alle nostre
posizioni, preludio ad una offensiva su posizioni nemiche da tempo
occupate e solidificate. L'operazione
non presentava sufficienti garanzie di successo e di protezione e
lasciava Bifolchi scettico mentre gli ardimentosi pensavano che con
audacia e rapidità l'obiettivo sarebbe stato egualmente raggiunto:
in fondo avevano ragione l'uno e gli altri. Dovevo
partecipare alla spedizione, ma venni ricoverato all'ospedale di
Barbastro per l'improvviso peggioramento dell'occhio destro, una
forte congiuntivite da trauma che trascinavo dall'azione su
Almudevar, proprio alla vigilia della partenza del gruppo, comandato
da Antonio Ceri ed Aldo Perissino, su due camion diretti ad Apies. Tomaso
Serra, un magnifico compagno sardo tutto fede e bontà, che mi venne
a trovare all'ospedale di Barbastro qualche giorno dopo l'azione, mi
narrò la vicenda di quella spedizione ardimentosa coronata da
innumerevoli audacie. L'azione
ebbe inizio nella notte tra il 7 e l'8 aprile. Dopo molte peripezie e
contrattempi, all'alba dell'8 i nostri avevano raggiunto il
"carrascal" di Apies e si erano nascosti agli occhi del
nemico, appollaiato sulle colline antistanti, dietro gli alberi ed i
cespugli di quel bosco. La posizione era scomoda e rischiavamo ad
ogni momento di essere visti ed accerchiati, di perdere il contatto
con le altre formazioni di cui vicinissimo il battaglione P.
Kropotkin composto di giovani anarchici, che venne in seguito
decimato dall'aviazione fascista. Intervenne
il comando spagnolo. Bernardini, un compagno triestino che parlava lo
spagnolo a meraviglia, parlamentò. Bisognava occupare la posizione
che stava di fronte, far tacere le mitragliatrici che da una fattoria
denominata "Casa Becha", posta sull'erta della collina,
sparavano all'impazzata. I nostri insistevano che conveniva attendere
la sera, che con il favore dell'oscurità avrebbero potuto prendere
la posizione attaccandola ai fianchi, di sorpresa, che attraversare i
500 metri di terreno scoperto che separavano il bosco dalla collina
era correre a suicidio certo. Non si ascoltano ragioni: il comando
ordina, bisogna avanzare. Ed
i nostri compagni avanzano, con i fucili-mitraglia in testa ed i
fucilieri sparsi ai lati. Li accoglie una prima scarica nemica che
ferisce per primo Gigi Evangelisti (Gigi il bello, come lo chiamavamo
noi) al sortire del bosco. Nell'azione muore un altro giovane e
coraggioso compagno: Luigi Trapasso (Orsetto). Casa
Becha viene espugnata, l'azione è riuscita con poche perdite e molto
coraggio: un'azione degna di arditi e rivoluzionari. Dal
tetto alcuni compagni si erano lasciati cadere dentro la casa ancora
occupata da qualche fascista, e fu in questa operazione che Aldo
Perissino venne ferito ad una gamba. Non essendo riusciti ad
arrestare l'emorragia, il ferito venne fatto evacuare al posto di
soccorso di Apies. Da quel momento non dovevamo più rivederlo. Lo
cercammo, il fratello Corrado ed io - alcuni giorni dopo che era
ritornata la calma - inutilmente, andando di ospedale in ospedale
fino a Barcellona e viceversa. La sola spiegazione plausibile che si
possa dare a quella scomparsa è che ferito e portaferiti siano stati
sorpresi dall'esplosione di una bomba e uccisi. Aldo
Perissino era il terzo di tre fratelli e una sorella, tutti
anarchici. Figli di un pittore di grande talento e di squisita
sensibilità, passarono da una vita agiata nella loro indimenticabile
Venezia ad una vita di lavoro e di privazioni a Parigi, dove erano
stati costretti ad emigrare a causa delle persecuzioni dei fascisti
che si accanivano soprattutto su Mario, il secondo e più battagliero
dei quattro. Alto,
aitante, intelligentissimo, Aldo aveva una natura ardente e
riflessiva. Aveva abbracciato le nostre idee con entusiasmo e
convinzione: era una delle migliori speranze per il nostro movimento.
