Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 7 nr. 61
novembre 1977 - dicembre 1977


Rivista Anarchica Online

Tutto il potere ai nuovi mandarini
di A. B.

Esce in questi giorni, nella nuova collana "segno libero" delle Edizioni Antistato (C.P.3246, Milano), "Gli abiti nuovi del presidente Mao", di Simon Leys, una cronaca dissacrante della cosiddetta rivoluzione culturale. Questo libro, scritto con stile agile ed arguto - particolarmente gustose sono, in appendice, le biografie di una trentina di dirigenti cinesi - ma sorretto da un eccezionale supporto documentario di prima mano, è stato un best-seller in Francia, dove ne sono già state fatte tre ristampe, tra il 1971 ed oggi - L'edizione italiana è arricchita da "tre post-scriptum" di aggiornamento aggiunti dall'autore in epoche successive fino al febbraio 1977 - Pubblichiamo qui di seguito la presentazione editoriale al pubblico italiano

All'XI congresso del PCC (agosto 1977), Hua Kuo-feng ha dichiarato che "con l'annientamento della banda dei quattro viene proclamata la fine vittoriosa della prima grande rivoluzione culturale proletaria del nostro paese, che è durata undici anni". Già nel '69 era stata annunciata, a dire il vero, la "vittoria totale e definitiva" della rivoluzione culturale. Poi, nel '74, Mao aveva affermato che dopo otto anni di rivoluzione culturale era ora di porvi fine. Come osserva argutamente Leys, la rivoluzione culturale è come un cattivo oratore che vorrebbe concludere il discorso ma non sa come: annuncia venti volte la fine e annunciandola riparte con una nuova frase. "Non essendo riuscita ad instaurare il 'nuovo potere' che si proponeva di stabilire, non riesce ad accettare il fallimento, ma nello stesso tempo non è neppure in grado di tornare all'attacco".

Se ora il successore di Mao, l'ex ministro di polizia Hua (il Beria cinese, come qualcuno l'ha definito), può decretare ufficialmente la fine della rivoluzione culturale, è proprio perché essa può dirsi definitivamente sconfitta, con la morte fisica e politica di Mao (1) e con l'eliminazione politica e forse fisica (esempio: il suicidio - o "suicidio" - in carcere di Mao Yuan-hsin, nipote prediletto del defunto imperatore) degli ultimi personaggi che avevano promosso la rivoluzione culturale o ne erano stati promossi: la "banda dei quattro", appunto. Fine vittoriosa? Sì, ma - ennesima cineseria - vittoriosa per coloro contro i quali era stata scatenata.

L'ufficio politico del comitato centrale del PCC uscito dall'XI congresso è composto di 23 membri, di cui 12 sono ufficiali superiori dell'esercito, della marina e dell'aviazione e gli altri sono tecnocrati ed alti funzionari dell'amministrazione. L'età media è di 68 anni.

Il nuovo politburo esprime anche attraverso la sua composizione le scelte fondamentali dell'XI congresso: ordine, disciplina, sviluppo produttivo, ripristino dell'autorità e del prestigio gerarchico. Ancora più significativa, se è possibile, la composizione del "comitato permanente" del politburo, suprema istanza del potere. Composto di 5 membri, esso comprende, oltre a Hua, l'ottantenne maresciallo Ye Janying, il tre volte silurato e tre volte riabilitato Teng Hsiao-ping (pragmatico economista, ex braccio destro di Ciu), un altro pianificatore ed ex collaboratore di Ciu, Li Hsien-nien, ed il generale Wang Dongxing, comandante della famosa unità 8341 (50.000 pretoriani, destinati alla difesa dei più alti dirigenti). Vecchi sbirri, tecnocrati e burocrati con o senza galloni si dividono il potere, a coronamento di undici anni di agitazione delle masse e di mobilitazione dei giovani!

In realtà, come scriveva già nel '69 Leys, la "rivoluzione culturale proletaria" non era né culturale, né proletaria, né rivoluzionaria. Certo, questo era scontato per chi, come gli anarchici, consapevole della reale natura di classe della dittatura sul proletariato, guardava con diffidenza alle vicende cinesi e con ripugnanza al culto maoista. Però la "cronaca" di Leys ne dà una documentazione ampia e convincente per chiunque voglia conoscere e capire la realtà. Inoltre fornisce una chiave interpretativa delle convulsioni interne al potere cinese che rende comprensibili in un quadro complessivo anche vicende anteriori (il Grande balzo in avanti, i Cento fiori, ecc.) e successive (la liquidazione di Lin Piao, la campagna contro Confucio, la "banda dei quattro", ecc.) a quella che è stata la rivoluzione culturale in senso stretto (gli anni '67-'69) e che è l'oggetto specifico di questo volume. Quegli anni infatti hanno costituito un momento nodale, la cui conoscenza demistificata è indispensabile per decifrare tutta la storia cinese contemporanea.

