Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 106
dicembre 1982 - gennaio 1983


Rivista Anarchica Online

L'ombra dei manicomi
di Giorgio Meneguz

L'attuale legge di riforma psichiatrica, inserita nella Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale n° 833, detta anche riforma sanitaria, è nata frettolosamente nel maggio del 1978, quando i referendum abrogativi dei radicali stavano «minacciando» un «vuoto» istituzionale. Ma dietro le quinte, da parecchio tempo elementi della sinistra parlamentare cercavano di sedurre i medici e gli operatori sociali protagonisti di esperienze estremamente interessanti nel campo della psichiatria sia manicomiale che extra-manicomiale. Franco Basaglia e i suoi collaboratori lavoravano in questo senso già negli anni sessanta; nel 1970 le esperienze «antimanicomiali», caratterizzate dall'apertura degli ospedali psichiatrici, si stavano diffondendo a Trieste, Perugia, Arezzo, Torino, Napoli, Parma, Pordenone, Reggio Emilia ... Furono investiti enormi sforzi e capacità di lotta dal basso, la cui portata va al di là della fama dei vari psichiatri promotori. Molte amministrazioni provinciali, sentendo puzza di anti-istituzionalismo, cercarono di fagocitare tali esperienze con l'offerta di una piena collaborazione. Pian piano veniva scemando la caratteristica di lotta alle istituzioni per focalizzare sempre più l'obiettivo nella istituzione manicomiale, parte «malata» da estirpare da una società «sana» che va lentamente razionalizzando il suo complesso - procedimento di espulsione della «parte malata» tipico della metodologia «terapeutica», medica e psichiatrica, in atto in Occidente.
Ma ancora Psichiatria Democratica, il movimento promotore di tali battaglie, rifiutava la necessità di una legge che sostituisse quella, da tutti considerata iniqua, del 1904. «Una riforma psichiatrica non può essere fatta da una legge. Solo una presa di coscienza diffusa nel territorio sociale può garantire l'effettiva eliminazione del manicomio, dei metodi coercitivi in psichiatria e della stigmatizzazione del diverso», era grosso modo la risposta di PD alle seduzioni parlamentari. Insomma, la coerente risposta della «nuova psichiatria» era: abolito il manicomio con una legge, si sorvola il problema che la «necessità» di segregare il «malato mentale» non è solamente negli psichiatri che lavorano dentro le mura manicomiali, ma in tutta la gamma delle stratificazioni popolari che formano il tessuto sociale.
Basaglia, a quel tempo, era una personalità con grosso fascino sul «movimento», una pedina importante per il potere parlamentare; e fu solo quando egli accettò finalmente che si sarebbe dovuta fare una legge di riforma psichiatrica, che con lui gran parte del «movimento anti-istituzionale» prese una svolta storica.

Fatta la legge.
Tale riforma fu varata come «struttura giuridica scaturita dall'esperienza». Ed era sicuramente vero, in un certo senso. Anche se già nel '78, in USA e in Inghilterra alcuni decenni prima, c'era chi metteva in guardia contro i pericoli dell'inserimento del reparto psichiatrico nell'ospedale civile, contro i pericoli di una chiusura selvaggia dei manicomi e la relativa mancanza di strutture «alternative», o contro il pericolo dell'abuso di psicofarmaci o tecniche direttive e manipolatorie di psicoterapia nel lavoro della psichiatria sul territorio. Questo non era paventare pericoli teorici: erano critiche scaturite dall'esperienza storica della psichiatria «avanzata» o «antipsichiatrica», italiana ed estera.
Di fatto la 180 sancisce il divieto di costruire nuovi manicomi, mentre quelli vecchi non possono essere nuovamente usati dalla psichiatria e dalle discipline «affini»; l'utente del servizio psichiatrico ha perso i connotati di «pericolosità» e «pubblico scandalo»; il terreno privilegiato per la comprensione e la cura dei disturbi psichici è quello sociale, extra-ospedaliero. Queste sono le innegabili innovazioni che la riforma psichiatrica ha introdotto.
Il risultato è che, se da una parte ci sono stati in genere enormi benefici per gli ex-degenti degli ospedali psichiatrici con disturbi lievi (un'altissima percentuale) - mentre alle persone portatrici di un disagio estremamente pesante solo le situazioni antimanicomiali che esistevano già anni prima dell'approvazione della nuova legge hanno saputo rispondere in maniera adeguata - dall'altra parte, l'impreparazione della gente comune, famigliari e non dei pazienti istituzionalizzati, assieme all'impreparazione degli operatori psichiatrici e la mancanza di strutture che si ponessero come «alternativa» al manicomio, contribuiscono a generare confusione e situazioni umane estremamente sofferte e spiacevoli.
