|  Nosotros 
                  anarcosindicalistas
 L'intervista al segretario della CGT Spagnola ("Nosotros de 
                  la CGT"), condotta da S. d'Errico e F. Iacchetta, pubblicata 
                  sul n. 259 della Rivista "A" cerca di spacciare per vere alcune 
                  pericolose falsità che pongo all'attenzione dei lettori. Dall'inizio alla fine dell'articolo si cerca infatti di accreditare 
                  (con calcolata insistenza) come "anarcosindacalista" un'organizzazione 
                  sindacale, la CGT appunto, che nella realtà non lo è affatto. 
                  Ritengo opportuno, quindi, precisare alcune cose che intervistato 
                  ed intervistatori non vi hanno detto, non amano che si sappia 
                  e probabilmente non vi direbbero mai. Tralascio le vicende dell'ambigua 
                  nascita della CGT (attraverso scissioni, di fatto favorite dall'allora 
                  governo socialista, per colpire la CNT in rapida ascesa alla 
                  fine degli anni settanta e agli inizi degli ottanta).
 Tralascio anche la parte che riguarda i tentativi degli scissionisti 
                  di voler usurpare la storica sigla dell'anarcosindacalismo spagnolo 
                  per poter mettere le mani sull'enorme patrimonio confiscato 
                  dai fascisti alla CNT e che un giorno il governo spagnolo dovrà 
                  restituire alla Confe-derazione. Sono vicende complesse di un 
                  passato pur recente.
 Vorrei invece soffermarmi su che cos'è la CGT di oggi. Si tratta 
                  di un sindacato che progressivamente si è allontanato sempre 
                  più dai contenuti del sindacalismo di base (pur continuando 
                  ad esserci all'interno lavoratori in buona fede e realtà interessanti, 
                  così come avviene nell'arcipelago dei sindacati alternativi 
                  italiani). Fortemente burocratica la sua struttura interna, 
                  gestita da un corpo di funzionari pagati, la CGT ha, in questi 
                  anni, tessuto solidi legami di reciproci interessi con partiti 
                  politici della sinistra spagnola (ben presenti all'interno dei 
                  vertici sindacali) che, di fatto, ne condizionano la linea. 
                  La strategia di intervento di questa organizzazione ha quindi 
                  ben poco di "base" o di "alternativo" visti i sempre più numerosi 
                  compromessi col padronato e lo stato, le scelte cogestionarie 
                  e le frequenti svendite di lotte. Si arriva al limite a casi 
                  in cui la CGT ha accettato licenziamenti di lavoratori. Tutto 
                  questo è facilmente riscontrabile seguendo la stampa spagnola 
                  di questi anni.
 Ma il fatto più preoccupante ed oggettivamente assai pericoloso, 
                  su cui invito tutto il movimento libertario a ben riflettere, 
                  è l'ormai diffusa "apertura" di questo sindacato verso le forze 
                  della repressione. Sin dal 1992 la CGT ha costituito al suo 
                  interno sindacati (SAP) in cui si sono organizzati i membri 
                  della famigerata polizia catalana per poi passare ad altri "corpi" 
                  tra cui anche gli agenti carcerari. È del Giugno di quest'anno 
                  la "lotta" (si fa per dire!), che ha avuto molta eco localmente, 
                  intrapresa dalla CGT ad Almeria, unita ad alcuni sindacati gialli, 
                  in favore delle richieste corporative dei carcerieri di quella 
                  città.
 Ora, mi rendo conto che come redazione di "A" è vostro sacrosanto 
                  diritto pubblicare quello che vi pare ma, per favore, nell'editoriale 
                  del n. 259 ("Bomba o non bomba" pag.4), dopo aver messo le mani 
                  in avanti affermando che sulla situazione spagnola non sposate 
                  nessuno (si sa, coi costi delle separazioni!) potevate almeno 
                  evitare di dire, riferendovi all'intervista in questione, che 
                  comunque fornite ai vostri lettori "informazioni valide". In 
                  questo caso le informazioni non erano vere e comunque risultava 
                  evidente che lo scopo di intervistatori ed intervistato era 
                  solo quello di propagandare il tentativo in atto di creare una 
                  nuova internazionale di sindacati europei. Cosa questa legittima 
                  per chiunque, a patto che non si tenti di far passare per "anarcosindacalismo" 
                  quello che è l'esatto opposto. (NB: i sindacati rivoluzionari 
                  ed anarcosindacalisti di tutto il mondo già hanno la loro internazionale: 
                  l'AIT Associazione Internazio-nale dei Lavoratori.
 Qui non si tratta di dare o togliere patenti a nessuno. Si tratta 
                  di essere logici e coerenti. Vi sono dei paletti che delimitano 
                  il che cos'è e cosa non è una determinata cosa. L'Anarcosindacalismo 
                  è stare coi lavoratori ma anche con gli antimilitaristi, i nonsottommessi 
                  e i tanti proletari in carcere. Stare coi poliziotti e coi carcerieri 
                  vuol dire stare contro l'Anarcosindacalismo. Gli uni, sempre 
                  e comunque contro gli altri.
  Gianfranco Careri(Ancona)
  Il 
                  peso del comunismo
 Ho letto con interesse, sul numero 259 di "A Rivista Anarchica", 
                  la lettera di Cristiano Valente sulla libera sperimentazione 
                  e la risposta di Pietro Adamo. Condivido gran parte di quanto sostiene Valente e, di conseguenza, 
                  non ritengo opportuno tornare sulle sue considerazioni in questa 
                  sede. La risposta di Pietro Adamo, forse anche perché caratterizzata 
                  dall'esigenza di essere concisa, mi sembra decisamente singolare.
 Cercherò, di conseguenza, di far rilevare alcune questioni che 
                  mi sembrano meritevoli di approfondimento.
