La “rivoluzione interiore” 
                  di Tiziano Terzani 
                Il contributo di Tiziano Terzani alla corrente culturale degli 
                  obiettori della crescita e degli intellettuali, che credono 
                  in una vera società alternativa, proviene da un gruppo 
                  di pensatori che ha vissuto a lungo nel cosiddetto “terzo 
                  mondo”, ponendo in discussione l'idea stessa di progresso 
                  e sviluppo, tra cui Ivan Illich e Serge Latouche. 
                  Terzani ha origini operaie, comuniste e anticlericali: il padre 
                  ha combattuto tra i partigiani della Resistenza. La sua vita 
                  si dipana tra Oriente e Occidente, in qualità di giornalista 
                  professionista, rendendosi presto conto delle ragioni dei popoli 
                  asiatici colonizzati. 
                  Come argomenta Gloria Germani, curatrice del libro Terzani. 
                  Verso la rivoluzione della coscienza (edizioni Jaca Book, 
                  Milano, 2014, pp. 126, € 9,00), dalle umili origini Terzani 
                  eredita un forte bisogno di giustizia, la volontà di 
                  creare il senso della vita, la ricerca di un modo di vivere 
                  collettivamente più giusto e autentico. Studia la storia 
                  delle civiltà asiatiche così distanti e diverse 
                  dal mondo occidentale, prendendo coscienza del fallimento dell'esperimento 
                  comunista in Vietnam, degli orribili esiti della rivoluzione 
                  cambogiana di Pol Pot, del fallimento del comunismo maoista 
                  in Cina, del disastro esistenziale del moderno liberismo in 
                  Giappone e del crollo del comunismo in Russia. 
                  Terzani avvertiva tutta la disperazione per aver appreso come 
                  i tentativi verso la modernità, dal comunismo cinese 
                  al liberismo economico giapponese, portassero ad esiti aberranti 
                  per la vita umana, dalla capacità affettiva e relazionale 
                  al rapporto con la natura e l'ecosistema, intuendo che le rivoluzioni 
                  comuniste, ma anche e soprattutto il capitalismo, hanno un tratto 
                  fondamentale in comune con la mentalità scientifica tipicamente 
                  occidentale. La sua opera è un continuo sdegno di fronte 
                  alla modernità di stampo occidentale, all'industrializzazione, 
                  all'ossessione per il denaro che distrugge interi paesi, con 
                  la colonizzazione dell'immaginario, in quanto l'Occidente ha 
                  distrutto interi popoli, prima con le chiese e i crocifissi 
                  e ora con la televisione, ancora più che con le armi 
                  nucleari, agli albori della globalizzazione, tramite la colonizzazione 
                  della mente.  
                
                
                  La visione occidentale e meccanicistica della scienza cartesiano-newtoniana 
                  ha plasmato la vita moderna, generando la specializzazione e 
                  la frammentazione, tipiche del nostro tempo, che ci impediscono 
                  di comprendere gli effetti delle nostre azioni e spesso anche 
                  il senso dell'esistenza. Le civiltà orientali si sono 
                  sempre poste il grande obiettivo di disincentivare e scoraggiare 
                  l'insorgere continuo dell'ego, la presunzione della persona, 
                  la superbia dell'individuo per raggiungere la pace e la vera 
                  felicità, nel distacco dal piccolo Io che illusoriamente 
                  l'Occidente crede autonomo, per fare invece emergere un sè 
                  più grande. Per l'uomo moderno occidentale, l'unica conoscenza 
                  valida è quella dell'utile, al fine di manipolare, possedere, 
                  cambiare, dominare il mondo con il sistema di pensiero su cui 
                  si fonda la modernità, nel segno della grande unificazione 
                  del sapere, al contrario delle scoperte più all'avanguardia 
                  nel campo della conoscenza, dai sistemi complessi alla scienza 
                  della complessità, che le antiche sapienze asiatiche 
                  conoscevano, come il Tao, l'interconnessione, il nodo infinito, 
                  non la dualità cartesiana mente/corpo, ma il tutto 
                  è uno. 
                  Attualmente l'unico obiettivo di tutti i governi è la 
                  crescita economica, il valore essenziale è il denaro 
                  e la religione prioritaria è l'economia, dove si valuta 
                  esclusivamente il profitto nel potente circuito della dittatura 
                  finanziaria, nella finanziarizzazione, per cui oggi la nuova 
                  lotta di classe dovrebbe essere contro l'oligopolio e l'oligarchia 
                  dei mercati dell'alta finanza. Il filosofo del '600 Thomas Hobbes 
                  stabilì che la prima forza che guida l'agire è 
                  l'interesse personale ed egoistico, la competizione sfrenata 
                  tra individui scatenati nell'affermare la propria autodeterminazione. 
                  Così Terzani, il corrispondente estero, ha avuto il coraggio 
                  di denunciare il fatto che il materialismo sfrenato ha marginalizzato 
                  il ruolo dell'etica nella vita quotidiana, a vantaggio di disvalori 
                  come il denaro, il successo, il tornaconto personale, di cui 
                  tutti siamo succubi e vittime. Per questo sosteneva che è 
                  necessaria una “rivoluzione interiore”, in quanto 
                  le cause della guerra tra civiltà sono dentro di noi, 
                  nelle passioni come il desiderio, la paura, l'insicurezza, l'ingordigia, 
                  la vanità e che la sofferenza risiede proprio nell'avidità, 
                  nell'attaccamento morboso, nel cercare la felicità fuori 
                  di sé. Terzani auspicava una silenziosa “rivoluzione 
                  interiore”, fondata su una percezione diversa dell'ego, 
                  una “rivoluzione della decrescita”, per un futuro 
                  in cui l'idea di socialismo sopravviverà a questo periodo 
                  egoista e capitalista, con l'alto ideale di una società 
                  in cui nessuno sfrutta il lavoro dell'altro e ognuno fa il dovuto 
                  e non accumula l'eccesso, secondo un concetto di frugalità 
                  tipico delle tradizioni di saggezza, ristabilendo così 
                  l'armonia con la morte e la natura, comprendendo in tal modo 
                  che fenomeni apparentemente scollegati, come la gravissima crisi 
                  ecologica, economica, finanziaria, etica, esistenziale e l'incremento 
                  delle guerre sono intimamente connessi al tipo di conoscenza 
                  dualistica, che annienta le diversità e le complessità, 
                  e all'egocentrismo occidentale che si alimenta di idolatria 
                  invece di raggiungere l'essenziale, il tutto, l'uno. 
                 Laura Tussi 
                     Luigi Di Gianni/ 
                  Cine-occhio kafkiano e libertario 
                Poiché il cinema non è solo 
                  un'esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, 
                  è un'esperienza filosofica. 
                  Pier Paolo Pasolini 
                  
                 È tra i massimi registi e documentaristi italiani e 
                  ha firmato oltre 60 film. L'opportunità di “aprirci” 
                  a Luigi Di Gianni, un maestro del nostro cinema, definito a 
                  buon diritto il filosofo della macchina da presa, ci viene offerta 
                  dalla Cineteca di Bologna con uno speciale DVD, dal titolo Uomini 
                  e spiriti (Andrea Meneghelli, 2013, Cineteca di Bologna 
                  € 9,90) che, attraverso 16 film realizzati tra il 1958 
                  e il '71, ripercorre la poetica e quell'attitudine intrinseca 
                  con cui vengono indagati gli aspetti più irrazionali 
                  e illogici della nostra cultura, specie quelli radicati nel 
                  Sud più arcaico. 
                
                 Luigi Di Gianni nasce a Napoli nel 1926. Si laurea in Filosofia 
                  con una tesi su Heidegger e si diploma in Regia presso il Centro 
                  Sperimentale di Cinematografia di Roma dove poi insegnerà, 
                  oltre a insegnare in diverse università italiane. Avvalendosi 
                  della consulenza scientifica di Ernesto de Martino, nel '58 
                  inizia l'attività di documentarista-cineasta con Magia 
                  Lucana e che nello stesso anno vince il premio come miglior 
                  documentario alla XIX edizione del Festival di Venezia. È 
                  un acuto osservatore: il suo sguardo non è mai neutrale 
                  verso l'oggetto preso in esame, sebbene la ricerca antropologica 
                  che lo anima non abbia in sé nulla di estetizzante, vista 
                  la brutalità quasi orrifica che guida la sua mano. Di 
                  Gianni utilizza le armi della “settima arte” per 
                  evidenziare con maggior forza la lotta dell'uomo contro la natura, 
                  il fato, la povertà. Le genti del Meridione, protagoniste 
                  delle vicende narrate nei suoi documentari, “portano” 
                  sul viso una sofferenza eterna tramandata di generazione in 
                  generazione e nel contempo sono dominate dal potere sovrannaturale. 
                  È un cinema di ricerca e di denuncia, come si evince 
                  dalle sue stesse parole: “Ho sempre provato amore per 
                  chi non può niente e si dibatte inutilmente contro un 
                  destino che lo sovrasta: è lo stesso amore che provo 
                  per i contadini della mia terra, dell'Italia meridionale, per 
                  gli oppressi in generale”. I suoi film esplorano in particolare 
                  l'intreccio tra ritualità pagana e cattolicesimo nell'Italia 
                  del Sud, la fatica e la dignità del lavoro, la fragilità 
                  dell'uomo soggiogato dalla forza degli eventi che non può 
                  controllare; ecco perché gli ultimi sono i primi ma restano 
                  vittime sacrificali predestinate. Sintomatiche a tal proposito 
                  le parole che l'antropologa Clara Gallini scrive: “[...] 
                  La Lucania [...] del regista è astorica, fatta di voli 
                  e gesti antichi, fissati nella lenta solennità dei movimenti, 
                  in sguardi immobili che sembrano provenire da distanze immemorabili 
                  e senza tempo. [...] La lettura di Di Gianni ci richiama di 
                  più l'immagine che del contadino del Sud aveva proposto 
                  Carlo Levi in 'Cristo si è fermato a Eboli'”. 
                  Egli imprime alle opere una spiccatissima personalità 
                  d'autore senza dimenticare le lezioni della cultura mitteleuropea, 
                  della scuola sovietica e dell'espressionismo tedesco. Il suo 
                  cinema non è scalfito dal tempo, bensì è 
                  disseminato di essenze e suggestioni kafkiane e dreyerane. 
                  Negli anni Sessanta l'antropologa e fotografa Annabella Rossi 
                  è consulente e autrice dei testi dei documentari di Di 
                  Gianni. Si ricordano: La Madonna di Pierno ('65), Il 
                  male di San Donato ('65), La Possessione ('71). Nel 
                  febbraio 2006 l'Università di Tubinga gli conferisce 
                  la laurea honoris causa in Filosofia per meriti nel campo 
                  del cinema d'ispirazione antropologica. 
                  Costantemente coerente alla propria poetica, Di Gianni dà 
                  vita a un cinema “estremo” basato sull'immagine-tempo 
                  e non sull'immagine-movimento, eccezion fatta per il piano sequenza 
                  capace di evocare un mondo d'immagini prima che di parole. Un 
                  codice visivo dove la langue è in primis immaginazione. 
                  Installazioni di corpi, non per forza attori, pronti a un'accensione/ascensione 
                  cristologica nella tenuità di luci e ombre. È, 
                  ciò nonostante, un cinema annichilito dalla mancanza 
                  di acume di produttori e distributori, nonché da una 
                  stampa sempre più disattenta e omologata. 
                