Su questo terreno, cioè laddove la riforma psichiatrica ha agito in senso semplicemente distruttivo, si inserisce la maturazione delle nuove proposte di legge. Su un terreno carico di confusione e tensione di cui sono espressione soprattutto la gente di strada, le famiglie dei pazienti e i pazienti stessi, al di là delle varie posizioni di appartenenza nella scala gerarchica delle classe sociali, al di là delle colorazioni politiche e delle tessere dei partiti. Qui hanno provato a seminare le forze parlamentari che hanno presentato le proposte di modifica della legge 180. Sono ovviamente proposte imbecilli e strumentali: esse mirano, più che al problema psichiatrico, a quello di lavorare sulla retriva mentalità e cultura italiana per poter guadagnare voti preziosi all'autoconservazione di un certo tipo di potere. Ma credo non debba venire sottovalutata una considerazione di fondo che accomuna le nuove proposte di legge: nessuna nega il momento territoriale extraospedaliero, anche se in genere viene sopravvalutato quello del ricovero. Mi si obietterà che questo è valido solo in teoria, perché nella pratica, basta non far funzionare il «servizio territoriale extraospedaliero» per avvalorare la tesi della necessità del ricorso al manicomio. Credo sia una risposta semplicistica. Tutti, indistintamente, sono concordi che il manicomio, come storica istituzione pubblica, va superato: esso non è più strutturalmente compatibile con lo «sviluppo» socialdemocratico della civiltà post-industriale dell'occidente. Al massimo può essere disquisita l'«alternativa» più «terapeutica»: ospedali privati convenzionati, psicoterapie d'appoggio negli ambulatori, comunità protette, 15 - 20 - 60 - 180 posti letto per i degenti psichiatrici nell'ospedale civile e formanti strutture a parte, montagne di psicofarmaci, e altre ancora: le strade percorse e da percorrere sono numerose. Ed è perciò vero che lo Stato, scegliendo per esempio di istituire servizi territoriali, ma boicottandoli di fatto, finanziando esclusivamente gli ospedali privati, manterrebbe in vita comunque delle strutture manicomiali (salvandosi però, in un certo senso, la faccia). Ma non affermiamo, per favore, che l'unica risposta alla situazione attuale sia la difesa di una riforma e la conseguente richiesta di una sua applicazione: la storia, la logica, l'esperienza, insegnano che uno Stato non si rivoluziona socialmente ed economicamente mediante l'emanazione di una legge.
Non credo si tratti di «revanscismo della destra» o «nuova restaurazione», come viene oggi chiamata questa tendenza a «rivedere» la legge 180. Questa tendenza, assieme paradossalmente a quella che ha fatto nascere la legge 180, si inserisce coercitivamente in un quadro più ampio e ovviamente contraddittorio (con i dovuti residui conservatori e reazionari) della riforma globale della società. Altrimenti non si spiegherebbe perché nel Friuli, e in modo particolare a Pordenone, o a Napoli, per prendere due esempi estremi, il partito della Democrazia Cristiana è un fautore e difensore agguerrito della nuova riforma psichiatrica.

La scoperta dell'America
Già nel 1977 l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa rilevava, nella raccomandazione numero 818, il problema della tragedia dell'internamento manicomiale e del dimissionamento «selvaggio». Esortava, in un certo senso, ad «elaborare nuove linee di condotta ad uso dei giuristi e dei medici» e notava che «i progressi della tecnologia medica e psicoterapeutica rischiano a volte di costituire una minaccia per il diritto all'integrità fisica e psichica dei pazienti». Inoltre, e qui voglio riportare integralmente il testo, raccomandava «al Comitato dei Ministri ad invitare i governi degli Stati membri: a rivedere le loro legislazioni e i loro regolamenti amministrativi sull'intervento dei malati mentali, ridefinendo certi concetti fondamentali, come l'aggettivo "pericoloso", riducendo al minimo la pratica consistente nell'internare un paziente a forza, per un periodo indeterminato ... ».
