Rivista Anarchica Online
Pianeta Cina
a cura della Redazione
Che la Cina sia lontana, molto lontana, è un fatto innegabile. Per comprendere bisogna
conoscere, e noi della Cina conosciamo troppo poco per poterne comprendere appieno
la realtà. Le fonti di informazione sono quel che sono: da una parte la stampa propagandistica di
regime, inattendibile per definizione, ed il libri scritti da qualche "sinologo" graditi al
regime; dall'altra qualche opera interessante e critica, come quella edita recentemente in
italiano dalle Edizioni Antistato (Simon Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, Milano
1977), che aiuta a capire la Cina odierna: ma sono davvero pochi i libri di questo
genere. L'intervista con tre compagni cinesi, che pubblichiamo in queste pagine (insieme con una
lettera di una ex-guardia rossa ed un dibattito tra ex-guardie rosse tenutosi a Hong
Kong), assume perciò un particolare valore. I tre compagni - Mok, Yuen, Wong - sono
venuti in Italia su invito degli organizzatori del convegno internazionale sui "nuovi
padroni" (Venezia, 25-27 marzo) ed hanno presentato in quella sede una lunga relazione
sui "nuovi mandarini". Nel corso della lunga intervista (circa 6 ore) alla quale li
abbiamo "sottoposti" sono emerse moltissime cose interessanti, alcune delle quali
soltanto hanno potuto trovare spazio su questo numero di "A". Abbiamo diviso
l'intervista in due: qui di seguito i compagni parlano della Cina, più avanti del loro
gruppo anarchico ad Hong Kong.
Che cosa vuoi capire tu della Cina? Ma lo sai che il popolo cinese ha cinque millenni di
cultura alle spalle? Ma lo sai che là sono abituati ad esprimersi per mezzo di parabole,
citazioni, immagini figurate?
Quando si affronta l'argomento "Cina", soprattutto se da un punto di vista critico, è
normale che il nostro interlocutore, soprattutto se di tendenze filo-maoiste, cerchi di
ridurci al silenzio ponendo domande come queste. Se, per esempio, ironizziamo sulla
famosa nuotata di Mao (il quale, ultrasettantenne, avrebbe battuto qualsiasi precedente
record di resistenza e di velocità nell'acqua) ci sentiamo rispondere che è necessario
comprendere il significato allegorico di quella nuotata, il suo valore dimostrativo della
potenza del Mao-tse-tung-pensiero. Si ironizziamo (ma non troppo) sulle folle oceaniche
plaudenti sulla piazza Tien An Men di Pechino al Grande Timoniere o ai suoi successori, e
magari ci lasciamo scappare qualche battutina che richiami alla memoria altre folle
oceaniche (magari in piazza Venezia, a Roma), ci sentiamo regolarmente rinfacciare la
nostra profonda ignoranza delle abitudini e delle modalità espressive del popolo cinese.
Che per comprendere il fenomeno "Cina" sia necessario conoscerlo a fondo - così come
per qualsiasi altro fenomeno - è una cosa scontata. Ma nell'attesa (o nell'impossibilità
pratica) di conoscere appieno la storia remota e vicina di un popolo che conta ottocento
milioni di individui, è proprio impossibile per noi "occidentali" addentrarci nei difficili
meandri dell'analisi e del giudizio del fenomeno cinese?
Pongo la questione, più o meno in questi termini, ai tre compagni cinesi - Mok, Wong e
Yuen - che stanno seduti con me allo stesso tavolo, per un'intervista sulla Cina. Mok ci
tiene a sgombrare subito il campo da qualsiasi equivoco: secondo il suo parere, senza mai
dimenticare la necessità di approfondire le conoscenze (peraltro di non facile acquisizione)
sulla realtà cinese, non si può accettare il vecchio giochetto strumentale, per cui la
"specificità" della situazione cinese viene presa a pretesto per bloccare qualsiasi discorso
critico. In fondo in fondo - sorride Mok - i cinesi sono degli esseri umani come tutti gli
altri, come gli italiani, come i bantù: hanno una testa, due braccia, due gambe, ecc. e
soprattutto hanno un cervello. Quello che è o appare assurdo, irrazionale, impossibile a
voi "occidentali", fa lo stesso effetto su di noi. Che il Mao-tse-tung-pensiero abbia
permesso ad un vecchio (com'era Mao) di nuotare alla velocità di un motoscafo da corsa
è solamente imbecillità, in Cina come in Italia, e tale non può che apparire a chiunque
usi il cervello. E questo non è che un esempio.