                   
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                    |   Una scena del film Tempo di raccolta  | 
                   
                 
                
                  Nella sua ricerca cinematografica estetica/estatica emergono 
                  una perfetta sintonia e un parallelismo culturale con Carl Theodor 
                  Dreyer, Friedrich Wilhelm Murnau, Josef von Sternberg, Dziga 
                  Vertov, Ingmar Bergman, Luis Buñuel, Franz Kafka, Albert 
                  Camus, Jean-Paul Sartre. Di Gianni predilige il bianco e il 
                  nero e, proprio quando è costretto a ricorrere al colore, 
                  utilizza colori saturi, innaturali, di una grigia tonalità 
                  come l'esistenza dell'uomo. La musica dodecafonica di Arnold 
                  Schönberg, Anton Webern, Alban Berg è protagonista 
                  e fa da contrappunto doloroso a tali atmosfere. 
                  Il rapporto con il sovrannaturale, l'estasi, la possessione, 
                  l'onirico sono altri tratti peculiari della poetica di Di Gianni. 
                  In Grazia e numeri ('62), I Fujenti ('66), La 
                  potenza degli spiriti ('68), Nascita di un culto 
                  ('68), L'attaccatura ('71), attraversando il Profondo 
                  Sud, egli documenta la presenza ancora molto forte di riti 
                  connessi a forme di ritualità magico-religioso-protettive. 
                  Come scrive Andrea Meneghelli nell'Introduzione del libretto 
                  allegato al DVD, “il suo cinema è la documentazione 
                  di un rimosso sociale”. Negli ultimi tempi ha realizzato: 
                  La Madonna in cielo, la “matre” in terra 
                  (2006), Carlo Gesualdo da Venosa - Appunti per un film 
                  (2009), Un medico di campagna (2011) ispirato all'omonimo 
                  racconto di Franz Kafka. Altri film sono in fase di lavorazione. 
                  Lo scorso anno è stato nominato Presidente della Lucana 
                  Film Commission. 
                  Nel DVD Uomini e spiriti sono presenti tra gli altri: 
                  Magia Lucana ('58), Frana in Lucania ('60), L'Annunziata 
                  ('62), Il culto delle pietre ('67), La tana ('67), 
                  Tempo di raccolta ('67), Nascita di un culto ('68), 
                  L'apparizione ('68), Nascita di un culto ('68). 
                  La sua è una promenade alla riscoperta di un Meridione 
                  arcaico, misterico, folle, dimenticato, eppure tanto affascinante 
                  e suggestivo: “Io salvo l'identità lucana, raccomando 
                  sempre di non vergognarsi del proprio passato e di essere stati 
                  poveri. La povertà non è solo tragedia se la si 
                  guarda con gli occhi di chi è riuscito ad uscirne senza 
                  rinnegarla”. Forgia un cinema tutto suo, attraverso il 
                  quale non pretende di catturare la verità pur 
                  ricercandola incessantemente con vigore e integrità etica 
                  straordinarie. Un cinema autorevole che s'impone per la sua 
                  filosofia; dove l'immagine recupera il significato espressivo: 
                  eloquente e risolutiva di per sé che, azzerando tempo 
                  e spazio, è sempre attuale e dev'essere d'ispirazione 
                  e monito per le nuove generazione di autori e registi, affinché 
                  non si sprofondi nel baratro della non-cultura televisiva che 
                  ormai sovrasta indomita plagiando la massa. Proprio come afferma 
                  Pasolini: “La responsabilità della televisione, 
                  in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto 'mezzo 
                  tecnico', ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. 
                  [...] Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la 
                  televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo 
                  di informazione al mondo”. 
                 Domenico Sabino 
                     Resistenza a Milano 1943-45/ 
                  Contro i nazi-fascisti e per la rivoluzione sociale 
                 Per 
                  le edizioni Zero in Condotta è stato recentemente pubblicato 
                  il volume Per la rivoluzione sociale. Gli anarchici 
                  nella Resistenza a Milano (1943-45) di Mauro De Agostini 
                  e Franco Schirone (Milano, 2015, pp. 360, € 20,00) 
                  di cui pubblichiamo il comunicato editoriale e la prefazione 
                  di Giorgio Sacchetti. 
                   
                  Per gli anarchici la battaglia contro il fascismo, che comincia 
                  a svilupparsi fin dalla nascita del movimento mussoliniano, 
                  prosegue durante tutto il ventennio e si dispiega con la Resistenza, 
                  costituisce un momento particolare della lotta rivoluzionaria; 
                  fascismo, democrazia borghese, totalitarismo staliniano vengono 
                  combattuti come forme diverse di oppressione statale in vista 
                  della creazione di una società di liberi ed eguali. 
                  Questo studio ricostruisce, per la prima volta in modo organico 
                  e completo, le vicende del movimento anarchico milanese dagli 
                  anni della dittatura fino ai mesi immediatamente successivi 
                  alla Liberazione. Avvincente e documentata narrazione di un'esperienza 
                  resistenziale popolare ed “altra”, quella degli 
                  anarchici, in una città-chiave come Milano, crocevia 
                  dei destini della Nazione ma anche proscenio della duratura 
                  guerra civile europea. 
                  Negli anni della dittatura la resistenza libertaria prosegue 
                  tenace nonostante l'occhiuta vigilanza della polizia, anche 
                  al confino e in carcere, ma è opera soprattutto di vecchi 
                  militanti che rimangono fedeli alla propria storia. Sono gli 
                  insuccessi della guerra fascista a incrinare il consenso al 
                  regime mentre la caduta del fascismo e l'8 settembre portano 
                  sulla scena politica una nuova generazione di giovanissimi ansiosi 
                  di creare un mondo nuovo. A Milano si realizza la non facile 
                  saldatura tra i militanti “storici” e centinaia 
                  di giovani animati da spirito spontaneamente libertario e rivoluzionario, 
                  portando alla nascita delle formazioni “Malatesta – 
                  Bruzzi”. Ma le aspirazioni rivoluzionarie sono così 
                  radicate e diffuse che lo stesso PCI guarda con preoccupazione 
                  alle “tendenze anarcoidi e di sinistrismo” ampiamente 
                  presenti nelle formazioni partigiane. 
                  Oggi, mentre la tradizionale vulgata nazional-popolare 
                  della Resistenza come”guerra patriottica” interclassista 
                  viene progressivamente soppiantata da un infame revisionismo 
                  storico che pone sullo stesso piano vittime e carnefici, risulta 
                  tanto più necessario riscoprire l'anima rivoluzionaria 
                  della lotta antifascista. 
                  In appendice sono pubblicati diversi documenti in larga parte 
                  inediti, come gli elenchi completi degli appartenenti alle formazioni 
                  “Malatesta – Bruzzi”, le versioni integrali 
                  della relazione di Giuseppe Seregni e del diario scritto da 
                  Pietro Bruzzi dal 13 agosto 1943 al 3 maggio 1944, un mese prima 
                  dell'arresto che lo porterà alla fucilazione. 
                