 In primo luogo è evidente che il termine "comunismo", anche 
                  se accompagnato dall'aggettivo "libertario", è caratterizzato 
                  dal peso della vicenda del blocco orientale e dei partiti comunisti 
                  storicamente esistiti ed esistenti. Io per primo, pur ritenendomi 
                  comunista, sono consapevole di quanto sia faticoso e, a volte, 
                  inutile stare a spiegare la differenza fra ciò che il senso 
                  comune chiama comunismo e il comunismo come progetto di radicale 
                  emancipazione sociale.
 Un mio conoscente ha affermato una volta che la parola "comunismo" 
                  è sputtanata per i secoli futuri e proponeva di sostituirlo 
                  con la circonlocuzione "autogoverno dei produttori associati". 
                  Per parte mia, non avrei problemi a chiamare il comunismo libertario 
                  "Pier Ferdinando" se questa nuova definizione ci facesse fare 
                  un solo passo avanti ma ritengo che il modificare la parola 
                  non risolva nulla e che la questione sia di altro tipo e riguardi 
                  quello che si ritiene caratterizzi un programma di emancipazione 
                  sociale radicale.
 Detto ciò, mi sembra evidente che, almeno quando di questi argomenti 
                  si occupa un compagno della preparazione di Pietro Adamo, non 
                  ci si aspetterebbe una liquidazione del problema quale quella 
                  che possiamo leggere nelle ultime righe della sua lettera. Quando, 
                  infatti egli afferma: "anarco-comunisti e anarco-capitalisti 
                  appaiono condividere in fondo la stessa prospettiva gnostico-millennaristica: 
                  per entrambi il regno della libertà finale - comunista o capitalista 
                  che sia - non è mai comparso nel regno della storia; è, nella 
                  sua perfezione assoluta, sempre di là a venire" compie un operazione 
                  intellettuale decisamente interessante.
 In primo luogo pone sullo stesso piano la tradizione classista 
                  e rivoluzionaria dell'anarchismo con correnti liberiste radicali 
                  di derivazione statunitense (per evitare equivoci, se fossero 
                  di derivazione bengalese non le riterrei più condivisibili) 
                  che sono estranee, sino a prova contraria, alla teoria, alla 
                  pratica, alla cultura anarchica. Adamo potrà sostenere che non 
                  vi è chi ha il diritto di escludere dalla nostra variopinta 
                  famiglia nessuno ed io non posso che essere d'accordo con lui 
                  ma ritengo che chi difende la proprietà privata, il lavoro salariato 
                  ecc. sia appartenente ad un altra corrente di pensiero per propria 
                  scelta e, di conseguenza, si sia escluso, ammesso che se ne 
                  curi, da sé. In realtà, le mie limitate letture della letteratura 
                  anarco-capitalista mi confermano nell'idea che i suoi esponenti 
                  di tutto si curino fuorché dell'anarchismo. A questo proposito, 
                  infine, vorrei porre una domanda: gli anarco-capitalisti sono 
                  capitalisti anarchici o anarchici (si fa per dire) ansiosi di 
                  diventare capitalisti? Nel primo caso potremmo chiedere loro 
                  un cospicuo finanziamento al movimento, nel secondo fare loro 
                  i migliori auguri e lasciarli andare per la loro strada.
 In secondo luogo, attribuisce ai comunisti anarchici una prospettiva 
                  religiosa che non mi risulta avere alcuno spazio nella tradizione 
                  anarchica se si escludono alcune sfumature della propaganda 
                  elementare e nelle canzoni di un secolo addietro (sfumature 
                  peraltro suggestive e, perché nasconderlo?, sovente commoventi 
                  nella loro semplicità). Basta leggere le opere di Fabbri e Malatesta, 
                  autori che Adamo mostra di conoscere ed apprezzare, per tranquillizzarsi 
                  nel merito. Il comunismo anarchico è proposto come un programma 
                  razionalmente condivisibile e storicamente realizzabile e non 
                  come l'età dell'oro. Questo programma si può condividere o meno 
                  ma certo non prevede alcun atto di fede né alcun percorso settario.
 Infine Adamo fa una scoperta che trovo conturbante: il comunismo 
                  libertario non si è mai realizzato. Un argomento del genere 
                  è notevole per non dire bizzarro. Infatti se il comunismo libertario 
                  si fosse realizzato non sarebbe un programma ma una realtà sociale 
                  e noi non ci proporremmo di agire per favorirne la realizzazione 
                  ma, casomai, per viverlo al meglio. Se, insomma, la rivoluzione 
                  sociale si fosse compiuta non vi sarebbero, almeno nel senso 
                  attuale, dei rivoluzionari e ragioneremmo d'altro.
  A proposito del comunismo libertario Adamo propone una confutazione 
                  precisa: "le sue imperfezioni nel mondo reale sono sempre spiegabili 
                  con le contingenze storiche; le realizzazioni storiche - l'unico 
                  metro di giudizio concreto a disposizione di uomini mediamente 
                  razionali - sono sempre contaminate e mai eleggibili a modello 
                  di raffronto e valutazione". In poche e secche parole Adamo colloca i comunisti anarchici 
                  al di fuori dell'ambiente degli uomini mediamente razionali 
                  e li arruola (ci arruola) nel campo degli gnostici millennaristi.
 Ora, il fatto che dovrebbe essere mediamente noto anche ad uomini 
                  razionali quale è Adamo è che, nel corso del secolo che volge 
                  alla fine, le rivoluzioni proletarie storicamente esistenti 
                  sono state schiacciate nel sangue e che le loro realizzazioni 
                  storiche (se non vogliamo chiamarle comunismo chiamiamole autogoverno 
                  dei produttori associati) che pure non sono mancate non hanno 
                  potuto essere sottoposte a verifica approfondita per il semplice 
                  motivo che hanno avuto poco spazio e tempo per svilupparsi. 
                  Non voglio essere polemico ma ritengo che, nonostante le "contingenze 
                  storiche" (se Adamo vuole chiamare così, per fare un esempio, 
                  l'Armata Bianca e quella Rossa in Russia, i franchisti e gli 
                  staliniani in Spagna ecc.) qualche realizzazione positiva non 
                  sia mancata.
