Rivista Anarchica Online
Cara Monica, su Gandhi ti sbagli
Cara Monica, mi chiamo Valentino, ho 18 anni e alcuni giorni fa ho comprato per la prima volta questa rivista. Poiché
la dottrina della nonviolenza mi interessa molto, ho letto innanzitutto il tuo articolo (Gandhi e
l'anarchismo, «A» 112). Non sono assolutamente in grado di esprimere dei giudizi sul tema
dell'articolo, conosco l'anarchismo solo «per sentito dire» e la mia conoscenza delle dottrine di Gandhi
è piuttosto indiretta. Tuttavia, in alcune affermazioni che fai vedo dei gravi errori di interpretazione
della nonviolenza e, pur cosciente della mia ignoranza, vorrei farli rilevare (...). Tu scrivi: La dimensione religiosa, per esempio, non viene mai messa in discussione nella sua forza
istituzionalizzante. Gandhi ha combattuto due grandi battaglie: la lotta contro la dominazione inglese
e quella per il riscatto dei paria, degli intoccabili. La prima delle due lotte è la più comprensibile per
la mentalità occidentale, ed è la più nota; la seconda, di gran lunga più importante, è più difficile da
capire. La divisione in caste della società indiana non ha origine razziale, né è basata sul censo: essa ha un'origine religiosa. La casta dei paria è una casta maledetta, le cui miserabili condizioni di vita
non suscitano alcuna compassione. Si tratta di un'istituzione cosi radicata che gli stessi paria
credono nella loro maledizione: un'istituzione religiosa millenaria contro la quale Gandhi ha
combattuto a fondo. Tra le regole che dovevano osservare coloro che vivevano negli ashram vi era la pulizia
obbligatoria delle latrine e lo spazzare (mentre un brahmino preferiva «vivere sopra un mucchio di
spazzature piuttosto che spazzare», lasciando questo incarico ai paria). Un'altra delle regole
gandhiane è l'obbligo di un pasto in comune: per un brahmino, una gravissima umiliazione. Gandhi
ha dunque infranto delle istituzioni religiose millenarie da cima a fondo, dalla divisione in caste
della società alla divisione dei lavori quotidiani su cui si basava, a certe «abitudini» che erano fonte
di discriminazione. Tutto ciò in un paese in cui la religione occupa un posto ben più importante che
da noi. Mi sembra di capire che Gandhi rispettava qualsiasi fede ma non tollerava «istituzioni
religiose» vuote, assurde, formali, senza un vero contenuto. Apprezzava infatti la dimensione
religiosa per il suo valore spirituale, mentre con le sue azioni ha dimostrato di non tenere in conto la
sua «forza istituzionalizzante». Se davvero non avesse mai messo in discussione quest'ultima, non
avrebbe mai lottato per l'abolizione delle caste né per la pacificazione tra indù e mussulmani (la
separazione e l'ostilità permanente fra essi è un'istituzione per gli uni e per gli altri). Non sono poi d'accordo con te nemmeno quando affermi che: Paradossalmente la lotta di
liberazione ha avuto più rispetto per gli inglesi dominatori che non per il popolo indiano (...). A
Gandhi è mancata, in effetti, quella che nell'anarchismo è dimensione determinante e
fondamentale: l'irriducibile affermazione della libertà individuale contro la prepotenza storica e
quotidiana delle forme istituzionali. Qui mi sembra di vedere un'incomprensione della nonviolenza e dello spirito che dovrebbe animare
il nonviolento. Non è «resistenza passiva», non è «eccessivo rispetto dell'altro, anche quando ci
opprime» (...).
Valentino Cargnelutti (Milano)
Ma dove c'è il sacro c'è oppressione
Innanzitutto vorrei farti notare che le tue osservazioni critiche riguardano delle singole
affermazioni. Il pezzo su Gandhi e l'anarchismo ha cercato di essere un'occasione per stimolare un
metodo interpretativo con cui cogliere la necessaria compenetrazione degli aspetti reciproci fra
queste due «filosofie». In questo senso, il tuo intervento viene incontro al mio proposito. E' indubbio che il pensiero e l'opera di Gandhi abbiano avuto di per sé un significato di edificazione
morale del popolo indiano e dell'umanità tutta. Tanto è vero che la nonviolenza, da lui sinceramente
propagandata e coerentemente attuata nella sua vita, è stata considerata ed anche rielaborata
secondo i vari contesti storici e culturali, come tu stesso ricordi a proposito di Lanza del Vasto. Non ho certo affermato che la nonviolenza per Gandhi abbia avuto un valore esclusivamente
tecnico: «un trucco per vincere gli inglesi». Quando affermo che paradossalmente ha avuto più
rispetto per gli inglesi dominatori che non per il popolo indiano, mi riferisco al semplice fatto che le
guerre intestine fra mussulmani e indù hanno avuto un risultato assai più cruento e duraturo nel
tempo, delle stragi perpetrate dagli inglesi. Quello che il popolo indiano è riuscito a fare, in termini
di lotta nonviolenta contro gli inglesi, non è riuscito minimamente a praticarlo nella politica di
pacificazione nazionale. Ed è qui, che ritorna in ballo la questione della religiosità di Gandhi. Il suo sincretismo religioso è
senz'altro in buona fede. Tutto quello che ricordi nella tua lettera a proposito della lotta personale
di Gandhi per abolire le caste e le intolleranze istituzionalizzate dalle religioni storiche è un dato di
fatto. Ma resta pur sempre una lotta che si basa su un'affermazione di principio, per quanto
personalmente vissuta. La forza istituzionalizzante delle religioni non sta solo negli effetti sociali
che esse provocano. Privilegiare, nella nostra attenzione critica, solo l'aspetto evidente equivale a
curare i sintomi piuttosto che le cause. La religiosità storicizzata trova alimento nella visione del sacro che accomuna tutte le religioni.
Potrei essere ancor più esplicita riconducendo il problema alle forme psicologiche dell'immaginario
umano, dove la quantità di sacro è direttamente proporzionale al grado di oppressione esercitato dal
potere dominante. Dio, Stato e famiglia vanno di pari passo. E questo Gandhi non l'ha neppure
considerato. E' solo una constatazione la mia: ma imprescindibile.
Monica Giorgi
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