Rivista Anarchica Online
L'ombra dei manicomi
di Giorgio Meneguz
L'attuale legge di riforma psichiatrica, inserita nella Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale n°
833, detta anche riforma sanitaria, è nata frettolosamente nel maggio del 1978, quando i
referendum abrogativi dei radicali stavano «minacciando» un «vuoto» istituzionale. Ma dietro le
quinte, da parecchio tempo elementi della sinistra parlamentare cercavano di sedurre i medici e gli
operatori sociali protagonisti di esperienze estremamente interessanti nel campo della psichiatria sia
manicomiale che extra-manicomiale. Franco Basaglia e i suoi collaboratori lavoravano in questo
senso già negli anni sessanta; nel 1970 le esperienze «antimanicomiali», caratterizzate dall'apertura
degli ospedali psichiatrici, si stavano diffondendo a Trieste, Perugia, Arezzo, Torino, Napoli,
Parma, Pordenone, Reggio Emilia ... Furono investiti enormi sforzi e capacità di lotta dal basso, la
cui portata va al di là della fama dei vari psichiatri promotori. Molte amministrazioni provinciali,
sentendo puzza di anti-istituzionalismo, cercarono di fagocitare tali esperienze con l'offerta di una
piena collaborazione. Pian piano veniva scemando la caratteristica di lotta alle istituzioni per
focalizzare sempre più l'obiettivo nella istituzione manicomiale, parte «malata» da estirpare da una
società «sana» che va lentamente razionalizzando il suo complesso - procedimento di espulsione
della «parte malata» tipico della metodologia «terapeutica», medica e psichiatrica, in atto in
Occidente. Ma ancora Psichiatria Democratica, il movimento promotore di tali battaglie, rifiutava la necessità
di una legge che sostituisse quella, da tutti considerata iniqua, del 1904. «Una riforma psichiatrica
non può essere fatta da una legge. Solo una presa di coscienza diffusa nel territorio sociale può
garantire l'effettiva eliminazione del manicomio, dei metodi coercitivi in psichiatria e della
stigmatizzazione del diverso», era grosso modo la risposta di PD alle seduzioni parlamentari.
Insomma, la coerente risposta della «nuova psichiatria» era: abolito il manicomio con una legge, si
sorvola il problema che la «necessità» di segregare il «malato mentale» non è solamente negli
psichiatri che lavorano dentro le mura manicomiali, ma in tutta la gamma delle stratificazioni
popolari che formano il tessuto sociale. Basaglia, a quel tempo, era una personalità con grosso fascino sul «movimento», una pedina
importante per il potere parlamentare; e fu solo quando egli accettò finalmente che si sarebbe
dovuta fare una legge di riforma psichiatrica, che con lui gran parte del «movimento anti-istituzionale» prese una svolta storica.
Fatta la legge. Tale riforma fu varata come «struttura giuridica scaturita dall'esperienza». Ed era sicuramente vero,
in un certo senso. Anche se già nel '78, in USA e in Inghilterra alcuni decenni prima, c'era chi
metteva in guardia contro i pericoli dell'inserimento del reparto psichiatrico nell'ospedale civile,
contro i pericoli di una chiusura selvaggia dei manicomi e la relativa mancanza di strutture
«alternative», o contro il pericolo dell'abuso di psicofarmaci o tecniche direttive e manipolatorie di
psicoterapia nel lavoro della psichiatria sul territorio. Questo non era paventare pericoli teorici:
erano critiche scaturite dall'esperienza storica della psichiatria «avanzata» o «antipsichiatrica»,
italiana ed estera. Di fatto la 180 sancisce il divieto di costruire nuovi manicomi, mentre quelli vecchi non possono
essere nuovamente usati dalla psichiatria e dalle discipline «affini»; l'utente del servizio
psichiatrico ha perso i connotati di «pericolosità» e «pubblico scandalo»; il terreno privilegiato per
la comprensione e la cura dei disturbi psichici è quello sociale, extra-ospedaliero. Queste sono le
innegabili innovazioni che la riforma psichiatrica ha introdotto. Il risultato è che, se da una parte ci sono stati in genere enormi benefici per gli ex-degenti degli
ospedali psichiatrici con disturbi lievi (un'altissima percentuale) - mentre alle persone portatrici di
un disagio estremamente pesante solo le situazioni antimanicomiali che esistevano già anni prima
dell'approvazione della nuova legge hanno saputo rispondere in maniera adeguata - dall'altra parte,
l'impreparazione della gente comune, famigliari e non dei pazienti istituzionalizzati, assieme
all'impreparazione degli operatori psichiatrici e la mancanza di strutture che si ponessero come
«alternativa» al manicomio, contribuiscono a generare confusione e situazioni umane estremamente
sofferte e spiacevoli. Su questo terreno, cioè laddove la riforma psichiatrica ha agito in senso semplicemente distruttivo,
si inserisce la maturazione delle nuove proposte di legge. Su un terreno carico di confusione e
tensione di cui sono espressione soprattutto la gente di strada, le famiglie dei pazienti e i pazienti
stessi, al di là delle varie posizioni di appartenenza nella scala gerarchica delle classe sociali, al di
là delle colorazioni politiche e delle tessere dei partiti. Qui hanno provato a seminare le forze
parlamentari che hanno presentato le proposte di modifica della legge 180. Sono ovviamente
proposte imbecilli e strumentali: esse mirano, più che al problema psichiatrico, a quello di lavorare
sulla retriva mentalità e cultura italiana per poter guadagnare voti preziosi all'autoconservazione di
un certo tipo di potere. Ma credo non debba venire sottovalutata una considerazione di fondo che
accomuna le nuove proposte di legge: nessuna nega il momento territoriale extraospedaliero, anche
se in genere viene sopravvalutato quello del ricovero. Mi si obietterà che questo è valido solo in
teoria, perché nella pratica, basta non far funzionare il «servizio territoriale extraospedaliero» per
avvalorare la tesi della necessità del ricorso al manicomio. Credo sia una risposta semplicistica.
