Rivista Anarchica Online
Tra carabinieri, scarafaggi e guardiane
di AA. VV.
Alcune detenute hanno fatto uscire dal carcere un lungo documento sulla loro condizione carceraria
e, in particolare, sui temi della salute, del benessere, della malattia, delle somatizzazioni,
dell'assistenza medica nelle carceri femminili. Non il «solito» documento-proclama, intriso di frasi
fatte, slogan (più o meno combattentistici), astruse teorizzazioni, come tanti altri usciti in questi
anni dalle carceri: questa volta ci troviamo di fronte ad un insieme di testimonianze dirette, vissute
drammaticamente sulla propria pelle e raccontate con semplicità, facendo parlare i fatti. Da questo
lungo documento, firmato collettivamente da Liviana Tosi, Florinda Petrella, Rosetta D'Ursi, Pina
Sciarillo, Susanna Ronconi, Sonia Benedetti e Claudia Zan, stralciamo il paragrafo centrale,
originariamente intitolato «Maggio mese dolce e finalmente tiepido».
Sono in gravidanza da tre mesi quando mi arrestano. Riesplose l'inverno e fu la senconda volta che
la mia gravidanza minacciò di finire, il figlio che vedevo sciogliersi e uscire da me. Dalla questura partiamo velocemente, il mio utero continuava a sanguinare, sentivo l'umido del sangue tra le gambe con un terrore paralizzante e cercavo, o meglio, avrei voluto rilassarmi, fra gli
uomini che mi stavano strettamente seduti accanto con i giubbotti antiproiettile, i mitra contro il
petto ... scendemmo nel cortile dell'ospedale S. Anna, le manette ai polsi, due uomini stretti ai
fianchi, altri ad ala avanti e dietro, e il loro passo veloce, velocissimo, che si imponeva al mio
dolorante ... idealmente cercavo di non muovere il mio utero. Dentro la stanza dei medici, due, tre,
non ricordo. Cerco gli occhi dell'unica donna presente, credo fosse un'infermiera. Le chiedo di
aiutarmi e lei mi abbassa i jeans, mi dice di sfilare solo una gamba che basterà. Mi aiuta a sdraiarmi
sul lettino. La scena a questo punto si presenta così: io con le mani intrappolate nelle manette, le gambe
sollevate, i jeans che pendono da una gamba e non sento rabbia, non sento dolore, vergogna; non
sento assolutamente niente. Due carabinieri parlano forte dietro un instabile paravento, la donna
vicino a me mi guarda in faccia, ha occhi così duri, ha occhi così curiosi che non rimane traccia del
mio iniziale, irrefrenabile impulso a prenderle la mano. Nessuno mi parla, anche lei smette di guardarmi. Resto lì, e quando come un lampo sento le dita, la
plastica dei guanti nella vagina è lo stesso istante in cui il medico è davanti a me. Il mio utero continua a sanguinare. Il medico va via, io gli chiedo qualche cosa, ma questo se ne va
parlando con altri alle mie spalle. Di nuovo due dita di plastica, mezzo minuto, ma la faccia di un
altro. A questo punto urlo; urlo che cosa sta succedendo, lasciatemi perdere, urlo neppure tanto
forte, forse è solo un lamento! Sono debole e stupida e sporca di sangue ... sono una assassina, ho ucciso i bambini, ho squartato
questo figlio con l'arroganza. «Stia calma». La donna vicino a me mi applica dei dischetti sulla
pancia e ci sono dei fili che arrivano a una scatoletta. Di colpo, fortissimi, sento dei battiti di cuore,
il cuore del baby, del pupo come dice suo padre. Comincio a piangere perché proprio scoppia, e il medico mi chiede (la sua voce sopra quel pulsare)
- lo vuole tenere? - Sì sì sì... l'unica cosa che voglio è il ritmo di quel cuore. Mi attaccano una flebo
nel braccio, mi dicono: vediamo se riusciamo a farglielo tenere ... vediamo; ma sono ad occhi
chiusi e ricordo chi sono, ricordo il corridoio che è fuori, ricordo questa prima stanzetta, ricordo
quando eravamo in tanti lì e c'era l'ultimo piano occupato. Chiedevamo che le donne in lista d'attesa
potessero abortire, vagamente un'assistenza umana; chiedevamo quasi una magia sconosciuta che
scaccia un conosciuto orrore, il day-hospital, la presenza di altre donne durante l'intervento ... e poi
mi staccano la flebo, la donna mi aiuta a infilare l'altra gamba nei jeans su cui il sangue si è
raggrumato. Lo sento duro camminando ... guadagno finalmente una cella d'isolamento in cercere ... I giorni d'isolamento in attesa dell'interrogatorio sono pieni solo di me, sto ad ascoltare il mio utero.
