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 Milano/Nutrire i popoli preservando il pianeta
 ”La sovranità alimentare è il diritto dei 
                  popoli a produrre con metodi ecologicamente sostenibili il cibo 
                  nutriente e culturalmente appropriato di cui hanno bisogno, 
                  e quindi il loro diritto a determinare i propri sistemi agricoli 
                  e alimentari”.(Dalla Dichiarazione finale del Forum per la sovranità 
                  alimentare, Nyéléni, Mali, 27 febbraio 2007, www.nyeleni.org)
 “L'agroecologia è politica. Essa ci impone di sfidare 
                  e trasformare le strutture del potere nelle nostre società. 
                  Noi vogliamo e dobbiamo porre il controllo dei semi, della biodiversità, 
                  della terra, dell'acqua, della conoscenza, della cultura e dei 
                  beni comuni nelle mani dei popoli che nutrono il pianeta”.
 (Dalla Dichiarazione del Forum internazionale per l'agroecologia, 
                  Nyéléni, Mali, 27 Febbraio 2015, www.foodsovereignty.org)
 Ora che la grande macchina illusionistica e propagandistica 
                  di Expo2015 ha finalmente chiuso i battenti, credo sia necessario 
                  raccogliere e rilanciare la sfida culturale rappresentata dai 
                  temi che lo hanno - più o meno pretestuosamente - caratterizzato, 
                  e cioè agricoltura e alimentazione. Temi cruciali per 
                  il futuro del pianeta, su cui è importante proporre una 
                  visione alternativa a quella dei governi e delle multinazionali.
 Il fallimento dell'agricoltura industriale Oggi è infatti davanti agli occhi di tutti il fallimento 
                  delle politiche agricole e commerciali promosse negli ultimi 
                  decenni dagli organismi internazionali (Fondo Monetario Internazionale, 
                  Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio) e sponsorizzate 
                  dai “padroni del cibo”, ovvero dalle grandi multinazionali 
                  della produzione, trasformazione e distribuzione alimentare.La diffusione su vasta scala dell'agricoltura industriale - 
                  basata sulla monocultura, gli organismi geneticamente modificati, 
                  l'uso massiccio di carburanti fossili e pesticidi - e la liberalizzazione 
                  del mercato dei prodotti agricoli, non solo non hanno risolto 
                  il problema della fame e della denutrizione, che affligge oggi 
                  circa 850 milioni di abitanti del pianeta, ma hanno anzi contribuito 
                  ad aggravarlo. Queste politiche hanno infatti comportato, da 
                  un lato, l'allontanamento di decine di migliaia di piccoli agricoltori 
                  e allevatori dalle loro terre (land grabbing) e, dall'altro, 
                  la distruzione dei mercati agricoli locali, inondati dalle eccedenze 
                  agricole dei paesi ricchi (dumping).
 
  Il 
                  risultato di questi devastanti processi di sradicamento ed espropriazione 
                  è stato quello di aumentare il numero di persone che, 
                  cacciate dalla loro terra, affollano gli slums delle 
                  megalopoli o migrano, in cerca di fortuna, verso le regioni 
                  ricche del Nord del pianeta. Senza contare i danni incalcolabili che l'agricoltura industriale 
                  ha prodotto e continua a produrre in termini di inquinamento 
                  di aria, acqua, terra e di distruzione della biodiversità.
 La sovranità alimentare Oggi è dunque più che mai necessario denunciare 
                  i guasti provocati dalla agricoltura industriale e gli ingiusti 
                  meccanismi del mercato agroalimentare mondiale, per costruire 
                  dal basso e promuovere le alternative possibili. In particolare 
                  occorre far conoscere e diffondere le idee e le buone pratiche 
                  riconducibili al paradigma della sovranità alimentare, 
                  ovvero del diritto dei popoli e delle comunità a produrre 
                  autonomamente, in modo ecologicamente sostenibile, il cibo salubre 
                  e culturalmente appropriato di cui hanno bisogno.Inizialmente elaborato da La Via Campesina (www.viacampesina.org) 
                  - rete internazionale che raggruppa circa 200 milioni di agricoltori, 
                  contadini senza terra, donne rurali e comunità indigene 
                  appartenenti a 167 organizzazioni locali di 88 paesi di Africa, 
                  America, Asia ed Europa - il paradigma della sovranità 
                  alimentare è oggi diventato il terreno di incontro tra 
                  questi movimenti e la parte più radicale e consapevole 
                  delle associazioni ambientaliste, delle organizzazioni non governative 
                  che si occupano di cooperazione internazionale, del movimento 
                  del commercio equo e dei gruppi d'acquisto solidale.
 Fare proprio il programma politico della sovranità alimentare 
                  significa:
 
                  affermare che il cibo non è una merce ma un diritto; 
                  sostenere le lotte per l'accesso delle comunità locali 
                    alla terra, all'acqua, alle sementi; 
                  contrastare il consumo del suolo fertile per scopi non agricoli 
                    (commerciali, residenziali, industriali o infrastrutturali); 
                  favorire i sistemi di coltivazione tradizionali, naturali, 
                    biologici (agroecologia); 
                  assicurare agli agricoltori una giusta retribuzione per 
                    i loro prodotti e il loro lavoro; 
                  riconoscere e promuovere il ruolo delle donne nella produzione 
                    di cibo.
                  Si tratta insomma di far conoscere e sostenere il modello 
                  dell'agricoltura famigliare, contadina, di comunità, 
                  cooperativa, prioritariamente orientata alla produzione di cibo 
                  per l'autoconsumo e la vendita diretta nei mercati locali, che 
                  ha dimostrato di essere efficace non solo nel garantire una 
                  vita dignitosa agli agricoltori e alle loro famiglie, ma anche 
                  nel tutelare l'ambiente e la biodiversità.Questo modello - alternativo a quello dell'agricoltura industriale 
                  - merita di essere sostenuto non solo nel Sud del mondo, ma 
                  anche nei cosiddetti “paesi sviluppati”.
 Anche in Italia esiste infatti un'agricoltura di piccola scala, 
                  a dimensione famigliare, comunitaria o cooperativa, condotta 
                  con metodi naturali o biologici, che rischia di scomparire sotto 
                  il peso di leggi e regolamenti pensati per l'agricoltura imprenditoriale 
                  e industriale. Eppure l'agricoltura contadina, oltre a produrre 
                  occupazione e reddito, contribuisce a mantenere popolate le 
                  campagne e la montagna, a conservare la fertilità della 
                  terra e la diversità del paesaggio, a mantenere vivi 
                  i saperi e i prodotti locali.
 Molti di questi “contadini per scelta” si sono inoltre 
                  caratterizzati negli ultimi anni come partners dei gruppi d'acquisto 
                  solidale e protagonisti dei mercati locali, rurali, a filiera 
                  corta e a km zero che animano i nostri paesi e le nostre città, 
                  dando vita a una nuova relazione tra produttori e consumatori 
                  fondata sulla conoscenza reciproca, la condivisione dei problemi, 
                  il mutualismo. Essi svolgono dunque una funzione sociale ed 
                  ecologica, oltre che economica, che merita di essere riconosciuta 
                  e valorizzata (www.agricolturacontadina.org).
 Coltivare la speranza Le lotte dei movimenti contadini per la sovranità alimentare 
                  e l'agroecologia riguardano dunque tutti noi. Proponendosi di 
                  porre il controllo della terra, dell'acqua, delle sementi, della 
                  biodiversità, dei saperi e dei beni comuni nelle mani 
                  di coloro che nutrono il pianeta, strappandolo alle grinfie 
                  dei governi e delle multinazionali, queste lotte rappresentano 
                  una sfida radicale alle attuali strutture del potere economico 
                  e politico, sia a livello locale che a livello globale.In particolare esse sfidano un modello di produzione che - nel 
                  Nord come nel Sud del pianeta - tende a sostituire i contadini 
                  con braccianti stagionali costretti a lavorare in condizioni 
                  di vera e propria schiavitù, e un modello alimentare 
                  che riserva ai ricchi il cibo sano e nutriente per lasciare 
                  ai poveri la fame o, al massimo, il cosiddetto “cibo spazzatura”.
 Dall'esito di queste lotte non dipende solo il futuro della 
                  nostra alimentazione ma anche - e in misura rilevante - la possibilità 
                  di costruire un mondo migliore, basato sulla giustizia sociale 
                  e l'armonia con il pianeta. Per questo è importante che 
                  - superato un certo pregiudizio “progressista” ancora 
                  oggi diffuso nei confronti del mondo contadino - intorno ad 
                  esse si sviluppi una vasta rete di solidarietà.
  Ivan Bettiniivan.bettini@rcm.inet.it
 Coordinamento economia solidale della Martesana (Milano)
  Il Coordinamento economia solidale della Martesana è 
                  una rete di gruppi di acquisto solidale, cooperative, associazioni 
                  e aziende che operano nel territorio compreso tra la città 
                  di Milano e il fiume Adda, lungo il corso del Naviglio Martesana. 
                  Il nostro obiettivo è quello di arrivare gradualmente 
                  alla costruzione di un distretto di economia solidale, cioè 
                  di una rete stabile e duratura di soggetti che si aiutano a 
                  vicenda per soddisfare i propri bisogni di acquisto, vendita, 
                  scambio e dono di beni, servizi e informazioni.
 I criteri che guidano la nostra azione sono la giustizia 
                  sociale e il rispetto delle persone, la solidarietà, 
                  la tutela dell'ambiente, il sostegno all'economia locale e il 
                  rapporto attivo con il territorio.
 Il nostro metodo di lavoro è basato sui principi della 
                  partecipazione e dell'autorganizzazione.
 