Wong e Yuen sono completamente d'accordo. Ci tengono a precisare che se in Cina vi è
stato (e vi è tuttora) quel culto della personalità che tutti conosciamo, ciò non è dovuto ad
una chissà quale predisposizione del popolo cinese verso il culto della personalità, ma
molto più semplicemente alla volontà del regime che, per mezzo di un bombardamento
psicologico attuato tramite i mass-media, fa di tutto per tenere il popolo in condizioni di
sudditanza psicologica ed ideologica. In questo, certo, il vertice del partito-stato si è
trovato avvantaggiato dalla preesistente abitudine all'obbedienza ed alla venerazione dei
capi (politici e religiosi) e delle divinità. Ma sarebbe assurdo pensare che tutto ciò sia
"naturale" in Cina e che qualsiasi processo rivoluzionario debba far proprie queste
abitudini.
I compagni cinesi ci tengono a riportare molti esempi, da loro vissuti spesso in prima
persona. Mok, Wong e Yuen sono nati tutti e tre in Cina ed hanno subito quel tipo di
educazione (o meglio di "indottrinamento" basato sul culto dell'autorità e dell'obbedienza
che è tipico di qualsiasi regime totalitario. I valori instillati nei bambini sono quelli di
sempre, con la solita distinzione manichea tra i buoni da una parte (il vertice del partito,
guidato dal Grande Timoniere Mao) ed i cattivi dall'altra (di volta in volta gli imperialisti, i
sovietici, la banda dei 4, ecc.). Le favole raccontate ai bambini (spacciate per verità
storiche) non parlano che dell'immensa bontà di Mao, della crudeltà dei suoi nemici,
della necessità di fare sempre quello che dice l'autorità, ecc.. Fin da piccoli si impara ad
odiare tutto quello che è diverso, che è al di fuori degli schemi prestabiliti dalle autorità,
che non obbedisce al buon partito ed al suo capo indiscusso ed indiscutibile. I risultati
sono scontati: da quando è iniziata la violenta campagna contro l'odiata banda dei 4 -
affermaWong- non è infrequente vedere per la strada dei bambini mettersi a saltare
improvvisamente davanti alle caricature riproducenti appunto i 4, indicandoli con il dito
in modo minaccioso e gridando loro tutto il loro disprezzo. E mi riferisco anche a
bambini di quattro o cinque anni.
Chiedo a Wong se questo avviene solo nei grandi centri o se, per quanto gli consti, ciò
capiti anche nei piccoli villaggi dispersi, magari a migliaia di chilometri da Pechino. Mi
risponde che la forza di penetrazione del regime è tale che l'unificazione raggiunta nel
controllo dei comportamenti individuali non conosce limiti all'interno della Cina. I bambini
della Mongolia cinese non si comportano diversamente da quelli di Canton: e come lo
potrebbero? Forse che a loro è lasciata una maggiore libertà di informazione o di
comportamento?
Il regime estende il suo controllo sui giovani ben oltre all'ambiente scolastico. È ancora
Wong a sottolineare la mentalità rigidamente sessuo-repressiva che caratterizza ancor oggi
la Cina e che il regime non ha alcun interesse a trasformare, anzi. La masturbazione viene
ufficialmente considerata un'attività contro-rivoluzionaria, perché sottrae energie alla
produttività "sana" dei lavoratori: chi si masturba denota inoltre una pericolosa
inclinazione verso l'individualismo borghese o anarchico - che poi per la propaganda di
regime è lo stesso. Il matrimonio è vivamente sconsigliato prima di una certa età: essendo
altrettanto sconsigliati i rapporti sessuali prematrimoniali, ne consegue che per essere un
bravo marxista-leninista un giovane cinese non deve utilizzare il suo apparato sessuale
prima dei 26 anni. In compenso, il partito è sempre con te, ti segue, ti ama, quasi quasi
viene a letto con te. Ho conosciuto una ragazza di 18 anni - dice Wong - che avendo
fatto l'amore con un suo amico è rimasta incinta. Nonostante la riprovazione subito
dimostrata dai suoi paesani e dal partito, lei aveva deciso di tenersi il bambino. Ma non
ha potuto, perché praticamente i dirigenti locali del partito gliel'hanno impedito,
costringendola ad abortire ed a cancellare così il segno della sua "vergogna". Fatti di
questo tipo sono abbastanza frequenti ed il comportamento delle autorità è sempre lo
stesso: i desideri dell'individuo non contano niente, l'importante è che venga applicata la
linea del partito.