 Si può trarre da queste vicende la conclusione che la rivoluzione 
                  sociale non è possibile e sarebbe un tesi razionale ma non mi 
                  sembra simpatico collocare fuori dalla razionalità ogni teoria 
                  della rivoluzione sociale.
 A mio parere, il punto è, se assumiamo come possibile e desiderabile 
                  un superamento dell'attuale società, preciso e cercherò di riassumerlo 
                  nei limiti delle mie limitate capacità.
 L'abolizione dello stato e della proprietà e la conseguente 
                  negazione di ogni gerarchia sociale implica, per molti compagni, 
                  la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Le forme di 
                  organizzazione della vita associata in una società di questo 
                  genere non possono essere definite a priori per la contraddzione 
                  che nol consente visto che l'autogestione non può che prevedere 
                  la libera sperimentazione di stili di vita e di attività straordinariamente 
                  diversificati. Di conseguenza, in linea di principio, non ripugna 
                  alla ragione che vi siano individui che trarranno piacere dalla 
                  conduzione individuale di qualche attività e non si vede che 
                  problema possa porre una scelta del genere in assenza di sfruttamento 
                  del lavoro altrui. La discussione su questo problema ha più 
                  di un secolo e non mi sembra che Adamo abbia aggiunto elementi 
                  particolarmente nuovi a quanto altri hanno detto in passato 
                  sull'argomento.
 Il fatto che si sia affermata in Unione Sovietica, prima, ed 
                  in altre aree del pianeta, poi, un regime che si è definito 
                  socialista e che vedeva al governo un partito che si definiva 
                  comunista ha reso necessaria una critica puntuale al loro modo 
                  di intendere e, soprattutto, di praticare l'espropriazione della 
                  proprietà privata. Per la verità, questa critica era piuttosto 
                  una conferma che un superamento della precedente valutazione 
                  anarchica sul ruolo dello stato ma era, ed è, necessaria una 
                  riflessione sulle difficoltà della rivoluzione sociale, sui 
                  totalitarismi, sullo stravolgimento del socialismo. Sarebbe 
                  sbagliato negare che l'anarchismo come corrente di pensiero 
                  ed azione ha vissuto una crisi profonda soprattutto per quel 
                  che riguarda alcune ottimistiche aspettative nelle capacità 
                  di autoemancipazione delle classi subalterne.
 Sarebbe ancora più sbagliato evitare una discussione serrata 
                  su questi temi.
 Detto ciò, ritengo che le ragioni che inducono molti compagni 
                  a desiderare l'autogoverno dei produttori associati ed a battersi 
                  per realizzarlo restino sostanzialmente valide ed anzi, di fronte 
                  ai caratteri attuali dell'oppressione e dello sfruttamento, 
                  siano rafforzate.
 Quali siano i mezzi migliori d'azione, quali le difficoltà, 
                  quali gli errori passati e presenti è argomento meritevole di 
                  confronto nel rispetto delle diverse sensibilità ma non trovo 
                  utile offrire un'immagine caricaturale dei punti di vista che 
                  non si condividono per garantirsi una facile ma inutile, ai 
                  fini di una crescita comune, vittoria dialettica.
  Cosimo Scarinzi (Torino)
   
                  
                     
                      |  MAQROLL 
                          È PARTITO a Fabrizio De André
  Le labbra di un canto migratorepremono sulla corale del sogno
 in un concerto monozigoto
 che ci evoca gemelli
 a tutto dissonanti
 e per sempre libertari
 un Gesù travestito da passeur
 in fuga dal marchio divino
 inciampa tra le sirene del porto
 cade tre volte e per tre volte
 ti bacia le dita
 perché l'hai schiodato
 dalla croce virtuale
 del figlio del padre
 e dello spirito santo
 e quel salice piangente
 che ti spiove sulla fronte
 fa ombra al mio rimpianto
 sui declivi rottamati
 alla semina sinale
 dove il bulbo che fiorisce
 in un juke-box provenzale
 spande l'eco germogliata
 di te sciamano dei cenciosi
 
  Precario del ventocon il futuro cingolato
 che sbarca nell'oblio
 lasciate che canti
 la sua frenesia morale
 di mezzadro del cielo
 spremere grappoli di relitti
 e vendemmiare resurrezioni
 in una cattedrale di memorie
 Mauro Macario (Levanto)
 |      Comunisti 
                  e orgogliosi
  	 La querelle Adamo-Valente (estesa internettisticamente 
                  ad altri compagni) mi sollecita ad una serie di considerazioni 
                  che investono in varia misura alcuni "luoghi" del pensiero politico 
                  rivoluzionario, di recente poco e mal frequentati: comunismo, 
                  comunismo anarchico, anarchismo, libertarismo, libera sperimentazione 
                  e così via. Potrò, nello spazio di questa lettera, accennare ad alcuni di 
                  essi, ma solo per sommi capi, spero di essere compreso.
 Innanzi tutto occorre porre una certa considerazione alla questione 
                  del rapporto, irrisolto, tra pratiche sociali "antagoniste" 
                  all'ordine del mondo dato e teorie critiche e rivoluzionarie 
                  che ambiscono ad esserne la "giustificazione" dapprima, la guida 
                  e il progetto, in seguito. Lo stesso vale, è appena il caso 
                  di notarlo, se sostituiamo idee a teoria.
 Il rapporto tra prassi e idee rivoluzionarie, è stato dibattuto 
                  ad nauseam e spesso risolto superficialmente nella categoria 
                  del dialettico (che tutto spiega e nulla spiega), o in un rapporto 
                  univoco di dipendenza, in un verso o nell'altro. Ristabilire 
                  un corretto rapporto significa riconoscere il primato dei movimenti 
                  di lotta delle classi subalterne tesi all'emancipazione dalle 
                  proprie condizioni di sottomissione, che metabolizzati e distillati 
                  dalla riflessione ed elaborazione della "intellettualità rivoluzionaria" 
                  spesso ritornano in forma di suggestioni, idee, teorie rivoluzionarie 
                  o ideologia ad influenzare quelli stessi movimenti. In ultima 
                  analisi dunque le idee - e segnatamente quelle rivoluzionarie 
                  - non nascono dalla testa di Giove, ma dal fuoco delle lotte 
                  sociali di classe.