  Zero In Condotta
                  La presenza complessiva degli anarchici nella Resistenza è 
                  già stata fatta oggetto di numerosi studi, alcuni di 
                  grande pregio, ormai a partire dall'ultimo decennio del secolo 
                  scorso. Tuttavia, trattandosi di un movimento di non facile 
                  approccio per chi non abbia un retroterra di conoscenza approfondito, 
                  si è rilevato spesso necessario, anzi indispensabile, 
                  partire dal locale (o magari dalle storie di vita). Sì, 
                  perché ad un movimento politico-culturale-sociale eterogeneo 
                  e decentrato corrispondono spesso fonti altrettanto decentrate 
                  e magari disperse. Ebbene queste pagine, oltre a rappresentare 
                  un indubbio elemento di conoscenza, costituiscono anche un prototipo 
                  per come si debba procedere nella ricerca storica di base. Senza 
                  questi lavori, pazienti e minuziosi, le grandi opere di “sintesi” 
                  non avrebbero più la materia prima per analisi e ricostruzioni 
                  di largo respiro. 
                  Mauro De Agostini e Franco Schirone, studiosi di vaglia, ci 
                  propongono un'avvincente e documentata narrazione di un'esperienza 
                  resistenziale popolare ed “altra”, quella degli 
                  anarchici, in una città-chiave come Milano, crocevia 
                  dei destini della Nazione ma anche proscenio della duratura 
                  guerra civile europea. Lì dove lo scontro tra fascismo 
                  e antifascismo ha assunto, da sempre, i connotati della guerriglia 
                  sociale aperta il racconto di quelle vicende si fa decisivo. 
                  Le modalità e le costanti di un conflitto apertosi nel 
                  1919-1922 ritornano dunque negli anni 1943-1945 come ricapitolazione, 
                  svolgimento finale e “recupero della memoria” (per 
                  usare le parole di Claudio Pavone) durante la Resistenza, sotto 
                  la cappa dell'occupazione tedesca. E si tratta di uno scontro 
                  epocale, “guerra dei trent'anni” tra opposte visioni 
                  del mondo, tra modelli di civiltà antitetici, il cui 
                  esito produrrà contraddizioni più o meno impreviste: 
                  come l'affermarsi di democrazie dai tratti autoritarie di antifascismi 
                  di marca totalitaria. 
                  La seconda guerra mondiale nelle sue molteplici rappresentazioni 
                  raffigura una sorta di architrave della memoria europea, e pertanto 
                  delle identità, di tutte quelle componenti sociali, politiche, 
                  nazionali e culturali che vi furono coinvolte. Ciò vale 
                  a maggior ragione per un paese come l'Italia alle cui istituzioni 
                  spetta la peculiarità della nefasta primogenitura del 
                  fascismo, e il disonore di una turpe alleanza con il nazionalsocialismo 
                  hitleriano, dalla guerra d'Etiopia almeno fino all'8 settembre 
                  1943. Per la generazione dei militanti libertari, reduci delle 
                  antiche battaglie, l'epilogo di un'esperienza traumatica vissuta 
                  in prima persona – guerra, persecuzioni, prigionia, esilio 
                  e lotta armata – non sarà mai l'ora zero 
                  per un nuovo spensierato inizio. Esso imporrà, piuttosto, 
                  il dovere della memoria oltreché della coerenza antitotalitaria. 
                  Le inaudite devastazioni fisiche e morali patite significarono, 
                  innanzitutto, una grande confutazione delle illusioni e delle 
                  finzioni ideologiche e politiche del Novecento, secolo destinato 
                  a proiettare perennemente le sue ombre lugubri. “Mai come 
                  allora – ha scritto Karl Dietrich Bracher (Zeit der 
                  Ideologien) – l'idea di progresso si era rivelata 
                  in tutta la sua ambivalenza: di fronte alla fede in un miglioramento 
                  morale e culturale inarrestabile e automatico dell'uomo, c'era 
                  l'esperienza di Auschwitz”. Né bastò più 
                  il Comunismo come “quintessenza dell'antifascismo”, 
                  giacché anche dopo il 1945 continuava ancora, nell'URSS, 
                  la disumanità dei campi di concentramento... 
                  La Resistenza, quale fenomeno storico ormai inesorabilmente 
                  lontano nel tempo, fagocitata e depotenziata di tutta la sua 
                  carica sovversiva dalla retorica istituzionale, oppure attaccata 
                  in blocco dalla società dei consumi culturali veloci 
                  e dei talk show, dai nuovi fascismi (più che dal 
                  vecchio “revisionismo” del buon De Felice), ha man 
                  mano esaurito la sua funzione pedagogica e di appeal 
                  tra le giovani generazioni e non solo. Tuttavia anche lavori 
                  come questo propostoci da De Agostini e Schirone – peraltro 
                  estremamente ricchi dal punto di vista delle fonti utilizzate 
                  e ben organizzati sul piano del racconto – ci richiamano 
                  almeno un paio di riflessioni sulla metodologia di indagine 
                  da adottare, sulle necessarie letture storiche da effettuare 
                  sul lungo periodo. Tutte questioni che, allo stato, appaiono 
                  ancora irrisolte nel milieu storiografico. Occorrerebbe, 
                  in sostanza, passare davvero dalla attuale visione strettamente 
                  singolare e univoca della Resistenza (ma quale memoria condivisa!) 
                  ad una visione invece davvero plurale delle molteplici Resistenze. 
                  Occorrerebbe inoltre superare senza remore la cronologia ristretta 
                  del 1943-1945, discorso che ci pare debba valere anche per le 
                  vicende dell'anarchismo. 
                  Dopo la fase di “internazionalizzazione” – 
                  che riguarda l'esperienza militante che matura fra le due guerre, 
                  epoca in cui il movimento si misura con i totalitarismi in ambito 
                  europeo – si delineerebbe così una periodizzazione 
                  inedita. Si tratterebbe (sull'onda di alcune suggestioni dello 
                  storico Giovanni De Luna) di prendere in considerazione tutto 
                  in blocco il decennio della crisi 1938-1948. Ed è proprio 
                  in questi anni, infatti, che precipitano eventi di portata epocale, 
                  tali da marcare tutto il secondo Novecento anche per gli anarchici. 
                  Ne citiamo solo i principali: gli esiti letali della sconfitta 
                  in Spagna, la seconda guerra mondiale come guerra ideologica 
                  antifascista, l'incardinamento dei tre partiti che per il mezzo 
                  secolo successivo domineranno lo scenario politico italiano, 
                  la conferma della statalizzazione dei sindacati, l'avvento della 
                  repubblica e di un sistema liberal-democratico, la guerra fredda 
                  con la giustapposizione della nuova coppia comunismo / anticomunismo 
                  alla vecchia coppia fascismo / antifascismo, l'Unione Sovietica 
                  come “faro” indiscutibile della sinistra... 
                  Da rilevare anche che la partecipazione dei libertari italiani 
                  alla lotta armata antifascista marcherà indubbiamente 
                  la differenza fra i percorsi antropologico culturali successivi 
                  intrapresi dalle varie correnti dell'anarchismo internazionale. 
                  Così, se nell'area anglofona prevarranno i temi della 
                  rivoluzione nonviolenta e dell'anti-bellicismo, in quella sud-europea 
                  saranno invece gli stilemi classici dell'antifascismo di estrema 
                  sinistra ad imporsi, non ultimo il mito della “Resistenza 
                  tradita”. 
                 Giorgio Sacchetti 
                     I ribelli (strani?) 
                  di Marco Sommariva 
                 È 
                  stato ristampato il volume di Marco Sommariva Ribelli 
                  (pp. 192, € 15,00) con sette capitoli aggiuntivi 
                  e l'introduzione di Giuseppe Cospito, docente di storia della 
                  filosofia all'Università di Pavia, che pubblichiamo. 
                  Si tratta di un'autoproduzione; per eventuali ordini contattare 
                  l'autore all'indirizzo mail marco.sommariva1@tin.it. 
                   