Non so che mi trovo in un braccetto appena costruito e mai usato che dovrà poi diventare la sezione
«minorile» zeppa di sinte (zingare) eternamente dodicenni con le macchie polmonari, con le gonne
colorate, con gli occhi furbi, la voce di pianto, più casinare dei passeri. Le donne della sezione invece sanno che c'è una «compagna» lì! Lo sanno dai movimenti strani
delle guardiane, dal loro aprire la porta della palazzina che solitamente rimane chiusa. Fanno una
fermata all'aria, chiamano il maresciallo, il direttore, vogliono: «la compagna in sezione», urlano a
slogan i nomi delle arrestate letti sui giornali ... niente paura, vi sappiamo ... ; ma questo me lo
racconteranno poi sopra grandi tazze di caffè, perché io lì non sento nulla fuori da me, dal mio
utero che NON DEVE contrarsi, che non deve sanguinare. Prendo pastiglie sconosciute, bianche,
farinose, amare, come dire schifose. Preziose pastiglie. Non so cosa siano, di cosa siano fatte, cosa
producono dentro di me ... vorrei immaginarle come una mano che con dita delicate pinzasse il
collo dell'utero per non farlo aprire ... gestanon vasosuprina... mi affido ... ma non basta a resistere.
Il cibo del carcere puzza di carcere. La pasta ha un sugo rosso che tinge il piatto di plastica bianco... lavo, lavo ma non se ne viene...vomito e diarrea insieme. Le donne in sezione hanno preparato grandi buste piene di cibi cotti, frutta, biscotti e vogliono
mandarmeli. Chiamano la suora, il diretore, il maresciallo ... io mi mangio la pasta e vomito. Può
un baby di pochi centimetri sentire fame? La suora tutte le sere si fa aprire la cella e mi chiede
come sto. La mattina, tredici mattine dopo, mi dicono che mi portano in sezione. Ricordo baci e baci, e mani sulla pancia, e dolcetti infilati in bocca, su bella, sei bella siediti qui. Il nido è una cella piccola, stretta con le mattonelle azzurre. Quel posto era posto stretto stretto, le
donne scappavano, schizzavano da tutte le parti. Lo stesso giorno mi avvisano che «è arrivata la ginecologa». Tutte lì accalcate davanti al cancello
di vetro e ferro da dove si intravede la porticina dell'infermeria ... La ginecologa viene solo quando
il numero di richieste di visite è «sufficiente». Quale sia il criterio su cui valutare la sufficienza non l'ha capito ancora nessuno. «Vai da questa che è brava» ... L'uomo, l'altro che viene fa male, e poi è un maiale. E pensa che a me ... sì, anche con me, e si parla
tutte insieme, in fretta, in fretta che ognuna vuole raccontare la sua del perché dal «maiale» non ci
vuole più andare e invece si mette in lista, e ci fa mettere in lista pure la sua amica, e l'amica
dell'amica, che così la lista aumenta e la ginecologa viene prima. Vai, vai prima tu ... e entro
pensando ancora ai racconti sul «maiale». Lei sta scrivendo, credo il mio nome. Sempre con gli occhi sul librone che ha davanti mi fa delle
domande, mi interrompe con altre domande, le spiegazioni che le do, che voglio darle, che non sto
nella pelle ... e le devo raccontare che cosa è successo, è importantissimo che lei sappia ... io da sola
non posso, non sono capace di capire questo mio corpo ... sento il bisogno di affidarmi a qualcuno
che parli. L'unica cosa che mi ha detto, l'unica cosa che ho capito prima che si richiudesse la porta alle spalle,
è stata che il gestanon lo devo prendere ancora. Cretina, mi dico che sono una cretina, ferma lì con tutto in gola ... bè, mi ha visitata ... se andava
male, se c'era qualcosa l'avrà sentito, se ne sarebbe accorta ... devo andare a sdraiarmi perché sto
male. Mesi e mesi, cammino all'aria e nel corridoio, spesso qualcuna mi avvicina e mi mette qualcosa in
bocca, un pezzetto di anguria, mezza albicocca ... mangia, mangia, se no viene la voglia. Le sinte
