Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 130
estate 1985


Rivista Anarchica Online

Bruce ragazzo Bruce
di M. Panizza / M. Pandin

È stato l'avvenimento musical/spettacolare di questa estate italiana. I circa settantamila che venerdì 21 giugno hanno gremito lo stadio di San Siro, a Milano, per assistere all'unica performance italiana del tour europeo di Bruce Springsteen, hanno avuto netta la sensazione di "vivere dal di dentro" un Qualcosa. Me che cos'era questo Qualcosa? E se per caso non fosse proprio Niente? E poi questo Springsteen, questo nuovo idolo made-in-USA che sta facendo il pienone negli stadi di mezzo mondo, è poi davvero - come sostengono in molti - il rappresentante di nuovi valori emergenti? Oppure non è che un nuovo spacciatore, nemmeno tanto originale, del solito "sogno americano"? Insomma, un ambasciatore (con chitarra) di Reagan? Al di là del personaggio Springsteen, c'è la questione del ruolo della musica (e del rock, in particolare) oggi. Rabbia, conformismo, business, psicologia di massa, voglia di libertà, gregarismo, bisogno di identificazione, ecc...: sono tanti i motivi a confluire nel rock e nel suo successo internazionale. Anche nel corso dell'assemblea di "A", tenutasi a Bologna due giorni dopo lo "storico" concerto milanese, Springsteen si è rivelato un argomento (non previsto) di discussione. E che discussione. Riprendiamo il discorso in queste due paginette, con due interventi tra loro molto diversi. E lo lasciamo aperto ad eventuali successivi interventi sul tema della musica e delle sue possibili valenze libertarie.

Negli stadi, comunque vince il dominio

"Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l'implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, (...) creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio prima che la piovra li inghiottisse, contadini e pescatori con l'abito della domenica, operai con la tuta, donne coi bambini, studenti. Il popolo insomma". È la folla che piange Alekos Panagulis, l'eroe che muore per la libertà. (Un uomo - O. Fallaci).
Quante motivazioni e stimoli e imprevisti addensano una folla: la folla tifosa allo stadio, contrapposta e asserragliata sulle gradinate, la folla addormentata, compressa sul metrò delle otto, la folla logorata dall'ingorgo stradale, la folla che protesta nelle manifestazioni, la folla di piazza S. Pietro, la folla che acclama il dittatore, la folla cieca, irrazionale, violenta di Bruxelles. E la folla al concerto rock: la moltitudine eccitata, raccolta, compatta, esaltata dal divo.
C'è odore di fumo, di carne fritta, di torrone: il sole rimbalza sui berretti, sugli occhiali, sui rifiuti a quintali, testimonianze del consumo, tracce del passaggio: la gente si affretta verso S. Siro. Piccolo, nel grande piazzale, finché non si arriva sotto la sua possente mole, poi si scorge, divorato fino a sazietà, il serpente umano che lo avvolge. E da ogni parte l'enorme catino calamita, risucchia, introietta piccoli esseri umani con le loro canottiere e gli occhiali scuri e i pensieri e le parole e le risate; tante gocce dello stesso fluido percorrono tubature strozzate: transenne, bagarini, polizia, ambulanti, controlli; e dentro inizia l'attesa, magica, febbrile. Ore 19.30 Springsteen puntuale respira la stessa aria dei suoi 65.000 spettatori: ed è il successo, lo sballo, il brivido, il mito.
Le stesse immagini - raccolte all'esterno mentre inutilmente tentavo di vendere "A rivista anarchica" - sfumate o accentuate negli odori e nei colori in altri tempi e in altri luoghi conservano l'essenza, la stessa a S. Siro e allo Yankee Stadium, al Colosseo e alla Plaza de Toros, al carnevale di Rio e alle parate imperiali. Le radici del rito si perdono nella notte dei tempi: il dominio ne condiziona il gusto, la moda, i desideri. È indifferente - da questo punto di vista - che la folla si inebri dell'odore dolciastro del sangue dei tori, delle fiere, dei gladiatori, dei colori e dei suoni del carnevale, del tifo alla partita e all'incontro tra i lottatori, del mito di un divo e del carisma di un potente. È importante che periodicamente esista lo sfogo alle repressioni, ai malcontenti, alle insoddisfazioni, alle sopraffazioni.
E in questa occasione si aggiunge una contraddizione netta, allucinante che sottolinea la relativa importanza dello spettacolo nei confronti del rito. Sul consumismo, sulle bandiere americane sventolate, sui rifiuti, sulla folla piovono le parole semplici, invitanti, propositive di Springsteen. E poi ognuno tornerà alla sua esistenza, al deserto sconfinato delle abitudini e dell'immotilità. Lo stadio svuotato è pronto per accogliere la prossima folla e altri uomini assorbiranno per un istante l'illusorietà che permetterà loro di tirare avanti.