In quell'azione ebbe un comportamento eroico, un tatto ed una
generosità superiori: seppe incitare, confortare, ragionare,
decidere. Era un uomo d'azione, un rivoluzionario nato. Nella
notte, mentre ispezionava la posizione conquistata per rendersi conto
che tutto fosse a posto, Antonio Cieri veniva colpito alla tempia da
una fucilata, sparata da una collina vicina occupata dal nemico, e
cadeva fulminato. Originario di Vasto, Cieri era venuto giovanissimo
alle nostre idee. Temperamento vulcanico, audace, deciso, egli aveva
partecipato alla difesa di Parma minacciata dai fascisti di Italo
Balbo, con gli arditi del popolo, ed assieme a Guido Picelli
contribuì efficacemente, dal fortino inespugnabile che era divenuta
Parma vecchia di oltre torrente , ad una resistenza che obbligò i
fascisti, come a Sarzana nel luglio 1921, a retrocedere. I parmensi
si ricordano ancora quel giovane biondo che andava di gruppo in
gruppo ad animarli, e gli adulti che ebbi modo d'incontrare a Parma
dopo la liberazione ne parlano ancor oggi con commozione ed affetto
come di un loro concittadino. Con
Cieri e Perissino perdevamo due elementi preziosissimi, sia per il
movimento e l'idea, sia per la lotta rivoluzionaria in Spagna. Erano
di quei militanti che avevano tutto affrontato della vita: la lotta,
la miseria, la galera, l'esilio e pur rimanevano radicati
all'anarchismo più tenacemente che mai, portando il loro contributo
alla causa che rendeva vieppiù incerta l'esistenza, irta di pericoli
e d'insidie, militanti dei quali sentivamo accrescere prepotente il
bisogno ogni qualvolta uno di essi ci veniva a mancare per restituire
il suo corpo alla madre terra. Non
fu possibile mantenere le posizioni occupate con quell'azione. La
controffensiva fascista fu terribilmente micidiale. Carri armati e
aeroplani in numero spettacolare si gettarono su quegli uomini
sprovvisti di mezzi motorizzati, che opponevano una eroica ma
atrocemente impari resistenza. Le forze leali dovettero cedere ed
anche "Casa Becha" venne evacuata. I
nostri compagni italiani e spagnoli si batterono come forsennati,
utilizzando con astuzia i più piccoli anfratti del terreno,
sparpagliandosi in ordine di guerriglia per non offrire un troppo
visibile bersaglio al nemico, con disperazione ma con magnifico
spirito di solidarietà ingigantita dal pericolo e dalla morte. In
quella tremenda battaglia caddero altri anarchici italiani: Angiolino
Brignani, Vittorio Ortore, Raffaele Morote, Giuseppe Pesel, Carlo
Poli, Raffaele Serra; fra i feriti Bernardini di Trento ed altri i
cui nomi non ricordo. I superstiti, affranti, laceri, doloranti,
tristi per la perdita di tanti compagni, dopo una breve sosta
all'ospedale di Barbastro, partirono alla volta di Barcellona dove,
il 25 aprile, a seguito di accordi presi con il comando spagnolo,
anche il resto della Colonna, che era rimasto sul fronte di Vicien,
con Bifolchi, Canzi e Battistelli, li raggiunse. I
nostri compagni avevano al loro attivo sette mesi consecutivi di
fronte: una estate ed un inverno pieni. Non si poteva pretendere di
più dalla resistenza fisica di un uomo; molti di noi avevano perduto
parecchi chili, con grande rammarico del nostro furiere di Castillo
Malatesta, Marcello Bianconi, esile natura di oltre cento
chilogrammi. Ma
bisogna insistere, perché è il lato vero della questione, che non
furono tanto gli insuccessi di Almudevar e di Apies a decidere il
ritorno della Colonna a Barcellona, quanto la condannata inoperosità
del fronte di Huesca, voluta dal governo centrale e dai bolscevichi,
preoccupati soltanto del tentativo di diminuire il prestigio degli
anarchici ostacolando in ogni modo e con ogni mezzo, anche il più
infame, ogni loro azione, e la campagna in favore della
militarizzazione delle Milizie ed il loro inserimento nell'esercito
popolare, che andava assumendo un tono ed una piega minacciosi per i
recalcitranti. Noi
ci eravamo recati in Spagna con dei propositi ben chiari, ed anche se
antifascisti intendevamo rimanere quali rivoluzionari e anarchici.
