Rivista Anarchica Online
Bruce ragazzo Bruce
di M. Panizza / M. Pandin
È
stato l'avvenimento musical/spettacolare di questa estate italiana.
I circa settantamila che venerdì 21 giugno hanno gremito lo stadio
di San Siro, a Milano, per assistere all'unica performance italiana
del tour europeo di Bruce Springsteen, hanno avuto netta la
sensazione di "vivere dal di dentro" un Qualcosa. Me che
cos'era questo Qualcosa? E se per caso non fosse proprio Niente? E
poi questo Springsteen, questo nuovo idolo made-in-USA che sta
facendo il pienone negli stadi di mezzo mondo, è poi davvero - come
sostengono in molti - il rappresentante di nuovi valori emergenti?
Oppure non è che un nuovo spacciatore, nemmeno tanto originale, del
solito "sogno americano"? Insomma, un ambasciatore (con
chitarra) di Reagan? Al di là del
personaggio Springsteen, c'è la questione del ruolo della musica (e
del rock, in particolare) oggi. Rabbia, conformismo, business,
psicologia di massa, voglia di libertà, gregarismo, bisogno di
identificazione, ecc...: sono tanti i motivi a confluire nel rock e
nel suo successo internazionale. Anche nel corso
dell'assemblea di "A", tenutasi a Bologna due giorni dopo lo
"storico" concerto milanese, Springsteen si è rivelato un
argomento (non previsto) di discussione. E che discussione. Riprendiamo il
discorso in queste due paginette, con due interventi tra loro molto
diversi. E lo lasciamo aperto ad eventuali successivi interventi sul
tema della musica e delle sue possibili valenze libertarie.
Negli stadi,
comunque vince il dominio
"Un ruggito
che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani,
creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava
da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a
mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche
contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi
allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole,
sommergendole con l'implacabilità della lava che nel suo straripare
divora ogni ostacolo, (...) creature con due braccia e due gambe e un
pensiero proprio prima che la piovra li inghiottisse, contadini e
pescatori con l'abito della domenica, operai con la tuta, donne coi
bambini, studenti. Il popolo insomma". È
la folla che piange Alekos Panagulis, l'eroe che muore per la
libertà. (Un uomo - O. Fallaci). Quante motivazioni
e stimoli e imprevisti addensano una folla: la folla tifosa allo
stadio, contrapposta e asserragliata sulle gradinate, la folla
addormentata, compressa sul metrò delle otto, la folla logorata
dall'ingorgo stradale, la folla che protesta nelle manifestazioni, la
folla di piazza S. Pietro, la folla che acclama il dittatore, la
folla cieca, irrazionale, violenta di Bruxelles. E la folla al
concerto rock: la moltitudine eccitata, raccolta, compatta, esaltata
dal divo. C'è odore di fumo,
di carne fritta, di torrone: il sole rimbalza sui berretti, sugli
occhiali, sui rifiuti a quintali, testimonianze del consumo, tracce
del passaggio: la gente si affretta verso S. Siro. Piccolo, nel
grande piazzale, finché non si arriva sotto la sua possente mole,
poi si scorge, divorato fino a sazietà, il serpente umano che lo
avvolge. E da ogni parte l'enorme catino calamita, risucchia,
introietta piccoli esseri umani con le loro canottiere e gli occhiali
scuri e i pensieri e le parole e le risate; tante gocce dello stesso
fluido percorrono tubature strozzate: transenne, bagarini, polizia,
ambulanti, controlli; e dentro inizia l'attesa, magica, febbrile. Ore
19.30 Springsteen puntuale respira la stessa aria dei suoi 65.000
spettatori: ed è il successo, lo sballo, il brivido, il mito. Le stesse immagini
- raccolte all'esterno mentre inutilmente tentavo di vendere "A
rivista anarchica" - sfumate o accentuate negli odori e nei
colori in altri tempi e in altri luoghi conservano l'essenza, la
stessa a S. Siro e allo Yankee Stadium, al Colosseo e alla Plaza de
Toros, al carnevale di Rio e alle parate imperiali. Le radici del
rito si perdono nella notte dei tempi: il dominio ne condiziona il
gusto, la moda, i desideri. È
indifferente - da questo punto di vista - che la folla si inebri
dell'odore dolciastro del sangue dei tori, delle fiere, dei
gladiatori, dei colori e dei suoni del carnevale, del tifo alla
partita e all'incontro tra i lottatori, del mito di un divo e del
carisma di un potente. È
importante che periodicamente esista lo sfogo alle repressioni, ai
malcontenti, alle insoddisfazioni, alle sopraffazioni. E in questa
occasione si aggiunge una contraddizione netta, allucinante che
sottolinea la relativa importanza dello spettacolo nei confronti del
rito. Sul consumismo, sulle bandiere americane sventolate, sui
rifiuti, sulla folla piovono le parole semplici, invitanti,
propositive di Springsteen. E poi ognuno tornerà alla sua esistenza,
al deserto sconfinato delle abitudini e dell'immotilità. Lo stadio
svuotato è pronto per accogliere la prossima folla e altri uomini
assorbiranno per un istante l'illusorietà che permetterà loro di
tirare avanti.