 Veniamo all'anarchismo. Il giochino del pendolo tra concezioni 
                  estreme di questo - nel caso nostro quella "anarco-capitalista" 
                  e quella comunista, libertaria o anarchica che sia - mi sembra 
                  formalmente stucchevole, metodologicamente scorretto, politicamente 
                  mistificante e storicamente sbagliato. Stucchevole perché usa 
                  il principio del "in medio stat virtus". Scorretto perché il 
                  fulcro del bilancino è sempre la mia posizione e sul braccio 
                  antagonista rispetto a quello delle posizioni che avverso, metto 
                  qualsiasi paccottiglia di segno opposto. Mistificante perché 
                  fa assurgere la paccottiglia alla dignità di sistema di pensiero. 
                  Sbagliato perché nessun movimento, nessuna prassi antagonista 
                  si sono mai alimentati di questa paccottiglia.
 Un esempio di questa paccottiglia è, ad esempio, l'anarchismo 
                  da Far-West degli anarco-capitalisti, che rimuove il problema 
                  dello Stato (ovvero lo allontana fisicamente in terre lontane), 
                  ridicolizza quello dell'eguaglianza economica nell'insensatezza 
                  di "pari opportunità" e conseguentemente mistifica quello della 
                  libertà nell'indipendenza incondizionata del singolo, contrapponibile 
                  a tutte le forme di Gemeinwesen possibili.
 Ma veniamo alle cose serie, ovvero al recupero in chiave anarchica 
                  di certi topoi del liberalismo, sia in chiave di ethos che di 
                  progetto. Faccio grazia ad Adamo del banale giudizio che il 
                  liberalismo altro non è che ideologia borghese tout-court. Non 
                  è questo infatti il punto.
 Il liberalismo, anche nelle sue forme più radicali, antiburocratiche, 
                  antistataliste e, per così dire, libertarie, è strutturalmente 
                  inadeguato a rendere conto delle istanze di liberazione delle 
                  classi subalterne. Non può infatti prescindere, altrimenti non 
                  è più tale, dalla proprietà; sia questa quella dei mezzi di 
                  produzione o dei frutti della stessa; sia essa individuale o 
                  di una "classe di individui", ovvero cementata dalla condivisione 
                  delle forme di dominio e di sfruttamento, e non dalla solidarietà 
                  che deriva dal patire comune dell'oppressione e dell'espropriazione 
                  e dal sentire, altrettanto comune, di essere gli artefici, veri, 
                  dell'edificio sociale. La proprietà allude necessariamente all'esclusione, 
                  alla separatezza, al privilegio, così come il mercato (per quanto 
                  esso possa essere libero) allude, da un lato alla merce (con 
                  tutte le valenze ineludibili che questo termine comporta) e, 
                  dall'altro, comunque, allo scambio ineguale. Ineguale proprio 
                  perché - anche nella sua versione di "libero gioco" - propone 
                  la contabilizzazione di un'asettica "giusta" equivalenza tra 
                  entità incommensurabili: il mio superfluo / il tuo bisogno; 
                  il mio necessario / il tuo bisogno. Proprietà e mercato, dietro 
                  la loro forma giuridico-istituzionale, rivelano un ventaglio 
                  semantico assai ristretto e tutto interno all'apparato concettuale 
                  e normativo di una società divisa in classi. Ethos e progetto 
                  si fondano dunque sull'autonomia dell'individuo rispetto al 
                  corpo sociale ed alla classe d'appartenenza che però è proprio 
                  possibile (in termini di ricchezza materiale ed intellettuale) 
                  in quanto egli gode dei benefici dell'appartenenza ad un determinato 
                  segmento di quel corpo sociale, dell'appartenenza a quella classe 
                  sociale. Libertà per tutti dalla libertà dei singoli? Anche 
                  se così fosse bisognerebbe rammentare che i talenti da impegnare 
                  in quanto individui in questa "intrapresa" sono molti e che 
                  quando il buon Dio li ha distribuiti, la maggior parte dell'umanità 
                  è rimasta fuori della porta.
 Non c'è possibilità di disvelamento d'altre qualità intrinseche 
                  in queste categorie, non c'è possibilità di sdoganamento: fuori 
                  dai confini di quella società e del suo universo di significati, 
                  i pezzi d'oro ridiventano carta straccia, o meglio grezzi anelli 
                  di una robusta catena.
 Infine il problema del comunismo anarchico. L'anar- chismo - 
                  o meglio quella sua centrale componente che si rifà al comunismo 
                  anarchico o libertario che dir si voglia - nasce nel crogiolo 
                  delle lotte di classe, tra il proletariato, come ipotesi di 
                  emancipazione radicale e totale dalla società dello sfruttamento, 
                  del dominio e dell'oppressione. La componente antistatalista 
                  e antiautoritaria, che si sostanzia in queste lotte in opposizione 
                  alle forme istituzionali della dominazione di classe, completa 
                  l'aspirazione all'uguaglianza economica tipica già di forme 
                  di comunismo primitivo. La comunità proletaria che si cementa 
                  in antagonismo e in subordinazione ai processi di industrializzazione 
                  e concentrazione capitalistici, fornisce l'humus ad alcune straordinarie 
                  esperienze rivoluzionarie di segno libertario, tra le due guerre 
                  mondiali, che tutti conosciamo. Esperienze presto drasticamente 
                  stroncate dallo strapotere borghese proprio perché alludevano 
                  concretamente - tramite pratiche sociali antagoniste e non integrabili 
                  - al rovesciamento totale dell'esistente e non a pulsioni millennaristiche 
                  dell'avvento di un mondo nuovo. Tagliamo una sessantina d'anni 
                  (possiamo farlo perché ci muoviamo su linee interne) e arriviamo 
                  all'oggi. Il capitalismo, nella sua fase imperialistica, ha 
                  metabolizzato, integrato, triturato e digerito una miriade di 
                  "forme di vita", di modelli economico-sociali, di rappresentazioni 
                  del mondo, anche sedicenti antagoniste dell'ordine sovrano. 