 Bibliografia minima
 
                   Altieri Miguel, Agroecologia: prospettive scientifiche 
                    per una nuova agricoltura, Padova, Muzzio 1991Canale Giuseppe, Ceriani Massimo, Contadini per scelta. 
                    Esperienze e racconti di nuova agricoltura, Milano, Jaca 
                    book 2013
 Centro Nuovo Modello di Sviluppo, I padroni del nostro 
                    cibo, Vecchiano (PI), 2015 scaricabile dal sito www.cnms.it
 Davis Mike, Il pianeta degli slum, Milano, Feltrinelli 
                    2006
 Liberti Stefano, Land grabbing: come il mercato delle terre 
                    crea il nuovo colonialismo, Roma, Minimum fax 2011
 Patel Raj, I padroni del cibo, Milano, Feltrinelli 
                    2008
 Perez-Vitoria Silvia, Il ritorno dei contadini, Milano, 
                    Jaca book 2007
 Perez-Vitoria Silvia, La risposta dei contadini, Milano, 
                    Jaca book, 2011
 Potito Michela e Borghesi Roberta, Genuino clandestino: 
                    viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi 
                    opere, Firenze, Terra Nuova 2015
 
 
 
 Lugano/Sulle note di De André
 “Faber per sempre” il 26 settembre a Lugano. Bastano 
                  queste poche parole per catturare l'attenzione. Chi sono? La 
                  band che ripropone i brani di Fabrizio De André è 
                  patrocinata dalla Fondazione De André, gode dunque della 
                  “benedizione” di Dori Ghezzi, una bella garanzia; 
                  Pier Michelatti, storico bassista del cantautore genovese, è 
                  il “fondatore” della band. Quasi quasi ci vado. 
                  Leggo una sua intervista su un quotidiano locale pochi giorni 
                  prima del concerto: mi intriga, parla del suo piacere di suonare 
                  ancora questi brani indimenticabili, di trasmetterli nel tempo. 
                  E poi il concerto è a scopo benefico. Qualche perplessità 
                  ce l'ho ancora, un minimo di preoccupazione: temo che mi intristisca, 
                  o peggio che mi infastidisca sentire i brani cantati da un'altra 
                  voce, e poi forse il carattere inevitabilmente nostalgico peserà 
                  un po' sull'atmosfera della serata. Ebbene?Ho davvero fatto bene ad andarci perché il 26 settembre 
                  è stata una serata meravigliosa.
 L'inizio è decisamente sorprendente: appare a schermo 
                  Wim Wenders, con un bell'inglese chiaro e comprensibilissimo, 
                  dato da un sano accento tedesco, e racconta sorpreso e commosso 
                  di come ha conosciuto la musica di De André. Una scoperta, 
                  una folgorazione, un amore al primo ascolto, l'intenzione di 
                  fare un film sul cantautore genovese, mai incontrato di persona. 
                  Una bella introduzione, inusuale, che imprime alla serata il 
                  carattere più puro e anche “nobile” del ricordo, 
                  senza rimpianti ma ricco di gratitudine e sincero apprezzamento 
                  per quanto Faber ci ha lasciato.
  Già dalle prime note mi sento inondata dalla serenità, 
                  dal piacere di riascoltare, dalla sensazione gradevolissima 
                  delle sonorità autentiche, fedeli, da una voce meravigliosa, 
                  quella di Ivan Appino, che si inserisce armoniosamente nella 
                  strumentazione e nella memoria acustica che tutti abbiamo impressa 
                  in modo indelebile in qualche angolo del cervello e del cuore.Ed è forse proprio questa armonia la cosa più 
                  sconvolgente e anche inebriante della serata. Il bello è 
                  che poi, superato il primo scoglio, ti fidi, dai piena fiducia 
                  ai musicisti sul palco, peraltro eccellenti sia come gruppo 
                  sia presi singolarmente come strumentisti. E la fiducia si sa 
                  è un circolo virtuoso, genera un'eco, una risonanza, 
                  apre porte, rende accoglienti, predispone all'ascolto e alla 
                  partecipazione emotiva, all'empatia. Di più, alla simpatia. 
                  E non intesa soltanto come disposizione d'animo favorevole, 
                  ma persino come fenomeno acustico per cui un corpo sollecitato 
                  dalle vibrazioni di un corpo vicino, vibra a sua volta, in perfetta 
                  armonia. Questa fiducia si mangia le inevitabili pochissime 
                  imperfezioni e ti predispone a godere appieno della qualità 
                  delle opere di De André e dell'interpretazione carezzevole 
                  e affettuosa, e nel contempo bella tonica, della band.
 Affettuosa. Una cosa che ho apprezzato intimamente è 
                  che nessuno sul palco gioca al protagonista, tutti interpreti, 
                  meravigliosi interpreti.
 
                   
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                    | Pier Michelatti, basso, direzione musicale e arrangiamenti |   Una sorta di filosofia di fondo, molto onesta, che è 
                  testimone inequivocabile dell'affetto e della sensibilità 
                  con cui il gruppo si propone. Lo scopo, la missione che i musicisti 
                  di “Faber per sempre” si sono dati - che sul palco 
                  è dichiarata e non viene mai disillusa - è far 
                  rivivere l'emozione di un concerto live del cantautore genovese. 
                  Nessuna produzione discografica dunque, “se volete ascoltarlo 
                  a casa, ascoltatevi l'originale” suggerisce Pier Michelatti. 
                  E le sue parole, i brevi racconti, qualche simpatico aneddoto 
                  che fa da contrappunto ai brani musicali, sono quelli di un 
                  amico, che lo ricorda con piacere, che suona con immenso piacere, 
                  anche lui per rivivere ancora meravigliose e appassionate sensazioni. 
                  “Fosse per noi staremmo qui tutta la notte” dice 
                  dopo l'ennesimo bis. È la storia di un'amicizia: leggo 
                  sul sito (www.faberpersempre.com) 
                  del biglietto scritto da Fabrizio e ritrovato in un'agenda dopo 
                  la sua morte: “Caro Pier, non sai il senso di sicurezza 
                  che provo nell'ascoltarti alle mie spalle mentre canto. È 
                  come sentirsi protetti [...]”. Poche parole che raccontano 
                  di un rapporto intenso e intimo.Ogni concerto è dunque un tramandare emozioni, poesia, 
                  cultura; una cultura di autentico ascolto e accoglienza di ogni 
                  alterità, di ogni vita ai margini. Anche se le conosciamo 
                  tutti e tutte le canzoni di Faber (o quasi), riascoltarle live, 
                  cantate e suonate così, fedelmente e con amore, è 
                  un modo per riscoprirle, cogliere la precisione delle parole 
                  scelte ad una ad una, la loro delicatezza. Lasciarsi sedurre, 
                  ancora e ancora. Faber per sempre.
  Paola Pronini Medici 
 
