Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 100
aprile 1982


Rivista Anarchica Online

Ritorno in Turchia
di Giulio Manieri

Dopo un lungo, estenuante viaggio attraverso i Balcani siamo arrivati alla frontiera della Tracia turca. Minuziosa perquisizione dei viaggiatori dell'autobus, in gran parte emigranti di ritorno dalla Germania federale; infine, via libera per Istanbul. Sono tornato un anno dopo in Turchia, un anno e mezzo dopo il golpe del 12 settembre 1980, quando l'esercito aveva rovesciato il governo di centro-destra del Partito della Giustizia.
Nel paese, allora, imperversavano, e incrudelivano, le bande armate fasciste e marxiste-leniniste. I fascisti si facevano sempre più baldanzosi, e le loro rappresentative parlamentari, pur nella loro esiguità numerica, di fatto influenzavano il governo di Demirel, assicurandogli con un pugno di voti la maggioranza dell'assemblea. L'esercito era ampiamente inquinato da elementi fascisti e dunque si temeva un golpe dichiaratamente di destra. Tanto che, la mattina del 12 settembre, quando ancora non si sapeva nulla dei veri organizzatori del colpo di mano, si era diffusa la paura che si trattasse di un bagno di sangue alla cilena. Gli stessi seguaci di Turkes (il colonnello leader dei fascisti) si riversavano per le strade, sicuri di essere loro i protagonisti di quella giornata: la disillusione doveva presto colpirli dentro i camion dell'esercito che li portavano, anche loro come i militanti della sinistra, in una galera.
La giunta aveva perciò avuto buon gioco a presentare l'intervento militare come una sorta di "golpe dal volto umano", un intervento doloroso sì ma necessario ad evitare il peggio. Evren, capo della giunta, nella sua prima conferenza stampa aveva ribadito la transitorietà del regime militare, e posto come suo fine principale quello di riportare il paese ad un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. Si era proceduto nella repressione secondo una politica del "doppio binario", due pesi e due misure cioè: implacabili con i gruppi di estrema sinistra, rigorosi ma non troppo verso i fascisti (tra i quali vanno compresi gli estremisti islamici del Partito di Salvezza Nazionale), duri con i partiti istituzionali; questi ultimi non erano stati posti fuori-legge, si era soltanto "sospesa temporaneamente" la loro attività. Gli intellettuali, il mondo accademico, largamente simpatizzanti della sinistra, non erano stati toccati se non marginalmente dagli arresti di massa. Qualche mese dopo il golpe, alcuni docenti universitari di sinistra, che condannavano l'azione dell'esercito, subito mi facevano il confronto col 1972 (l'anno del precedente colpo di stato), quando tutti loro, anche quelli con timide tendenze liberali, erano stati messi in carcere, e moltissimi torturati. Anzi, mi si diceva, "ora uscendo di casa la mattina, so che la sera ci tornerò; prima era l'insicurezza totale, eravamo nel mirino dei fascisti".
Allora, in quel dicembre dell'ottanta, in un'Ankara freddissima e colma di neve, la presenza dei militari era vistosa, ingombrante. La notte, dopo le 12, un rumore di motori annunciava i raid militari contro i gececondu (le bidonvilles che accerchiano la città), luoghi di una resistenza sempre meno attiva. A Kizilay, il centro nuovo di Ankara, una sera un piano di un grattacielo, con un botto assordante, si era di colpo illuminato di fuoco, e subito dopo i fischi e le sirene della gendarmeria: la resistenza si faceva sentire. Anche se una delle cose che più mi aveva colpito era l'assenza di ogni segno di un suo passaggio; nemmeno la più piccola scritta contro il regime, solo l'ombra di quelle passate cancellate da una diligente campagna di "pulizia" dei muri.
Un anno dopo, il caffè (il famoso caffè turco) continua a non esserci (ma questa era stata una trovata del governo costituzionale che ne aveva bloccato l'importazione per eliminare una voce passiva nella bilancia dei pagamenti). Gli impiegati dello Stato devono presentarsi in ufficio, secondo un decreto della giunta, gli uomini in giacca e cravatta e senza barba (i baffi sono tollerati, ma solo se non hanno le punte all'ingiù), e le donne in gonna (i pantaloni essendo severissimamente proibiti). Ma la presenza dei militari nelle strade è più discreta, anche se le facce rimangono truci e l'assetto è di guerra. Tuttavia la vite del regime, invece di allentarsi come era stato promesso, si va sempre più stringendo. Quello che si era annunciato come un "governo provvisorio" si progetta ormai come uno "stato permanente".
Dal mese di novembre ha iniziato i suoi lavori una "assemblea costituente", formata non attraverso il procedimento elettorale, ma composta di membri nominati dalla giunta, e direttamente, e per il tramite dei prefetti. Questa assemblea ha l'incarico di elaborare una nuova costituzione sulla base della quale nell'83 o nell'84 dovrebbero indirsi nuove elezioni, e successivamente si costituirebbe un nuovo parlamento. Come si vede, questa assemblea è uno strumento passivo nelle mani di Evren; essa svolge una funzione preziosa per i generali della giunta: da un lato da al regime una parvenza di democraticità, e dall'altro lo razionalizza e gli fornisce il modello politico della sua perpetuazione. Essa ha dunque 1) una funzione ideologica e propagandistica, all'interno del paese come all'esterno (dimodoché la fittizia rappresentatività della "Costituente" attribuisca al regime le qualità richieste per la presenza nel Consiglio di Europa, di cui la Turchia è membro); 2) una funzione progettuale, poiché l'assemblea elabora il piano di una "normalità democratica" ad uso e consumo dell'esercito.
