Rivista Anarchica Online
Cari Tecchio e
Ottoni, nemmeno io sono d'accordo con voi
Il titolo del
servizio: "Partiti civili arrivati totali", pubblicato sul numero
scorso della rivista, contiene un equivoco: gli intervistati non sono
obiettori totali, anche se sono stati condannati a 12 mesi. Può
sembrare una sottolineatura insignificante, ma invece è
determinante per capire quanto dice Giancarlo a proposito della sua
esperienza carceraria e dell'obiezione di coscienza in generale. Giancarlo crede
nella validità dell'obiezione totale solo a livello concettuale e
quindi subisce passivamente la condizione attuale: magari vive in
modo attivo quella di detenuto aspirante al servizio civile, con
residue speranze che gli venga ancora accettata la relativa domanda,
ma non è obiettore totale e dalla sua posizione non può cogliere
gli aspetti positivi di questa forma di lotta. Non li può
cogliere perché è enorme la differenza fra chi, come me, ha
rifiutato il
servizio militare e civile con la convinzione della validità etica e
politica di un gesto e chi, come lui, si trova improvvisamente a
scoprire la faccia repressiva dello Stato, che fra i suoi codici ha
anche una legge che consente di fare il servizio civile. Così
l'esperienza che io ho affrontato e che lui subisce diventa "una
stupida esperienza", mattonate sui coglioni, un anno inutile, nel
migliore dei casi un gesto da eroi (e si sa che costoro hanno sempre
avuto, giustamente, fama di imbecilli fra gli anarchici). Non è diverso
solo l'approccio alla lotta ma più in generale alla vita. Per
Giancarlo c'era la fiducia/speranza che il militare fosse un problema
che si sarebbe risolto da sé in qualche modo ed è diventato una
realtà bruciante solo al momento della galera. Per me fu una realtà
a 17 anni quando mi scoprii anarchico e decisi di trasferire questo
modo di essere ideale alla vita concreta. Processo iniziato con una
serie di azioni di rottura che ritenevo inevitabili: rifiuto della
scuola, del militare come servizio di leva, della famiglia, del
lavoro salariato, in una parola rifiuto dello Stato. Non è una scelta
facile, e ancora meno la scelta del male minore. È
il voler vivere l'anarchia oggi in ogni azione, è il voler
vivere liberi con la personale convinzione che la rivoluzione è
innanzitutto questo. Già, c'è però un
piccolo problema: sulla strada di ogni rivoluzionario, di ogni uomo
che si vuole libero c'è sempre stata la galera. Sembra fatta
apposta!! È
qui che si deve fare la scelta prima ancora che davanti a singole
situazioni di lotta. Definirsi, proporsi, muoversi come anarchici
significa, io credo, accettare il rischio, l'eventualità del
carcere, della repressione più o meno feroce a seconda dei periodi
storici. Relativamente
al servizio militare, bisogna decidere
individualmente che atteggiamento tenere: o si accetta la teoria del
male minore, lasciandosi passare addosso questa imposizione statale e
allora la coscienza, l'orgoglio, l'indole personale ci consentono
vari livelli di possibilità: fare "i numeri" alla visita ed in
caserma, che vuol dire farsi passare per pazzi, drogati, omosessuali
o che altro ancora; fare la domanda per il servizio civile sperando
che gli "addetti" siano così buoni da accettarla; andare soldato
cercando in qualche modo di imboscarsi, ammalarsi, ecc..., ovviamente
facendo la "lotta in caserma" (che meriterebbe tutto un discorso
a parte). Oppure c'è un'altra strada: fare di questo appuntamento
un'occasione di lotta anarchica (dal momento che ci definiamo
anarchici), non nascondendoci ma affrontando un'istituzione, che
sembra incrollabile, su un terreno a noi favorevole. Io
cerco ogni giorno di strappare nuovi spazi di libertà ed un "sì",
sotto qualunque forma fosse, al richiamo della
cartolina era per me una sconfitta. Il
rifiuto deciso, completo, senza compromessi all'imposizione statale
del servizio militare è l'azione coerente con quella nuova
dimensione etica di cui, come anarchici, siamo portatori. Coerenza.