guardano la pancia, la toccano con le mani a cerchio fin dietro la schiena... maschio, maschio sei
fortunata! Dalla ginecologa «brava» non ci vado più, ora faccio l'analisi del sangue una volta al mese, non c'è
nessuno che mi spiega i risultati, ho dovuto litigare per vederli ... spero almeno che li leggano
«loro» ... ma ormai la fiducia la sto acquistando in me. Lui nasce il 3 novembre, primo giorno di neve dell'anno. Mi sveglio che è l'alba con una contrazione lunga quanto il respiro. In cella tutte dormono,
mucchietti sotto le lenzuola ... le sveglio, no aspetto, le sveglio ... come rompere la dolcezza di quel
loro sonno, di quel silenzio, delle onde di oceano che si alzano e si spengono dentro di me ... si
scatena tutto come sapevo: urli disumani per chiamare le guardiane che non sentono due piani più
sotto, tutte fuori dal letto a piedi nudi, mentre io cerco di infilarmi la giacca, gli stivali fra una
contrazione e l'altra ... perché le ho già veloci ... pochi minuti ... Sì, ho preso tutto, no, no sono tranquilla ... anzi no ho una fifa blu, io voglio restare con voi! Scendo le scale fermandomi ogni tre scalini a respirare, come pesa la valigia e a salutare ancora
proprio non ce la faccio ... Tornerei in cella se potessi perché è il posto che conosco, dove ci sono
le altre donne, il loro amore intuisce ciò che occorre ... devo lasciarmi andare alla travolgente,
lacerante, furiosa naturalità del mio corpo e devo affidarmi ancora a ... Carabinieri, ambulanza, alba senza sbarre durante il viaggio tutto si blocca dentro di me, perdo il
ritmo delle contrazioni e riesco a pensare con una lucidità calma: mi scelgo, mi scelgo perché mi
piaccio, mi sento capace di aprirmi con amore a ciò che amo, che non è più tempo di tenere chiuso. L'impatto con l'ospedale è il ripiombare nel dubbio di essere trasparenti, di trovarsi in realtà due
passi più indietro di dove materialmente si è, un eterno secondo prima di girare l'angolo, in cui vedi
e senti gli altri parlare di te, fare cose su di te, in cui tu non c'entri assolutamente nulla, non puoi
prevedere, sapere, decidere se vuoi o no quello che ti succede. I carabinieri sono nervosi e io resisto male in piedi e voglio un letto lontano da tutti questi sguardi,
sento che le contrazioni mi si leggono in faccia ... finisco sul letto ma sul corridoio e coi carabinieri
a mezzo metro, tutto è molto ostile. Il personale dell'ospedale è irritato alla presenza dei carabinieri,
i carabinieri sono irritati dal troppo via vai del personale ... vorrei solo una cuccia, vorrei solo che
sparissero tutti quanti. Rifiuto tutto, mi si scatena un'aggressività che mi stupisce, non vedo perché dovrei dire dove abito
(dove abito poi?), se sono sposata, non vedo perché, ho bisogno di essere lasciata in pace ora, fuori
da ogni paura, so con certezza cosa devo fare. Rifiuto di essere visitata perché se ho le contrazioni, ci sarà anche la dilatazione (ma è così... io
credo ugualmente di sì), perché mi sembra che già tre facce diverse abbiano detto: «vediamo un
po'» ... perché mi viene in mente la nonna nel pollaio contare le uova alle galline, lei almeno borbottava amorosamente. Mi spostano su un altro lettino, in un altro corridoio vuoto, a pochi passi sempre i carabinieri, sul
muro per fortuna c'è un orologio. Passo da tre minuti di intervallo e sono contenta di questo ritmo
rapido; viene un'ostetrica e mi spinge il lettino dietro l'ansa di un muro, - ti porto via - mi dice con
simpatia. Controlla il cuore di «lui», ci sorridiamo ascoltandolo, ha occhi strabici. Mi dice che c'è
lei con me, che forse sarebbe meglio sapere se mi sto dilatando a sufficienza. Sì dico, ma il suo
toccare leggero provoca una valanga nei miei ritmi, perdo il respiro, le onde si accavallano in