Il discorso si sposta così sulla condizione della donna: per quel poco che se ne sa in
occidente, pare che sia decisamente migliorata sotto il regime comunista. I tre compagni
cinesi sono d'accordo solo in parte; qualche miglioramento si c'è stato, ma troppe cose
ancora non vanno. La violenza carnale è estremamente diffusa, anche se perseguita dalle
leggi dello Stato. Il fatto è che numerosi sono i casi di stupro commessi dai notabili del
partito e dello Stato, che approfittano del loro status particolare per imporre il loro potere
anche in questa sfera.
Dei movimenti e delle tematiche femministe in Cina non è giunta nemmeno l'eco: la
divisione dei ruoli, la subordinazione della donna, il suo essere considerata "l'angelo del
focolare" (con relative conseguenze) non è mai stato messo in discussione. Perfino nella
comune di Tai-Chay, considerata la comune-modello, quella citata d'esempio ad ogni piè
sospinto, le donne vengono ufficialmente retribuite meno degli uomini. La motivazione
ufficiale si commenta da sé: poiché le donne debbono interrompere prima degli uomini il
lavoro nei campi, dovendosi recare ad accudire alle rispettive abitazioni, allora è giusto
che alla fine percepiscano meno degli uomini.
In compenso, non è scomparsa la prostituzione, almeno in alcuni grandi centri. Si tratta in
genere di donne scappate per vari motivi dai loro villaggi e "rifugiatesi" in città dove,
cercando di sfuggire ai controlli polizieschi, non resta loro altra possibilità di
sopravvivenza che quella di prostituirsi.
Anche nel settore dell'assistenza medica i compagni cinesi mettono in luce nel contempo
aspetti positivi e negativi. A loro avviso va ridimensionato il fenomeno dei "medici scalzi",
uno dei cavalli di battaglia della propaganda maoista in questo settore: il loro contributo al
miglioramento della situazione medico-sanitaria rivendicate dal governo. Yuen sottolinea
un fatto che in Cina pare essere scontato, data la sua generalizzazione: chi è in linea con il
partito riceve un certo tipo di assistenza, chi invece ha avuto motivo di essere criticato dal
partito può essere sicuro di ricevere un'assistenza molto peggiore.
Tutti cittadini della repubblica popolare cinese - sottolineano più volte i miei interlocutori
- sono schedati dai funzionari del partito-Stato: il controllo è continuo e si basa anche su
di un sistema generalizzato di delazione. La gente, infatti, è spinta in tutti i modi a
segnalare alle autorità qualsiasi fatto o comportamento abnorme notato. Il risultato
pratico è che nella maggior parte dei casi i vicini non si parlano nemmeno o riducono
comunque al minimo le occasioni di contatto.
In questo contesto, nessuno osa praticamente esprimere il suo eventuale dissenso rispetto
alle decisioni dei burocrati locali, figuriamoci rispetto alle grandi scelte nazionali di politica
interna ed estera. Spesso - afferma Mok - ci siamo sentiti chiedere dagli occidentali quale
sia l'atteggiamento del popolo cinese nei confronti della politica estera, per esempio
rispetto all'appoggio ufficialmente dato dal regime comunista alla NATO, alla Comunità
Europea, alla destra democristiana tedesca di Strauss, ecc.. È una domanda destinata a
rimanere senza risposta, perché il popolo in Cina non ha alcuna possibilità di confronto
e/o di conoscenza diretta: tutto quello che "sa" gli giunge tramite i mass-media ed il
partito. L'unica verità è quella, e non si discute. Più in generale, comunque, va detto che
l'interesse della gente verso i fatti di politica estera è praticamente nullo. Credo inoltre
di poter dire che pochi conoscono in qualche misura la geografia, la maggior parte della
gente ha a malapena una vaga idea della Cina.