Massimo Panizza

A San Siro c'ero anch'io (che concerto!)

Quando la redazione mi ha chiesto di "scrivere qualcosa" su Bruce Springsteen, in occasione del suo celebratissimo concerto milanese, la mia reazione istintiva è stato un sì agitato, misto di stupore e perplessità. Parlare del "boss" è scherzare col fuoco, specialmente su queste pagine.
Credo sia importante premettere che la mia è una posizione assai ambigua: non impazzisco per i dischi di Springsteen anche se li posseggo quasi tutti e da tempo. Poi, l'ho visto in concerto due volte con la E-Street Band (quattro anni fa in Francia e il 21 giugno scorso a San Siro) e in entrambi i casi mi sono divertito parecchio, sono rimasto soddisfatto e in qualche modo "arricchito". La mia posizione è quindi estremamente discutibile, specie secondo quanti sostengono le tesi più estremiste dell'anarchismo musicale, che non ammettono alcun innamoramento con personaggi famosi o addirittura sospetti di commercialità.
Secondo me, si dovrebbe affrontare l'argomento da due differenti punti di vista: uno esclusivamente musicale, considerando l'aspetto uso/consumo del mero intrattenimento artistico, l'altro più critico secondo il profilo politico ed ideologico. Ci si accorgerà più avanti di come, nel caso di Bruce Springsteen, le due visioni tendano a sovrapporsi. Il suo è uno dei pochi nomi del rock mondiale sui quali c'è poco da discutere; o lo si ama incondizionatamente (e per questo rapporto d'amore gli si perdonano le rare scivolate estetiche e filosofiche) o lo si cancella del tutto dalla propria vita e dal proprio universo musicale.
Di Bruce si parla da almeno una decina d'anni, dal tempo in cui la sua esplosione commerciale negli Stati Uniti con l'album "Born to run" riecheggiò anche in Italia, e con risultati superiori a qualsiasi ragionevole aspettativa (nessuno lo conosceva prima d'allora né lo aveva mai visto dal vivo). Springsteen si è fatto largo fra le centinaia di rockers americani senza proporre nulla di particolarmente nuovo ed originale: una musica ligia ai dettami del rock'n'roll e per questo ricchissima di umanità, feeling e carisma. Una musica sincera, semplice ed istintiva, da consumare in gruppo, sotto la quale riconoscersi come massa, uno spirito della folla unico e composito, al di là delle differenze di sesso, colore della pelle, età, lingua, provenienza geografica e politica.
Trentasei anni, nato ad Asbury Park nello stato di New Jersey, Bruce ha al suo attivo soltanto una manciata di dischi ufficiali in oltre dieci anni d'attività, ma la sua fama è trasformata in mito dalle centinaia di migliaia di fans sui quali può contare. Sulla sua musica sono state scritte tonnellate di parole, per spiegare i testi delle sue canzoni si sono scomodati perfino dei professori universitari, letterati, grandi firme del giornalismo e della psicosociologia contemporanea. In due parole (tento di dire la mia anch'io, sebbene non sia neanche laureato), per i comuni abitanti della periferia dell'impero, tra i quali mi ci metto pure io di diritto, Springsteen incarna lo spirito della dimensione onirica dell'America. L'America senza il k, quell'America positiva che nella nostra realtà di tutti i giorni non esiste e che pure conosciamo dopo averla sognata attraverso i fumetti, il cinema, la televisione, modellandola secondo i nostri desideri e l'eccitazione di un'adolescenza a cavallo tra le città cresciute in fretta e la campagna più bigotta. America come nuovo nome di Utopia, forse, perché in essa si proietta il riflesso europeo e provinciale della rivoluzione nonviolenta e del pacifismo di massa che vent'anni fa ci hanno conquistato.