                  “La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente 
                  disgregata ed episodica”, perché questi “subiscono 
                  sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano 
                  e insorgono” scriveva Gramsci nei suoi Quaderni del 
                  carcere verso la metà degli anni Trenta del Novecento. 
                  E aggiungeva che “ogni traccia di iniziativa autonoma 
                  da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere 
                  di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò 
                  risulta che una tale storia non può essere trattata che 
                  per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto 
                  grande di materiali spesso difficili da raccogliere”. 
                  Va quindi reso merito a Marco Sommariva innanzitutto di avere 
                  svolto un lungo e minuzioso lavoro di ricerca per compilare 
                  i centouno capitoli di questo libro, ognuno dei quali costituisce 
                  un piccolo saggio di quelle “monografie” che lo 
                  stesso Gramsci avrebbe scritto, se solo fosse uscito vivo dalle 
                  carceri fasciste. 
                  Non tutti i “ribelli” di cui si parla in queste 
                  pagine appartengono per nascita e condizione sociale ai gruppi 
                  subalterni, ma anche coloro che provengono dalle classi agiate, 
                  da San Francesco a Ernesto “Che” Guevara, ne sposano 
                  la causa rinunciando a un'esistenza da privilegiati per dedicare 
                  (e spesso sacrificare) la vita in favore degli umili e dei diseredati, 
                  o comunque alla lotta contro ogni forma di ingiustizia e di 
                  oscurantismo. 
                  Certo, chi si limitasse a scorrere rapidamente l'indice del 
                  libro, rimarrebbe decisamente sorpreso: che cosa hanno in comune 
                  – si potrebbe chiedere il nostro lettore distratto – 
                  l'astronomo e matematico Galileo Galilei e il capo indiano Toro 
                  Seduto, l'umanista Pico della Mirandola e il “ladro gentiluomo” 
                  Arsenio Lupin, il poeta religioso Jacopone da Todi e il pediatra 
                  e pedagogista Marcello Bernardi, il fondatore del socialismo 
                  scientifico Karl Marx e il folksinger Bob Dylan, il letterato 
                  dandy Oscar Wilde e l'attivista nero convertito all'Islam 
                  Malcom X, il profeta della non-violenza Gandhi e il guerrigliero 
                  zapatista Marcos? In che senso possiamo definire “ribelli” 
                  filosofi come Ruggero Bacone o Georg Wilhelm Friedrich Hegel? 
                  In realtà tutti costoro, così come gli altri personaggi 
                  descritti in questo libro – molti dei quali poco noti 
                  ma non per questo meno importanti – sono accomunati dall'opposizione 
                  a ogni autorità costituita, dal rifiuto di piegarsi al 
                  Potere in tutte le sue manifestazioni: politiche, economico-sociali, 
                  religiose, filosofiche, culturali e così via. Sono uomini 
                  di fede che hanno anteposto i valori del cristianesimo originario 
                  ai dogmi e alle pratiche della Chiesa ufficiale, scienziati 
                  che hanno scelto di cercare la verità nel “gran 
                  libro della natura” piuttosto che nei volumi polverosi 
                  dei loro predecessori, filosofi che hanno esercitato la critica 
                  razionale nei confronti di ogni tradizione inveterata, letterati, 
                  poeti, artisti e musicisti che, con le loro opere, hanno sfidato 
                  canoni e regole dei rispettivi generi per affermare il proprio 
                  spirito libero creatore, uomini e donne che hanno scelto di 
                  vivere la propria sessualità senza preoccuparsi di norme 
                  e convenzioni sociali. Ma sono anche, se non soprattutto, persone 
                  comuni, semplici contadini, operai e artigiani che non si sono 
                  voluti piegare a un destino di sfruttamento e di oppressione, 
                  al quale sarebbero stati destinati per il solo fatto di appartenere 
                  a una classe inferiore. In molti casi, i protagonisti non sono 
                  nemmeno individui singoli, ma gruppi sociali, politici, religiosi, 
                  artistici e così via. 
                  Il filo conduttore dei capitoli del libro, scanditi dallo scorrere 
                  dei secoli che tuttavia – almeno in apparenza – 
                  sembra lasciare inalterate gerarchie millenarie, è costituito 
                  dalla lotta contro ogni forma di ingiustizia e discriminazione 
                  (politica, sociale, economica, religiosa, razziale, sessuale), 
                  per realizzare ovunque libertà e uguaglianza, non solo 
                  giuridiche, ma anche e soprattutto sostanziali. Una lotta quasi 
                  sempre disperata per la sproporzione delle forze in campo e, 
                  quindi, destinata fin dall'inizio alla sconfitta, almeno nell'immediato. 
                  Eppure, nei tempi lunghi della storia, i vinti di ieri sono 
                  spesso i vincitori di oggi o perlomeno di domani: la rivolta 
                  dei Ciompi fiorentini viene repressa e per secoli accadrà 
                  lo stesso a ogni tentativo di organizzare le rivendicazioni 
                  (non solo salariali) dei lavoratori ma, a partire dai primi 
                  successi delle Trade Unions, oggi almeno in una parte del mondo 
                  i diritti sindacali sono universalmente riconosciuti; Sandro 
                  Pertini e Nelson Mandela vengono imprigionati a lungo dai regimi 
                  illiberali contro i quali si battono ma poi, dopo aver contribuito 
                  in maniera decisiva alla loro caduta, diventano presidenti delle 
                  loro nazioni; Martin Luther King viene assassinato, ma quarant'anni 
                  dopo un afroamericano siede alla Casa Bianca. 
                  E tuttavia non è una storia in bianco e nero, quella 
                  che ci racconta Sommariva, una storia in cui, come nei vecchi 
                  film western, i “buoni” sono tutti da una parte 
                  (e alla fine trionfano) e i “cattivi” dall'altra 
                  (e vengono battuti). Non tutti i protagonisti dei brevi ritratti 
                  di cui è composto il libro possono essere proposti come 
                  modelli da imitare: tra di essi ci sono infatti ladri e assassini, 
                  briganti di strada e cacciatori di taglie. Ma le loro vicende, 
                  se esaminate in modo obbiettivo e collocate nelle condizioni 
                  storiche determinate in cui si svolsero, dimostrano che spesso 
                  la differenza tra un eroe e un criminale, un terrorista e un 
                  patriota, dipende da queste piuttosto che da una presunta malvagità 
                  innata in alcuni esseri umani. 
                  A volte, del resto, la violenza degli oppressi appare l'unico 
                  mezzo per opporsi a quella degli oppressori, esercitata con 
                  strumenti tanto più potenti e, spesso, più sofisticati 
                  e meno visibili. È il caso di molti dei personaggi descritti 
                  in queste pagine, nei confronti dei quali l'autore non nasconde 
                  la propria simpatia umana e vicinanza politica (la stessa che 
                  gli fa preferire Gracco Babeuf a Robespierre, Saint Simon, Owen, 
                  Fourier e Proudhon a Engels, Rosa Luxemburg a Lenin, Carlo Rosselli 
                  a Palmiro Togliatti). Personaggi riconducibili alla costellazione 
                  molteplice e variegata del movimento anarchico e libertario: 
                  non solo teorici come Max Stirner e Michail Bakunin, Alexandr 
                  Herzen, Henry David Thoreau e molti altri, ma anche agitatori 
                  come Pietro Gori e Carlo Tresca, che tentarono di metterne in 
                  pratica gli insegnamenti con l'azione politica, “cani 
                  sciolti” come il regicida Gaetano Bresci e vittime innocenti 
                  come Sacco e Vanzetti. 
                  Scorrendo le pagine del libro troviamo numerose figure femminili, 
                  molto diverse tra loro per nascita, condizione sociale e cultura, 
                  ma accomunate dal rifiuto della condizione di sudditanza e subordinazione 
                  alla quale sarebbero state destinate solo in quanto appartenenti 
                  al sesso tradizionalmente considerato “debole”: 
                  sono guaritrici ed erboriste, levatrici e prostitute, per questo 
                  bollate e perseguitate per secoli come streghe, paladine dei 
                  diritti della donna come Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, 
                  scrittrici anticonformiste come Emily Dickinson; o ancora le 
                  suffragette, epiteto spregiativo affibbiato a coloro che si 
                  battevano per il diritto di voto. E, man mano che ci avviciniamo 
                  ai nostri giorni, le donne si fanno portavoce di battaglie universali, 
                  che oltrepassano l'orizzonte dell'emancipazione femminile: è 
                  il caso di Rosa Louise Parks, grazie alla cui fermezza verranno 
                  abolite le discriminazioni razziali sui mezzi pubblici negli 
                  USA, e soprattutto di Malala Yousafzai, la giovanissima pakistana 
                  alla quale nemmeno i proiettili dei talebani sono riusciti a 
                  impedire di coltivare il sogno dell'istruzione per tutti, compresi 
                  i figli e le figlie di coloro che l'avevano ridotta in fin di 
                  vita. Ed è significativo che il libro si chiuda proprio 
                  con il suo ritratto, come a voler ribadire che la lotta contro 
                  ogni forma di schiavitù e oppressione passa prima di 
                  tutto attraverso la conoscenza. 
                  “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la 
                  nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno 
                  di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché 
                  avremo bisogno di tutta la nostra forza” scriveva sul 
                  primo numero dell'”Ordine Nuovo”, il giornale dei 
                  Consigli di fabbrica torinesi da lui fondato nel 1919, quel 
                  Gramsci con cui ho aperto questa brevissima introduzione e che 
                  viene nominato diverse volte nel libro, anche se non sono sicuro 
                  che si sarebbe riconosciuto nella definizione di “ribelle”. 
                  Credo tuttavia che queste sue parole possano essere fatte proprie 
                  da tutti coloro che, proseguendo la millenaria lotta dei protagonisti 
                  di queste pagine, credono nella possibilità di lasciare 
                  un mondo migliore rispetto a quello che hanno trovato. 
                 Giuseppe Cospito 
                      Andrea 
                  Croccia
                   calabrese, comunista-anarchico, antifascista 
                Edito dall'Istituto Calabrese per la storia dell'Antifascismo 
                  e dell'Italia Contemporanea (ICSAIC) di Cosenza è uscito, 
                  da pochi mesi, il libro di Francesco Spingola, dal titolo Antifascismo 
                  e sindacalismo in Andrea Croccia. Documenti e testimonianze 
                  (Cosenza, 2014, pp. 96, senza prezzo). L'autore, attuale 
                  segretario generale della Funzione Pubblica Cgil Territoriale, 
                  ricercatore e studioso di antropologia, con il suo lavoro ha 
                  voluto rendere omaggio ad Andrea Croccia, prestigiosa figura 
                  di comunista-anarchico, antifascista e sindacalista arbëreshë 
                  che ha contribuito, con la sua incessante attività politica 
                  e sociale, alla costruzione, in Calabria sia del Partito Comunista 
                  Italiano che della CGIL. 
                  Andrea Croccia, figlio di Angelo e di Domenica Durante, di mestiere 
                  contadino, nasce a Civita (Cosenza) il 2/5/1899. La sua è 
                  stata una vita avventurosa. Conosce, a soli sei anni, l'emigrazione 
                  partendo con il padre in Argentina. Nel 1910 il padre lo lascia 
                  solo per rientrare brevemente in Italia con lo scopo di portarsi 
                  in America moglie, figlia e madre ma muore nel bastimento durante 
                  il viaggio. Andrea ha solo 11 anni e sopravvive grazie all'ospitalità 
                  di alcune famiglie italo-albanesi. Cerca di ricongiungersi con 
                  il nonno a Buenos Aires, ma durante le ricerche apprende che 
                  anche questi è morto.  Si reca allora da uno zio 
                  materno, ma viene scacciato, racconterà dopo, come non 
                  si farebbe neanche con “un cane randagio”. Finalmente 
                  incontra l'anarchico Carlo Berneri che lo impiega a vendere 
                  il giornale “Arriva” da lui fondato. Dopo varie 
                  vicissitudini, a soli 13 anni, ritorna in Calabria a Frascineto. 
                  A 18 anni viene chiamato alle armi e sul Monte Grappa rischia 
                  di morire per assideramento. Trasportato d'urgenza, all'ospedale 
                  di Palermo, gli vengono amputati parzialmente tutti e due i 
                  piedi. Nel 1921 fonda la sezione Comunista di Frascineto. 
                  Nel 1924 aderisce al “Gruppo Anarchico del Sud” 
                  e viene segnalato per i suoi contatti con Errico Malatesta. 
                  Nel 1927 viene licenziato dalle ferrovie e nel 1933 a Frascineto 
                  (Cosenza), i fascisti gli sparano e vivrà tutta la vita 
                  con una pallottola in corpo. Da quel momento in poi la sua vita 
                  sarà un inferno: viene più volte arrestato, continuamente 
                  vigilato, vessato, confinato. Dopo la Liberazione lavora presso 
                  la Camera del Lavoro di Cosenza. Nel 1948 risulta essere il 
                  primo dei non eletti, ma poi, per l'improvvisa morte di un deputato 
                  calabrese, subentra a Montecitorio. Rimane deputato per 24 ore, 
                  si dimette per far posto, su sollecitazione di Togliatti, alla 
                  compagna milanese Elsa Molè. Consegnato il tesserino 
                  di parlamentare, con tutti i privilegi derivanti da quello status, 
                  con le protesi di legno, le stampelle, il basco nero e il pizzetto 
                  sul mento ritorna tra i contadini e i pastori di Frascineto 
                  da dove era partito a soli sei anni. 
                  Scrisse, nel 1954, dalla lontana Liguria, all'amico Domenico 
                  Licursi: “La bellezza della Vita, la speranza che cerchi, 
                  sono tra la tua gente. Bisogna cancellare quella brutta parola 
                  che il primo prepotente ha scritto: “questo è mio” 
                  e sostituirla con un'altra parola, più bella, più 
                  umana: “questo è nostro”. La Vita, Caro Domenico, 
                  sarà quella che vogliamo.” 
                  Il libro di Francesco Spingola è impreziosito da numerose 
                  foto e documenti inediti. 
                  Per richieste: 
                  francospingola@cgilpollino.it 
                  - istitutocs@virgilio.it. 
                 Angelo Pagliaro 
                     