Gli abiti nuovi del presidente Mao (con cui si apre una nuova collana Antistato, nella quale saranno pubblicati contributi culturali di segno libertario) sono stati il primo studio obiettivo e perciò dissacrante della più grossa mistificazione cultural-politica degli ultimi dieci anni, una mistificazione cui s'è prestata gran parte della "intellighenzia" europea di destra, di sinistra e di estrema sinistra. Con questo libro e con il successivo Ombres chinoises (2), Leys s'è attirato odio e calunnie, com'era prevedibile, ma ha aperto la strada a successivi (pochi, ma tutt'altro che insignificanti) studi demistificanti sulla realtà del maoismo e sulla struttura di classe in Cina (3).

Niente rivoluzione, dunque, ci dice o meglio ci conferma Leys, bensì formidabile manipolazione delle masse (e soprattutto dei giovani) finalizzata a lotte di potere in seno al vertice della "burocrazia rossa". E nemmeno lotta tra una "destra" (i moderati, i Liu Shao-ci, i Ciu En-lai, i Tenh Hsiao-ping,...) ed una "sinistra" (i radicali, i Mao, i Ciang Cing, i Cen Po-ta,...). Non nel senso di "sinistra" come socialismo vero, come aspirazioni egualitarie e libertarie delle masse sfruttate: non nel senso di "destra" come collettivismo burocratico, come interessi della classe dominante. In questo senso sia i "moderati" sia i "radicali" erano entrambi di destra. E se per destra si intende il ritorno del capitalismo e per sinistra la dittatura sul proletariato, allora erano entrambi di sinistra. In breve, erano due espressioni della medesima classe dominante tecnoburocratica.

Né libertà né uguaglianza

Certo, nella rivoluzione culturale si sono espresse, in qualche misura, anche le classi sfruttate e sono emerse, in qualche misura, anche genuine spinte antiburocratiche. Ma si è trattato di una potenzialità rivoluzionaria appena emersa e subito repressa o deviata su falsi obiettivi prima che la mobilitazione teleguidata dal Palazzo si rivolgesse contro il Palazzo stesso cioè contro il potere burocratico e non contro una frazione di esso.

Controprova: che cos'è mutato in Cina dopo la rivoluzione culturale per i contadini, per gli operai, per i giovani? Che cos'è mutato in termini di libertà e di uguaglianza? Assolutamente nulla. E non perché abbiano vinto gli uni anziché gli altri, ma perché la libertà e l'uguaglianza non erano tra gli obiettivi né dei "radicali" né dei "moderati".

In termini di libertà. La Cina era e resta lo stato più totalitario dei nostri giorni. Il proletario cinese è solo spettatore e a volte comparsa (quando lo si mobilita dall'alto, perché non gli è nemmeno lecito disinteressarsi del potere da cui è escluso) di tutte le decisioni politiche, economiche, ideologiche.... Il proletario cinese non è libero di scegliersi il lavoro o il luogo di residenza che vuole e non può neppure muoversi da una provincia all'altra senza un lasciapassare (quando, del resto, potrebbe farlo, dal momento che non ha diritto a ferie e che non può lasciare il posto di lavoro?). Il proletario cinese non è nemmeno autorizzato a pensare altrimenti che attraverso i miserabili stereotipi di linguaggio e di logica del mao-tse-tung-pensiero.

In termini di uguaglianza. Il reddito medio in agricoltura (10 yuan al mese) è 1/4-1/5 del reddito medio nell'industria (e si capisce allora perché il contadino debba essere tenuto incatenato alla comune per forza di legge, come un servo della gleba: per impedirgli di fuggire in città). All'interno di un'industria di medie dimensioni il reddito mensile può variare dai 20 yuan per l'apprendista ai 320 per l'ingegnere. All'interno dell'università un giovane assistente prende 50 yuan al mese ed un professore barone 340. Nell'amministrazione statale il reddito del gradino più alto (728 yuan al mese) è addirittura trentasei volte quello del gradino più basso! D'altro canto l'egualitarismo è sempre stato considerato un'eresia dal marxismo-leninismo-maoismo. Già nel periodo dello Yenan (anni '40), descritto come l'età eroica e fraterna della rivoluzione combattente, c'erano compagni "più uguali degli altri" se è vero, come si legge, che c'erano tre categorie di vestiario e cinque livelli di qualità del cibo (4).