Ma non la coerenza fine a se stessa, dogmatica, accecante, che ci
porta a picchiare la testa contro il muro per assurda fedeltà ad un
progetto ideale, concettuale. Un progetto teorico deve confrontarsi
costantemente con la situazione storica, pratica ed attuale. Trovo
che non abbia molto senso dire
"l'obiezione totale mi trova totalmente d'accordo a livello
concettuale". A mio avviso una teoria non è valida di per sé ma
nella misura in cui è proponibile come azione. Ho parlato all'inizio
di validità etica e politica dell'obiezione totale (a proposito, ci
vorrebbe un compagno con un po' di fantasia che trovi un termine
adeguato per sostituire questa brutta definizione). La
validità politica, che del resto prescinde anche dall'essere
anarchici e può interessare anche ogni convinto antimilitarista
non parolaio che vuole, come primo passo verso l'abolizione
dell'esercito, l'abolizione del servizio di leva in nome della
libertà individuale a decidere autonomamente di se stessi, è
riassumibile in questi termini: 1) è una lotta non
recuperabile in quanto implica una forte coscienza individuale (al
contrario del servizio civile dove per gran parte delle domande è
solo un atto formale e burocratico), non limitata al periodo di leva,
ma che esce dagli schemi del sistema. Quindi un momento che cresca su
questo terreno non può andare ad impantanarsi su leggi contenitore,
perché, ottenuto un qualsiasi risultato, ha in sé la possibilità e
le energie per inventare nuove situazioni di lotta. Possibilità
negata a pacifismi vaghi che una volta caduti su un appuntamento di
lotta (vedi installazione dei missili Nato) non hanno avuto la forza
(né potevano averla dato che le premesse la precludevano) di
riprendersi. Non è certo stata la brutalità repressiva dello stato
ad affossare il Movimento per la Pace, ma la sua stessa impostazione
istituzionale e legalitaria conteneva i germi dell'assopimento una
volta smaltito per alcuni l'entusiasmo, per altri la Paura. 2) Denuncia la vera
natura dell'esercito che non resta corpo separato, ma momento
spettacolarmente culminante di una società militarizzata dai pori
della pelle fino alle più interne budella. Un antimilitarismo che
non vuole arenarsi su contraddizioni ingenue o posizioni demagogiche
deve cogliere questo aspetto ed agire di conseguenza. 3) La repressione
militare toglie la maschera allo stato che si veste di democrazia e
pluralismo ma che deve ricorrere alle sbarre delle galere. E
l'obiettore totale è certamente un prigioniero scomodo, che non si
può gestire facilmente di fronte all'opinione pubblica, poiché
viene duramente punito solo per le sue idee, la sua voce di libertà.
Significativo è il tombale silenzio che i mass-media stendono sulla
questione, non credo casualmente. Se è vero che come
anarchici abbiamo sempre riconosciuto il legame viscerale fra
l'esercito e lo stato, se è vero che siamo ribelli e rivoluzionari
perché ci vogliamo liberi ed auspichiamo una società senza stato,
allora dobbiamo smetterla di chiamare "eroi" gli insubordinati e
di dire che costoro scelgono la galera. Il carcere non piace a
nessuno e tantomeno lo si sceglie: è solo la conseguenza di una
lotta. Più un gesto, un'azione, una voce è pericolosa, dirompente
perché colpisce gli organi vitali più le possibilità di finir
dentro aumentano. Io non pretendo che ogni compagno alla sua ora
faccia l'obiezione totale perché si possa dire anarchico e nemmeno
diminuisce la mia stima per lui. Però mi sento offeso quando
anarchici parlano di eroismo o di martirio o di scelta della galera. Ognuno segua la
strada che più ritiene opportuna o percorribile per le sue gambe ma
con la consapevolezza dei propri limiti e senza chiamare rosso quel
che è bianco. Sulle pagine di questa rivista è stata più volte
puntualizzata la critica che gli anarchici muovono al servizio civile
e non voglio ripetere ora cose che dovrei scrivere con la carta
carbone per rispondere a Giancarlo a proposito dei fantomatici
"spazi" di intervento col servizio civile (c'è addirittura chi
