Rivista Anarchica Online


scuola

Sicurezza e sperimentazione

di Davide De Martini

In vista della (possibile) riapertura delle scuole dopo l'estate, un insegnante (precario) si interroga sulle modalità d'insegnamento e sulla libertà degli alunni/e. A partire da un giudizio negativo sulla didattica a distanza.


Sono ormai tre mesi che non varco le porte dell'aula presso la scuola media dove insegno. Mi limito a sostare e indugiare al di qua della soglia rappresentata dallo schermo del mio computer: soglia incantata come quella delle fiabe, che mi separa dai ragazzi che ho in cura e al di qua della quale tento di imbastire qualche pratica sensata e sopportabile di didattica a distanza.
Oggi sono tre mesi che mi pongo, inoltre, la sempre rinnovata domanda su quale sia il vero prezzo che la scuola e l'educazione dovranno pagare per la gestione dell'attuale emergenza coronavirus. Soprattutto mi preme osservare il rapporto fra quest'ultima e la libera sperimentazione educativa, che – a causa di una mutazione emergenziale del concetto di “sicurezza” in uno che chiamerò di “biosicurezza” – io temo sarà una delle vittime sacrificali di questo collettivo “esperimento scientifico non verificabile” (come direbbe il sociologo tedesco Ulrich Beck) che è il contenimento del contagio.

I limiti strutturali e ideologici della forma-scuola

La scuola stessa è, a essere intellettualmente onesti, un forte limite strutturale alla libera sperimentazione educativa. Ciò non è cosa nuova; la sociologia critica e gli storici delle moderne istituzioni hanno ben inquadrato i termini della questione già negli anni Settanta (penso a Bourdieu, Reimer, Illich, Foucault...). Li riassumo in breve:
1. il limite dato dall'identificazione dell'edificio scolastico come luogo principe deputato all'insegnamento e all'apprendimento;
2. al suo interno, il disciplinamento dei corpi e il controllo del tempo;
3. la segregazione per fasce d'età;
4. il rapporto di subordinazione dell'allievo all'insegnante;
5. la cultura letterata (egemonia del Libro di Testo, intellettualizzazione e compartimentazione del sapere), oggi erosa ai margini dall'esperienza digitale;
6. il monopolio della cultura ufficiale e la necessità della certificazione del sapere (voto/giudizio; promozione o bocciatura; esame finale; diploma).
Vi erano, diremmo in un contesto ancora “pre-coronavirus”, ulteriori limiti ideologici a supporto della forma-scuola entro cui la libera sperimentazione educativa era costretta a muoversi o contro cui – a seconda del carattere di chi insegna e sperimenta – inevitabilmente scontrarsi. Ne ho individuati almeno tre per il contesto italiano, ma ciascuno tra i miei colleghi potrebbe divertirsi a elencarne molti altri:
a. la scuola pubblica come luogo privilegiato atto ad avviare l'iter diagnostico per una sempre più pervasiva medicalizzazione dell'infanzia e dell'adolescenza (diagnosi dei disturbi specifici dell'apprendimento e dell'età evolutiva, oggi identificati dalla quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il cosiddetto DSM-5);
b. l'autonomia scolastica entro cui strutturare l'azione educativa, che lungi dal tradursi nell'affrancamento dal centralismo statale e burocratico, si riduce a un più semplice “decentramento” del Ministero a favore degli organi periferici che emanano da esso;
c. la cultura della sicurezza, e in specie la responsabilità civile e penale del docente in quanto a vigilanza, custodia e sorveglianza sui minori affidatigli, che è assai stringente nella giurisdizione italiana. La cultura giuridica, nella sua evoluzione recente, non ha riflettuto sul diritto inalienabile del bambino alla progressiva conquista di autonomia, spazio, indipendenza e libertà dall'occhio onnipresente dell'adulto.
Noteremo subito l'improvviso “balzo in avanti” che queste ideologie – nate inizialmente al di fuori della scuola – subiranno a partire da settembre 2020 e già immaginiamo come esse si insedieranno invitte entro le mura scolastiche: alle segnalazioni presso l'ULSS dei disturbi di apprendimento da parte del consiglio di classe si potrebbe aggiungere l'identificazione e la segnalazione dei possibili “focolai di contagio” tra le famiglie residenti nel territorio di pertinenza scolastica; si attende da parte del MIUR l'emanazione di protocolli quanto mai dettagliati e inderogabili da applicarsi a tutte le scuole del territorio italiano, probabilmente a prescindere dalle specificità regionali e locali; e soprattutto, già si assiste a una mutazione ed evoluzione del concetto di “sicurezza”, che da diritto alla salute diviene obbligo alla salute, dunque “biosicurezza” (ne ha parlato di recente Giorgio Agamben in un suo intervento).