				 La 
                  prima guerra mondiale
                   in Val di Pesa 
                Il volume (a cura di Alberto Ciampi e Francesco Fusi, Di 
                  fronte al Fronte. Val di Pesa e Prima guerra mondiale. Frammenti, 
                  Centro Studi Storici della Valdipesa – n. 14, San Casciano 
                  in Val di Pesa (Fi), 2015, pp. 208, € 18,00) è composto 
                  dalla premessa ed una introduzione ad Antimilitarismo 
                  di Gian Pietro Lucini a firma di Alberto Ciampi oltre al punto 
                  di vista di Marco Rossi e Gianluca Cinelli. Segue il capitolo, 
                  Interventismo e antimilitarismo in Val di Pesa con una 
                  pungente analisi sulla Mobilitazione civile e protesta popolare, 
                  di Francesco Fusi. Una ampia appendice iconografica e documentaria 
                  arricchisce la pubblicazione seguita da due storie intime, di 
                  due soldati-contadini, il primo che morirà pochi anni 
                  dopo a causa della guerra, il secondo, sarà disperso. 
                  Queste due storie si sviluppano attraverso l'analisi di una 
                  gran quantità di corrispondenze dal fronte. 
                  Rispetto alla gran messe di scritti su e attorno al conflitto, 
                  questo lavoro è eccentrico, guarda alle contraddizioni, 
                  in alvei border line e nelle pieghe della storia: in 
                  quegli elementi che hanno fatto sì che questa guerra, 
                  per molte ragioni, non fosse uguale alle altre. Il punto di 
                  vista di ambienti che nell'immaginario appaiono estranei a tale 
                  contesto, sono invece, a nostro avviso, luoghi di indagine che 
                  inducono a cogliere, se non meglio, almeno in maniera parecchio 
                  differente il perché di adesioni o avversioni. In questa 
                  indagine emergono persone e fatti contraddittori di migranti 
                  politici i quali, partiti da posizioni rivoluzionarie, si 
                  troveranno in panni reazionari e conservatori, magari continuando 
                  a ritenere di essere veri rivoluzionari. Oppure chi o coloro, 
                  che su differenti posizioni, pro o contro, hanno mantenuto intatto 
                  il proprio atteggiamento nonostante il traumatico passaggio 
                  della guerra, ora convinti di aver aderito coerentemente ai 
                  propri ideali, ora avendo preso atto dell'errore della scelta. 
                  Ma anche di coloro dei quali non possiamo avere un pensiero 
                  successivo, perché un “poi” non l'hanno avuto 
                  lasciando in vario modo la vita sulle trincee. 
                  Per ulteriori informazioni sul volume: www.cssvp.com, 
                  alanark-@tiscali.it. 
                 Alberto Ciampi 
                     
				Fabrizio De André 
                  tra memoria e presente 
                 Tutti 
                  gli appassionati di Fabrizio De André conoscono sicuramente 
                  Romano Giuffrida per il suo documentario Faber, del 1999, fatto 
                  insieme a Bruno Bigoni oppure per il suo libro “De André: 
                  gli occhi della memoria (tracce di ricordi con Fabrizio)” 
                  del 2002 o, più probabilmente, per entrambi. Romano torna 
                  sul luogo del misfatto con un altro libro (De André 
                  che bella compagnia, disegni di Massimo Caroldi, edizioni 
                  Piagge, Firenze, 2014, pp. 240, € 11,00) dedicato a De 
                  André, pescando una citazione da Anime salve per 
                  il titolo (“che bello il mio tempo che bella compagnia”). 
                  In realtà si tratta di una prosecuzione logica del libro 
                  del 2002, che viene riproposto integralmente, a cui è 
                  aggiunta una intervista/conversazione con Alessandro Santoro, 
                  prete nel quartiere e nella Comunità di Base delle Piagge 
                  (periferia di Firenze). Non si tratta, badate bene, di un ripescaggio 
                  con aggiunta di... qualcosa. È invece una vera e profonda 
                  evoluzione del pensiero e dell'atteggiamento di Romano, estremamente 
                  stimolante. 
                  Per chi se lo fosse perso, ricordiamo che “gli occhi della 
                  memoria”, e quindi le prime 150 pagine circa di questo 
                  libro, ripercorrono la produzione di Fabrizio De André 
                  con il vissuto dell'autore, con una contestualizzazione puntuale 
                  degli anni di uscita dei vari album. Romano ripercorre con gli 
                  occhi della memoria la sua situazione di allora, gli avvenimenti, 
                  la lettura che ne dava De André e l'impatto su di lui 
                  con le sue riflessioni, spesso molto stimolanti. Questa parte, 
                  che ho letto con piacere, ripercorre molti dei pensieri che, 
                  sono sicuro, hanno attraversato la mente di chi, come me, ha 
                  visto il suo atteggiamento verso la realtà “ufficiale”, 
                  cambiare, evolversi. Piano piano la guerra, le prostitute, il 
                  potere, la morte, il suicidio, i diversi, i matti, i rom, le 
                  minoranze... sotto le parole sferzanti di De André, prendevano 
                  un significato nuovo, diverso, decisamente in direzione ostinata 
                  e contraria. Questo e molto altro potete (ri)trovare nella prima 
                  parte del libro “De André che bella compagnia”. 
                  Bene, benissimo, direte. Cos'altro c'era da aggiungere? Gli 
                  occhi del presente. O meglio uno sguardo attento alla realtà. 
                  Romano racconta come, “inciampando” nella Comunità 
                  di base delle Piagge si è sentito rimettere profondamente 
                  in discussione. Il rione delle Piagge, “è il classico 
                  esempio di dormitorio urbano nato grazie alle disastrose politiche 
                  urbanistiche e sociali attuate dalle amministrazioni cittadine 
                  che si sono alternate alla guida della città tra gli 
                  anni Settanta e Ottanta. È in questo contesto che nel 
                  1994 Alessandro Santoro, prete allora ventinovenne, decise di 
                  “giocarsi la vita” a fianco dei respinti, degli 
                  ultimi, dei minimi della storia come li chiama lui.” Partendo 
                  da un prefabbricato donato dalla Caritas, il prete ha creato 
                  un centro sociale dove esistono (prendete fiato!) “progetti 
                  di inserimento al lavoro destinati a ragazzi e adulti in situazioni 
                  di difficoltà, di marginalità sociale, di dipendenza; 
                  laboratori ludici, artistici, doposcuola, campi di animazione 
                  esitiva; spazi per il gioco dei bambini, centri di alfabetizzazione 
                  per bambini e ragazzi stranieri che frequentano le scuole elementari 
                  e medie; [...] corsi di lingua italiana per stranieri; il Fondo 
                  Etico e Sociale che svolge attività di microcredito; 
                  attività di commercio equo e solidale; EdizioniPiagge, 
                  la casa editrice alternativa; la promozione di cultura e di 
                  pratiche di consumo critico e di riciclaggio [...] E tutto questo 
                  attraverso la pratica dell'autogestione e quindi nella logica 
                  della responsabilizzazione collettiva.” 
                  Questo incontro/inciampo ha chiaramente scombussolato Giuffrida, 
                  facendogli franare “gli ultimi residui di quella storia 
                  che mi ero raccontato e che mi aveva permesso negli anni del 
                  cosiddetto “riflusso” di dismettere gli abiti del 
                  “rivoluzionario” per indossare quelli, certamente 
                  più comodi, dell'indignato militante pronto alla vibrante 
                  protesta.” Questo incontro, secondo Romano, apre un solco 
                  irrevocabile tra la memoria (il passato) e il presente, frutto 
                  di tutti questi stimoli che la comunità gli ha dato. 
                  Secondo Romano il prete incontrato alle Piagge corrisponde ad 
                  una citazione di Tonino Bello, che diceva: “Non fidatevi 
                  dei cristiani autentici che non incidono la crosta della civiltà. 
                  Fidatevi dei cristiani autentici sovversivi con san Francesco 
                  d'Assisi che ai soldati schierati per le crociate sconsigliava 
                  di partire...” ecco. È da queste considerazioni 
                  che Romano parte per avviare la seconda parte del libro, quella, 
                  appunto, dedicata ad un colloquio/intervista ad Alessandro Santoro. 
                  In questa seconda parte tra i due si parla di temi che accomunano 
                  i due personaggi al terzo, il sempre presente De André. 
                  La prima domanda è decisamente rivelatoria di quello 
                  che sta per succedere. In pratica si tratta di verificare se 
                  la scelta del sacerdozio fatta da don Alessandro, comporti (come 
                  molti pensano) solo “risposte indiscutibili” oppure 
                  ci sia spazio per “liberare le nostre domande”. 
                  La risposta è quasi temeraria “Sono convinto infatti 
                  che ciò che priva le persone della libertà è 
                  soprattutto il confezionarsi risposte, o accettare di essere 
                  “confezionati” da risposte che uccidono la possibilità 
                  di creare varchi attraverso i quali, sia in entrata che in uscita, 
                  possa passare qualche cosa...” 
                  Dopo la libertà e l'anarchia si passa alla guerra, alla 
                  “gente che muore e nessuno si domanda più perché...” 
                  dove Alessandro Santoro oltre che citare il messaggio del discorso 
                  della montagna (“Se saluti soltanto chi ti saluterà, 
                  che merito ne avrai? E se starai soltanto con quelli che sono 
                  simili a te, che merito ne avrai?”) nota come le persone 
                  che dalla vita hanno subito un impoverimento, sono quelle più 
                  sensibili a farsi delle domande, a differenza di chi si è 
                  ormai assuefatto e pensa solo a sé. 
                  Ne “un telecomando al fosforo nascosto tra cuore e volontà” 
                  Romano sottolinea come la nostra società è spesso 
                  basata su un totalitarismo culturale, che fa in modo che non 
                  ci siano mai scelte veramente libere... qui nella risposta c'è 
                  una diretta citazione di Fabrizio De André, con la necessità 
                  assoluta di andare sempre in direzione ostinata e contraria... 
                  De André entra spesso nei loro argomenti, perché 
                  Alessandro, che da quando aveva dieci anni cominciò a 
                  sentire queste canzoni dai dischi del fratello maggiore, racconta 
                  come ne fu subito colpito, per molti motivi... “crescendo 
                  ho cominciato a percepire in quelle parole una grande libertà 
                  dal punto di vista etico e morale. Io odiavo il giudizio, la 
                  morale sulle persone, ero istintivamente un libertario. Ecco, 
                  De André per me è stato illuminante, perché 
                  per la prima volta ascoltavo raccontare quelle storie, quei 
                  mondi, senza nessun tipo di giudizio, di stigma, di dogma.” 
                  Gli argomenti si susseguono stringenti: ladri e tipi strani, 
                  mai giocare con gli zingari, le mille scritture del Libro del 
                  Mondo, quando si è cuccioli giocare alla lotta è 
                  normale, la morte che non muore mai, l'odio, la violenza..., 
                  Dio è stanco o troppo occupato quando non ascolta il 
                  nostro dolore?, gli occhi belli delle donne, tra gli altri uguali, 
                  la pietà in tasca, l'ingiustizia e le tranquille superbie 
                  di chi sta a guardare. Le risposte fanno sempre riflettere, 
                  ed aprono la mente ad altre domande.... 
                  Mi piace concludere con un bel pensiero di Alessando Santoro 
                  che, riferendosi alle persone della Comunità, fa una 
                  considerazione su Fabrizio che ben spiega il suo esserci: “De 
                  André è stato capace, in maniera assolutamente 
                  non retorica, assolutamente vera, di cogliere il lato più 
                  umano e più vero di questa umanità, di questa 
                  realtà, di queste persone.” In conclusione si tratta 
                  di un libro ricco di spunti di riflessione, mai superficiale, 
                  a tratti decisamente coinvolgente. 
                 Walter Pistarini 
                  www.viadelcampo.com 
                     