Nessun raggiro e nessuna prepotenza ci avrebbe obbligati ad essere i
soldati di un governo, e tanto meno di quel governo che si era
lasciato prendere la mano per un lato dai borghesi dei ceti medi:
funzionari, professionisti, commercianti, piccoli proprietari,
attirati dal Partito Comunista con la formula del Fronte Popolare
allargato, e per l'altro lato dai bolscevichi che esercitavano sul
governo una pressione indecente con il ricatto delle armi russe. A
Barcellona, i compagni si erano tutti sistemati alla meglio: chi
nella caserma Spartacus, chi al gruppo Malatesta, chi presso i
compagni i quali, come Gialluca e la buona Maria, davano il meglio di
sé nelle industrie collettivizzate di Barcellona, dai primi giorni
della lotta fino all'esodo finale. Berneri e Barbieri, Mastrodicasa e
Fantozzi, Fosca Corsinovi e Tosca Tantini, occupavano un appartamento
del primo piano al n .2 di piazza del Angel all'angolo di via
Layetana. Come
si vede, i compagni erano sparsi e solo punto di collegamento era la
sezione dell'USI che occupava due stanzette del palazzo della CNT ben
custodite da Celso Persici, Domenico Ludovici del "Risveglio"
di Ginevra, Virgilio Gozzoli che redigeva con Berneri "Guerra di
Classe", e tutti curavano la propaganda e le relazioni con il
movimento anarchico internazionale. Avevamo
tenuto una lunga e burrascosa riunione al gruppo Malatesta ed erano
affiorati fra i compagni intenzioni e propositi diversi. Alcuni
avrebbero visto di buon occhio gli anarchici inseriti nel battaglione
Garibaldi, comandato da Pacciardi, che stava preparando un'azione sul
fronte di Huesca (risultato poi essere la battaglia di Cimilla, di
cui parla Fausto Nitti in "Il Maggiore è un Rosso", che
fece vuoti profondi nel battaglione), magari per quell'azione
soltanto, dove già erano andati Battistelli (che vi trovò la
morte), Canzi, Mariotti e qualche altro; altri sostenevano, in primo
luogo, che si volevano umiliare gli anarchici col decidere un'azione
su quel fronte proprio nel momento in cui la Colonna era stata messa
nell'obbligo di rientrare a Barcellona per la caparbietà del comando
spagnolo nel rifiutare credito alle nostre insistenze di rendere
operativo quel fronte, ed in secondo luogo, che se non si otteneva
dal comando l'autorizzazione di riorganizzare la Colonna in corpo
franco, indipendente politicamente ed in condizione di agire con
ampia libertà di movimento, da utilizzarsi in colpi di mano e in
operazioni marginali che avrebbero permesso di mantenere il carattere
combattente e rivoluzionario allo stesso tempo, meglio valeva che
ognuno di noi riprendesse la sua personale libertà, rendendosi utile
in qualche collettività anarchica o dove meglio credesse. Il
27 aprile Camillo Berneri commemorava alla radio Antonio Gramsci,
onorandone l'antifascista, l'uomo di cultura, l'avversario politico
con parole di commovente fraternità. Questa
era la situazione e l'atmosfera che respiravamo a Barcellona quando
fummo di sorpresa investiti dai fatti di maggio.