Ma le prime riforme vengono dall'America, negli anni sessanta, al tempo della presidenza Kennedy. Si operava in quel periodo negli USA un atteggiamento di smantellamento degli ospedali psichiatrici per motivi economici e ... umanitari; andava diffondendosi l'assistenza domiciliare extraospedaliera assieme alla creazione di strutture «alternative» quali le free-clinics, le comunità alloggio, le comunità terapeutiche, le case protette. Iniziavano ad infiltrarsi nelle famiglie e nelle scuole psichiatri e psicologi specialisti in relazioni umane interpersonali. Stava dilagando lentamente la confusione, presente nelle teorizzazioni della «nuova psichiatria» italiana, tra «interpersonale» e «sociale». La comunità veniva coinvolta nell'elaborazione dei rapporti tra i pazienti e la comunità stessa, tra l'elemento e l'insieme, spingendosi in posizioni conflittuali con altre istituzioni riguardo la «gestione finanziaria e politica delle terapie». Questa caratteristica gestione decentrata della follia, che fu chiamata impropriamente «sociale», fu per certi versi una delle travi maestre del rafforzamento politico ed economico americano, e aiutò il superamento dei conflitti relazionali che avrebbero portato alla messa in discussione delle istituzioni famiglia, scuola, fabbrica, carcere, metropoli, eccetera.
Da quel periodo altri personaggi che ben conosciamo, quali Nixon e Raegan, hanno spinto verso un intervento psichiatrico diffuso sul territorio, «alternativa alla sistemazione istituzionale dei pazienti ricoverati che abbia come centro focale la loro riabilitazione», teso a smorzare rapidamente i sintomi non importa se individuali o famigliari - senza badare alla comprensione complessiva delle eziologie. L'importante è la rapidità della risoluzione del conflitto e l'accresciuta capacità adattiva dimostrata dall'individuo nei confronti del gruppo, o lo smussamento degli spigoli improduttivi dell'ambiente per una relazione sinergica degli elementi che gli appartengono. Politica della neutralizzazione, dunque: ecco come potrebbe essere definita la politica dello «stato assistenziale» di matrice americana.
La «nuova psichiatria» può essere un buon mercato per il capitalismo, specialmente quando potrebbe far risparmiare soldoni e guadagnare investimenti e posti di lavoro. Si pensi, per esempio, che una giornata di degenza ospedaliera costa sulle 200 mila lire, contro le 20-30 mila lire della giornata in un presidio extraospedaliero; inoltre il riconoscimento del «disagio sociale» causato da quei portatori di grossi problemi esistenziali che sono gli ex-manicomializzati, «affiuiti» ora nel manicomio-città, spinge alla creazione di nuovi posti di lavoro per operatori sociali, tecnici della salute mentale, dell'assistenza, ecc.
Ma il potere politico italiano effettua «tagli alla sanità», afferma che la legge 180 è «troppo costosa» (?), rilevando ancora una volta quanto sia enorme l'ottusità politica e il terzomondismo dei nostri governanti.
Tutt'ora, da noi sono presenti tre tendenze tipiche: la tecnicizzazione della psichiatria biologica, il «risparmio» economico, la «nuova psichiatria». Le prime due prevalgono di fatto, e la «nuova psichiatria» ha la sua bella legge. Una riforma spacciata per rivoluzionaria che (affascinante come un fiore che è spuntato dal letame del porcile italiano - e che con le sue radici trae da questo il suo nutrimento) si inserisce però nel progetto dei Paesi più «maturi» di sviluppare un controllo e, ripeto, una riduzione dei conflitti più consone allo stadio di evoluzione formale della civiltà post-moderna occidentale.
Le tendenze politiche italiane sul terreno psichiatrico, non vanno comprese chiedendosi perché, nella maggioranza, DC, PLI, PRI, sono contrari alla legge 180, ma perché alcune sedi degli stessi partiti sono eccezionalmente favorevoli. E, d'altra parte: le proposte di legge sono bloccate in parlamento grazie al «muro» creato dal PSI, ma perché nella pratica molti socialisti con incarichi di potere sono favorevoli ad una revisione della legge (la situazione milanese ne è la punta di diamante)?

L'Italia è nuda
Personalmente ritengo, comunque vadano le faccende governative, che, pur nella gamma variegata di posizioni più o meno ritardate, la nostra organizzazione sociale tende ad un processo di sviluppo generale mirante alla raffinazione degli strumenti di razionalizzazione dello Stato e delle istituzioni che ne compongono le maglie tissulari. Secondo questa visione delle cose, credo si possano comprendere molte sfumature riguardo la rilevante posizione di fette di partiti dissenzienti dalla «linea centrale».
Ma se in Italia, effettivamente, a fare da substrato a «evolute» riforme socialdemocratiche, esiste una incredibile rozzezza culturale, un marcato spirito provinciale, una sclerotizzazione delle idee, un potere ideologico feudale: un letamaio, appunto: un ricambio deve comunque fisiologicamente maturarsi. In questa prospettiva si collocano i partiti di sinistra e i sindacati.