				La devianza 
                  come malattia? 
                 Il 
                  saggio ben documentato di Chiara Gazzola (Fra diagnosi e 
                  peccato. La discriminazione secolare nella psichiatria e nella 
                  religione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 276, 
                  € 24,00) pone sotto la lente focale, in una dialettica 
                  passato-presente e in un'ottica globale, le interferenze delle 
                  istituzioni mediche e religiose nelle scelte dei singoli “ 
                  Da sempre esistono individui che hanno l'esigenza di sottrarsi 
                  all'omologazione. Troppo spesso le istituzioni interpretano 
                  i bisogni altrui attraverso giudizi dentro i quali si nasconde 
                  il potere per discriminare ed esercitare un controllo emotivo”. 
                  L'autrice, di formazione antropologica, dimostra attraverso 
                  un approccio storico, sociologico, antropologico come la diversità 
                  sia considerata indice di irrazionalità e insensatezza, 
                  una minaccia al corretto funzionamento dell'ordine morale e 
                  sociale. Sottolinea il carattere ambiguo, soprattutto nell'ambito 
                  della classificazione delle malattie mentali in psichiatria: 
                  l'anomalia, come antitesi di normalità, è irretita 
                  da attributi morali. L'ambito psichiatrico contribuisce ad alimentare 
                  il nostro pregiudizio rispetto a ciò che per noi è 
                  alienazione mentale, follia. Per altre culture, invece, rappresenta 
                  l'esternazione di uno spirito che porta ad agire al di sopra 
                  della volontà delle persone, l'anomalia sociale è 
                  interpretata in funzione del bene della collettività 
                  e inserita in un contesto di credenze condivise. 
                  Ogni cultura sviluppa i propri valori di riferimento attorno 
                  a ciò che desta meraviglia. 
                  Per le società arcaiche, ogni deficit di salute è 
                  una carenza di armonia, un'interruzione del flusso vitale. 
                  La curatrice o il curatore -strega, sibilla, sciamano, stregone- 
                  è figura ammantata da una sorta di “diversità” 
                  ed è indispensabile alla comunità, ma non ha potere 
                  decisionale. Il potere si fonda sul prestigio. 
                  Lo studio della “cultura popolare” dimostra che 
                  la sopravvivenza collettiva dipende dalla condivisione del sapere, 
                  un forte legame con la natura e un vitale rispetto tra gli individui. 
                  Per Joyce Lussu, la ricerca dovrebbe far uscire dal silenzio 
                  la “storia negata”. In particolare: “La storia 
                  della medicina popolare è un aspetto della storia generale 
                  che mette in rilievo l'inventiva e la creatività delle 
                  donne pur nella loro condizione subalterna”. Ancora: “Recuperare 
                  la storia delle donne nella storia generale dell'umanità 
                  vuole dire in primo luogo ritrovare la fiducia nelle capacità 
                  di costruire un avvenire diverso”. 
                  La civiltà tecnologica, supportata dalla ricerca scientifica, 
                  ha dato un nome alla patologia e una logica razionale alla cura 
                  e ci ha inserito in un contesto di rottura dell'equilibrio. 
                  Per un approccio alla terapia, la fiducia è indispensabile 
                  all'efficacia della cura stessa. Nella voce corale delle testimonianze 
                  raccolte, ricorre la richiesta di ascolto, conforto alla sofferenza. 
                  Si chiede Gazzola: “Quando la relazione tra individui 
                  è disturbata da burocrati, agenti di controllo e giudici 
                  o si attua all'interno di progetti nei quali il poter fare si 
                  basa su rapporti di forza, può avviarsi un rapporto di 
                  reciprocità?” Le ingiustizie evitabili generano 
                  un dolore spesso impossibile da accettare. 
                  Il tentativo di risolvere una sofferenza è un percorso 
                  di resistenza interiore. Per Jacques Lacan, lo stato di crisi 
                  esistenziale mette nella condizione il “folle”, 
                  nel disordine del mondo, di imporre la legge del proprio istinto, 
                  che è la legge della libertà. C'è una sottile 
                  e discriminatoria linea di confine fra prendersi cura e gestire 
                  l'aiuto, come ben dimostra l' analisi su etnopsichiatria e flussi 
                  migratori, presentata nel terzo capitolo: quando l'aiuto si 
                  risolve nell'indirizzare la persona straniera ai servizi psichiatrici, 
                  anche una certificazione può tradurre una difficoltà 
                  esistenziale in una diagnosi. Così il pregiudizio può 
                  essere sintetizzato nell' “innata incapacità di 
                  adattamento alla cultura ospitante”. 
                  L'assistenzialismo è il volto buono delle istituzioni 
                  totali. L'esclusione viene attuata ogni volta in cui si crea 
                  una categoria o una situazione che susciti scandalo, un risentimento 
                  sociale al quale si abbina una giustificazione “scientifica”. 
                  Le aree di studio dell'etnopsichiatria pongono attenzione ai 
                  fattori ambientali e sociologici, ma giustificano una cura farmacologica 
                  chiamando ogni conflitto con il nome di una patologia. Pertanto 
                  si esclude una soluzione attraverso un approccio culturale e 
                  relazionale. 
                  Difficoltà di comunicazione e divergenze culturali si 
                  risolvono incanalando corpi e menti attraverso regole imposte. 
                  Quando testimonianze di donne stuprate ricoverate in ospedale 
                  psichiatrico vengono smentite dai responsabili della violenza, 
                  si ricorre alla diagnosi di “delirio di persecuzione”. 
                  Allo stesso modo, il lessico psichiatrico traduce un'esperienza 
                  drammatica in un disagio da curare, così il timore di 
                  essere fraintese si trasforma in una sofferenza inascoltata. 
                  Il saggio riflette altresì sulla non completa comprensione, 
                  da parte di osservatori esterni, delle esigenze con le quali 
                  culture subalterne plasmano la propria spiritualità. 
                  Ne scaturisce l'esigenza di imporre uniformità e consenso 
                  rendendo “omogenea” ogni spiegazione, credenza o 
                  scelta etica. La Chiesa, con la contrapposizione tra anima e 
                  corpo, da sempre ha indotto a disprezzare i bisogni di quest'ultimo. 
                  Il Malleus Maleficarum sarà lo strumento ideale 
                  degli inquisitori per la caccia alle streghe, personificazioni 
                  di tutti i mali del mondo, validi capri espiatori per l'unica 
                  entità politico-religiosa mediatrice verso il bene. In 
                  seguito, nuove esigenze di razionalità formuleranno definitivamente 
                  la devianza in termini di malattia. Con il tempo, il termine 
                  “isteria” si diffonderà anche negli organi 
                  di informazione attuali, fino a definire “manifestazioni 
                  isteriche” azioni di protesta dei movimenti dell'antagonismo 
                  sociale. Estasi e visioni si tradurranno in “deliri dell'ascesi”, 
                  a donne che abbiano ricevuto la canonizzazione della santità 
                  verrà abbinata una diagnosi di isteria e nevrosi. 
                  Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, tra i vizi 
                  capitali, il peccato teologico dell'accidia -abbattimento, pigrizia 
                  - è dovuto a un venir meno della fede per un'assuefazione 
                  dei piaceri esteriori. E se in altre culture il vuoto emotivo 
                  è “ozio creativo”, la psichiatria lo cura 
                  come depressione. Pur in assenza di risultati esaustivi delle 
                  ricerche neuroscientifiche, per le donne si continua ad asserire 
                  una maggior predisposizione dovuta a componente ereditaria genetica. 
                  Gazzola evidenzia come si trascuri il condizionamento culturale 
                  in una società contraddittoria omologante, nella quale 
                  è facile percepirsi inadeguate, soprattutto se il contesto 
                  affida valore a una persona solo per il ruolo che svolge. 
                  Ancora: la religione istituzionalizzata sintetizza in superstizione 
                  ciò che la psichiatria riconduce a malattia. Ne sono 
                  un esempio i riti, dalla forte valenza simbolica, elaborati 
                  nelle culture popolari: dal tarantismo salentino alla possessione 
                  dell' argia in Sardegna, dai culti agrari, alle cerimonie vudu 
                  - ormai sparse in tutto il mondo - alla macumba brasiliana e 
                  all'hadra magrebina, capaci di allontanare spiriti maligni con 
                  musica e danze vorticose. 
                  Nelle conversazioni riportate a conclusione del saggio - pregevole 
                  quella con Giorgio Antonucci - Michela Zucca, antropologa, commenta: 
                  “La condivisione, la solidarietà, la spinta ideale 
                  collettiva aiutano a superare le sofferenze individuali. Se 
                  una persona è coinvolta e impegnata in un progetto riuscirà 
                  più facilmente a non cadere nel malessere: in questo 
                  senso la lotta è terapeutica”. 
                  Giorgio Antonucci, medico, in Diario dal manicomio scrive: 
                  “Non è detto che una persona debba attenersi per 
                  forza alla vita empirica invece che essere fantasiosa, specialmente 
                  se il sognare a occhi aperti le è utile per vivere, e 
                  non è detto che debba rispettare i pregiudizi e le convenzioni 
                  della società quando queste le divengono intollerabili”. 
                  Un saggio, dunque, degno di interesse e attenzione per la rinnovata 
                  fiducia riposta nella capacità di elaborazione insita 
                  nel nostro pensiero: “Quando il desiderio di libertà 
                  ispirerà l'elaborazione emotiva e la volontà di 
                  riscatto, abbracceremo le nostre utopie riqualificando l'esistenza”. 
                 Claudia Piccinelli 
                     