 
 Londra/Le sfide del movimento anarchico contemporaneo
 “L'idea dell'Anarchist Bookfair [di Londra] in realtà 
                  proviene dal SWP (o International Socialists, come si chiamavano 
                  allora). Erano soliti tenere una Socialist Bookfair al Camden 
                  Centre. Moltissimi anarchici ci andavano, ma era un evento davvero 
                  noioso, costoso e con un sacco di editori di largo consumo. 
                  Allora noi anarchici decidemmo di organizzare la nostra versione”.1Insomma, dobbiamo ringraziare il pessimo lavoro dei trozkisti 
                  inglesi se dal 1984 a Londra esiste quella che in italiano è 
                  forse più conosciuta come “Vetrina dell'editoria 
                  anarchica e libertaria”. Un appuntamento annuale che attira 
                  anarchici, simpatizzanti e curiosi da tutto il Regno Unito (ma 
                  non solo) per incontri, dibattiti, proiezioni, e ovviamente 
                  anche per acquistare libri e materiale d'ispirazione libertaria 
                  (dalle magliette con bandiera Makhnovista alle borse di tela 
                  contro la caccia).
 Anche a seguito dell'altissima affluenza, quest'anno l'Anarchist 
                  Bookfair ha cambiato sede. Si è spostata nella centralissima 
                  e da poco ristrutturata sede della University of the Arts London, 
                  vicino alla stazione di King's Cross. Un imponente granaio ottocentesco 
                  in cui il caratteristico austero mattone rosso della facciata 
                  lascia posto, appena si entra, alle forme moderne di vetro e 
                  acciaio, e a tanta luce che inonda gli ampi spazi interni. Passato 
                  e presente uniti con armonia, come dovrebbe essere l'anarchismo 
                  di oggi.
 L'edizione del 24 ottobre 2015 è stata la mia terza Anarchist 
                  Bookfair, ma la prima a cui sono stato invitato come relatore. 
                  Come per le edizioni precedenti, sono arrivato verso le dieci 
                  per la solita full immersion. I temi degli incontri spaziavano 
                  dal primitivismo alla rivoluzione in Rojava, dall'ecologia sociale 
                  ad arte&anarchismo, dagli zapatisti a Colin Ward, dalle 
                  donne nella lotta armata all'organizzazione sul posto di lavoro. 
                  Oltre cinquanta appuntamenti, di una o due ore, in nove aule 
                  diverse. E il dilemma, come ogni anno, era sempre lo stesso: 
                  quale incontro scegliere quando ce ne sono nove in contemporanea?
 Alla fine hanno prevalso “Rete dei centri sociali”, 
                  organizzato dai compagni del centro sociale Kebele di Bristol, 
                  e la serie di incontri sull'educazione libertaria. Il primo 
                  si è rivelato la classica discussione “interattiva” 
                  che tanto piace agli inglesi. Del tipo: “ok, adesso ci 
                  dividiamo in sotto-gruppi e ogni gruppetto si riunisce in un 
                  angolo della stanza per discutere un tema e scrivere su un cartellone 
                  le proprie idee. E poi ne parliamo tutti insieme”. Eravamo 
                  in tutto una dozzina, principalmente persone già coinvolte 
                  in centri sociali o che vorrebbero aprirne uno, e si è 
                  discusso in maniera generica di centri sociali: a cosa servono, 
                  quali problemi devono affrontare, che ruolo possono avere in 
                  futuro? Solo alla fine i bristolliani hanno distribuito il programma 
                  del prossimo raduno dei centri sociali britannici, che si terrà 
                  presso Kebele il 28 e 29 novembre 2015, e che punta a rilanciare 
                  la “rete dei centri sociali”. Insomma, si è 
                  trattato di una sorta di incontro preparatorio in vista del 
                  raduno. Raduno che fa ben sperare, perché è solo 
                  coordinandosi e facendo rete che si può provare a resistere 
                  alla crescente ondata repressiva che caratterizza la Gran Bretagna 
                  degli ultimi anni.
 Autoritarismo educativo e scuole libertarie Un po' deluso dal primo meeting ho consultato il programma 
                  per decidere dove andare dopo. Un compagno italiano appena conosciuto 
                  ha cercato di convincermi a partecipare alla presentazione di 
                  un libro dall'intrigante titolo: “Never work”. Ma, 
                  essendo io un ex insegnante che ha abbandonato la scuola inglese 
                  a causa della burocrazia e dell'autoritarismo che la affliggono, 
                  mi sono lanciato in tre ore di dibattiti sull'educazione libertaria. 
                  Significativa è stata l'affluenza a questi incontri. 
                  C'erano talmente tante persone che, per tutelare la salute e 
                  sicurezza del pubblico, ogni incontro è stato ulteriormente 
                  suddiviso e ospitato in tre aule diverse. Ciascuno su un sotto-tema 
                  dell'educazione libertaria. Questo conferma il grande interesse 
                  nel mondo anarchico, ma non solo, intorno al tema dell'educazione.La prima serie di dibattiti aveva come oggetto “L'educazione 
                  e lo stato”. Mentre in contemporanea si discuteva del 
                  ruolo dell'università, io ho assistito a “Educazione, 
                  resistenza e sistema penale”. Lì si è parlato 
                  di Y-stop, un progetto che punta ad informare i ragazzi in età 
                  scolare dei propri diritti quando si è fermati dalla 
                  polizia. Poi la regista olandese Julia ha presentato il suo 
                  documentario che parte da una vicenda personale (quando ha scoperto 
                  di essere stata rapinata dal figlio dei suoi vicini) per introdurre 
                  l'argomento della giustizia riparatoria, che punta alla riabilitazione 
                  del responsabile attraverso la riconciliazione con la comunità. 
                  E infine Carl Cattermole, ex detenuto ed autore di una guida 
                  gratuita di sopravvivenza alla prigione, ha discusso dell'importanza 
                  dei programmi di alfabetizzazione nelle carceri come strumento 
                  per contrastare il sistema. Tre interessantissime testimonianze 
                  sul ruolo dell'educazione alternativa come strumento per resistere 
                  alla repressione statale.
 I tre dibattiti successivi erano accomunati dal filo conduttore 
                  “Educazione e libertà”. Judith Suissa ha 
                  spiegato cos'è l'educazione anarchica mentre Ros Kane 
                  e il Risinghill Research Group hanno riflettuto su esempi passati 
                  di scuole radicali. Io invece sono rimasto ad ascoltare Ian 
                  Cunningham, preside del Self-managed Learning College di Brighton, 
                  e tre alunni della famosa Summerhill School. Più che 
                  un vero e proprio incontro strutturato questo è stato 
                  un bombardamento di domande per Ian e i ragazzi da parte di 
                  decine di insegnanti, studenti universitari e genitori accorsi 
                  per capire come funziona concretamente una scuola libertaria. 
                  Molti erano stupiti all'idea di ragazzi e ragazze che decidono 
                  se e quali corsi seguire, che stabiliscono un programma di studi 
                  con l'insegnante, che frequentano lezioni individuali o in piccoli 
                  gruppi. E che, alla fine della scuola, spesso si iscrivono al 
                  Sixth Form (gli ultimi due anni di scuola, non obbligatori) 
                  o conseguono il diploma da privatisti. E a giudicare da come 
                  i tre sedicenni di Summerhill si esprimevano e argomentavano, 
                  non ho difficoltà a crederci. Ma l'assenza di una graranzia 
                  del diploma dissuade molti genitori dall'iscrivere i propri 
                  figli a scuole libertarie o democratiche. In aggiunta, queste 
                  scuole sono private e quindi a pagamento. Dunque non per tutti.
 L'ultimo degli incontri sull'educazione libertaria ha visto 
                  la partecipazione di tre ex alunne della Mossbourne academy, 
                  il progetto pilota voluto dall'ex primo ministro laburista Tony 
                  Blair per la creazione delle accademie. Ovvero scuole finanziate 
                  dallo stato ma con ampie libertà di gestione finanziaria, 
                  amministrativa e del curriculum. Sì, questo significa 
                  anche che ogni accademia può stabilire in autonomia le 
                  condizioni lavorative e retributive dei propri insegnanti. Non 
                  c'è da sorprendersi, dunque, se dal 2010 anche il governo 
                  conservatore ha attivamente incoraggiato la conversione di migliaia 
                  di scuole in accademie in tutta la Gran Bretagna.
 Ciò che è emerso dal racconto delle tre neo-diplomate 
                  sembrava l'ambientazione di un romanzo distopico, con corrodoi 
                  a senso unico e insegnanti che ispezionano la lunghezza delle 
                  gonne delle alunne. Tutte cose che ormai sono normali in moltissime 
                  scuole del regno, e che ho visto con i miei occhi durante la 
                  mia esperienza come insegnante. Addirittura, durante un colloquio 
                  presso una scuola di Londra, un preside una volta mi ha esplicitamente 
                  chiesto se fossi pronto a seguire la politica scolastica che 
                  consisteva nell'urlare contro i ragazzi e farli marciare. Avrei 
                  pensato ad uno scherzo se non avessi visto gli insegnanti della 
                  scuola farlo poco prima. Ma Mossbourne e altre accademie hanno 
                  permesso di testare quello che oggi è un ritorno su larga 
                  scala alla scuola fortemente autoritaria di stampo pre-sessantottino. 
                  Ciononostante, le tre ragazze hanno spiegato come la creazione 
                  di un collettivo studentesco femminista le avesse aiutate a 
                  restare compatte e organizzare forme di resistenza alle decisioni 
                  delle gerarchie scolastiche.
 