Ed infatti all'indomani dell'insediamento di questa Costituente di burattini, la giunta può permettersi una serie di provvedimenti, che chiudono ogni sbocco alla "temporaneità" del regime, e ne rivelano la volontà di farsi da stato "eccezionale" stato "normale". Un annuncio della BBC, in proposito, suonava così: "Il generale Evren ha dichiarato che la democrazia è sul punto di essere ristabilita in Turchia. Tutti i partiti politici sono stati dichiarati fuori-legge". Mentre il 12 settembre 1980 si era solo "sospesa" la loro attività, nel novembre di un anno dopo i partiti vengono disciolti. E ciò nel momento in cui con l'insediamento dell'assemblea costituente si pretende di essere sulla strada del ritorno alla democrazia.
La manovra della giunta è sottile: mettendo fuori-legge i partiti, e così "bruciando" il loro personale politico, nel momento stesso in cui si progettano nuove elezioni, si vuole evitare che a queste si presentino la vecchia classe politica e le loro formazioni. Il ritorno alla democrazia, per Evren, non deve essere un mero ritorno a prima del 12 settembre, a una situazione politica gestita dai partiti tradizionali, ma un "qualcosa" di radicalmente diverso. Vi saranno certo dei partiti, ma questi saranno delle organizzazioni composte e guidate da uomini non compromessi con i vecchi partiti, e fedeli all'interpretazione del kemalismo fornita dall'esercito. Una "democrazia" quanto mai addomesticata, retta secondo un sistema presidenziale, e teleguidata dall'esercito: ecco il progetto della giunta. Ricucitosi alla meglio un abito democratico, Evren, può ora calcare la mano sulla repressione. L'università, questo centro di sovversivi, può essere finalmente colpita senza che si possa gridare alla violazione dei diritti dell'uomo: si sta elaborando una nuova costituzione, chi ha qualcosa da dire lo dica in quella sede oppure attenda pazientemente che dignitari e ufficiali portino a termine il loro lavoro di legislatori. Viene emanata una nuova legge universitaria, che espone al licenziamento la grande maggioranza dei docenti e consente al potere centrale di inviarli in quelle sedi che riterrà più opportune. È una specie di esilio per i docenti, ed il mezzo per smembrare quei centri di dissenso (per quanto non militante) che sono le facoltà universitarie. In questo clima di "ritorno alla democrazia" si celebra a Istanbul il processo ai dirigenti del DISK, il secondo sindacato del paese (di ispirazione marxista) messo fuori-legge, mentre il primo e più grande sindacato, Turk-Is, continua a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione dello Stato, e di irregimentazione interclassista della classe operaia (il segretario di Turk-Is è attualmente membro del governo). Il processo al DISK è rivelatore per ciò che concerne la natura del regime. Gli imputati sono stati ripetutamente torturati, seviziati, violentati; qualcuno è morto sotto la tortura (morto accidentalmente, o suicidio, è la versione ufficiale della polizia). Il capo di accusa principale: avere avuto come fine "l'instaurazione della dittatura del proletariato"; tra le prove quella di avere aperto il congresso dell'organizzazione sindacale al canto dell'Internazionale. La pena prevista, per tutti, è la condanna a morte.
Ma questo processo ha rivelato un'altra cosa: in Turchia l'opposizione esiste, è viva. Sfidando rischi enormi, è stata assicurata agli imputati una massiccia presenza della difesa con l'adesione del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati. Nonostante il pesantissimo clima di intimidazione, gli arresti di avvocati in aula, i soldati che con registratori seguivano i colloqui dei familiari dei detenuti tra loro e con i loro cari, e tra gli avvocati e i loro assistiti, nonostante ciò si è potuto mettere in piedi un minimo di meccanismo processuale che arginasse l'arroganza del Tribunale militare. Gli avvocati turchi sono ben lontani dall'immagine che di loro ci ha dato il grasso e untuoso azzeccagarbugli di "Fuga di mezzanotte" (per troppi occidentali la sola fonte di conoscenze sulla società turca): essi sono continuamente oggetto di rappresaglie poliziesche. Una riprova è data dal generale atteggiamento di ostilità che polizia e soldati hanno verso coloro che esercitano la professione legale; tanto che gli amici mi raccomandavano di non tirare fuori ai controlli il tesserino di procuratore legale.
In un paese dove il fermo di polizia può durare novanta giorni (quarantotto giorni rinnovabili), dove la tortura fa, si può dire, parte dell'istruzione del procedimento penale, dove ci sono quarantamila detenuti politici, non è certo il caso di farsi illusioni garantistiche. Ma nel silenzio generale, sono questi avvocati la punta emergente, visibile, della resistenza alla dittatura.
È ormai arrivata, dopo due settimane, l'ora di partire. Sentiamo che Evren annuncia come grande conquista del regime il "ritorno al caffè", che potrà essere nuovamente importato. Artun Unsal, corrispondente di "Le Monde", compiacente e compiaciuto, lo annuncia al mondo intero dalle colonne del quotidiano parigino.
Gli amici all'aeroporto, tra file di emigranti che ritornano in Germania, mi salutano col tradizionale "güle güle". "Ridi ridi" significa, e lo si dice a chi parte, perché non pianga. Oggi, questo saluto ha un qualcosa in più di triste: si ha ben ragione di ridere andando via dalla Turchia, il pianto infatti è tutto per chi resta.