				Geoffrey Ostergaard, 
                  l'anarchico gentile 
                Pilota della RAF “convertito” all'anarchismo durante 
                  la seconda guerra mondiale, docente universitario, pubblicista, 
                  attivista per la pace e il disarmo, Geoffrey Ostergaard (1926-1990) 
                  è stato negli anni del dopoguerra un protagonista del 
                  rinnovamento del movimento anarchico inglese e, per oltre 30 
                  anni, un suo esponente di punta. Ha collaborato regolarmente 
                  a Freedom, Anarchy, The Raven e Peace 
                  News. È stato inoltre un apprezzato amministratore 
                  dei Friends of Freedom Press e della Commonweal Collection, 
                  una biblioteca indipendente specializzata nei temi della pace 
                  e del cambiamento sociale nonviolento. Il suo pensiero è 
                  il frutto di un'originale ibridazione tra la tradizione anarchica 
                  occidentale (Kropotkin e Landauer, soprattutto) e la nonviolenza 
                  di ispirazione gandhiana, di cui Ostergaard ha messo in evidenza 
                  gli aspetti libertari. In un commosso ricordo pubblicato su 
                  Freedom il 24 marzo 1990, Colin Ward ha sottolineato 
                  la sua coerenza e forza morale, la sua strenua difesa della 
                  libertà di pensiero e di insegnamento, la sua ironia 
                  nei confronti delle assurdità del mondo accademico e 
                  la sua capacità di analizzare senza pregiudizi ideologici 
                  la realtà. 
                  Le ricerche di Ostergaard si sono concentrate soprattutto sulla 
                  storia del movimento operaio e socialista britannico e sui movimenti 
                  gandhiani e post-gandhiani in India, di cui è stato uno 
                  dei più profondi conoscitori e su cui ha scritto due 
                  volumi fondamentali, The Gentle Anarchists (1971) e Nonviolent 
                  Revolution in India (1985). Da segnalare anche Latter-Day 
                  Anarchism: The Politics of the American Beat Generation 
                  (1964), uno studio pionieristico sullo stile di vita libertario 
                  e il messaggio anarchico dei beatnicks americani. 
                  Una raccolta dei suoi scritti di impronta anarco-sindacalista, 
                  The Tradition of Workers Control, e il pamphlet anarco-pacifista 
                  Resisting the Nation State, sono scaricabili liberamente 
                  ai seguenti indirizzi: 
                  https://libcom.org/history/tradition-workers-control-geoffrey-ostergaard 
                  http://www.ppu.org.uk/e_publications/dd-trad8.html 
                  L'articolo che presentiamo, pubblicato per la prima volta in 
                  Anarchy. A journal of anarchist ideas, n. 20, ottobre 
                  1962, con il titolo Anarchism: contracting other relationships 
                  (L'anarchismo: sviluppando altre relazioni), rappresenta 
                  un'interessante sintesi del suo pensiero.
                  Ivan Bettini
                  
                  Fin dai giorni di Marx, e in gran parte proprio a causa dell'influenza 
                  di Marx, il socialismo è stato concepito in termini di 
                  proprietà. Almeno fino a poco tempo fa, infatti, un socialista 
                  veniva definito come uno che crede nella proprietà comune, 
                  solitamente nella proprietà statale, in quanto opposta 
                  alla proprietà privata. Tuttavia, con l'esperienza della 
                  Russia, e non solo di questo paese, a farci da guida, sta diventando 
                  sempre più evidente, come è sempre stato evidente 
                  per gli anarchici, che un semplice cambio di proprietà 
                  non produce un cambiamento radicale nelle relazioni sociali. 
                  Quando la proprietà comune prende la forma della proprietà 
                  statale, infatti, tutto ciò che accade è che lo 
                  Stato diventa il datore di lavoro universale, e le possibilità 
                  che si instauri una tirannia sono moltiplicate dall'unione, 
                  nelle stesse mani, del potere economico e di quello politico. 
                  I valori che soggiacciono al capitalismo non sono cambiati: 
                  il lavoratore rimane essenzialmente una cosa, una merce, un'unità 
                  di lavoro. Egli ha solo cambiato una classe di padroni – 
                  i capitalisti – con un'altra classe di padroni –i 
                  burocrati politici e amministrativi. 
                  Un cambio di proprietà nei mezzi di produzione è 
                  probabilmente una condizione necessaria per passare da un ordine 
                  sociale capitalistico ad uno cooperativo, ma non è –come 
                  la maggior parte dei socialisti ha ritenuto erroneamente- una 
                  condizione sufficiente. 
                  Ciò che è importante per l'operaio non è 
                  chi possiede la fabbrica in cui lavora, ma “le condizioni 
                  materiali e concrete del suo lavoro, la relazione con il suo 
                  lavoro, con i suoi compagni operai e con chi dirige la fabbrica” 
                  (E. Fromm). 
                  È per questa ragione che gli anarchici rimangono convinti 
                  sostenitori del controllo operaio dell'industria- una condizione 
                  in cui tutti parteciperebbero in modo paritario a determinare 
                  l'organizzazione delle loro vite lavorative, in cui il lavoro 
                  diventerebbe attraente e ricco di significato, in cui non sarebbe 
                  il capitale a impiegare il lavoro ma il lavoro ad impiegare 
                  il capitale. 
                  L'anarchismo - qualcuno potrebbe obiettare- funziona molto bene 
                  nella teoria ma fallisce, o fallirebbe, nella pratica. Gli anarchici, 
                  tuttavia, non accettano questa implicita opposizione tra teoria 
                  e pratica: una buona teoria, infatti, conduce ad una buona pratica, 
                  e una buona pratica è basata su una buona teoria. Non 
                  dico che agire da anarchico sia facile: la tentazione di agire 
                  in modo autoritario -imporre soluzioni invece che affrontare 
                  e risolvere insieme le difficoltà- è sempre molto 
                  grande. E può anche essere che, almeno nel breve periodo, 
                  le organizzazioni di carattere autoritario siano più 
                  efficienti nei loro risultati. Ma l'efficenza -esaltata tanto 
                  dai capitalisti che dai socialisti moderni- è solo uno 
                  dei valori, e per essa si rischia di pagare un prezzo troppo 
                  alto. 
                  Più importante dell'efficienza è la dignità 
                  dell'individuo responsabile, e non si dovrebbero cercare soluzioni 
                  a quella che viene comunemente definita “la questione 
                  sociale” che non siano rispettose della dignità 
                  e della responsabilità dell'individuo. 
                  Il compito di un anarchico non è tuttavia quello di sognare 
                  la società futura. Piuttosto è quello di agire 
                  quanto più possibile in modo anarchico all'interno della 
                  società attuale: evitare il più possibile situazioni 
                  in cui sia costretto ad obbedire o a comandare, e impegnarsi 
                  a costruire relazioni di cooperazione reciproca e volontaria 
                  tra gli esseri umani suoi compagni. 
                  Nel mondo moderno lo Stato è la più importante 
                  manifestazione del principio di coercizione. Dunque, per raggiungere 
                  l'anarchia, lo Stato deve essere eliminato. Ma sarà eliminato 
                  nella misura in cui gli uomini diventeranno capaci di vivere 
                  senza di esso. Come ha detto l'anarchico tedesco Gustav Landauer, 
                  “lo Stato è una condizione, una particolare relazione 
                  tra gli esseri umani, una modalità di comportamento. 
                  Noi lo distruggiamo contraendo relazioni di altro tipo, comportandoci 
                  in modo diverso”. 
                  In ultima analisi, un anarchico non è una persona che 
                  sottoscrive un particolare corpo di dottrine o un insieme di 
                  principi. Un anarchico è una persona che si comporta, 
                  o si sforza di comportarsi, in modo diverso-in un modo 
                  che consiste nel rispettare l'individuo che è presente 
                  in tutti gli esseri umani. 
                 Goffrey Ostergaard 
                  traduzione di Ivan Bettini 
                     