trova spazi all'interno delle caserme...). E la risposta al fatto che
il servizio civile non farebbe parte dell'organizzazione militare
viene dalla condizione stessa di Giancarlo, ristretto in carcere
militare, per l'appunto. Secondo Ottoni "il
servizio civile è uno spazio istituzionale non concesso ma
conquistato dalla lotta e dal dolore degli obiettori che ci hanno
preceduto, sta a noi utilizzarlo e stravolgerlo per i nostri fini e
contro di loro". Io dico che non è stata una conquista, ma una
sconfitta: un'invenzione del potere per recuperare,
istituzionalizzandola, una lotta che si faceva insidiosa. Ed è stato
il servizio civile ad utilizzare e stravolgere gli obiettori: il giro
di vite imposto recentemente dal Ministero della Difesa è stato
possibile perché il realismo della controparte ha portato a
concentrarsi su obiettivi non scelti ma imposti. L'organizzazione
statale moderna non è nata ieri e nemmeno si sta incertamente
assestando. Viene da lontano, è solida, ramificata, cementa sempre
più il suo dominio sull'uomo. Ed è terribile perché ha impregnato
di sé tutta la società. È
assurdo pensare di trovare fra le istituzioni spazi di libertà, ci
sono solo spazi che risucchiano ed annientano. Giancarlo (e gli
altri nella stessa condizione) stanno sicuramente passando un brutto
momento a causa della durezza del carcere militare, ma anche del
fatto che non erano preparati psicologicamente al tutto. Si pensava
ad una breve sosta, com'era ormai routine, ed ora la prospettiva di
fare 12 mesi dentro trova completamente disarmati, senza la carica
che sorregge l'obiettore totale. Hanno bisogno di
solidarietà. Bisogna rompere l'isolamento delle sbarre scrivendo ed
inviando soldi (servono anche là...). Ma la solidarietà migliore è
il rilancio dell'azione antimilitarista, l'impegno in prima persona,
il dialogo, il dibattito, il confronto fra noi. Non credo alle grandi
unioni/ammucchiate fra "tutte le componenti". Sono aperto al
dibattito senza settarismi e presunzioni ma mi sembra che l'unico
incontro possa essere sul terreno dell'azione diretta, della
conquista della libertà, al di fuori delle istituzioni. Ma le
istituzioni del movimento pacifista non hanno mai affrontato il nodo
fondamentale della natura statale dell'esercito e dei meccanismi di
potere. Censurano gli obiettori totali sui loro organi di
informazione e quando sono trascinati sull'argomento si sciacquano la
bocca con la fatidica parola "solidarietà, solidarietà... Amen".
Non si occupano del problema carcere se non ora che ci sono quelli
con le domande respinte ed osano stupirsene. Il carcere non esiste
solo quando siamo dentro noi: esiste prima ed esiste dopo. Ed è
giunta l'ora per molti (anche fra anarchici) di aprire gli occhi:
l'obiezione totale non è una testimonianza per i posteri o un
ammirevole eroismo. È
un'indicazione precisa di lotta, uno sputo in faccia ai militari ed
un invito ai rivoluzionari perché il rifiuto coordinato, di massa
oserei dire, mette logicamente in crisi le strutture repressive con
possibili risultati che lascio immaginare e costruire. Forse due o tre
anarchici all'anno in galera non intaccano l'apparato
militar/statale, anche se servono a tener sveglie le coscienze ancora
non affossate. Ma se l'obiezione totale rimane un fatto individuale
non è perché tale la vogliono i suoi attuatori, bensì perché non
viene raccolta e sostenuta. Un'azione di massa deve essere una somma
di azioni individuali e perché diventi tale bisogna lasciare ai
chierichetti le frasi di cortesia e la solidarietà "ideale".
Certo dobbiamo uscire da slogan che troppo spesso rimangono fumosi
discorsi. Servono fatti: propagandare ed appoggiare gli obiettori
dentro e fuori il carcere, invitare alla diserzione, manifestare
davanti alle carceri militari, bloccare ed impedire fisicamente
azioni militari, e via di questo passo. Queste sono indicazioni
precise, possibilità di intervento ma bisogna pagare un certo
prezzo... Siamo disposti?
Mauro Zanoni (Carrara)
|