Tutti, indistintamente, sono concordi che il manicomio, come storica istituzione pubblica, va
superato: esso non è più strutturalmente compatibile con lo «sviluppo» socialdemocratico della
civiltà post-industriale dell'occidente. Al massimo può essere disquisita l'«alternativa» più
«terapeutica»: ospedali privati convenzionati, psicoterapie d'appoggio negli ambulatori, comunità
protette, 15 - 20 - 60 - 180 posti letto per i degenti psichiatrici nell'ospedale civile e formanti
strutture a parte, montagne di psicofarmaci, e altre ancora: le strade percorse e da percorrere sono
numerose. Ed è perciò vero che lo Stato, scegliendo per esempio di istituire servizi territoriali, ma
boicottandoli di fatto, finanziando esclusivamente gli ospedali privati, manterrebbe in vita
comunque delle strutture manicomiali (salvandosi però, in un certo senso, la faccia). Ma non
affermiamo, per favore, che l'unica risposta alla situazione attuale sia la difesa di una riforma e la
conseguente richiesta di una sua applicazione: la storia, la logica, l'esperienza, insegnano che uno
Stato non si rivoluziona socialmente ed economicamente mediante l'emanazione di una legge. Non credo si tratti di «revanscismo della destra» o «nuova restaurazione», come viene oggi
chiamata questa tendenza a «rivedere» la legge 180. Questa tendenza, assieme paradossalmente a
quella che ha fatto nascere la legge 180, si inserisce coercitivamente in un quadro più ampio e
ovviamente contraddittorio (con i dovuti residui conservatori e reazionari) della riforma globale
della società. Altrimenti non si spiegherebbe perché nel Friuli, e in modo particolare a Pordenone, o
a Napoli, per prendere due esempi estremi, il partito della Democrazia Cristiana è un fautore e
difensore agguerrito della nuova riforma psichiatrica.
La scoperta dell'America Già nel 1977 l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa rilevava, nella raccomandazione
numero 818, il problema della tragedia dell'internamento manicomiale e del dimissionamento
«selvaggio». Esortava, in un certo senso, ad «elaborare nuove linee di condotta ad uso dei giuristi e
dei medici» e notava che «i progressi della tecnologia medica e psicoterapeutica rischiano a volte di
costituire una minaccia per il diritto all'integrità fisica e psichica dei pazienti». Inoltre, e qui voglio
riportare integralmente il testo, raccomandava «al Comitato dei Ministri ad invitare i governi degli
Stati membri: a rivedere le loro legislazioni e i loro regolamenti amministrativi sull'intervento dei
malati mentali, ridefinendo certi concetti fondamentali, come l'aggettivo "pericoloso", riducendo al
minimo la pratica consistente nell'internare un paziente a forza, per un periodo indeterminato ... ». Ma le prime riforme vengono dall'America, negli anni sessanta, al tempo della presidenza Kennedy.