                  Resta poco: il solco di una tradizione politica non contaminata 
                  e la necessit di verificare se l'avvio di un nuovo ciclo di 
                  lotte generalizzate - reso probabile dal progredire devastante 
                  della crisi capitalistica - esprimerà, nella sua spontaneità, 
                  contenuti ed aspirazioni congruenti con quella tradizione oppure 
                  no. Io credo di sì, come credo che sia necessario fin da oggi 
                  cominciare a disincrostare da tutte le sedimentazioni improprie 
                  la parola "comunismo" riportandola nel suo naturale contesto 
                  anarchico. Non mi pare che lo stesso si possa fare con "liberismo". 
                  Non c'è parentela, non c'è rapporto, non c'è congruenza.
 Mi sorge un sospetto: non è che Pietro Adamo ci ha teso un tranello? 
                  Intendo a noi, anziani e miti residuati dell'anarchismo di classe, 
                  restii ad entrare in questi argomenti per pudore, stanchezza, 
                  battaglie perse, anni consumati? Non è che volesse farci uscire 
                  allo scoperto per poter sorridere ironicamente e commentare: 
                  "Vedete, sempre gli stessi, sempre le stesse cose"? Accetto 
                  il rischio e nel frattempo lo ringrazio di avermi ridato l'occasione 
                  (e l'orgoglio) di potermi definire comunista (e anarchico, ovviamente).
  Guido Barroero (Genova)
  A 
                  propostito di terminator
  Quello che Maria Matteo ha detto, che ogni essere umano capace 
                  di intendere e di volere per conto suo con un minimo di speranze 
                  e di probabilità di permanere su questa terra deve sapere è 
                  che (come riportato dallo stesso Manifesto più volte 
                  nella rubrica "Terra terra", l'ultima volta oggi, 10 novembre) 
                  Terminator ha già cominciato ad annientare ogni forma di biodiversità, 
                  non ci sono solo i semi destinati alla alimentazione umana ad 
                  essere modificati geneticamente, ma anche le colture arboree. 
                  In una parola, i signori delle multinazionali, le stesse, Monsanto, 
                  Novartis, Shell Forestry, etc. stanno letteralmente facendo 
                  terra bruciata di ciò che la lenta evoluzione ha generato nel 
                  corso di milioni di anni, per mettere a dimora alberelli necessari 
                  alla produzione, ad esempio, di quei milioni di tonnellate di 
                  carta che servono per fornire ai newyorchesi la lettura del 
                  Time della domenica: ogni copia un chilo di carta. Sapendo 
                  che per il Medio Evo al centro della visione del mondo c'era 
                  Dio, nel Rinascimento l'Uomo, nel Settecento la Ragione, oggi, 
                  semplicemente al centro di tutto non ci sono neanche i banalissimi 
                  soldi (da sempre "l'argent fait la guerre, pecunia non olet", 
                  e simili) ma i pacchetti azionari determinano se un popolo deve 
                  o non vivere, oppure essere spazzato via da una diga, se puoi 
                  o no parlare una lingua, per esempio i disgraziati Kurdi devono 
                  solo alla presenza dell'acqua e del petrolio nel loro territorio, 
                  se non possono neanche chiamarsi tali. Non dice che il polline 
                  diffuso dagli organismi geneticamente modificati induce sterilità 
                  su tutti gli altri semi circostanti: in una parola, questi stanno 
                  desertificando il mondo, ci stanno massacrando, ammazzando, 
                  letteralmente, tutti. Assassini e ladri di futuro, ecco cosa 
                  sono. Questa lotta è l'ultima lotta, persa questa ci rimangono
 
                  prospettive lunari. Vorrei chiedere alla Maria Matteo in quale 
                  caso, poi, la manipolazione genetica effettuata in laboratorio 
                  è stata un vantaggio per l'umanità e se mi può fare il nome 
                  di qualche organizzazione ecologista "integralista", la Legambiente, 
                  forse, che inalbera sulla propria Goletta Verde il marchio Omnitel, 
                  tranne a dover tacere sull'inquinamento da antenne dei telefonini? 
                  O forse il WWF, nato nel segno del conservazionismo borghese? 
                  I verdi di partito? Integralisti solo di poltrona "naturalmente" 
                  loro appiccicata al culo? Te lo faccio io il nome di un ecologista integralista, Ken Saro 
                  Wiwa, impiccato dai generali nigeriani per conto della Shell. 
                  Qualche altro? Chico Mendes, qualcuno ancora vivo? Marco Camenish.
 Per chi non ci sta a rivendicare il prorpio ecologismo "integralista" 
                  la propria tenace, irriducibile passione per la vita e per tutte 
                  le creature, a partire dai propri figli, ed estendendo questo 
                  amore ad ogni essere vegetale ed animale, in odio alle logiche 
                  di morte e di profitto, faccio il nome di una organizzazione 
                  che si muove in questo senso, è Earth First!
 Earth First!
 c/o Cornerstone Resource Center 16 Sholebroke Ave. Leeds LS7 
                  HB England
 "Nessuna libertà senza natura, nessuna natura senza libertà".
 Saluti e libertà
 Teodoro Margarita(CO)
  Risponde: 
                  Maria Matteo
  Devo confessare che ad una prima lettura la lettera che precede 
                  mi ha un po' stupita: infatti mi si accusa di ignorare fatti 
                  quale l'eliminazione della biodiversità o la sterilità delle 
                  sementi transgeniche che invece costituiscono l'ossatura dell'articolo 
                  che scrissi per A rivista anarchica. Ma ho subito notato che 
                  il mio nome è stato aggettivato al femminile, com'è abitudine 
                  assai diffusa tra i sessisti che amano far rilevare che chi 
                  parla non è un uomo. O forse anche questa aggettivazione fa 
                  parte della strenua difesa della biodi- versità? Non insisto: 
                  può darsi che la discriminazione di cui sono oggetto le donne 
                  mi renda un po' suscettibile. Vado quindi al sodo. Infatti, 
                  al di là della letteratura, mi pare evidente che l'oggetto del 
                  contendere, quello che ha suscitato l'indignazione del lettore 
                  sia il riferimento critico all'ecologismo integralista e, contestualmente, 
                  la mancata condanna aprioristica delle modificazioni genetiche. 
