Rivista Anarchica Online
Dissenso pilotato e dissenso reale
di Gianfranco Careri (Segretario Nazionale dell'Unione Sindacale Italiana (USI) )
Il recente decreto governativo su «costo del lavoro e scala mobile» ha innescato una spirale di
nuove situazioni (sociali, sindacali e politiche) che hanno nuovamente alimentato dibattito e lotte
all'interno del mondo del lavoro. La prima considerazione va fatta sulla natura marcatamente antipopolare di questo primo governo a
direzione «socialista», che si allinea così alla medesima politica degli altri partiti socialisti europei
giunti ai vertici del potere (in Francia, Spagna, Grecia). Una politica che (negativamente parlando)
nulla ha da invidiare ai passati governi democristiani, di centro-destra come di centro-sinistra. A
chiarire bene questo ruolo reazionario del governo Craxi viene questo decreto che, di per sé, è una
svolta significativa: infatti è la prima volta che un governo scavalca la cosiddetta «contrattazione
tra le parti sociali» in merito a questioni del mondo del lavoro e impone d'autorità un decreto per
regolare dall'alto questi problemi. A livello sindacale CISL, UIL e componente socialista della CGIL si sono subito allineate a
sostegno del governo, così dicasi anche dei principali settori del padronato. Una riprova della
natura antipopolare di ogni governo (compreso, in futuro, un ipotetico «governo delle sole
sinistre»), per sua natura strumento di oppressione ed apparato di classe al servizio di precisi gruppi
di potere politico ed economico. L'opposizione al decreto ha visto nascere un vasto movimento di lotta, con due caratteristiche
comunque ben distinte. Da una parte vi è da segnalare una ripresa di spinte spontanee di lotte e di
strutture di base e, come spesso accade in queste fasi, la riscoperta di forme d'azione diretta e di una
prassi autogestionaria. Questa è senza dubbio la caratteristica più positiva emersa da questa nuova
situazione. Vi è poi l'altra facciata della situazione col ruolo che ha assunto la CGIL e quello dei partiti che
controllano la parte maggioritaria di questo sindacato (PCI in testa e quindi PdUP e DP). Oggi i dirigenti della CGIL intendono «cavalcare» il movimento di base che si è sviluppato e
quindi hanno provveduto a porre la propria cappa sopra le manifestazioni ed assemblee
«autoconvocate» dalle strutture di base. Il movimento dei lavoratori e l'opposizione scaturita contro
il decreto governativo rischiano di diventare così cavalli di battaglia da deviare da eventuali
indirizzi autogestionari e da strumentalizzare per fini di controllo sulle masse e di manovre ed
interessi para-parlamentari. Si scontrano così le due diverse «anime» che storicamente ogni movimento di lotta ha scaturito: da
una parte l'esigenza di un cambiamento sociale reale in difesa degli interessi di classe degli sfruttati
(e quindi di un'autorganizzazione di base alternativa ed assembleare), dall'altra il tentativo di alcuni
partiti di incanalare e guidare il movimento (tramite la potente struttura sindacale da loro
controllata) per favorire i propri interessi politici. Due passi indietro, nella storia sindacale, possono chiarirci meglio l'attuale situazione. In Italia l'unità sindacale, dal 1945 in poi, è sempre stata condizionata dalle scelte dei maggiori
partiti politici. L'unitaria CGIL del dopoguerra fu un'invenzione fatta «a tavolino» dai dirigenti del
PCI, PSI e della DC, rapportata alla scia dell'«unità uscita dalla resistenza» e dal primo governo di
unità nazionale che riuniva questi partiti. L'inizio della divisione politica (e quindi dell'affermarsi
del potere democristiano) determina automaticamente la scissione sindacale. Nascono la CISL e la
UIL. Arriviamo poi agli anni dell'intesa, caratterizzati dallo sviluppo verticistico di una stessa logica
sindacale riformista basata sull'interclassismo e la cogestione, portano alla nascita della
Confederazione Unitaria che permette a CGIL, CISL e UIL di articolare un vasto controllo del
riformismo sul movimento dei lavoratori col conseguente accantonamento (e anzi con l'aperto