Si operava in quel periodo negli USA un atteggiamento di smantellamento degli ospedali
psichiatrici per motivi economici e ... umanitari; andava diffondendosi l'assistenza domiciliare
extraospedaliera assieme alla creazione di strutture «alternative» quali le free-clinics, le comunità
alloggio, le comunità terapeutiche, le case protette. Iniziavano ad infiltrarsi nelle famiglie e nelle
scuole psichiatri e psicologi specialisti in relazioni umane interpersonali. Stava dilagando
lentamente la confusione, presente nelle teorizzazioni della «nuova psichiatria» italiana, tra
«interpersonale» e «sociale». La comunità veniva coinvolta nell'elaborazione dei rapporti tra i
pazienti e la comunità stessa, tra l'elemento e l'insieme, spingendosi in posizioni conflittuali con
altre istituzioni riguardo la «gestione finanziaria e politica delle terapie». Questa caratteristica
gestione decentrata della follia, che fu chiamata impropriamente «sociale», fu per certi versi una
delle travi maestre del rafforzamento politico ed economico americano, e aiutò il superamento dei
conflitti relazionali che avrebbero portato alla messa in discussione delle istituzioni famiglia,
scuola, fabbrica, carcere, metropoli, eccetera. Da quel periodo altri personaggi che ben conosciamo, quali Nixon e Raegan, hanno spinto verso un
intervento psichiatrico diffuso sul territorio, «alternativa alla sistemazione istituzionale dei pazienti
ricoverati che abbia come centro focale la loro riabilitazione», teso a smorzare rapidamente i
sintomi non importa se individuali o famigliari - senza badare alla comprensione complessiva delle
eziologie. L'importante è la rapidità della risoluzione del conflitto e l'accresciuta capacità adattiva
dimostrata dall'individuo nei confronti del gruppo, o lo smussamento degli spigoli improduttivi
dell'ambiente per una relazione sinergica degli elementi che gli appartengono. Politica della
neutralizzazione, dunque: ecco come potrebbe essere definita la politica dello «stato assistenziale»
di matrice americana. La «nuova psichiatria» può essere un buon mercato per il capitalismo, specialmente quando
potrebbe far risparmiare soldoni e guadagnare investimenti e posti di lavoro. Si pensi, per esempio,
che una giornata di degenza ospedaliera costa sulle 200 mila lire, contro le 20-30 mila lire della
giornata in un presidio extraospedaliero; inoltre il riconoscimento del «disagio sociale» causato da
quei portatori di grossi problemi esistenziali che sono gli ex-manicomializzati, «affiuiti» ora nel
manicomio-città, spinge alla creazione di nuovi posti di lavoro per operatori sociali, tecnici della
salute mentale, dell'assistenza, ecc. Ma il potere politico italiano effettua «tagli alla sanità», afferma che la legge 180 è «troppo
costosa» (?), rilevando ancora una volta quanto sia enorme l'ottusità politica e il terzomondismo dei
nostri governanti. Tutt'ora, da noi sono presenti tre tendenze tipiche: la tecnicizzazione della psichiatria biologica, il
«risparmio» economico, la «nuova psichiatria». Le prime due prevalgono di fatto, e la «nuova
psichiatria» ha la sua bella legge. Una riforma spacciata per rivoluzionaria che (affascinante come
un fiore che è spuntato dal letame del porcile italiano - e che con le sue radici trae da questo il suo
nutrimento) si inserisce però nel progetto dei Paesi più «maturi» di sviluppare un controllo e,
ripeto, una riduzione dei conflitti più consone allo stadio di evoluzione formale della civiltà post-moderna occidentale. Le tendenze politiche italiane sul terreno psichiatrico, non vanno comprese chiedendosi perché,
nella maggioranza, DC, PLI, PRI, sono contrari alla legge 180, ma perché alcune sedi degli stessi
partiti sono eccezionalmente favorevoli. E, d'altra parte: le proposte di legge sono bloccate in
parlamento grazie al «muro» creato dal PSI, ma perché nella pratica molti socialisti con incarichi
di potere sono favorevoli ad una revisione della legge (la situazione milanese ne è la punta di
diamante)?