                  Ebbene sì lo ammetto: mi risulta sempre difficile accettare 
                  o rifiutare a priori una pratica o un'ipotesi teorica di cui 
                  non siano im- mediatamente evidenti le implicazioni etiche e 
                  politiche. Credo che in qualsiasi ambito sia doveroso pretendere 
                  ma anche effettuare verifica di qualsivoglia prospettiva ci 
                  venga presentata. Un atteg- giamento diverso, il rifiuto della 
                  verifica, l'assunzione o la negazione a priori di una teoria 
                  o di una prassi sono indice inequivocabile di un atteggiamento 
                  integralista. Perché cos'altro è l'inte- gralismo se non la 
                  presunzione di possedere un criterio di verità e giustizia indiscusso 
                  e indiscutibile perché fondato su una qualche credenza di tipo 
                  fideistico? Caratteristica comune a ogni tipo di integralismo 
                  è la pretesa di conoscere ed incarnare una verità valida in 
                  se e, in quanto tale, non suscettibile di sperimentazione. Anzi, 
                  l'idea stessa di sperimentazione risulta del tutto aliena all'atteggiamento 
                  integralista, perché chi sa già tutto considera inutile, dannosa 
                  e fonte di ogni male ogni attitudine critica nei confronti di 
                  una verità che non può sopportare l'onere della prova perché 
                  si pretende assoluta. Assoluto, in latino absolutus, ossia sciolto, 
                  slegato, non dipendente da alcunché ne costituisca un senso 
                  che non sia autofondato. Nella nostra epoca abbiamo di fronte 
                  due tipi di integralismo che seppure apparentemente antitetici 
                  appaiono alla fin fine complementari. Da un lato v'è l'integralismo 
                  di chi, sia pure trincerandosi dietro un atteggiamento scientista, 
                  crede in modo assoluto al primato della tecnica e, nonostante 
                  i ripetuti fallimenti e gli innumeri disastri, ritiene che dalla 
                  tecnica non possa che derivare inevitabilmente un progresso 
                  per l'umanità. Dall'altro vi sono coloro che, sia in una prospettiva 
                  immediatamente religiosa sia con atteggiamento formal- mente 
                  laico, si rifanno ad un assoluto che può assumere le vesti di 
                  dio o quelle di una natura divinizzata.
 Nel mio articolo sulle sementi geneticamente modificate ho tentato 
                  di mostrare come la ricerca e la sperimentazione biotec- nologica, 
                  volute e finanziate dalle grandi multinazionali dell'agrochimica, 
                  servano gli interessi di queste ultime e siano nocive per l'ambiente 
                  e per la salute di noi tutti. In questo contesto la ricerca 
                  e la tecnica sono al servizio del profitto, le cui ragioni sono 
                  un assoluto di fronte al quale l'ulteriore immiserimento dei 
                  contadini del sud del mondo, i pericoli per la salute e per 
                  l'ambiente sono del tutto irrilevanti. Non è certo un caso che 
                  i sostenitori della massiccia introduzione di questa tecnica 
                  rifiutino qualsiasi accordo interna- zionale che consenta il 
                  diritto alla verifica, al controllo, alla semplice possibilità 
                  di ac- certare tramite un'etichetta la provenienza dei cibi 
                  che vengono messi in commercio. La distruzione della biodi- 
                  versità, conseguente alla massiccia introduzione delle sementi 
                  e delle colture geneticamente modificate rappresenta un impove- 
                  rimento irreversibile sia sul piano sociale sia su quello culturale, 
                  significa che l'unica logica vincente a livello planetario è 
                  quella del profitto, destinata a vedere sempre più ricchi i 
                  ricchi e sempre più poveri i poveri. Oggi è del tutto evidente 
                  che la ricerca scientifica deve essere guardata con estrema 
                  circospezione perché l'unica prova cui si piega è quella dei 
                  possibili interessi per la committenza. Ma questo non implica 
                  in alcun modo il ritenere che la modificazione genetica in quanto 
                  tale sia sempre e comunque un fatto negativo. Facciamo un esempio 
                  in altro contesto. Noi tutti sappiamo che la ricerca che ha 
                  portato alla nascita delle reti telematiche è stata in origine 
                  promossa e finanziata dal Pentagono per esigenze di tipo militare, 
                  tuttavia questa stessa tecnica ha consentito la creazione di 
                  una rete internazionale di collegamento orizzontale. Questa 
                  rete nel dicembre scorso ha messo in comunicazione movimenti 
                  di base nei cinque continenti che hanno dato vita ad una protesta 
                  su scala planetaria che è stata in grado di mettere in serio 
                  imbarazzo i potenti della terra riuniti a Seattle. È stato anche 
                  grazie a quest'accresciuta capacità comunicativa che il vertice 
                  di Seattle è fallito e la questione degli alimenti geneticamente 
                  modificati è balzata all'attenzione di tutti.