                   
                    |  |   
                    | Londra (Gran Bretagna), 24 ottobre 2015 - La 34esima edizione 
                  della vetrina dell'editoria anarchica e libertaria
 |  Centri sociali libertari: una ricerca Infine, dopo una pausa per un boccone e riprendere fiato, è 
                  arrivata l'ultima fascia oraria degli interventi, tra cui il 
                  mio. Nell'aula c'erano una trentina di persone. Visto che avevo 
                  preparato un PowerPoint per rendere la presentazione meno soporifera, 
                  gli organizzatori si sono scusati col pubblico perché 
                  avevano dovuto trasformare il circolo egualitario di sedie in 
                  terribili file antidemocratiche per permettere a tutti di guardare 
                  il mega-schermo. Ero stato invitato dal New Anarchist Research 
                  Group per presentare parte della mia ricerca collegata al mio 
                  progetto di dottorato: un'analisi comparata delle comunità 
                  libertarie britanniche e italiane. Il titolo del mio intervento 
                  era: “Centri sociali libertari: catalizzatori di attivismo 
                  comunitario o strumento di controllo sociale?”. E per 
                  ragioni di tempo mi sono concentrato solo su casi-studio baresi. 
                  Questa domanda è sorta dopo aver intervistato decine 
                  di compagne e compagni coinvolti in esperienze di tipo libertario 
                  dal 1968 ad oggi. Infatti alcuni, come il 61enne anarcosindacalista 
                  Gino, ritenevano i centri sociali “una discoteca esentasse 
                  [...] per far perdere tempo alla gente”, in cui gli attivisti 
                  si autoghettizzano rendendo più facile il controllo sociale 
                  da parte delle autorità. Altri invece, come il 42enne 
                  ex punk e anarco-comunista AL, li consideravano “un modello 
                  per una società alternativa”.Così, ho presentato quattro esperienze che abbracciano 
                  il lasso di tempo che va dagli anni Settanta ad oggi: dal Comitato 
                  di Quartiere San Pasquale (1973-78), che anticipa le tematiche 
                  dei centri sociali moderni tanto da spingere il vecchio militante 
                  anarchico Nicola a chiamarlo “una sorta di centro sociale”, 
                  fino all'attuale Ex-Caserma Liberata (dal 2014). Ho quindi paragonato 
                  i quattro casi-studio soffermandomi sulla composizione dei collettivi, 
                  sui locali occupati e le aree in cui sorgevano, sui tipi di 
                  attività svolte, e sulle relazioni che questi hanno sviluppato 
                  specialmente col vicinato. Ad esempio, nel caso del CSOA Fucine 
                  Meridionali (1994-95), la rottura interna al collettivo tra 
                  “sottoproletariato” ed “elementi politicizzati” 
                  ha permesso a crimine organizzato e forze dell'ordine di isolare 
                  e infine annientare un'esperienza che tuttora molti attivisti 
                  rimpiangono. Allo stesso modo, la scelta di un luogo e del tipo 
                  di attività può condannare o premiare un centro 
                  sociale.
 Infatti, il comitato di quartiere San Pasquale (CdQ) era sorto 
                  nell'omonimo quartiere proletario ed aveva modellato le proprie 
                  attività in base alle necessità espresse dalla 
                  popolazione locale, cosa che aveva permesso alle anarchiche 
                  e agli anarchici del CdQ di costruire relazioni durature con 
                  i residenti. E persino di insegnare agli abitanti di San Pasquale 
                  princìpi anarchici come l'azione diretta quando occuparono 
                  una villa abbandonata per trasformarla in asilo nido per i bimbi 
                  del quartiere.
 Invece l'inesperienza dei punx baresi aveva portato all'apertura 
                  del CSOA Giungla (1983-84) nella zona industriale dove, come 
                  ricorda Nico, “non eravamo abbastanza lungimiranti da 
                  realizzare che era un'area troppo strategica per la malavita”. 
                  Difatti la presenza nel meridione degli anni Ottanta di centinaia 
                  di giovani con creste, catene e musica punk attirava i controlli 
                  delle solerti forze dell'ordine, cosa che i malavitosi non gradivano. 
                  E infatti furono loro a “sfrattare” la Giungla minacciandone 
                  gli attivisti. Insomma, i centri sociali possono sia stimolare 
                  l'attivismo di una collettività che rivelarsi uno strumento 
                  di controllo sociale. Dipende spesso dalle scelte che gli attivisti 
                  fanno. Alla fine, con un pubblico misto di inglesi e italiani, 
                  abbiamo continuato a parlare di vari aspetti emersi durante 
                  la mia presentazione, fino a quando son venuti a cacciarci dall'aula 
                  perché tardi.
 Creare spazi inclusivi Anche se certamente meno sentito dell'educazione libertaria, 
                  sembra che un crescente numero di persone stia rivalutando le 
                  esperienze comunitarie di tipo libertario, sia urbane che rurali. 
                  I centri sociali, i comitati di quartiere, le comuni rurali 
                  (di cui parlo nella mia tesi) sembrano rispondere all'appello 
                  di Andrea Papi su A-Rivista 400 che invitava, per sottrarci 
                  al sistema virtuale e “liquido” che ci avvolge, 
                  a “crea[re] spazi e luoghi dove approntare e sperimentare 
                  modalità di relazione inclusive non soggette alle spirali 
                  finanziarie, dove ciò che conta e dà senso sono 
                  la condivisione, la solidarietà, la reciprocità, 
                  la mutualità”.2Ma la giornata non era ancora finita. All'uscita, quando ormai 
                  pregustavo una bella pinta nel pub più vicino, ho visto 
                  decine di persone con vestiti neri e volto coperto correre dalla 
                  stazione di King's Cross verso l'università, dove mi 
                  trovavo io. Dietro di loro, una schiera di giubbotti giallo 
                  fluorescente: la polizia. Dopo qualche secondo di stupore, avevo 
                  appreso che si trattava di parte della manifestazione di solidarietà 
                  con i migranti che la polizia aveva respinto fin lì in 
                  seguito al loro tentativo di occupare i binari da cui partono 
                  i treni per la Francia. Treni che percorrono il tunnel sotto 
                  la Manica, dove diversi migranti sono morti cercando di raggiungere 
                  la Gran Bretagna. Ormai isolati e bloccati sotto la pioggia 
                  battente, il gruppo di manifestanti è rimasto per qualche 
                  minuto a trascinare e rovesciare cassonetti sotto gli occhi 
                  indifferenti delle forze dell'ordine, e poi s'è disperso. 
                  A quel punto, raggiunto da compagne e compagni dell'Anarchist 
                  Federation che si erano trattenuti alle bancarelle dei libri, 
                  ho potuto concludere la giornata con la più classica 
                  delle tradizioni inglesi: il giro dei pub.
 Tuttavia, ripensando alla giornata di dibattiti, mi chiedevo: 
                  ma in una città multietnica come Londra, dov'erano le 
                  persone di origine caraibica, africana, indo-pakistana, est 
                  europea? Come troppo spesso succede, le manifestazioni a carattere 
                  anarchico in questo paese sono frequentate quasi esclusivamente 
                  da bianchi di madrelingua inglese tra i venti e i quarant'anni, 
                  e spesso appartenenti alla classe media. Come possiamo pensare 
                  di creare una società alternativa basata su spazi e luoghi 
                  fondati sulla solidarietà se non riusciamo a coinvolgere 
                  tutte le etnie, i generi, le età e le classi sociali?
  Luca Lapolla Note 
                 
                  Traduzione di un'estratto della sezione 'History' sul sito 
                  dell'Anarchist Bookfair di Londra: anarchistbookfair.org.uk.
                  Andrea Papi, A Rivista 
                  Anarchica 400, 2015, p. 14.
                   
 
 
                  Guido Barroero/Senza perdere la tenerezza
 Guido non c'è più.Nel 2001, dopo i fatti del G8 di Genova, venni convocato dai 
                  ROS per un interrogatorio come persona informata dei fatti. 
                  Tutto l'interrogatorio, condotto dal maresciallo Calandri alla 
                  presenza di un misterioso personaggio che non si qualificò, 
                  verteva su Guido Barroero. Volevano sapere dove era durante 
                  gli scontri, se era il capo degli anarchici di Genova, se era 
                  un sindacalista, ecc. ecc. Guido in quelle giornate era al corteo 
                  di Sampierdarena, quello organizzato dai sindacati di base. 
                  Un corteo pacifico dove non si verificarono incidenti di sorta. 
                  Eppure i ROS erano alla caccia dei pericolosi anarchici che, 
                  secondo loro, avevano diretto gli scontri e indagavano su di 
                  lui. Alla fine se la presero con i COBAS e con il loro presidio 
                  in piazza Paolo da Novi, tanto per non farsi mancare niente 
                  si inventarono che erano stati loro a organizzare gli scontri. 
                  La cosa si risolse in un nulla di fatto perché tutte 
                  le finte prove messe in atto si rivelarono per quello che erano. 
                  Un semplice tentativo di incriminare qualcuno a caso tanto per 
                  far vedere che lavoravano alacremente per dare la caccia ai 
                  famigerati Black bloc.
 Con Guido dividevamo un appartamento nei vicoli del centro storico, 
                  in via San Bernardo. Ci siamo fatti un sacco di risate al pensiero 
                  che lui fosse il capo dei cattivi e io un testimone informato 
                  di questo fatto inesistente. Guido, in quel periodo, era impegnato 
                  a redigere la rivista Collegamenti Wobbly e il bollettino Altra 
                  Storia. Raccoglieva materiali sulla Resistenza e sulle formazioni 
                  partigiane anarchiche a Genova dal 1943 alla Liberazione. Si 
                  occupava delle schede per il Dizionario degli Anarchici Italiani 
                  pubblicato nel 2003 dalla BFS. In più girava a distribuire 
                  “UN” e la rivista “A” in librerie ed 
                  edicole.
 La maggiore preoccupazione, viste le nostre misere entrate, 
                  era riuscire a coniugare il pranzo con la cena, pagare l'affitto 
                  e le bollette, organizzare presentazioni di libri e dibattiti. 
                  Riuscivamo anche a divertirci un po' organizzando cenette e 
                  scampagnate. Amava molto arrampicarsi sui monti e, appena poteva, 
                  inforcava lo zaino e se ne andava a fare dei giri sui bricchi. 
                  Così si rigenerava per essere pronto a immergersi di 
                  nuovo nello studio e nella ricerca all'Archivio di Stato, all'Istituto 
                  storico della Resistenza, all'Archivo di Pegli e alla sede anarchica 
                  di piazza Embriaci. Quando scopriva delle cose inedite era felice 
                  come un bambino. Verificava scrupolosamente le fonti e poi scriveva 
                  e commentava (mi faceva fare il correttore di bozze) ed era 
                  costantemente in bilico fra il rigore e l'autoironia.
 Amava tantissimo fare battute sferzanti su tutto e in particolare 
                  su se stesso.
 Adesso non c'è più e a me manca tantissimo.
  Riccardo Navone 
 