maggio
1937
L'atteggiamento
dei comunisti era stato discusso alla riunione degli anarchici
italiani nel salone del gruppo Malatesta. Si era venuti alla
determinazione di mantenere fra noi il più stretto contatto
possibile e di concentrarsi, nel caso di diretta minaccia alle nostre
persone, alla Sezione italiana del Comité de Defensa della CNT e
alla caserma Spartacus. Purtroppo questa decisione fu di difficile
attuazione data la rapidità degli avvenimenti, che sorpresero tutti
gli anarchici di Barcellona, compreso Domingo Ascaso, sempre bene
informato, che venne proditoriamente assassinato in Gracias, in pieno
centro di Barcellona, mentre scendeva dall'automobile. Nelle
prime ore del pomeriggio del 3 maggio due camion carichi di guardie
civiche sostavano davanti all'immobile della Centrale Telefonica in
piazza di Catalogna. Contemporaneamente forti nuclei di guardie
appiedate e gruppi armati del PSUC (Partito Socialista Unificato
Catalano - Comunisti) occupavano gli edifici situati attorno alla
Centrale e i punti strategici della città. La
Centrale Telefonica sino dal 19 luglio 1936 da ente privato era
divenuta industria collettivizzata, controllata dalla CNT con
l'adesione degli operai della base iscritti alla UGT. Il governo
aveva decretato di statalizzare l'economia, su proposta dei comunisti
i quali speravano di conquistare politicamente il governo una volta
fossero riusciti a togliere dal controllo dei sindacati tutta
l'economia catalana. Governo e comunisti perseguivano da tempo
l'obiettivo di instaurare un capitalismo di Stato o, magari, di una
restaurazione del capitalismo privato, il che, secondo i loro
calcoli, avrebbe attirato le simpatie, e forse il sostegno, dei
governi capitalisti d'Inghilterra e di Francia, facendoli andare
oltre il "non intervento", ed avevano votato una feroce
ostilità alle collettività libertarie, odio fisico agli anarchici e
guerra spietata alla FAI ed alla CNT. L'assalto
alla Centrale Telefonica fu il primo tentativo di colpo di Stato
comunista, al quale dovevano seguire sviluppi di conquista politica e
tattica che avrebbero fatto del Partito Comunista Spagnolo il padrone
della situazione e degli agenti bolscevichi russi gli arbitri della
politica estera spagnola. Questo pensavamo fosse il piano dettato da
Stalin, poi confermato dai fatti, al momento in cui ci disponevamo a
contrastarlo. Il
tentativo di occupazione dei locali della Centrale Telefonica venne
respinto dagli stessi lavoratori dell'ente. Il popolo reagì con la
straordinaria rapidità dei popoli emancipati e naturalmente
rivoluzionari. Seppe immediatamente individuare i responsabili e
chiese la destituzione ed il deferimento ad un tribunale popolare di
Rodriguez Salas, commissario generale dell'ordine pubblico, di
Aiguadè, ministro della salute pubblica, di Juan Comorera,
commissario di Abastos (approvvigionamenti), tutti e tre noti
comunisti iscritti al PSUC di cui Comorera era segretario. Ovunque
i lavoratori eressero barricate. I compagni nostri rimasero là dove
gli avvenimenti li avevano sorpresi senza che fosse stato loro
possibile effettuare il benché minimo spostamento. I più si
trovavano concentrati in scarso armamento alla caserma Spartacus e al
Comité de Defensa, dove era Bifolchi; Zambonini, il coraggioso
compagno che venne fucilato in Italia dai tedeschi, era con molti
altri al Sindacato dell'alimentazione dove venne gravemente ferito
alla faccia; Angelo Bruschi era al Sindacato dei metallurgici, altri