Massimo Panizza
A San Siro c'ero
anch'io (che concerto!)
Quando la redazione
mi ha chiesto di "scrivere qualcosa" su Bruce Springsteen,
in occasione del suo celebratissimo concerto milanese, la mia
reazione istintiva è stato un sì agitato, misto di stupore e
perplessità. Parlare del "boss" è scherzare col fuoco,
specialmente su queste pagine. Credo sia
importante premettere che la mia è una posizione assai ambigua: non
impazzisco per i dischi di Springsteen anche se li posseggo quasi
tutti e da tempo. Poi, l'ho visto in concerto due volte con la
E-Street Band (quattro anni fa in Francia e il 21 giugno scorso a San
Siro) e in entrambi i casi mi sono divertito parecchio, sono rimasto
soddisfatto e in qualche modo "arricchito". La mia
posizione è quindi estremamente discutibile, specie secondo quanti
sostengono le tesi più estremiste dell'anarchismo musicale, che non
ammettono alcun innamoramento con personaggi famosi o addirittura
sospetti di commercialità. Secondo me, si
dovrebbe affrontare l'argomento da due differenti punti di vista: uno
esclusivamente musicale, considerando l'aspetto uso/consumo del mero
intrattenimento artistico, l'altro più critico secondo il profilo
politico ed ideologico. Ci si accorgerà più avanti di come, nel
caso di Bruce Springsteen, le due visioni tendano a sovrapporsi. Il
suo è uno dei pochi nomi del rock mondiale sui quali c'è poco da
discutere; o lo si ama incondizionatamente (e per questo rapporto
d'amore gli si perdonano le rare scivolate estetiche e filosofiche) o
lo si cancella del tutto dalla propria vita e dal proprio universo
musicale. Di Bruce si parla
da almeno una decina d'anni, dal tempo in cui la sua esplosione
commerciale negli Stati Uniti con l'album "Born to run"
riecheggiò anche in Italia, e con risultati superiori a qualsiasi
ragionevole aspettativa (nessuno lo conosceva prima d'allora né lo
aveva mai visto dal vivo). Springsteen si è fatto largo fra le
centinaia di rockers americani senza proporre nulla di
particolarmente nuovo ed originale: una musica ligia ai dettami del
rock'n'roll e per questo ricchissima di umanità, feeling e carisma.
Una musica sincera, semplice ed istintiva, da consumare in gruppo,
sotto la quale riconoscersi come massa, uno spirito della folla unico
e composito, al di là delle differenze di sesso, colore della pelle,
età, lingua, provenienza geografica e politica. Trentasei anni,
nato ad Asbury Park nello stato di New Jersey, Bruce ha al suo attivo
soltanto una manciata di dischi ufficiali in oltre dieci anni
d'attività, ma la sua fama è trasformata in mito dalle centinaia di
migliaia di fans sui quali può contare. Sulla sua musica sono state
scritte tonnellate di parole, per spiegare i testi delle sue canzoni
si sono scomodati perfino dei professori universitari, letterati,
grandi firme del giornalismo e della psicosociologia contemporanea.