 
 Imola/Io topo, io merda, io antifascista
 Il 25 novembre scorso Daniele Barbieri – che, oltre 
                  ad essere direttore responsabile del mensile Pollicino Gnus, 
                  è anche, tra le sue varie attività, collaboratore 
                  di “A” – ha ricevuto minacce di stampo fascista. 
                  Riportiamo l'articolo apparso sul suo blog qualche giorno dopo 
                  l'accaduto.  
  Il fatto. Mattina del 25 novembre. Mia moglie trova nella 
                  cassetta delle lettere quella che in gergo si definisce «lettera 
                  minatoria». Un breve testo. Mi avvisa. Io penso «can 
                  che che abbaia non morde». Comunque con Tiziana discutiamo 
                  se fare una denuncia. Io sono per il no. Nostro figlio consiglia: 
                  «babbo, tu non ti spaventi ma può darsi che altre 
                  persone, in una situazione analoga, invece si preoccupino. Se 
                  ne parli, se fai la denuncia magari viene fuori dell'altro». 
                  Sagge parole. Appena posso vado in questura e là viene 
                  redatto un «verbale di ricezione di denuncia-querela resa 
                  oralmente». Inevitabile domanda: «lei ha sospetti 
                  sugli autori?». Inevitabile risposta: «è 
                  come se la lettera fosse firmata» e spiego perché 
                  «ma ovviamente non ho prove, sono illazioni, deduzioni».Un altro fattarello. Mi viene poi in mente un episodio 
                  minimo che avevo già dimenticato. Qualcuno mi ha detto 
                  «te ne intendi di topi, eh?» per poi dileguarsi... 
                  prima che io facessi in tempo a veder bene, a identificarlo. 
                  Connettendo questa vaga frasetta alla lettera «minatoria» 
                  penso che forse esiste un nesso, visto che ho accompagnato – 
                  qui in “bottega” – la notizia di una raccolta 
                  firme contro le organizzazioni neofasciste proprio con il disegno 
                  di un topo.
 Lo ammetto. Confesso. Sono un topo. E sono una merda 
                  («dal letame nascono i fior»?). Non soltanto. Sono 
                  ebreo. Sono palestinese. Sono meticcio. Sono nero. Sono giallo. 
                  Sono un pellerossa. Sono figlio di Nn, un bastardo. Sono gay. 
                  Anzi in realtà sono una donna. E comunque sono trans. 
                  Ovviamente sono un anarco-comunista. Sono terrone, matto, povero, 
                  immigrato, handicappato, zingaro, hippie, femminista, malato, 
                  vecchio... E sono un alieno. Neanche a dirlo me la faccio con 
                  i pakistani, anzi io sono un pakistano. Ma soprattutto sono 
                  un topo. Come in «Maus» di Art Spiegelman del quale 
                  consiglio la lettura a chi non lo conosce.
 E adesso? Continuerò ovviamente come prima. Sarò 
                  al banchetto dove si raccolgono le firme contro la concessione 
                  di spazi a Forza Nuova e simili. Perché di poche cose 
                  sono sicuro ma una è questa: vecchi e nuovi nazifascisti 
                  sono nemici di ogni possibile umanità. Mi oppongo e mi 
                  opporrò a loro. Per quel che posso e in ogni modo.
  Daniele Barbieri 
 
 
 87 ore/Il film-realtà sulla morte di Mastrogiovanni
 Mentre si susseguono le udienze del processo d'appello per 
                  la morte di Francesco Mastrogiovanni (nel mese di novembre se 
                  ne sono tenute due) è stato proiettato, per la prima 
                  volta a Roma, il 6 novembre 2015, al Teatro Palladium, il “film 
                  realtà” di Costanza Quatriglio dal titolo 87 
                  ore (2015, 75 min., prodotto da Doc Lab, in collaborazione 
                  con Rai Tre, con il sostegno del ministero per i beni e le attività 
                  culturali e il patrocinio di Amnesty International). Gran parte 
                  del film è costituito dalle immagini del video prodotto 
                  dal sistema di videosorveglianza interno al reparto di psichiatria 
                  dell'Ospedale di Vallo della Lucania (Sa). Medici e infermieri i veri attori Gli attori, più o meno consapevoli, sono i medici e gli 
                  infermieri che si succedettero al letto di contenzione di un 
                  gigante buono. Attori non molto umani, poco professionali, negligenti, 
                  imprudenti che conferiscono al “video dell'orrore”, 
                  al di là del suo valore probatorio, il racconto degli 
                  ultimi giorni di vita dell'insegnante libertario e ne fanno 
                  un documento unico nella storia della contenzione. Nel film 
                  le immagini di Mastrogiovanni sono come la vena nera nel marmo 
                  di Carrara, compaiono e scompaiono come sotto lo scalpello tra 
                  le onde del mare, nel quale si era tuffato cantando “Addio 
                  Lugano bella”, e i riflessi della luna, tra le foglie 
                  e il cammino delle formiche.La decisione di rendere pubbliche le drammatiche immagini della 
                  lunga contenzione meccanica subita da Mastrogiovanni fu presa 
                  dai familiari, così come furono i familiari di Stefano 
                  Cucchi a volere la pubblicazione delle foto del corpo massacrato 
                  del loro congiunto. L'intento non era allora quello di divulgare 
                  una foto-notizia, insufficiente a spiegare da sola cosa avevano 
                  fatto a Stefano Cucchi, così come oggi sappiamo essere 
                  insufficiente il film della bravissima Costanza Quatriglio, 
                  per definire tutte le responsabilità che hanno provocato 
                  il decesso dell'insegnante cilentano. Il film, frutto di un 
                  lavoro accurato, lungo e complesso, condiviso con Luigi Manconi 
                  e Valentina Calderone, dell'associazione A buon diritto, restituisce 
                  agli spettatori l'intero dramma vissuto da Franco, e costituisce 
                  un'arringa indiretta, una vibrante protesta della verità 
                  e dell'umanità contro la barbarie.
 Psichiatria e diritti umani Tra le espressioni di grande sensibilità è, per 
                  me, indimenticabile la dichiarazione 
                  rilasciatami dalla Dott.ssa Agnesina Pozzi (primo medico 
                  e consulente gratuito della famiglia Mastrogiovanni) in una 
                  intervista di qualche anno fa (“A” Rivista Anarchica, 
                  anno 41, n. 364, estate 2011): “l'assoluta mancanza di 
                  privacy, di rispetto, di colloqui col paziente tesi anche alla 
                  ri-valutazione della necessità della contenzione. Colpisce 
                  il paziente che avvicina a sé una bottiglia d'acqua (Mancoletti 
                  Giuseppe n.d.a.) con un piede, l'asciugamano gettato su Franco, 
                  il sangue per terra, l'assoluta mancanza di alimentazione, l'immobilità 
                  della morte. È tutto vergognoso e terribile in quel video”.Rileggendo quell'intervista della Pozzi si percepisce tutto 
                  l'interesse della professionista per la risoluzione dell'antico 
                  conflitto tra psichiatria e diritti umani, interesse diffusosi 
                  negli ultimi cinque anni nello spazio pubblico, nella ricerca 
                  storica e scientifica. Le riflessioni e i dibattiti promossi 
                  dal “Comitato per Mastrogiovanni” in tutta Italia 
                  hanno contribuito a nutrire anche la giustizia, spostando sul 
                  piano reale, concreto e temporale il dibattito finalizzato non 
                  solo a giudicare individui concreti per crimini concreti, ma 
                  anche noi stessi e la nostra azione politica e civile tesa ad 
                  introdurre nel codice penale il reato di tortura e mettere sotto 
                  accusa la contenzione quale pratica medioevale.
 Il caso Massimiliano Malzone Dopo aver visto il film della Quatriglio, le cui musiche sono 
                  di Marco Messina, Sacha Ricci, 99 Posse, molti penseranno a 
                  quanti pazienti sono scomparsi negli ospedali, civili e meno 
                  civili del nostro Paese, dei quali nessuno ne ha saputo nulla 
                  perché non in tutti i reparti funzionano le telecamere 
                  di videosorveglianza o le apparecchiature telemetriche.Tra questi sfortunati pazienti, ricordiamo il recente caso di 
                  Massimiliano Malzone, anch'egli cilentano, di Agnone Cilento 
                  (SA), di anni 39, ricoverato il 28 maggio 2015 in regime di 
                  TSO presso la struttura di Sant'Arsenio di Polla e deceduto, 
                  l'8 giugno c.a., per arresto cardiaco. Tante sono le analogie 
                  tra questo caso e quello di Mastrogiovanni e tante anche le 
                  “stranezze”, come le definiscono i familiari. Di 
                  certo sappiamo che due dei medici che operano a Sant'Arsenio 
                  e che avevano in cura Malzone si chiamano Michele Della Pepa 
                  e Raffaele Basso e sono stati condannati, in prima istanza, 
                  nel processo per la morte di Mastrogiovanni, rispettivamente 
                  a due e quattro anni.
 L'altra analogia, come racconta la sorella della vittima Adele 
                  Malzone, al Giornale del Cilento (3 settembre 2015), è 
                  che anche in questo caso, come accadde alla nipote di Mastrogiovanni 
                  Grazia Serra ed al suo fidanzato, non è stato permesso 
                  ai familiari di visitare il loro congiunto ricoverato.
 Nella stessa intervista la sig.ra Adele racconta che il Dott. 
                  Basso, nel colloquio avuto con lei, ha affermato che al fratello 
                  “gli era stata somministrata una terapia da cavallo, un 
                  qualcosa che veniva normalmente distribuita in tre mesi”. 
                  Difatti, il Dott. Adamo Maiese, lo stesso anatomopatologo che 
                  eseguì l'autopsia sul corpo appartenuto a Franco Mastrogiovanni 
                  ha affermato, nella perizia consegnata il mese scorso alla Procura 
                  della Repubblica di Lagonegro, che: “il decesso non è 
                  da porre in correlazione causale con il trattamento sanitario”, 
                  ma che ci sarebbe una correlazione tra il decesso e i neurolettici 
                  assunti da Massimiliano Malzone. Dai microfoni di Radio Radicale, 
                  emittente che segue da cinque anni tutte le udienze del processo 
                  Mastrogiovanni, sono in tanti a chiedere l'introduzione del 
                  reato di tortura nel codice penale e lo svolgimento di una ricerca, 
                  seria e accurata, che appuri quanti TSO vengono emanati in Italia, 
                  le loro modalità di esecuzione e il decorso post-ricovero 
                  per capire in quanti riescono a ritornare a casa con le proprie 
                  gambe.
  Angelo Pagliaroangelopagliaro@hotmail.com
 
 
 
 A proposito della “Buona Scuola”/L'opinione di CUB e USI-AIT
 Dopo i primi mesi di attuazione, pubblichiamo la posizione 
                  sul decreto di riforma della scuola di due organizzazioni del 
                  sindacalismo libertario.
                  