L'Italia è nuda Personalmente ritengo, comunque vadano le faccende governative, che, pur nella gamma variegata
di posizioni più o meno ritardate, la nostra organizzazione sociale tende ad un processo di sviluppo
generale mirante alla raffinazione degli strumenti di razionalizzazione dello Stato e delle istituzioni
che ne compongono le maglie tissulari. Secondo questa visione delle cose, credo si possano
comprendere molte sfumature riguardo la rilevante posizione di fette di partiti dissenzienti dalla
«linea centrale». Ma se in Italia, effettivamente, a fare da substrato a «evolute» riforme socialdemocratiche, esiste
una incredibile rozzezza culturale, un marcato spirito provinciale, una sclerotizzazione delle idee,
un potere ideologico feudale: un letamaio, appunto: un ricambio deve comunque fisiologicamente
maturarsi. In questa prospettiva si collocano i partiti di sinistra e i sindacati. La CGIL sta elaborando una «proposta di attuazione della legge 180». Già la prima bozza resa
pubblica rileva indubbiamente una certa intelligenza: il sindacato chiede in poche parole che
vengano rispettati gli articoli della legge, sottolineando ed elencando con cognizione, a parte alcuni
punti, le parti implicite al testo del 1978. Con tutta probabilità partirà un programma di petizione
popolare «per l'attuazione della legge 180». Non ho intenzione, a questo punto, di sguainare e brandire la spada infuocata dei sacri princìpi
antilegalitari propri dell'anarchismo. In se stessa, l'ideologia è un messaggio vuoto e improduttivo:
non il vessillo né l'alfiere hanno vinto le battaglie. Il punto è invece quello di rilevare nuovamente
come sia difficile comprendere che con un atto di imposizione, una legge, è impossibile
rivoluzionare la società (perché di questo si tratta, quando si parla di psichiatria). Questo può essere
fatto invece con l'esperienza, con la pratica, con l'azione del capovolgimento, dal basso, di
situazioni pregnanti di oppressione e, nello stesso tempo, con un accresciuto bisogno di
sovversione per la libertà. E' dalle lotte al di fuori delle leggi che si producono cambiamenti
estremamente entusiasmanti e radicali: la storia della «nuova psichiatria» dovrebbe insegnarcelo.
Esiste poi il problema del tentativo istituzionale di assorbire e neutralizzare tali esperienze, di
trasformare in utilità una minaccia; la capacità di non farsi fagocitare deriva sia dalla capillarità del
lavoro svolto nel tessuto sociale per effettuare il cambiamento, sia dal grado di coscienza anti-istituzionale di cui i protagonisti dell'esperienza sono portatori. Ancora un paio di cose. E' probabile che la mia analisi si collochi gerarchicamente ad un livello superiore (quello
dell'astrazione) nell'ordine del discorso; come è probabile, considerata l'esperienza, che mi si accusi
di indiretta complicità al ritorno dei manicomi: o con la 180 o contro di lei, quindi per i manicomi. Anzitutto, a costo di cadere nel superfluo, ci tengo a fare una precisazione riguardo all'uso
«inflazionato» della parola manicomio. Dovrebbe essere chiaro che il manicomio, l'ospedale
psichiatrico, è un luogo fisico ben preciso, storico, con una certa particolare caratteristica
architettonica, organizzativa, funzionale. Altrove, personalmente ho affermato che le nuove
proposte di legge mirano ancora ai manicomi o alla manicomializzazione di alcune strutture. Per la
precisione, comunque, in esse non si afferma mai che occorre riaprire il manicomio in quanto tale.
Ef fettivamente, costituire luoghi con 180 posti letto, ma anche con 60, o repartini psichiatrici
nell'ospedale civile organizzati in un certo modo, oppure contrapporre all'«istituzione totale» una
«istituzione diffusa», è come se si trattasse di manicomi o manicomializzazione. Nella stessa
maniera, affermare per esempio che famiglia, scuola, e via dicendo, sono carceri, equivale a dire
che è come se fossero carceri ... Ora, una parola può anche essere usata «impropriamente» quando si ritiene che uno dei suoi
significati, per esempio quello metaforico del come se, venga compreso nella lettura del contesto in
cui la parola stessa è inserita. Così posso affermare, facendo un altro esempio, di essere
«fisicamente distrutto dalla stanchezza», senza pensare che qualcuno pretenda di raccogliere
concretamente da terra i brandelli del mio corpo. Credo dunque, tornando alla questione
manicomio, che la tendenza a colpevolizzare con la accusa che «se non si difende la 180, allora si
difende il manicomio» - al di là della strumentale disonestà mediante la quale tale accusa viene
formulata - sottintenda quella vuotezza che caratterizza le prese di posizione staliniste e, operando
una confusione sclerotizzata nella comprensione della scala gerarchica dei livelli tipologici,
nasconda una cecità fondamentale nei confronti dell'esistenza, nell'organizzazione capitalistica
della nostra società, di una diffusione capillare di rapporti disumani che sono tipici di quel mostro
che chiamiamo manicomio. Dal momento che questo manicomio può essere sostituito da una serie
di «alternative» che correlate con altre istituzioni formano il famigerato «territorio», è possibile che
io venga frainteso se mi chiedo quale «alternativa» si saprà proporre in sostituzione al manicomio-territorio? E ancora: come ci si può illudere di riuscire a disquisire coerentemente sulla psichiatria e
sul problema delle «terapie» senza tener conto della ragnatela sociale, di questa nostra inumana
società con le sue classi, i suoi rapporti di forza, le sue complessità e confusioni, le sue seduzioni, i
suoi delitti, le sue carceri, le sue fabbriche, i suoi padroni, tecnici, burocrati, aguzzini, leccaculi, e le
sue ... riforme «libertarie», psichiatriche e non?
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