Uno dei pilastri del regime, tanto dal punto di vista sostanziale quanto da quello
propagandistico, è certamente l'esercito, o meglio l'Esercito di Liberazione Popolare. Solo
i giovani veramente "perfetti" (dal punto di vista della schedatura) possono aspirare a
farne parte: in effetti essere accettati dall'E.L.P. pare essere una delle massime
aspirazioni di moltissimi giovani cinesi. I soldati sono guardati con rispetto, temuti,
omaggiati dalla gente: la loro autorevolezza è davvero notevole. La struttura militare -
manco a dirlo - è rigidamente gerarchica, come in tutto il mondo. Non esiste la leva
militare, ma tutti apprendono l'uso delle armi fin dalla scuola. Come altrove, poi,
l'esercito viene impiegato più per "uso interno" - in funzione repressiva anti-popolare -
che per "difendere la patria".
Ma esiste in Cina un'opposizione al regime comunista? Come si esprime? Come si
organizza? Dal punto di vista legale - risponde Mok - l'unica organizzazione ammessa è
il partito comunista, con le sue filiazioni collaterali (organizzazioni giovanili, sindacali,
ecc.). In effetti, però, soprattutto all'epoca della rivoluzione culturale e negli anni
immediatamente successivi, vi è stato un notevole fermento alla base e sono sorte una
serie di aggregazioni spontanee che esprimevano critiche anche dure contro i vertici del
partito-Stato. Il più delle volte, comunque, è necessario saper "leggere tra le righe",
perché difficilmente queste critiche sono state espresse direttamente, con un linguaggio
di immediata comprensione per il non-cinese. Quasi sempre le critiche al regime maoista
sono state espresse nel più tipico frasario "maoista", con grande abbondanza di citazioni
dalle opere di Mao. Perché questo? Innanzitutto per garantirsi un minimo di possibilità
di diffusione delle proprie posizioni: attaccare direttamente il partito-Stato e soprattutto
il Grande Timoniere (alias il Faro che ci illumina, alias il Sole che splende, ecc.)
avrebbe significato (e ancor oggi significa) andare dritti dritti in galera. In secondo
luogo, è necessario tener presente che la gente è abituata fin dalla nascita a fare
riferimento solo ed unicamente al libretto rosso ed alla fraseologia stereotipata del
partito: servirsi di un linguaggio diverso significherebbe condannarsi all'incomprensione
da parte delle masse.
I compagni cinesi fanno riferimento esplicito, per esempio, al "tatzebao dai grandi
caratteri" di Li-I-Che, affisso a Canton nel '74 da tre persone che hanno firmato con il
nome collettivo di Li-I-Che: è questo un documento di grande interesse, anche se di taglio
nettamente "moderato" (in Italia è stato pubblicato qualche anno fa, prima dall'Espresso
poi, come opuscolo, dalla Feltrinelli). Al di là del linguaggio usato, al di là anche di
alcuni concetti "democraticistici" espressi, questo documento ha avuto una grande
importanza, non foss'altro che per il coraggio dimostrato nel formulare quelle critiche al
regime. È soprattutto per questo che ad Hong Kong abbiamo costituito un comitato e
lanciato una campagna per la liberazione di Li-I-Che e di altre vittime politiche della
repressione di stato in Cina. Gli autori del "tatzebao dei grandi caratteri" di Canton,
rintracciati dall'autorità, sono stati violentemente attaccati nel corso di oltre 200
assemblee (organizzate dal partito) alle quali sono stati costretti ad essere presenti;
quindi sono stati condannati ai lavori forzati in una miniera; dopodiché di loro non si è
più saputo niente.
Un'altra vittima politica difesa dai compagni di Hong Kong è Yang-Hsi-Kuang, autore nel
febbraio del '68 di un opuscolo intitolato "Dove sta andando la Cina?", identico nel titolo
ad un articolo del presidente Mao. La critica sviluppata contro il regime comunista era
durissima: la soluzione proposta (nelle linee essenziali) faceva costante riferimento al
modello autogestionario rappresentato dalla Comune di Parigi. Yang-Hsi-Kuang parlava
della improrogabile necessità per il popolo cinese di scrollarsi di dosso la nuova casta
dirigente parassitaria che si era insediata ai vertici dello Stato, di cui denunciava tutto il
ruolo nefasto. Il suo articolo, ripubblicato in molti organi di partito come tipico esempio di
attività controrivoluzionaria, ebbe un'eco straordinaria in tutta la Cina, che si trovava
allora in piena rivoluzione culturale.