al Sindacato dei tessili in piazza Catalogna, ed io con Corrado
Perissino, Emanuele Granata e Verde (l'Argentino) al Comité de
Defensa di piazza di Spagna. Il
bilancio di quelle terribili giornate, che durarono dal 3 al 7
maggio, fu di 500 morti e più di 1.400 feriti, nella quasi totalità
appartenenti al movimento anarchico ed ai sindacati aderenti alla
CNT. Camillo
Berneri - ho già narrato in una serie di articoli sul "Libertario"
i particolari di questo assassinio e attribuite le responsabilità -
fu assassinato nella notte tra il 5 e il 6 maggio e venne raccolto
dalla Croce Rossa nel tratto di strada che separa il lato destro
della piazza del Angel (dove dimorava) dalla piazza della
Generalidad, parallelo alla calle Roland. Francesco Barbieri,
arrestato dagli stessi assassini camuffati da poliziotti, venne
trovato morto sulla Ramblas de las Flores. Li identificammo il
mattino del 6 all'Ospedale Clinico, Canzi, Fosca Corsinovi, Vincenzo
Mazzone e io. L'assassinio
dei nostri compagni portava tutte le stigmate dell'assassinio
politico e ci fu facile identificarne il movimento politico al quale
appartenevano gli autori, che erano poi gli stessi che avevano
assassinato Domingo Ascaso, Jean Ferrand, nipote di Franciso Ferrer,
Andres Nin, segretario del POUM, Kurt Landau, rivoluzionario
austriaco, Marc Rein, figlio di Raffaele Rein Abramovich della
Commissione Esecutiva della IIa Internazionale, Hans Beimler, ex
deputato comunista tedesco. Altri
italiani erano stati assassinati perché appartenenti alla Colonna
Italiana o ad altre formazioni combattentistiche della FAI e della
CNT: Adriano Ferrari, Lorenzo Peretti e Pietro Marcon che vennero
sepolti nello stesso cimitero accanto a Camillo Berneri e Francesco
Barbieri. Il
20 maggio moriva al carrascal n.2 nella posizione denominata Torraza,
Rivoluzio Gilioli. Mentre la sua compagnia del Genio stava
fortificando la posizione, venne colpito da un proiettile al basso
ventre perforandogli in più parti l'intestino. Trasportato
all'ospedale di Barcellona, ci morì tra le braccia sereno, contento
di morire per la causa alla quale sin dall'infanzia aveva, dalla sua
Modena all'esilio, dato sempre il meglio di sé. Con la morte di
Gilioli si chiudeva, nel 1937, la lunga fila degli anarchici italiani
morti per un'affermazione ideale di solidarietà internazionale e per
la liberazione del popolo spagnolo. Molti
furono gli anarchici che rimasero in Spagna fino alla fine delle
ostilità, fino alla disfatta e all'esodo immane. Molti furono anche
gli anarchici italiani incarcerati, trattenuti in prigione senza
conoscere il motivo della loro detenzione; molti quelli che si
incorporarono nelle formazioni anarchiche spagnole e subirono di
queste le sorti; molti quelli che rimasero nelle collettività
agricole o industriali fino al loro violento scioglimento. Il
contributo dato dagli anarchici italiani a questa parentesi
rivoluzionaria spagnola fu completo, disinteressato, sincero; un
poema di generosità, di solidarietà fraterna, di audacia, di
coerenza ideale, di sublime volontariato, che ha avuto il suo seguito
nella lotta di liberazione in Italia.
Questo
saggio di Umberto Marzocchi, scritto negli anni '60 e finora inedito,
apparirà nel volume - di prossima pubblicazione - che l'Archivio
Famiglia Berneri (piazza dello Spirito Santo 2, 51100 Pistoia, tel.
0573/365335) sta preparando per ricordare Camillo Berneri nel 50°
anniversario della sua morte.
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