dolore ... 8 centimetri e chi se ne frega, non so neppure se sono viva, di sicuro preferirei essere
morta ... sono momenti incredibili, mi sento travolta dalle ondate che non hanno più un inizio e una
fine, che si accavallano spezzando, trattenendo il respiro di un apice che non cala ... poi sento
l'acqua che esce lentamente, tanta, e poi il bisogno forte di spingere, sento la pressione di lui, che
vuole uscire ... trattengo la spinta, penso che sono sola, penso di urlare ai carabinieri di chiamare
qualcuno quando vedo una ragazzina, con un camice verde acqua, passarmi vicino. Allungo un
braccio, ci guardiamo e corre via, in pochi secondi arrivano parlando fra loro. Spingono veloci il lettino in «sala parto» vedo il solito maledetto trespolo per imprigionare le
gambe, no ... lì non le metto, ho fretta di spingere. La donna con gli occhi strabici mi dice che si vede la testa, un'altra mi mette un braccio sullo
stomaco per premere ma riesco a spingerla via. Sto incredibilmente bene, senza contrazioni, senza più brividi e una gran voglia di spingere. Lei
dice: allora premi tu con le ginocchia e premi forte. Mi inarco, inspiro, afferro le ginocchia con le
braccia premendo con tutta la forza che ho, con quella che invento fino a farmi scoppiare le tempie,
esce la testa, sento il taglio, inspiro riprendendo la spinta riafferrando le ginocchia ed esce il
corpicino di «lui». «Lui» tutto intero sguscia rapidamente da me, espiro e mi lascio andare ad occhi chiusi, sento la sua
voce e la gente intorno dice che è maschio. Allungo le braccia, lo prendo con me, ed è lì sulla
pancia, anche se non ce la faccio ad alzare la testa mi perdo in «lui». Intanto mi stanno facendo una quantità di cose: fanno uscire la placenta, versano cose che bruciano
... cuciono un taglio ... fanno loro, dietro l'orizzonte delle mie gambe che qualcuno ha poi
intrappolato. Io sono persa in lui, e il dolore non c'entra niente, non faccio fatica a tenerlo fuori da noi. Quando finiscono, un medico giovane mi dice con un sorriso di compiacimento alla sua abilità
professionale su di me, dice ... tranquilla ... è come nuova. Sono così stanca che può dire quello che
vuole. Cinque giorni di ospedale, al terzo chiedo di parlare con un responsabile... firmo tutto quello che
vogliono; ma me ne voglio andare. Di notte i carabinieri guardano una televisione portatile, dietro
la terza parete di plastica della stanza, di giorno stanno seduti dentro, passo le ore fingendo di
dormire col lenzuolo tirato sul naso, il seno mi scoppia di latte e fa male. «Lui» succhia tre secondi e si addormenta, gli dò col petti sul culo, gli soffio sul naso ... succhia,
succhia amore che se no la mamma diventa matta. Quando me lo portano via con il loro carrello da
supermarket, pieno zeppo di altri fagottini sto un po' meglio, ma dura poco ... Il latte è spesso non
esce da solo, sotto le coperte provo a comprimere il seno ma sono solo due goccioline quelle che si
affacciano dopo essermi fatta troppo male. Mi danno un tiralatte ... veda lei ... due gocce di latte e
due gocce di sangue, voglio «lui» ho bisogno di lui anche per questo. Aspetto, aspetto il carrello da supermarket. Non posso andare a vederli al nido con i carabinieri che
mi stanno appiccicati. Il «responsabile» mi fa sapere che «lui» ha un po' di ittero. Niente di grave,
ma devo ancora rimanere un paio di giorni... comincio a piangere e continuo...il tempo con lui è breve per le poppate, non c'è spazio per i baci. Mi alzo per andare al gabinetto e anche lì
mi seguono. Stanno dietro la porta, che deve rimanere socchiusa, donne in ciabatte e vestaglia si
fermano a guardare con gli occhi spalancati ... io che cammino reggendomi al muro, i due in divisa