La risposta dialettica del potere non si fece attendere molto; accusato di criticare il Mao-tse-tung pensiero e di essere perciò un elemento controrivoluzionario e reazionario, ha
ricevuto una prima condanna a dieci anni di galera.
Al di là dei pur significativi lati personali, i compagni cinesi ci tengono a sottolineare il
senso politico di questa loro mobilitazione pro vittime politiche. Non a caso si battono per
la liberazione delle migliaia di persone arrestate in seguito ai famosi incidenti avvenuti
nella piazza Tien An Men di Pechino il 5 aprile del '76. In quell'occasione la polizia e
l'esercito intervennero contro un'immensa manifestazione popolare, che aveva espresso
contenuti chiaramente anti-istituzionali, e provocarono circa duemila morti. Il periodo di
terrore bianco che seguì a quegli avvenimenti fu terribile - anche se poche notizie sono
trapelate in proposito.
Si sa, per esempio, che alla fabbrica "Tramonto" a Pechino, migliaia di operai sono stati
sottoposti a rigide misure di controllo e di investigazione da parte della polizia: con quali
risultati non si è saputo, ma non è difficile immaginarselo.
Del sistema carcerario cinese i compagni parlano a lungo, elencando con dovizia di
particolari tutti i vari tipi e sistemi di reclusione. L'originalità del sistema carcerario cinese
rispetto alla maggior parte degli altri risiede nella sua elevata "politicizzazione" che si
esplica in un costante lavaggio del cervello finalizzato alla piena accettazione del Mao-tse-tung pensiero. A parte alcuni casi speciali, infatti, il regime tratta i detenuti come
"pecorelle smarrite" da ricondurre forzatamente all'ovile dell'ortodossia ideologica. Volenti
o nolenti, i detenuti - soprattutto quelli politici (stimati in 30.000, ma potrebbero essere di
più) - sono costretti a studiare collettivamente per molte ore al giorno le opere di Mao. In
carcere, insomma, il regime comunista non fa che accentuare quell'opera di
indottrinamento quotidiano alla quale sottopone normalmente oltre 800 milioni di cittadini
della repubblica popolare cinese. A titolo di curiosità, Wong mi fa osservare che le prigioni
in Cina hanno sempre dei nomi molto leggiadri e poetici: a Pechino, addirittura, all'entrata
di un istituto di pena campeggia la grande scritta "Centro sportivo". Il passante viene così
tratto in inganno.
Il discorso di Mok, Wong e Yuen prosegue ancora a lungo: si parla dell'arte, del cinema,
dei privilegi della casta dominante, del regime di vita quotidiano, della necessità di avere
un passaporto (vistato ogni volta dalle autorità) per potersi spostare da una località
all'altra, delle differenze di stipendio, di tante altre cose - di cui è francamente impossibile
rendere conto nel poco spazio che abbiamo a disposizione. Ciò che i miei interlocutori
tengono a sottolineare con vigore è che la tanto propagandata "scomparsa delle classi"
non è per niente avvenuta, anzi. In Cina oggi vive un sistema sostanzialmente feudale,
stratificato in caste chiuse, la mobilità tra le quali è minima (limitata ad alcuni elementi).
Chi nasce da padre contadino tende a restare contadino: soprattutto, fin da piccolo viene
considerato contadino, riceve il trattamento tipico dei contadini, ecc. Idem per gli operai,
per i burocrati, ecc. Gli esempi che mi fanno a proposito dei privilegi di cui godono i
burocrati di vario grado e i governanti sono illuminanti della immensa disparità esistente
tra le varie caste e confermano in pieno l'analisi e la descrizione della situazione cinese
fatta da Simon Leys nel suo "Gli abiti nuovi del presidente Mao" (edito recentemente in
italiano dalle edizioni Antistato).
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