scontro) di ogni forma di lotta di classe. Conseguentemente si stabilizza la cosiddetta «linea dei
sacrifici», il mito della professionalità (visto nell'ottica corporativa e del rifiuto dell'egualitarismo
salariale) si accompagna allo svuotamento dell'autonomia delle strutture di base (come i Consigli)
che le lotte dell'autunno caldo avevano imposto. Un processo lungo e complesso, che ha portato il movimento dei lavoratori a subire sconfitte su
sconfitte e che ha portato, specie negli anni settanta (e fino a pochi mesi fa) CGIL, CISL e UIL a
marciare in una perfetta sincronia ed unità di fondo, riassorbendo ogni spinta di lotta che sfuggiva
al loro controllo. Funzionale a questo disegno è stato il ruolo assunto dalla cosiddetta «sinistra
sindacale» che è stata la valvola di recupero (e quindi di rientro nella logica di fondo riformista) del
dissenso che la politica collaborazionista e i continui cedimenti dei vertici causavano nella base più
combattiva dei sindacati. La scelta della «linea dell'Eur» ha significato la fase più significativa dello sviluppo del riformismo
sindacale unitario ed è stata conseguenza diretta di quelle scelte l'accordo sul costo del lavoro del
22 i cui contenuti sono perfettamente paragonabili ai provvedimenti dell'odierno decreto craxiano.
Quell'accordo capestro (di appena un anno fa), che permetteva la prima grossa svendita della scala
mobile, vide la CGIL tranquillamente firmare (dirigenti del PCI in prima fila) insieme a CISL e
UIL e poi adoperarsi nelle aziende per contrastare i lavoratori che si opponevano a quell'accordo. Ora, modificati i rapporti tra i partiti (con l'aumentata tracotanza del PSI, le manovre democristiane
e i comunisti che vedono sempre più lontano un loro ingresso nell'area governativa), lo «strappo» si
ripercuote nelle Confederazioni e questo ha portato i dirigenti della CGIL, gli stessi che un anno fa
avevano firmato analoghi provvedimenti su costo del lavoro, salari e scala mobile, a tentare di porsi
alla testa del movimento contro il nuovo decreto. Aldilà dello «strappo», l'unità della linea riformista si è mostrata con la recente presa di posizione
di tutti i tre i sindacati in favore di forme autoritarie come l'autoregolamentazione dello sciopero
(questione sorta con le recenti lotte nel settore dei trasporti). Senza dubbio, in questa difficile situazione, vanno difesi ed ampliati gli spazi e i contenuti di lotta
espressi dalle mobilitazioni in corso contro il governo. Allo stesso tempo però vanno evitati inutili trionfalismi e va demistificata l'immagine di una CGIL
rinnovata o «di classe» perché il sindacalismo riformista è stato ieri, è oggi e rimarrà domani, lo
strumento e la cinghia di trasmissione di un partito (o più partiti o gruppi specifici), di cui si serve
oggi per mobilitare la piazza contro un governo allo stesso modo con cui si è servito (appena poco
tempo fa) per far ingoiare ai lavoratori scelte che vanno in senso contrario agli interessi dei
lavoratori. Resta intatta quindi la contrapposizione tra un tipo di sindacalismo realmente autogestionario,
espressione diretta delle libere assemblee dei lavoratori, e un sindacalismo fatto «per i lavoratori». Su questa strada, tra le altre esperienze sorte in questi ultimi anni di lotte, si muove il lavoro di
riattivazione dell'USI (Unione Sindacale Italiana), storica espressione del proletariato italiano, e che
oggi vede impegnati, in uno sforzo di analisi e d'intervento quotidiano, lavoratori sindacalisti
rivoluzionari di diverse località. Il movimento attuale di opposizione e i lavoratori tutti, hanno oggi davanti un compito certo
difficile, ma che non può più subire rinvii, che è quello di ricercare una vera unità di base, allargare
il dissenso nel mondo del lavoro e nel territorio, rivendicare l'autonomia delle strutture di base, dar
vita a un'organizzata alternativa rivoluzionaria al riformismo. Una strada da seguire per chiunque oggi non si riconosca più nella logica del compromesso né in
quella dell'opportunismo.