 La lotta dura contro i signori della terra e dell'uso che fanno 
                  della tecnica non può tradursi in un acritico rifiuto della 
                  tecnica in quanto tale. Posso capire che tale posizione sia 
                  fatta propria dal papa o da altri integralisti del suo tipo: 
                  in fondo continuano a combattere una battaglia che è da secoli 
                  è sempre la medesima. Oggi Wojtila non può permettersi di negare 
                  la rotazione dei pianeti, ma si oppone alle modificazioni della 
                  vita perché mettono in discussione l'ordine del "creato". Ma 
                  mi pare francamente incomprensibile che da un punto di vista 
                  libertario vi sia chi si erge a difensore della sacralità della 
                  natura. Se la tracotanza della tecnica rischia di portarci alla 
                  catastrofe, nondimeno il considerare la natura come una sorta 
                  di santuario inviolabile mi pare altrettanto pericoloso. Occorre 
                  saper osservare con occhi laici e disincantati la realtà senza 
                  soggiacere né alla tentazione romantica di antropomorfizzare 
                  la natura né alla follia di una tecnica che realizza i propri 
                  "progressi" devastando irreversibilmente il pianeta. L'ambiente 
                  naturale è in costante mutamento e non vive di un equilibrio 
                  statico. Attraverso continue modi- ficazioni si costituiscono 
                  nuovi scenari e nuovi equilibri. Paradossalmente la tecnica 
                  ed i suoi nemici integralisti finiscono con il prefigurare panorami 
                  altrettanto desolanti. La tecnica agisce senza in alcun modo 
                  preoccuparsi degli effetti del proprio procedere, che appaiono 
                  tanto più incontrollabili e tendenzialmente irreversibili quanto 
                  più cresce la potenza della tecnica stessa. Come un gigante 
                  dai piedi di argilla la tecnica, mirando al controllo totale 
                  dell'esistente è tuttavia del tutto incapace di controllare 
                  i disastri che genera. Il rischio non è solo quello di un paesaggio 
                  lunare ma anche il delinearsi di un paesaggio unidimensionale 
                  in cui la pluralità e la varietà sono cancellate. La molteplicità 
                  dei colori, degli odori e dei sapori è un piacere cui sarebbe 
                  stolto rinunciare. Il peperone quadrato di Asti, ormai in via 
                  di estinzione, ha un gusto suo proprio che non troveremo più 
                  in un altro peperone. Tuttavia l'idea di "natura" tipica di 
                  tanto ecologismo integralista finisce con l'essere parimenti 
                  unidimensionale, perché in modo altrettanto antro- pocentrico 
                  pretende di definire un "equilibrio" e di stabilire che tale 
                  equilibrio rappresenta una fatto intangibile. È il mito dell'Eden, 
                  il giardino perfetto nel quale l'uomo e la donna portano il 
                  disordine e il caos. La difesa della biodiversità non si realizza 
                  immaginando un mondo simile ad una gigantesca oasi protetta, 
                  in cui oggi e per sempre vi saranno gli stessi fiori, le stesse 
                  piante, gli stessi animali, tutti nella stessa posizione, nello 
                  stesso numero, con la stessa "funzione". Sarebbe come scattare 
                  una foto e pretendere che essa rappresenti e realizzi il presente, 
                  il passato e il futuro. Anche questa è una forma di tracotanza, 
                  la pretesa arrogante di definire una volta per tutte il "giusto" 
                  ordine del mondo. La madre terra di cui spesso leggo sulle pagine 
                  del CIR mi pare non troppo dissimile dalle tante madonne amate 
                  dagli integralisti cristiani.
 Ben altro è la difesa e la promozione della biodiversità o, 
                  anzi, della diversità tout court, che parte dal riconoscimento 
                  e non dalla negazione del relativismo culturale e trova nella 
                  sperimentazione il proprio fecondo terreno di crescita.
  Credo che su questi temi sarebbe importante aprire un dibattito 
                  a tutto campo, capace di aprire uno spazio di discussione culturalmente 
                  approfondita ed aperta, che purtroppo l'urgenza dei problemi 
                  immediati spesso non ci consente di attuare. Un saluto libertario e laico,
  Maria Matteo 
 
                  
                    |  IL 
                        2000 NON MERITA POESIA
  care sorelle e fratelli, Il fatto che non esista il 
                        Tempo 
                        Il fatto che il calendario ne sia la sua ulteriore falsificazione 
                        Il fatto che 2.500.000.000 di persone sulla terra non 
                        abbiano il vostro calendario 
                        Il fatto che proprio questi 2.500.000.000 di persone 
                        appartengano a quella enorme parte del mondo che mangia 
                        solo il 10% delle risorse 
                        Il fatto che io appartenga solo anagraficamente e burocraticamente 
                        al restante 10% della popolazione mondiale che divora 
                        il 90% delle risorse 
                        Il fatto che io mi dissoci eticamente da questa appartenenza 
                        come Julian Beck quando affermava "not in my name" riguardo 
                        alla pena di morte 
                        Il fatto che esista ancora su questa terra la pena di 
                        morte, e la tortura, e lo sfruttamento, e le armi, e gli 
                        eserciti, e la pulizia etnica, e la discriminazione razziale 
                        e sessuale Il fatto che gli indios Yanomami si stiano 
                        estinguendo, che ogni giorno scompaiano un popolo e un 
                        lingua, o un animale, o un fiore, o una cultura che conosce 
                        popoli, lingue, animali e fiori 
                        Il fatto che proprio in questi giorni qualcuno stia 
                        sterminando impunemente i ceceni, ultimo elemento di una 
                        teoria di massacri che ha aperto, percorso e chiuso questo 
                        'secolo', il più sanguinoso e crudele della storia umana 
                        Il fatto che la poesia e l'arte non si oppongano a tutto 
                        questo facendo il gioco dei sistemi di controllo sociale 
                        che, servendosi degli artisti e poeti che si 'prestano 
                        al gioco', simulano un mondo pacificato e libero dove 
                        'tutto-è-possibile', ma solo virtualmente. 
                        NON MI IMPEDISCE DI AVERE COMUNQUE VOGLIA DI AUGURARVI 
                        DI CUORE TUTTO IL BENE POSSIBILE E DI POTER CONTINUARE 
                        A COLTIVARE UTOPIA E DESIDERIO PER TENDERE VERSO QUELLO 
                        IMPOSSIBILE  bonos printzipios e menzus fines  Alberto Masala(Bologna)
 |      Elevato 
                  indice di vigilanza
 Siamo i detenuti ristretti nella sezione ad Elevato Indice 
                  di Vigilanza del Carcere (E.I.V.) di Voghera e vogliamo fare 
                  presente che da alcuni giorni ci troviamo a dover vivere in 
                  una condizione di grave disagio; con la necessità di dover convivere 
                  in due dentro le celle che erano state predisposte per un singolo 
                  detenuto e dove le strutture e le disposizioni di sicurezza 
                  hanno imposto, da sempre, una forma di arredo esenziale e inamovibile. 