I mandarini rossi

Libertà ed uguaglianza! La realtà è che i burocrati rossi sono asfissianti come ogni burocrazia al potere e godono di privilegi come ogni classe dominante. Precisiamo. Quando parliamo di burocrazia come classe dominante in Cina (ed in ogni altra versione nazionale del "socialismo" di stato) intendiamo proprio riferirci al dominio sociale di una classe e non alla dittatura di un partito: i due fenomeni sono sovrapposti ma non coincidenti. È vero che, ai massimi livelli, gerarchia del partito e gerarchia dello stato sono tutt'uno, ma il partito è solo una forma che assume la burocrazia dominante. Lo si è visto in Cina proprio nel quinquennio '67-'71, quando il partito, fatto a pezzi dalla rivoluzione culturale, era pressoché inesistente. Quando i pezzi, a partire dal '69, sono stati recuperati e rincollati, s'è ricostituita una struttura di potere quasi identica a quella precedente, ma resta il fatto che per cinque anni la burocrazia cinese ha continuato a dominare anche senza partito su 850 milioni di cinesi. Beninteso, non tutta la burocrazia intesa in senso lato è classe dominante. I venti milioni circa di burocrati cinesi, articolati in 30 gradi gerarchici minuziosamente definiti, ognuno dei quali dotato di privilegi e prerogative specifiche vanno nella stragrande maggioranza a costituire il ceto medio della Cina di oggi. La vera classe dominante è costituita solo dagli alti e altissimi dirigenti che controllano, cioè di fatto possiedono, i mezzi di produzione e di distruzione.

I "mandarini rossi" godono oltre che di elevati redditi, di una serie di privilegi accessori, di cui il più curioso e tipicamente cinese è forse l'uso dell'automobile. In Cina non vi sono che automobili "mandarinali": tutti i mandarini e solo i mandarini usano l'automobile (con l'autista, beninteso). Il modello, il colore e le dimensioni del veicolo variano in funzione della posizione gerarchica dell'utente: al basso della scala si trovano auto di media taglia beige o grigie, in cima ci sono le lunghe limousine nere, marca Hong qi, tutte chiuse da tendinei di tulle che sottraggono il passeggero allo sguardo del volgo.

Ma, ammettiamolo, la grande rivoluzione culturale qualcosa ha cambiato... non nella stratificazione sociale, ma nei suoi segni esteriori. Lasciamo la parola a Leys (5). "Nelle ferrovie, nominalmente sono state soppresse le classi (prima, seconda, terza) e sono state sostituite dalle categorie "sedie rigide", "sedili rigidi" e "sedili molleggiati", che corrispondono esattamente alle tre classi precedenti, anche nei prezzi. Anche i segni esterni dei gradi militari sono quasi scomparsi, però gli ufficiali hanno una casacca a quattro tasche ed i sottufficiali semplici una a due. Perciò un colonnello che viaggia in prima è diventato un militare a quattro tasche che viaggia su "sedili molleggiati"... con un militare a due tasche che gli porta rispettosamente la valigia. In città si distinguerà inoltre, tra i militari a quattro tasche, in ordine decrescente d'importanza, quelli che hanno diritto ad una jeep, quelli che viaggiano in limousine-nera-con-tendine e quelli che viaggiano in limousine-nera-con-tendine-preceduta-da-una-jeep...".

Non c'è bisogno d'essere anarchici per capire che il socialismo è un'altra cosa.

(1) Si veda, sugli ultimi mesi del regno di Mao: Cheng Ying-hsiang e Claude Cadart, Les deux morts de Mao Tse-tung, Editions du Seuil, Parigi 1977.

(2) Simon Leys, Ombres chinoises, Union géneral d'editions, Parigi 1974.

(3) Suggeriamo la lettura di quello che, a nostro avviso, è il più interessante tentativo di interpretazione globale: Claude Cadart, "Une dictature de bureaucratie nouvelle", in Regards froids sur la Chine, Editions du Seuil, Parigi 1976.

(4) Simon Leys, op. cit., pagg.183-189.

(5) Simon Leys, op. cit., pagg.174-175.