  1. CUB Scuola Università 
                  Ricerca
 
 Una valutazione di quanto è avvenuto nella scuola nei 
                  primi mesi di quest'anno scolastico non può prescindere 
                  da come si è chiuso quello precedente.
 I punti fermi da cui prendere le mosse possono essere così 
                  ricapitolati:
 
                  Le valutazioni precedenti permettono di comprendere, almeno 
                  a mio parere, le ragioni della sostanziale passività 
                  dei lavoratori della scuola nei primi quattro mesi dell'anno 
                  scolastico.La cosiddetta buona scuola e, più propriamente, la 
                  legge 107, è passata nonostante una massiccia mobilitazione 
                  in senso contrario della grande maggioranza dei lavoratori della 
                  scuola, l'opposizione di tutti i sindacati, le grandi manifestazioni 
                  che hanno visto assieme studenti e lavoratori della scuola.
                  Nel sentire comune, e in particolare in quello dei lavoratori 
                  della scuola, il governo ha vinto e c'è poco da fare. 
                  Naturalmente, dal punto di vista razionale, si può facilmente 
                  dimostrare che la mobilitazione del passato anno scolastico 
                  non è poi stata questa lotta straordinaria e che la partita 
                  è assolutamente aperta ma sappiamo sin troppo bene che 
                  i luoghi comuni tutto hanno tranne che una rigorosa fondazione 
                  empirica e ciò nonostante funzionano perfettamente nel 
                  senso che orientano l'azione individuale e collettiva.
                  Il cuore della legge 107 è lo straordinario accrescimento 
                  dei potere dei dirigenti scolastici attraverso la possibilità 
                  di erogare una significativa quota di salario a propria scelta, 
                  un potere discrezionale nella selezione del personale neo assunto, 
                  la possibilità di scegliere i nuovi insegnanti per la 
                  propria scuola, l'introduzione, nonostante le promesse in senso 
                  contrario, in particolare del ministro Marianna Madia, del Jobs 
                  act nel pubblico impiego e quindi della possibilità di 
                  licenziare i neo assunti anche se su questo particolare punto 
                  il governo sembra intenzionato a fare un passo indietro.
                  Una massiccia immissione in ruolo di personale precario secondo 
                  modalità in parte nuove in senso peggiorativo, immissione 
                  che è stata presentata come ricaduta positiva della legge 
                  107, quando è evidente che si tratta essenzialmente di 
                  un modo per chiudere un contenzioso legale che si trascina da 
                  anni e che vede di norma soccombente l'amministrazione con gravissimi 
                  costi.
				   I precari, segmento della categoria normalmente più vivace 
                  della media, erano in attesa di immissione in ruolo che, con 
                  tutte le critiche che possiamo e dobbiamo fare al modo in cui 
                  è stata realizzata, non è certo questione di poco 
                  conto visto che comporta miglioramenti innegabili dal punto 
                  di vista normativo e retributivo e, soprattutto, una situazione 
                  di maggior sicurezza rispetto ad anni di instabilità.
 Le principali critiche all'operato del governo per quanto concerne 
                  le immissioni in ruolo, si sono rivolte alla scelta di imporre 
                  ai precari interessati all'assunzione, di dare la propria disponibilità 
                  su tutte le province con l'effetto di provocare un congruo numero 
                  di trasferimenti forzati. Il governo però ha disinnescato 
                  la protesta degli insegnanti sottoposti a provvedimento coatto, 
                  permettendo, a chi aveva una supplenza annuale, di rinviarlo, 
                  appunto, di un anno.
 L'assieme di operazioni volte a garantire ai dirigenti scolastici 
                  i nuovi poteri previsti dalla legge 107 si è appena messo 
                  in moto e quindi non c'è un impatto immediato del preside 
                  nuovo modello. In concreto i Collegi Docenti sono chiamati a 
                  scegliere i membri per la componente, appunto, docenti dei Comitati 
                  di Valutazione, organismi che comprenderanno docenti, genitori, 
                  funzionari dell'amministrazione, nelle scuole superiori studenti 
                  e, va da sé, il Dirigente Scolastico.
 I Comitati di Valutazione valuteranno, d'altronde si chiamano 
                  così perché valutano, i docenti neoassunti alla 
                  fine dell'anno di prova e, per sovrammercato, definiranno i 
                  criteri sulla cui base i dirigenti scolastici attribuiranno 
                  una quota di salario come premio ai docenti meritevoli.
 Due considerazioni sono evidenti:
 
                  È sin scontato che un dirigente che seleziona i docenti 
                  che chiedono di trasferirsi da una scuola all'altra, visto che 
                  il trasferimento avverrà su non ben definiti ambiti territoriali 
                  all'interno del quale ognuno tratterà con i dirigenti 
                  delle scuole che gli interessano, che dirige un Comitato di 
                  Valutazione nel quale la componente degli insegnanti è 
                  minoranza, che decide chi premiare e chi no, assumerà 
                  una funzione e un potere affatto diversi dall'attuale.i “criteri” saranno interpretati dai dirigenti 
                  come vorranno;
                  soprattutto, a fronte di risorse miserevoli per il contratto 
                  di categoria, i premi saranno la quota di gran lunga più 
                  importante dei possibili incrementi della retribuzione.
				   Contro questa deriva, l'opposizione è difficile perché 
                  si gioca scuola per scuola. La posizione radicale, quella sostenuta 
                  dalla CUB Scuola Università Ricerca per fare un esempio, 
                  e cioè il rifiuto di nominare i docenti nel comitato 
                  di valutazione o, in subordine, il vincolarli alla richiesta 
                  di redistribuire il premio fra tutti i docenti, è, a 
                  mio avviso, politicamente giusta ma si scontra con il “realismo” 
                  subalterno di ampi settori della categoria degli insegnanti 
                  che, visto che la legge 107 è passata ritengono che se 
                  ne debba favorire l'applicazione meno traumatica possibile.
 Soprattutto, e questa è la questione centrale, il cartello 
                  dei sindacati istituzionali, CGIL CISL Gilda SNALS UIL, che 
                  vede uniti sindacati confederali e sindacati autonomi, che a 
                  maggio/giugno ha “coperto” la mobilitazione per 
                  non perderne il controllo, ha virato verso una posizione “ragionevole” 
                  proponendo di consegnare la gestione del salario al merito alla 
                  contrattazione fra dirigente e rappresentanza sindacale di istituto. 
                  Nei fatti, il tentativo è quello di reintrodurre la concertazione, 
                  che il governo ha messo in crisi a livello nazionale, nelle 
                  singole scuole e quindi di recuperare uno spazio di manovra 
                  per il sindacalismo, appunto, concertativo.
 Situazione di stallo dunque, situazione nella quale i soggetti 
                  in campo stanno valutando il loro riposizionamento.
 A mio avviso i possibili punti di crisi sono due:
 
                  Su questa partita si giocherà la prossima fase, come 
                  si suol dire, il futuro riposa sulle ginocchia degli dei.una mobilitazione unitaria docenti-studenti sulla base di 
                  una critica forte, esplicita, radicale della scuola delle dirigenza;
                  un'iniziativa più sindacale della categoria dei lavoratori 
                  della scuola sulla base della rivendicazione di forti aumenti 
                  salariali e cioè dello spostamento di tutte le risorse 
                  che è possibile spostare sul salario base, quello sottratto 
                  alla valutazione discrezionale del dirigente e, di conseguenza, 
                  sull'eliminazione o, quantomeno, sulla riduzione al minimo possibile, 
                  dei premi al merito e del salario accessorio.
				    Cosimo ScarinziCoordinatore Nazionale CUB Scuola Università Ricerca
 