Nel rock di Springsteen non si trova traccia di violenza né alcun riflesso imperialista, ma frequenti messaggi che incitano alla ricerca di una libertà personale, all'affetto, al rispetto di se stessi e degli altri. Leggendo quei testi si viene a scoprire che la provincia americana ed i nostri quartieri poveri non sono poi così distanti: simili sono i problemi, le frustrazioni, il battito del cuore accelerato o soffocato dalle dimensioni di uno stato sempre presente ed incombente sotto forma di highway patrolman o di carabiniere. In senso politico l'America di Bruce Springsteen non è certo la stessa di Mr. President Reagan, anzi si potrebbe dire che ne rappresenta la faccia opposta pur mantenendone, caso strano, inalterate alcune caratteristiche e tematiche sociali. La riproposizione ossessionante del rapporto di coppia, sia in senso occasionale che tradizionale, e conseguentemente l'idea di matrimonio e di famiglia, l'amicizia e la lealtà come rapporto tra individui dello stesso sesso (nella fattispecie, quello maschile) come base fondamentale ed irrinunciabile delle relazioni umane in una nuova società ideale e sognata, l'amore quasi "animale" per la terra ed il lavoro: sono questi solo alcuni dei temi che più spesso ricorrono nell'universo musicale del "boss".
Springsteen canta le vicende "normali" della gente comune trasformandole in episodi da telefilm, ma raramente scade nella soap opera. Il suo pregio artistico è il calore che riesce a dare a quei piccoli momenti così intrisi di poesia soltanto per chi li vive in prima persona. Momenti che bene o male tutti conosciamo, a meno che non si decida di vivere 24 ore su 24 sotto il fuoco della prima linea come un ipotetico Mad Max dell'antagonismo. Chi ha avuto l'occasione di assistere a un suo spettacolo, o almeno di conoscerlo al di là dell'immagine che ne danno di lui i mass-media, sa bene con quale facilità Springsteen riesca a scavalcare le intermediazioni dell'informazione codificata ed a dare se stesso in pasto a quella bestia incontrollabile che è il rock maiuscolo nella sua essenza più pura e ribelle.
A questo punto mi trovo ad un bivio. Da una parte, "sento" di diffidare di questo eroe con la chitarra a tracolla ed i blue jeans sporchi, perché ogni giorno di più me lo sento imposto in qualche modo. Preferirei che di lui non si occupassero la radio e la televisione, con quegli insostenibili programmi e servizi giornalistici farciti di banalità e di false informazioni. Dall'altra, però, non riesco a dimenticare quei concerti trasformati quasi in celebrazioni, il brivido che ho più volte provato nel riconoscere le canzoni sin dalle prime note. Umanamente non sono in grado di sottovalutare quelle centinaia di migliaia di persone che a Milano, come a Dublino, Londra, New York, etc. si trovano assieme per "stare bene", semplicemente.
Certo, Bruce Springsteen è un prodotto del sistema capitalistico, si riesce a vivere benissimo anche senza di lui e delle sue canzoni, potrà suscitare ribrezzo qualche sua dichiarazione così somigliante alle prediche cattoliche (tutte cose che ho sentito dalla bocca di irriducibili integralisti punk), ma a me questo Bruce non dispiace, e ho deciso che me lo tengo stretto. Un po' come l'orsacchiotto spelacchiato, e per questo più caro, di quando ero piccolo.

Marco Pandin