La CGIL sta elaborando una «proposta di attuazione della legge 180». Già la prima bozza resa pubblica rileva indubbiamente una certa intelligenza: il sindacato chiede in poche parole che vengano rispettati gli articoli della legge, sottolineando ed elencando con cognizione, a parte alcuni punti, le parti implicite al testo del 1978. Con tutta probabilità partirà un programma di petizione popolare «per l'attuazione della legge 180».
Non ho intenzione, a questo punto, di sguainare e brandire la spada infuocata dei sacri princìpi antilegalitari propri dell'anarchismo. In se stessa, l'ideologia è un messaggio vuoto e improduttivo: non il vessillo né l'alfiere hanno vinto le battaglie. Il punto è invece quello di rilevare nuovamente come sia difficile comprendere che con un atto di imposizione, una legge, è impossibile rivoluzionare la società (perché di questo si tratta, quando si parla di psichiatria). Questo può essere fatto invece con l'esperienza, con la pratica, con l'azione del capovolgimento, dal basso, di situazioni pregnanti di oppressione e, nello stesso tempo, con un accresciuto bisogno di sovversione per la libertà. E' dalle lotte al di fuori delle leggi che si producono cambiamenti estremamente entusiasmanti e radicali: la storia della «nuova psichiatria» dovrebbe insegnarcelo. Esiste poi il problema del tentativo istituzionale di assorbire e neutralizzare tali esperienze, di trasformare in utilità una minaccia; la capacità di non farsi fagocitare deriva sia dalla capillarità del lavoro svolto nel tessuto sociale per effettuare il cambiamento, sia dal grado di coscienza anti-istituzionale di cui i protagonisti dell'esperienza sono portatori.
Ancora un paio di cose.
E' probabile che la mia analisi si collochi gerarchicamente ad un livello superiore (quello dell'astrazione) nell'ordine del discorso; come è probabile, considerata l'esperienza, che mi si accusi di indiretta complicità al ritorno dei manicomi: o con la 180 o contro di lei, quindi per i manicomi.
Anzitutto, a costo di cadere nel superfluo, ci tengo a fare una precisazione riguardo all'uso «inflazionato» della parola manicomio. Dovrebbe essere chiaro che il manicomio, l'ospedale psichiatrico, è un luogo fisico ben preciso, storico, con una certa particolare caratteristica architettonica, organizzativa, funzionale. Altrove, personalmente ho affermato che le nuove proposte di legge mirano ancora ai manicomi o alla manicomializzazione di alcune strutture. Per la precisione, comunque, in esse non si afferma mai che occorre riaprire il manicomio in quanto tale. Ef fettivamente, costituire luoghi con 180 posti letto, ma anche con 60, o repartini psichiatrici nell'ospedale civile organizzati in un certo modo, oppure contrapporre all'«istituzione totale» una «istituzione diffusa», è come se si trattasse di manicomi o manicomializzazione. Nella stessa maniera, affermare per esempio che famiglia, scuola, e via dicendo, sono carceri, equivale a dire che è come se fossero carceri ...
Ora, una parola può anche essere usata «impropriamente» quando si ritiene che uno dei suoi significati, per esempio quello metaforico del come se, venga compreso nella lettura del contesto in cui la parola stessa è inserita. Così posso affermare, facendo un altro esempio, di essere «fisicamente distrutto dalla stanchezza», senza pensare che qualcuno pretenda di raccogliere concretamente da terra i brandelli del mio corpo. Credo dunque, tornando alla questione manicomio, che la tendenza a colpevolizzare con la accusa che «se non si difende la 180, allora si difende il manicomio» - al di là della strumentale disonestà mediante la quale tale accusa viene formulata - sottintenda quella vuotezza che caratterizza le prese di posizione staliniste e, operando una confusione sclerotizzata nella comprensione della scala gerarchica dei livelli tipologici, nasconda una cecità fondamentale nei confronti dell'esistenza, nell'organizzazione capitalistica della nostra società, di una diffusione capillare di rapporti disumani che sono tipici di quel mostro che chiamiamo manicomio. Dal momento che questo manicomio può essere sostituito da una serie di «alternative» che correlate con altre istituzioni formano il famigerato «territorio», è possibile che io venga frainteso se mi chiedo quale «alternativa» si saprà proporre in sostituzione al manicomio-territorio? E ancora: come ci si può illudere di riuscire a disquisire coerentemente sulla psichiatria e sul problema delle «terapie» senza tener conto della ragnatela sociale, di questa nostra inumana società con le sue classi, i suoi rapporti di forza, le sue complessità e confusioni, le sue seduzioni, i suoi delitti, le sue carceri, le sue fabbriche, i suoi padroni, tecnici, burocrati, aguzzini, leccaculi, e le sue ... riforme «libertarie», psichiatriche e non?