  2. 
                  USI-AIT Settore Educazione
 
 Decisione, fermezza, velocità. Sono state queste alcune 
                  delle strategie messe in atto dal governo per approvare e rendere 
                  legge al più presto la riforma chiamata “Buona 
                  Scuola”. Tuttavia, in un regime dove le parole cambiano 
                  rapidamente di significato, è opportuno decodificare 
                  qualche termine.
 Autoritarismo, ottusità, approssimazione, ecco in realtà 
                  ciò che ha caratterizzato l'iter della legge 107/2015 
                  definita “buona scuola”e ciò che a tutt'oggi 
                  la circonda: demansionamento dei docenti, deportazione dei precari, 
                  minacce, punizioni per gli studenti che hanno boicottato le 
                  prove invalsi, susseguirsi di note e aggiustamenti del ministero 
                  in corso d'opera, palese fallimento del progetto governativo 
                  già dai primi passi. In sostanza un progetto educativo 
                  inesistente, a scomputo di un piano di ingegneria sociale da 
                  costruire. La Riforma scolastica Renzi/Giannini fa della valutazione 
                  la sua colonna portante. Ebbene la continua valutazione a cui 
                  si vorrebbe educare gli studenti e assoggettare i lavoratori, 
                  altro non è che uno strumento di controllo, di ricatto, 
                  che viene messo in piedi tramite istituti specifici, affinché 
                  sia eliminato preventivamente ogni conflitto, ogni dissenso.
 Chi governa ha bisogno di “impiegati” silenti e 
                  studenti obbedienti.
 La riforma scolastica del governo Renzi non è esclusivamente 
                  una formula autoritaria che ricade su studenti e docenti, bensì 
                  una disegno più complesso che mira a porre le basi per 
                  un modello di società specifico. Un progetto che si incarna 
                  perfettamente nelle maglie del “Jobs Act” e che 
                  vuole portare all'accettazione incondizionata di nuove e strumentali 
                  concezioni del “lavoro”. Nel DDL “Buona Scuola” 
                  compaiono, infatti, progetti di alternanza scuola/lavoro; esaltazione 
                  del merito e della competitività. Dotarsi di reti, strutture 
                  ed istituzioni per valutare rimette lo Stato al centro di alcuni 
                  processi sociali; garantisce la gestione di fondi e la possibilità 
                  di assegnare posti di lavoro; rigenera, inoltre, un meccanismo, 
                  quello statale appunto, che si è svuotato di altri significati 
                  che non siano meramente tecnici o repressivi.
 Rifiutarsi di valutare e di essere valutati significa sabotare 
                  alla base le funzioni sociali di esclusiva trasmissione di dati 
                  o di ordini cui si è relegati. Significa riaffermare 
                  l'essenza delle identità che si sentono proprie e non 
                  quelle di cui veniamo vestiti.
 Proviamo ad immaginare una scuola senza valutazione, ad esempio. 
                  Ciò non eliminerebbe l'apprendimento, la crescita e l'emancipazione 
                  individuale, anzi restituirebbe spessore e qualità alla 
                  sperimentazione e al miglioramento cosciente di se stessi, elementi 
                  che dovrebbero essere alla base di processi educativi liberi 
                  e consapevoli. Invece, la valutazione è la parola d'ordine 
                  di questa riforma; è la parola d'ordine di un nuovo assetto 
                  sociale. Attaccare direttamente i suoi criteri, autorganizzarsi 
                  per sabotarne i meccanismi dovrebbe essere l'orizzonte delle 
                  nuove forme di lotta contro il capitale e in favore di una scuola 
                  “pubblica” e non statale. Si è dimostrato 
                  attraverso il boicottaggio delle invalsi che la prosecuzione 
                  della lotta contro la “buona scuola” è possibile 
                  in modo autorganizzato, cosciente, collettivo e determinato. 
                  Individuare strategie di continuità su questo percorso, 
                  anche a lungo termine, potrebbe costituire uno strumento organizzativo 
                  efficace non solo contro il nuovo modello di scuola che si va 
                  delineando, ma anche contro il conseguente modello di società 
                  che ne scaturirebbe.
 Ciò non significherebbe non svolgere il proprio lavoro 
                  di insegnante, in quanto l'elaborato verrebbe ugualmente corretto, 
                  condiviso e spiegato nelle sue eventuali imperfezioni. Si obietterebbe 
                  soltanto a quei criteri di assoggettamento su cui tutta la riforma 
                  si basa. Da questo punto di vista la prima lezione ce l'hanno 
                  data gli studenti, sta ora a chi è tenuto ad accompagnarli 
                  nella crescita cogliere l'importanza e l'originalità 
                  del loro messaggio.
 Ad oggi, però, la lotta contro la “buona scuola” 
                  sta attraversando un momento delicato non solo perché 
                  la 107 è stata approvata la scorsa estate ma, soprattutto, 
                  a causa del fatto che numerosi comitati nati dal basso, di studenti 
                  e lavoratori, per gli strani meccanismi di disciplinamento cui 
                  si è sottoposti fin dall'infanzia che fanno credere che 
                  l'unione con tutti e tutte faccia la forza, si stanno apertamente 
                  legando a chi usa la lotta solo in maniera strumentale onde 
                  poter attrarre a sé un maggior numero di voti, sia di 
                  chi ha per mestiere quello di pompiere sociale.
 L'Unione Sindacale Italiana sezione educazione è convinta 
                  che affidare la lotta a forze partitiche e a forze sindacali 
                  padronali, sia un grande errore. Si comprende la delusione che 
                  ha comportato l'approvazione della legge, si comprende lo sfinimento 
                  per lotte lunghe ed apparentemente prive di risultati concreti, 
                  tuttavia pensiamo che la sola strada da perseguire, quella realmente 
                  incisiva, sia l'autorganizzazione, sia il rifiuto della delega, 
                  sia cioè la ricerca di nuove forme di lotta che hanno 
                  in sé una carica innovativa non solo sul piano della 
                  rivendicazione sindacale, ma rappresentano un passo in avanti 
                  verso l'emancipazione e liberazione dalla prigione sociale in 
                  cui questo come tutti i governi, vogliono rinchiuderci.
  Le compagne e i compagnidi U.S.I.-A.I.T. Settore Educazione
 
 
 
 Puglia/Mobilitazione per due medici “censurati”
 Censura scritta per Francesca Mangiatordi e contestazione 
                  di addebiti a Francesco Papappicco per aver divulgato notizie 
                  non autorizzate alla stampa circa i soccorsi della strage 
                  di mafia del 5 marzo 2015 ad Altamura. Siamo in provincia di 
                  Bari, sei feriti gravi il risultato dello scoppio di un potente 
                  ordigno esplosivo alle 00.10 piazzato davanti ad una sala giochi.Francesco Papappicco, medico del 118 di stanza a Gravina in 
                  Puglia interviene sul paziente più grave, il ventiseienne 
                  Domi Martimucci, giovane promessa del calcio nazionale. Domi 
                  riporta ferite gravissime alla testa e dopo perigliosi percorsi 
                  clinici muore in agosto. Francesco tenta di trasportarlo al 
                  Policlinico di Bari dopo aver chiesto la disponibilità 
                  di un elicottero ma quella bomba ha già innescato altri 
                  meccanismi delicati della Sanità pubblica barese. L'elicottero 
                  non arriverà mai e Francesco è costretto a trasportare 
                  il ragazzo in un ospedale di provincia non attrezzato per neurotraumi.
 Francesca lavora nel pronto soccorso di quell'ospedale sulla 
                  Murgia e si sta già occupando dei primi feriti giunti 
                  al nosocomio. Squadre del 118 e operatori sanitari ospedalieri 
                  si dannano l'anima per salvare quelle vite umane. Le professionalità 
                  ci sono ma i mezzi a disposizione risultano proprio in quei 
                  momenti decisamente carenti. Francesco e Francesca sono anche 
                  due sindacalisti e da mesi hanno segnalato carenze ai loro dirigenti 
                  e proposto miglioramenti del sistema di emergenza nei rispettivi 
                  comparti di lavoro. Quella maledetta notte guarda caso tutto 
                  viene a galla e si manifesta nella sua drammaticità.
 Le segnalazioni rimaste senza risposta da parte di qualche boiardo 
                  si ripercuotono sulla pelle di quei feriti e dei sanitari in 
                  servizio. Dopo cinque mesi i due medici scomodi ricevono tre 
                  procedimenti disciplinari. Quello di Francesca esita nella sanzione 
                  della censura scritta. Per Francesco, cui non riescono a trovare 
                  un appiglio per poterlo sanzionare, si è ancora in attesa 
                  di sentenza dopo quattro mesi dalla notifica del primo procedimento. 
                  I due medici decidono così di non sottostare al bavaglio 
                  e, catene al cinto, il 3 agosto si legano ai cancelli della 
                  loro ASL. Inizia una lunga protesta a colpi di batti e ribatti 
                  su giornali di controinformazione e udienze con i vertici aziendali. 
                  Volano stracci e la vicenda viene raccontata su un hashtag FB 
                  chiamato #noiduecimettiamolafaccia che riesce a vincere le resistenze 
                  oscurantiste della stampa di regime e ad arrivare al cuore della 
                  gente.
 