                  Anche gli spazi comuni risultano praticamente inutilizzabili 
                  a causa del sovraffollamento, per cui manca la possibilità di 
                  impegno lavorativo e di un minimo di attività per sfuggire all'ozio 
                  imposto dalle strutture.Ma quel che più ci preme far presente (oltre ai vari disagi 
                  su cui non ci dilunghiamo) è che pur di triplicare il numero 
                  dei detenuti presenti nelle sezioni vengono mantenuti i posti 
                  di lavoro disposti in precedenza: e cioè 3 persone che lavorano 
                  per mezza giornata di paga ad assicurare le pulizie e la distribuzione 
                  del vitto. Questo, prima, ci consentiva di lavorare a rotazione 
                  un mese su tre con una paga mensile di circa 600.000 lire, sufficienti 
                  comunque per poter far fronte alle minime personali esigenze 
                  di mantenimento, cosa che ovviamente ora non è più possibile, 
                  dato che l'unica occasione lavorativa attualmente si presenta 
                  con una rotazione di oltre sei mesi, ovviamente con la medesima 
                  paga. Tenendo presente che i suddetti lavori non sono "lavori 
                  premiali" ma essenziali al funzionamento minimo della vita interna 
                  dell'istituto.
 Per cui vorremmo far capire il disagio di molti di noi, che 
                  dopo lunghi anni di detenzione (oltre i 20) si trovano privi 
                  di qualsiasi risorsa economica. Considerando anche che, pur 
                  coscienti della propria condizione e delle lunghe condanne, 
                  dovrebbe essere comunque data la possibilità a chiunque, e soprattutto 
                  a chi ne ha più bisogno, di impegnarsi in attività lavorative, 
                  in vista anche di quella rieducazioneche è nei dettami della 
                  Costituzione e dello stesso Ordinamento Penitenziario (che evidenzia 
                  il lavoro come una delle prime e basilari forme di risocializzazione) 
                  e come in effetti si sente sempre ribadire nelle dichiarazioni 
                  della società Civile.
 Consci del dibattito politico-giudiziario in seno all'attuale 
                  Governo, ribadiamo la nostra disponibilità al dialogo riguardo 
                  al miglioramento delle condizioni detentive, è evidente che 
                  queste generali restrizioni finiscano col gravare, maggiormente 
                  sulla vita carceraria pertanto chiediamo che venga preso in 
                  considerazione un riequilibrio dei posti di lavoro in base alle 
                  presenze.
 I Detenuti del Carcere di Voghera
      
                  
                     
                      |  I 
                          nostri fondi neri 
                            |   
                      |  
                          Sottoscrizioni Ronald Creagh (Montpellier 
                            - Francia), 20.000; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Alfonso Failla nel 13° anniversario della morte (26.1.1986), 
                            1.000.000; Savino Valerio (Pistoia) dalla vendita 
                            di un quadro, per l'ideale, 50.000; Piero Borgo (Acerra), 
                            30.000; a/m Mauro, un compagno (Sant'Angelo Lodigiano), 
                            17.000; Misato Toda (Tokyo - Giappone), 300.000; Alberto 
                            Ciampi (San Casciano Val di Pesa), 50.000; I.G. (Milano), 
                            10.000; Salvatore Esposito (Frankfurt am Main - Germania), 
                            48.200; Gianni Magrì (Grosseto), 5.000; Diva Agostinelli 
                            Wieck (Troy - USA), 272.099; Renato Girometta (Vicobarone), 
                            100.000; Paolo Friz (Mesagne), 10.000; a/m M. Pandin, 
                            ricavato da "Musica per 'A'", 1.500.000; Giuliano 
                            e suo figlio Valerio (Monteprandone), 10.000; Enzo 
                            Francia (Imola), 50.000; ricavato da un pranzo greco 
                            con Milena e Paolo (Paris - Francia), 117.000; Tiziana 
                            Ferrero (Brisbane - Australia), 60.000; Gino Perrone 
                            (Brindisi), 10.000; Piero Bertero (Savigliano), 50.000; 
                            Giordana Garavini (Castelbolognese) ricordando Aurelio 
                            Lolli, Emma e Nello Garavini, 100.000; Fabrizio Tognetti 
                            (Larderello), 20.000; Cesare Fuochi (Imola), 50.000; 
                            Gianluigi Paganelli (Monzuno), 50.000; Danilo Vallauri 
                            (Dronero), 50.000; Rino Ermini (Villa Cortese), 10.000; 
                            Silvano Branco (Sedico) "pago un abbonamento a chi 
                            volete voi", 50.000; Carla Caschetto (Bruxelles - 
                            Belgio), 200.000; Francois Argenziano (Imola), 20.000; 
                            Luca Todini (Brufa di Torgiano), 50.000. Totale lire 4.309.299.
 Abbonamenti sostenitori Renato Girometta (Vicobarone), 
                            150.000. Antonio Ruju (Torino), 200.000; Massimo Regonesi 
                            (Spirano), 150.000; Giordana Garavini (Castelbolognese), 
                            150.000; Carlo Ghirardato (Roma), 150.000; Stefano 
                            Vittori (Latina), 150.000; Enrico Sironi (Cusano Milanino), 
                            150.000; Aimone Fornaciari (Nattari - Finlandia), 
                            150.000; Arturo Schwarz (Milano), in ricordo di Miklòs 
                            Radnòti, il grande poeta ungherese vittima della Shoah, 
                            200.000; Stefano Cempini (Ancona), 150.000.Totale lire 1.600.000.
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