				Il potere sovversivo 
                  dell'immaginazione 
                In questi giorni, vedendo, tra le tante immagini raccapriccianti 
                  che scorrono sul video durante i telegiornali, gruppi fondamentalisti 
                  dell'Isis prendere a picconate interi musei e siti archeologici 
                  in Irak, ho pensato che quella non era altro che la cuspide 
                  (la parte condivisa come negativa un po' da tutti) di un processo 
                  di devastazione culturale più subdolo che accade ovunque 
                  e a cui pochi, invece, oppongono resistenza. 
                  Ovunque è in atto un processo di controllo attraverso 
                  l'annullamento del pensiero critico individuale che, come ben 
                  sappiamo, si forma culturalmente. C'è addirittura chi 
                  dice che a confronto di questo la schiavitù era un'impresa 
                  ingenua, perché ora stanno lavorando alacremente per 
                  renderci sempre più, e in sempre più gran numero, 
                  “oggetti” dello sviluppo, con il corpo ma anche 
                  e soprattutto con le emozioni e con l'intelletto. Oggetti partecipi 
                  volontariamente, complici sottomessi e adattati alla megamacchina. 
                   Pensavo 
                  a questo e mi venivano in mente le genti del Rojava – 
                  soprattutto le donne - con quel loro meraviglioso progetto di 
                  vita per cui – e non certo solo per difendersi – 
                  vale la pena combattere. Sono state quelle donne a ricordarmi 
                  un libro, uscito in Italia circa dieci anni fa, assolutamente 
                  attuale oltre che bello. 
                  Contro ogni buona regola che insegna come si facciano recensioni 
                  ai libri freschi di stampa, è proprio di quello che voglio 
                  parlare. Se per qualcuno sarà una rilettura, questo non 
                  farà altro che confermare il valore dello scritto. 
                  Sto parlando di Leggere Lolita a Teheran (Adelphi, Milano, 
                  2004, pp. 379, € 18,00) della scrittrice iraniana Azar 
                  Nafisi, uscito per quelli di Adelphi nel 2003 e di cui ora si 
                  trova anche l'edizione economica. Lo riapro a caso e trovo queste 
                  parole sottolineate: “La migliore letteratura ci costringe 
                  sempre a interrogarci su ciò che tenderemmo a dare per 
                  scontato, e mette in discussione tradizioni e credenze che sembravano 
                  incrollabili. Invitai i miei studenti a leggere i testi che 
                  avrei loro assegnato soffermandosi sempre a riflettere sul modo 
                  in cui li scombussolavano, li turbavano, li costringevano a 
                  guardare il mondo, come fa Alice nel paese delle meraviglie, 
                  con occhi diversi.” 
                  È stata, per me, una lettura appassionante di un libro 
                  appassionato, scritto bene, con partecipazione e sentimento, 
                  un libro avvincente come fosse un romanzo e che romanzo non 
                  è, perchè è storia vera. Storia personale 
                  dell'autrice, iraniana e insegnante universitaria di Letteratura 
                  Inglese a Teheran, in quella che divenne, ed è tuttora, 
                  Repubblica Islamica dell'Iran. 
                  Non è un romanzo ma parla di romanzi e della vita di 
                  tutti quegli studenti che insieme alla loro insegnante condivisero 
                  la passione per la letteratura rischiando sulla propria pelle, 
                  in una realtà che arrivò a proibire l'insegnamento 
                  della letteratura e a mettere al bando il libri. 
                  “Il romanzo per sua stessa costituzione dà voce 
                  a una molteplicità di punti di vista diversi, a volte 
                  opposti, in un rapporto di dialogo e scambio reciproco, senza 
                  che una voce distrugga o elimini l'altra. Esiste forse una sovversione 
                  più pericolosa di questa democrazia delle voci?” 
                  È un libro d'amore, amore per l'arte, la bellezza, la 
                  libertà e la dignità degli esseri umani. Un libro 
                  interessante da cui partire per riflettere sulla differenza 
                  tra i luoghi dove la proibizione è violenta, plateale, 
                  e il nostro, della capillare, occulta, persuasione quotidiana, 
                  apparentemente senza proibizioni. In Leggere Lolita a Teheran 
                  non si parla della libertà di scrivere ma della libertà 
                  di leggere, di esprimere le proprie emozioni e reazioni a ciò 
                  che si è letto, del diritto di immaginare e di realizzare 
                  il tipo di vita che si desidera vivere. ”La ricerca 
                  di conoscenza può diventare pericolosa, può stuzzicare 
                  il nostro senso di ribellione, quel desiderio invincibile che 
                  rovescia tutte le convenzioni e trasforma qualunque affermazione 
                  in un punto interrogativo”. Perché, come ci 
                  ricorda Nabokov, ”la curiosità è insubordinazione 
                  allo stato puro”. 
                  Il libro inizia col racconto di quando, essendole proibito l'insegnamento 
                  all'università, l'autrice organizzò degli incontri 
                  di studio settimanali, nel soggiorno di casa sua, per un gruppo 
                  di studentesse. Di come leggere Lolita nella Teheran 
                  degli ayatollah abbia dato un nuovo significato al libro, di 
                  come la storia letteraria entrasse nella realtà di quelle 
                  giovani donne costrette a nascondersi per studiare, di come 
                  le parole di quello e altri libri divennero sostegno morale 
                  negli anni di prigionia e soprusi che alcune di loro dovettero 
                  subire per la colpa di essere donne intelligenti. 
                  Dopo il romanzo di Nabokov: Il grande Gatsby di Scott 
                  Fitzgerald, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, le 
                  opere di Henri James... e tutti riprendono vita e attualità 
                  attraverso le storie delle molteplici figure - soprattutto femminili 
                  ma non solo - che parteciparono alle lezioni domestiche della 
                  Nafisi. Realtà del romanzo e realtà della vita 
                  si influenzano reciprocamente grazie al puro, sensuale e genuino 
                  piacere di leggere, scoprendo i molteplici livelli di opere 
                  che non si limitano a riflettere la realtà ma ne svelano 
                  la verità. In nessuno di quei classici della letteratura 
                  europea si critica o si fa riferimento alla repubblica islamica 
                  eppure, per loro stessa costituzione, si trovano ad andare contro 
                  l'essenza di tutte le mentalità totalitarie. 
                  “E anche noi, come Lolita – ed era la cosa peggiore 
                  di tutte – finivamo per sentirci in colpa, come fossimo 
                  complici dei crimini che venivano commessi contro di noi. Il 
                  semplice gesto di uscire di casa ogni giorno diventò 
                  una bugia colpevole e complicata, perché significava 
                  mettere il velo e trasformarsi così nell'immagine di 
                  un'estranea, come lo Stato ci richiedeva. [...] Avevamo bisogno 
                  di ricreare noi stesse. Per ricostruire la nostra identità 
                  sequestrata e salvare la nostra integrità individuale, 
                  dovevamo resistere all'oppressore usando le nostre risorse creative. 
                  [...] La resistenza in Iran è arrivata a nutrirsi non 
                  solo dei violenti scontri, non solo di proteste e rivendicazioni 
                  politiche, ma anche del rifiuto di adeguarsi da parte dei singoli 
                  individui, del rifiuto di essere trasformati in un prodotto 
                  dell'immaginazione del regime”. 
                  Risorse creative, rifiuto di adeguarsi, rifiuto di essere trasformati 
                  in un prodotto immaginato da altri: l'attualità è 
                  evidente, anche per noi. 
                  Col suo libro la Nafisi non vuol certo dirci che la letteratura 
                  basti a salvare dalla brutalità delle tirannie e nemmeno 
                  dalla crudele banalità della vita, ci racconta di quelle 
                  persone che quando si trovarono a dover sottostare alle peggiori 
                  umiliazioni, quando si videro togliere quello che dava loro 
                  valore e integrità, si aggrapparono istintivamente alle 
                  creazioni dell'immaginazione, a ciò che si appella al 
                  senso della bellezza, dell'armonia, della memoria, celebrando 
                  quel che è umano, originale e unico. 
                  Le ragazze di cui Azar Nafisi ci parla - alcune delle quali 
                  dalle prigioni iraniane non sono più uscite - raccontano 
                  proprio di questo, come prima di loro fecero grandi autori quali 
                  Primo Levi e Osip Mandel'stam, e per loro studiare un autore 
                  come Nabokov significò comprendere le verità che 
                  si nascondono dietro affascinanti facciate. La verità 
                  che dice come i mostri spesso siano abili e seducenti camuffatori, 
                  uomini di Dio ad esempio, come i religiosi dell'Iran che uccidono 
                  e torturano parlando di religione. 
                  Leggere – e rileggere - Lolita a Teheran 
                  è uno di quei gesti utili affinchè la possibilità 
                  di cambiare si mantenga viva dentro ognuno di noi, attraverso 
                  il mutare dei tempi e col passare degli anni, insieme a quello 
                  spirito di libertà che esige il reciproco ascolto e la 
                  consapevolezza che nulla di ciò che esiste è mai 
                  assoluto e tutto ha sempre un'infinita possibilità di 
                  mutamento, a cui noi possiamo contribuire grazie al potere sovversivo 
                  dell'immaginazione. 
                 Silvia Papi 
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