                   
                    |  |   
                    | Altamura (Bari), 8 novembre 2015 - Momento di agorà durante la manifestazione popolare di protesta
 |   Due settimane di sciopero della fame a novembre costringono 
                  la ASL a ritirare il secondo procedimento avviato contro Francesco 
                  che viene “assolto” dal Direttore Generale in persona 
                  e inducono il Governatore della Regione Michele Emiliano ad 
                  “attenzionare” il caso rispondendo con un silenzio 
                  imbarazzato quanto assordante.Qualcuno tenta di infangare i due medici-libertari quasi tacciandoli 
                  di erostratismo mentre colleghi e firme illustri del giornalismo 
                  scotomizzano il caso. Il velo oscurantista viene squarciato 
                  da Antonio Loconte direttore del “Quotidiano Italiano-Bari” 
                  online e da altri giornalisti di testate locali. Loconte racconta 
                  passo dopo passo ogni episodio della scabrosa vicenda che ha 
                  messo in difficoltà i vertici amministrativi e politici 
                  locali. La rete social e il “Quotodiano Italiano” 
                  online di Loconte riescono a sfondare il muro di omertà 
                  delle istituzioni e raggiungono il cuore della gente che prende 
                  consapevolezza degli attacchi persecutori nei confronti dei 
                  due medici validi e stimati.
 Loconte, sagace giornalista d'inchiesta è già 
                  noto per aver ficcato il naso negli scandali della sanità 
                  barese tanto da esser diventato bersaglio di ignoti che gli 
                  hanno recapitato minacce di morte in merito a dossier sul 118. 
                  Prende a cuore la vicenda dei due medici e ne sviscera complotti 
                  e retroscena ai loro danni. Emerge così la costruzione 
                  certosina di un castello accusatorio kafkiano che si smonta 
                  da solo. Il caso “medici incatenati” arriva tramite 
                  la rete in tutta Italia e a questo punto non riguarda più 
                  due persone ma riesce a trasformare in argomento di lotta l'angoscia 
                  e gli interrogativi di quella parte della popolazione che si 
                  sente irrisa e quasi messa sotto accusa per essersi schierata 
                  dalla parte degli “indisciplinati”.
 Una marea montante di consensi fa da contraltare a pseudo-analisi 
                  e attacchi personali a tratti feroci. Giustapposizione di due 
                  modi di vedere la vita - asservita o critica e ribelle.
 L'8 novembre l'apoteosi per le strade di Altamura: una sollevazione 
                  popolare spontanea senza precedenti per l'arditezza dei toni 
                  e la partecipazione di giovani, bambini e famiglie. Il tema 
                  della mala gestione delle risorse in sanità e dei procedimenti 
                  disciplinari passa quasi in secondo piano rispetto agli slogan 
                  di protesta che campeggiano sugli striscioni che fanno da prologo 
                  e non già da epilogo alla manifestazione.
 Catene e sciopero della fame considerati quasi un'oscenità 
                  dalla casta dei medici e dalle istituzioni da una parte, diventano 
                  sorprendentemente un'impresa ardita per la gente dall'altra 
                  che mette da parte un certo gusto dell'impotenza cui il palazzo 
                  l'ha assuefatta per iniziare a ribellarsi.
  Francesco Papappicco 
 
 
 Argenta/Una scuola media (e una città) per Giuseppe Pinelli
 Si può parlare di Giuseppe Pinelli in una scuola media? 
                  Non sono troppo piccoli i ragazzi? No, non sono troppo piccoli. 
                  In prima media studiano Omero, in seconda media Dante: c'è 
                  qualcosa di più difficile di Omero e Dante? No. Quindi 
                  possiamo parlare (e diffusamente) anche di Giuseppe Pinelli.La scuola media di Argenta (Ferrara) non si è limitata 
                  ad affrontare l'argomento Pinelli in classe con i ragazzi – 
                  colmando una piccola lacuna perché nei libri di testo 
                  delle medie Pinelli non sempre c'è.
 La scuola ha invitato Claudia Pinelli, la figlia: inoltre questo 
                  incontro è stato inserito in una rassegna sulla storia 
                  contemporanea.
 In questo modo abbiamo proposto alla città e agli studenti 
                  diversi incontri su alcuni momenti importanti degli ultimi decenni: 
                  dopo il primo appuntamento con Claudia Pinelli abbiamo parlato 
                  di stragismo con Francesco Barilli e Matteo Fenoglio (che hanno 
                  dedicato a piazza Fontana e piazza della Loggia due graphic 
                  novel); quindi abbiamo discusso del 1977 bolognese con Franca 
                  Menneas (autrice di uno studio sulla morte di Pierfrancesco 
                  Lorusso); del g8 di Genova con Haidi Giuliani; di Federico Aldrovandi 
                  con Patrizia Moretti.
 
  Tre 
                  incontri la sera, due incontri la mattina (con le classi della 
                  scuola). Per ognuno di questi argomenti stiamo allestendo all'interno 
                  della scuola degli spazi espositivi con materiali di diverso 
                  tipo (le foto per il G8, pannelli sulle diverse vicende processuali 
                  – da piazza Fontana a Federico Aldrovandi, schede storiche, 
                  i disegni di Matteo Fenoglio sullo stragismo, i disegni degli 
                  studenti che si ispirano alle tavole di Fenoglio ecc.).
 Per il momento lo spazio più curato è “l'area 
                  Pinelli”: 4 pannelli riassuntivi relativi al contesto 
                  storico; la riproduzione dell'opera di Enrico Baj; i disegni 
                  di Franco Fortini del funerale di Pinelli; la scheda riassuntiva 
                  dell'iter processuale di piazza Fontana. Ma metteremo ancora 
                  altri documenti.
 Noi ci siamo divertiti parecchio: non solo con i ragazzi (che 
                  hanno svolto un laboratorio nel corso di arte sui disegni di 
                  Fenoglio). È stato un vero e proprio corso di aggiornamento 
                  e ha avuto un impatto molto forte. I due incontri alla mattina 
                  - pensati principalmente per i ragazzi - sono stati quello su 
                  Bologna e quello sul G8, con Haidi. Haidi ha parlato per due 
                  ore (due ore) con i ragazzi: ha risposto alle domande (alcune 
                  anche molto ingenue – ma lei era lì per questo) 
                  e ha toccato molti argomenti – il concetto di legalità, 
                  l'uso della violenza, la Diaz, Bolzaneto e naturalmente ha parlato 
                  anche di Carlo. Al di là dei nostri percorsi biografici 
                  (alcuni di noi erano a Genova) tutti gli insegnanti coinvolti 
                  nella mattinata sono rimasti colpiti dalla tranquilla determinazione 
                  di Haidi.
 L'incontro con Claudia invece l'abbiamo tenuto alla sera: in 
                  platea c'era molta gente e anche un gruppetto di ragazzi. Claudia 
                  è stata molto brava, come sempre. In giugno l'avevamo 
                  già sentita a Massenzatico, alla festa della rivista: 
                  nei due incontri c'era una platea diversa ma ciononostante anche 
                  ad Argenta è stata dura, tagliente e diretta. E non ha 
                  risparmiato le critiche. Ci è piaciuta molto.
 Per Giuseppe Pinelli la scuola si è mossa anche in un'altra 
                  direzione: il 16 dicembre nella sala del consiglio comunale 
                  di Argenta, alla presenza dei rappresentanti di 3 comuni (Argenta, 
                  Portomaggiore, Ostellato) ha organizzato una commemorazione, 
                  nell'anniversario della morte.
 L'assessore alla cultura Giulia Cillani e la preside della scuola 
                  hanno presentato l'iniziativa, poi chi scrive ha raccontato 
                  in modo molto informale quello che è stato organizzato 
                  dalla scuola: nel discorso commemorativo abbiamo fatto semplicemente 
                  il punto sulle attività svolte nei mesi precedenti. Ma 
                  quel che conta, secondo noi, al di là della retorica 
                  (speriamo contenuta) è la valenza simbolica del luogo 
                  in cui eravamo (il consiglio comunale) e la presenza delle istituzioni 
                  con i rappresentanti di tre Comuni (Antonio Fiorentini, sindaco 
                  di Argenta; Elena Rossi, assessore alla cultura di Ostellato; 
                  Nicola Minarelli, sindaco di Portomaggiore).
 Alla commemorazione erano presenti anche Claudio Mazzolani dell'Archivio 
                  storico Fai (Imola) e Domenico Gavella di Ravenna. A Domenico 
                  inoltre si deve un intervento (durante il dibattito) veramente 
                  notevole.
 In questi mesi abbiamo portato la discussione anche “fuori” 
                  la scuola:
 presso la biblioteca Bertoldi abbiamo allestito la mostra di 
                  30 tavole di Matteo Fenoglio (sullo stragismo);
 presso il Centro culturale Mercato abbiamo preparato una mostra 
                  di foto di Uliano Lucas e una esposizione di riviste e libri 
                  legati al periodo storico (tra le altre cose il numero di «Lotta 
                  continua» del 20 dicembre 1969, i vari libri di Stajano, 
                  Cederna, i libri sulle stragi, alcuni dischi in vinile, i libri 
                  sul g8 ecc.). Avremmo voluto anche organizzare la proiezione 
                  del documentario Sfiorando il muro di Silvia Giralucci 
                  ma per il momento questa iniziativa è stata sospesa. 
                  Vedremo in seguito.
 Ma la vera commemorazione di Pinelli da parte della scuola forse 
                  è un'altra: la sezione di storia contemporanea della 
                  biblioteca della scuola media di Argenta verrà intitolata 
                  a lui.
 I libri che abbiamo raccolto (una mole interessante, e per il 
                  numero e per la qualità) non li depositiamo fisicamente 
                  nella biblioteca della scuola. Metteremo il catalogo in rete: 
                  chi è interessato a qualche testo lo richiede, noi lo 
                  portiamo a scuola e lo diamo in prestito. Si tratta di una biblioteca 
                  virtuale ma attiva. I testi li abbiamo e sono di valore.
 In conclusione abbiamo “occupato” diversi spazi 
                  della città: dalla biblioteca al Centro culturale Mercato, 
                  dalle aule dei liceo (dove ci hanno ospitato in tre classi per 
                  la presentazione dell'attività), alla stessa sala del 
                  Consiglio Comunale. Per non parlare delle classi della scuola 
                  media – dove abbiamo svolto diversi momenti di riflessione.
 Per questo non ci pare eccessivo dire che non solo la scuola 
                  di Argenta ma anche la città di Argenta si è mossa 
                  concretamente in memoria di Pinelli. Una scuola e una città 
                  per Pinelli, potremmo dire dunque - aspettando il momento in 
                  cui gli verrà dedicata finalmente una strada o una piazza.
  Pierpaolo Scaramuzza |