con aria di importanza perché sono in «servizio», con aria di disgusto per questa terrorista che si
regge male, armata di luridi/imbarazzanti assorbenti che cerca di nascondere. Torno in carcere, nella cronica mancanza di tutto e nella festa della nostra storia d'amore. Dopo i
saluti, gli abbracci, gli strilli felici, le risa, le mani che cercano ... finalmente io e «lui», gli tolgo
chili di panni ... sotto le dita sotto gli occhi, per la seconda volta in cinque giorni di vita ci
riconosciamo. Mancanza di spazio, di aria, di posto per la sua roba, per la mia roba, compreso tutto in quattro
metri quadrati, mancanza di cibo decente, di silenzio, di colori ... al nido, come in tutto il resto del
carcere, qui alle Nuove, ci sono gli scarafaggi. La notte escono dai muri, dalle crepe intorno alla
tazza del cesso ed è lì nella cella insieme al mio, suo letto, al piano per
mangiare/cucinare/scrivere/cambiarlo, a uno stipo ... gli scarafaggi escono la notte e si arrampicano
verso l'alto, riempio il suo lettino di cose che starebbero a terra e lui dorme con me. Al mattino ci svegliano i rumori, tutta la vita del carcere è al piano terra. E' così piccolo che lo lavo
dentro la gavetta. La roba sporca si lava in un lavatoio di pietra in un capanno del cortile, l'acqua
calda viene una volta su tre, in genere quando c'è l'acqua calda c'è la vasca turata. Quando il sole è
più tiepido porto lui in cortile... le donne sgattaiolano nella mia cella, prendono i secchi di roba
sporca e prima della chiusura serale ritrovo i secchi vuoti fuori dalla porta ... come i folletti delle
favole, sono donne incredibili. Sto nella cella di mezzo alle tre del nido ... dentro ci esplodiamo.
Chiedo una cella normale, firmo che mi assumo la «responsabilità». Ci mettono in un cellone da
quattro ... se non altro non ci svegliano più i rumori, se non altro non manca l'aria. Mangiamo tutte insieme e «lui» mangia me, di questo avevo bisogno, di sentirmi con lui in mezzo
alle altre. Trasferimento a Modena. Cella da 3, ci stiamo in 3 più 3 bimbi. «Lui» e due piccoli sinti. Lì il nido
non c'è, non c'è neppure un lettino, un seggiolone, un accidenti di niente. Nel cortile dell'aria la
fogna straripa. Partono le lotte per l'affettività da S. Vittore, partiamo anche noi, dieci donne e tutto il maschile. Battiture, fermate quotidiane fino alle dieci, alle undici di sera ... «Lui» si addormenta al ritmo
degli slogans, io ho perennemente il cuore in gola, e non è solo paura, e non è solo la gioia della
libertà nell'affermazione di sé ... è qualcosa che racchiude anche questo, è l'indicibile lui/me nel
vivere la vita. Vengono i parlamentari che in quei giorni visitano le varie carceri, tra le altre cose assicurano di
garantire a «lui» la possibilità di frequentare l'asilo comunale e la presenza di una persona che lo
accompagni avanti, indietro dal carcere. Una decina di giorni dopo parte il massacro al maschile,
sentiamo le urla e aspettiamo ... infatti arrivano. «Lui» è presente, l'ho lasciato in braccio a una sinta, ma lo sento urlare. Ci separano, lui vive con i miei, per nove mesi non ci vedremo più. Io finisco negli speciali, scatta l'art. 90: colloqui con i vetri, quattro al mese, anche con i figli che
per regolamento dovrebbero stare con la madre fino all'età di tre anni in condizioni possibili. Ora sono assegnata a Voghera. Vedo «lui» per un'ora alla settimana, colloqui separati dalle altre compagne, in una stanza vuota,
sotto una telecamera e un vetro che ci separa dai miei genitori. Questa possibilità è stata la risposta alla richiesta presente nei contenuti di autodeterminazionesocialità-salute che hanno vissuto e vivono nelle lotte, dentro e fuori il carcere di Voghera.
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