Le CGILconvocazioni
La polemica feroce, perché in fondo solo di questo si tratta (e non di spaccatura come si sente dire
da più parti: spaccatura ci sarebbe se l'unità fosse reale e non fittizia), che in questi giorni divide i
«rappresentanti degli interessi dei lavoratori» non accenna a diminuire. Per chi ha coltivato da
sempre il mito dell'unità sindacale (si badi bene che ciò non significa necessariamente unità dei
lavoratori), questo brusco risveglio ha lasciato loro in bocca un sapore di amaro, per chi invece ha
guardato da sempre a questa unità con spirito critico, è un'ulteriore prova di che valore abbiano
queste unità puramente politiche. Visto che nonostante i lunghi periodi che passo in quel grosso congelatore di manodopera che è la
cassa integrazione (l'operaio surgelato in tempo di crisi può essere scongelato in tempi più proficui)
mi portino a perdere una serie di collegamenti con la fabbrica, mi sento di fare parte, anche se con
le dovute distinzioni, del movimento «spontaneo» contro il decreto antiinflazione, creatosi in
questo periodo. Quelle che seguono quindi sono osservazioni personali senza pretesa di volere
essere analisi approfondite. Le mie obiezioni al decreto nascono in casa PCI il quale promette una dura «opposizione»
(parlamentare!!), posizione strumentalmente antisocialista. La polemica si sposta a livello sindacale
trovando da una parte la maggioranza della CGIL (comunisti, terza componente e DP) e dall'altra i
socialisti della CGIL, la CISL e la UIL. Intanto vengono organizzate le prime assemblee
autoconvocate «guidate» da quelle brave mosche cocchiere che sono i demoproletari, i quali si
mettono alla «testa» del movimento, o è meglio dire sulla sua «testa». Disertando una riunione
nazionale di dirigenti sindacali, il segretario della FIOM Airoldi si schiera dalla parte delle
assemblee autoconvocate. La CGIL ormai, tranne che nella sua parte socialista, ha operato una
scelta di «classe». L'impressione che mi dà tutto questo è che si stia svolgendo una lotta per la supremazia all'interno
del sindacato che va ben oltre il semplice dibattito sul decreto governativo e che dietro la
sloganistica per la difèsa della scala mobile vi sia un tentativo, neanche tanto mascherato, di
acquisire più potere sfruttando la giusta rabbia dei lavoratori che subiscono continui attacchi al loro
salario. In questo contesto la manifestazione del 24 marzo a Roma, oltre che come prova di forza
contro il governo Craxi, è anche l'occasione per misurare anche in termini numerici il consenso a
una determinata linea. D'altra parte la lotta per la supremazia doveva pur scoppiare prima o poi dato
che negli organismi unitari, costituiti su basi paritarie, hanno lo stesso numero di rappresentanti e
quindi gli stessi poteri sia la CGIL (maggioritaria per aderenze), sia la UIL (minoritaria per
aderenze). Non voglio con questo sminuire l'importanza del movimento, è chiaro che vi sono posizioni di
operai e di consigli di fabbrica che sono totalmente autonome (basti pensare al caso della CISL di
Pinerolo, commissariata perché non in linea), ma nella maggioranza dei casi penso che più che
essere un movimento autodiretto sia un movimento eterodiretto. Ovviamente mi rendo conto che il
fatto di avere come «compagni di strada» i kabulisti della CGIL non è un motivo valido per
estraniarsi dal movimento, ma che anzi bisogna farne parte seppure in modo critico e qualora sia
possibile denunciare e contrastare le strumentalizzazioni burocratiche e le manovre di potere. E se oggi la CGIL è fautrice di una maggiore democrazia all'interno del sindacato, sostenendo il
referendum sul decreto e battendo la grancassa del «solo i lavoratori devono decidere» (sic!), non
scordiamoci che nel '77 ci fece ingoiare gli accordi sul «congelamento della scala mobile sulle
liquidazioni», non scordiamoci nello stesso periodo l'appoggio dato, assieme al PCI, al governo di
unità nazionale, e di nefandezza in nefandezza fino al recente accordo sul costo del lavoro.
Bunny
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