In due parole (tento di dire la mia anch'io, sebbene non sia neanche
laureato), per i comuni abitanti della periferia dell'impero, tra i
quali mi ci metto pure io di diritto, Springsteen incarna
lo spirito della dimensione onirica dell'America. L'America senza il
k, quell'America positiva che nella nostra realtà di tutti i giorni
non esiste e che pure conosciamo dopo averla sognata attraverso i
fumetti, il cinema, la televisione, modellandola secondo i nostri
desideri e l'eccitazione di un'adolescenza a cavallo tra le città
cresciute in fretta e la campagna più bigotta. America come nuovo
nome di Utopia, forse, perché in essa si proietta il riflesso
europeo e provinciale della rivoluzione nonviolenta e del pacifismo
di massa che vent'anni fa ci hanno conquistato. Nel rock di
Springsteen non si trova traccia di violenza né alcun riflesso
imperialista, ma frequenti messaggi che incitano alla ricerca di una
libertà personale, all'affetto, al rispetto di se stessi e degli
altri. Leggendo quei testi si viene a scoprire che la provincia
americana ed i nostri quartieri poveri non sono poi così distanti:
simili sono i problemi, le frustrazioni, il battito del cuore
accelerato o soffocato dalle dimensioni di uno stato sempre presente
ed incombente sotto forma di highway patrolman o di carabiniere. In
senso politico l'America di Bruce Springsteen non è certo la stessa
di Mr. President Reagan, anzi si potrebbe dire che ne rappresenta la
faccia opposta pur mantenendone, caso strano, inalterate alcune
caratteristiche e tematiche sociali. La riproposizione ossessionante
del rapporto di coppia, sia in senso occasionale che tradizionale, e
conseguentemente l'idea di matrimonio e di famiglia, l'amicizia e la
lealtà come rapporto tra individui dello stesso sesso (nella
fattispecie, quello maschile) come base fondamentale ed
irrinunciabile delle relazioni umane in una nuova società ideale e
sognata, l'amore quasi "animale" per la terra ed il lavoro:
sono questi solo alcuni dei temi che più spesso ricorrono
nell'universo musicale del "boss". Springsteen canta
le vicende "normali" della gente comune trasformandole in
episodi da telefilm, ma raramente scade nella soap opera. Il suo
pregio artistico è il calore che riesce a dare a quei piccoli
momenti così intrisi di poesia soltanto per chi li vive in prima
persona. Momenti che bene o male tutti conosciamo, a meno che non si
decida di vivere 24 ore su 24 sotto il fuoco della prima linea come
un ipotetico Mad Max dell'antagonismo. Chi ha avuto l'occasione di
assistere a un suo spettacolo, o almeno di conoscerlo al di là
dell'immagine che ne danno di lui i mass-media, sa bene con quale
facilità Springsteen riesca a scavalcare le intermediazioni
dell'informazione codificata ed a dare se stesso in pasto a quella
bestia incontrollabile che è il rock maiuscolo nella sua essenza più
pura e ribelle. A questo punto mi
trovo ad un bivio. Da una parte, "sento" di diffidare di
questo eroe con la chitarra a tracolla ed i blue jeans sporchi,
perché ogni giorno di più me lo sento imposto in qualche modo.
Preferirei che di lui non si occupassero la radio e la televisione,
con quegli insostenibili programmi e servizi giornalistici farciti di
banalità e di false informazioni. Dall'altra, però, non riesco a
dimenticare quei concerti trasformati quasi in celebrazioni, il
brivido che ho più volte provato nel riconoscere le canzoni sin
dalle prime note. Umanamente non sono in grado di sottovalutare
quelle centinaia di migliaia di persone che a Milano, come a Dublino,
Londra, New York, etc. si trovano assieme per "stare bene",
semplicemente. Certo, Bruce
Springsteen è un prodotto del sistema capitalistico, si riesce a
vivere benissimo anche senza di lui e delle sue canzoni, potrà
suscitare ribrezzo qualche sua dichiarazione così somigliante alle
prediche cattoliche (tutte cose che ho sentito dalla bocca di
irriducibili integralisti punk), ma a me questo Bruce non dispiace, e
ho deciso che me lo tengo stretto. Un po' come l'orsacchiotto
spelacchiato, e per questo più caro, di quando ero piccolo.
Marco Pandin
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