La sicurezza totale? Impossibile

Già da tempo la cosiddetta sicurezza è un dio esigente a cui sono dovuti molti sacrifici. L'architetto inglese Colin Ward poneva già nel 1978 la questione della sicurezza nei termini algebrici di una “equazione impossibile”. Discutendo del diritto del bambino al godimento del gioco libero all'interno dello spazio urbano, e in specie il libero accesso all'acqua, ai fiumi, ai canali, alle fontane pubbliche, affermava con rammarico: “Tutti sanno bene quanto sia essenziale per i bambini giocare con l'acqua. [...] Dal punto di vista amministrativo, è complicato fornire giochi con l'acqua ai bambini. Ci sono rischi per la salute (d'estate la piscina comunale di Boston deve essere svuotata e riempita ogni giorno). C'è bisogno di sorveglianza. Sono costosi da costruire e da mantenere. Di conseguenza, nelle nostre moderne e sofisticate città accade molto di rado che tali giochi siano disponibili. All'opposto, nelle città povere accade. E ovviamente accade anche di morire. [...] È statisticamente certo che alcuni bambini moriranno lungo i fiumi, i canali, i pontili fuori città. Quale impossibile equazione tra la responsabilità di rimuovere i pericoli e il riconoscimento del bisogno di eccitazione, rischio e divertimento potrebbe mai convincere un'amministrazione pubblica?”
(Colin Ward, L'educazione incidentale, cura di Francesco Codello, Elèuthera, Milano 2018, p. 123)
In effetti pare davvero un'equazione non solo di difficile risoluzione, ma davvero impossibile in stretti termini. Penso a un tragico e triste fatto dello scorso ottobre: un bimbo di Milano caduto per la tromba delle scale della scuola andando al bagno. Il pubblico ministero ha condannato la maestra e la bidella per omicidio colposo: la sentenza, che risale a pochi giorni fa, afferma: “Morte causata da negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza delle norme” (ovvero, il fatto è avvenuto in una “zona d'ombra” dello sguardo degli adulti preposti alla sorveglianza, in violazione delle indicazioni dei regolamenti e delle circolari emanate dal consiglio d'istituto).
Oggi, per la giurisdizione italiana, ciò che conta non è prevenire ragionevolmente il fatto tragico mediante la predisposizione di un ambiente educativo sano e assennato, ma l'imperio del bulbo oculare. Ovvero tenere sott'occhio il minore, non perderlo di vista neppure per un istante, guardarlo, vigilarlo, dimostrare che in quell'istante si è seguito il protocollo e “si è fatto tutto il necessario per impedire l'evenienza”, ovvero: “Il minore si trovava entro il mio campo visivo”.
L'equazione era ancora lontana dall'essere risolta. Eppure qualche speranza di colmare l'abisso tra pratiche di sensata libertà e ideologia della sicurezza si poteva intravedere. È vero che i laboratori di scienze sono sempre più disertati alla secondaria di primo grado (“troppo pericolosi”, mi dicono i colleghi, “troppe grane se qualcuno si fa male”); ma soltanto oltreconfine, nella Svizzera italiana, i coetanei dei miei alunni padovani utilizzano durante le ore di Arti plastiche – pure “in sicurezza” – morse, trapani, seghetti, saldatori. E mi riferiscono che lì tutto il discorso che ruota attorno alla “sicurezza”, e all'assunzione del ragionevole rischio, è più sfumato e umanamente sostenibile.
Penso anche al fiorire, negli ultimi anni in Italia, delle scuole libertarie, delle scuole in regime di istruzione parentale, degli esperimenti di homeschooling coordinato in comunità educanti autogestite.
Ho visitato qualche tempo fa una nota scuola libertaria sui monti Lessini, in provincia di Verona: i bambini e i ragazzi hanno libero accesso a una porzione di bosco in qualsiasi momento della giornata scolastica. Oltre che più desiderabile e salutare, mi era sembrata una scuola molto più sicura del mio istituto scolastico, in cui al contrario ogni momento e movimento è rigidamente normato.
Ma ecco che arriva il coronavirus, e la gestione dell'emergenza che ne consegue.

Pandemia, biosicurezza. Quale spazio per il buonsenso?

La gestione dell'emergenza coronavirus è veramente un “esperimento scientifico non verificabile”, come ne parlava Ulrich Beck (Risk society. Towards a new modernity, Sage, 1992). Ovvero, non disponiamo di un'Italia parallela in cui predisporre altre strategie politiche e scolastiche utili al contenimento di un contagio virale, osservare le conseguenze sanitarie e le ricadute sociali, comparare i casi e osservare i risultati. L'unica opzione che resta è dunque tentare il tutto e per tutto al fine di contenere la possibilità ancorché remota del rischio, secondo la massima latina del melius abundare.
Gli scenari che vengono ad oggi prospettati per il primo settembre 2020, data di rientro a scuola, suggeriscono dunque un sovrabbondante dispiego di dispositivi di contenimento del rischio: didattica a distanza commista a quella in presenza, mascherine da indossare e da togliere soltanto al momento dell'interrogazione, ingressi contingentati, distanziamento sociale tra i ragazzi anche durante la ricreazione, lastre di plexiglass a separare i posti occupati alla mensa comune. I nostri ragazzi ci stupiranno – ne sono certo – in quanto a ordine e autocontrollo, e saranno certo bravissimi a rispettare le nuove regole. Ma non è questo il punto in questione. Il vero problema è che la cultura della sicurezza, oggi biosicurezza, ci ha condotti verso una china pericolosa, quella verso cui è possibile precipitare nella celebrazione collettiva dell'insensatezza di una pratica sociale come quella scolastica. È sensato, di fronte al rischio che tutti conosciamo, rinunciare anche solo temporaneamente a quel metro di giudizio con cui si dovrebbe giudicare un'istituzione a misura di bambino: l'operabilità, la manipolabilità interna, la coerenza?
È sensato rinunciare anche solo parzialmente alla presenza fisica corpo a corpo, viso a viso, tra adulti e ragazzi e ragazzi tra loro, a favore di un'interazione artefatta e digitale (ampiamente inefficace e discriminatoria, come l'esperienza di questi mesi insegna)? Più a fondo ancora: è sensato vivere, configurare e strutturare l'incontro con l'altro – l'operatore scolastico, l'insegnante, il compagno di banco – nei meri termini di rischio probabilistico, calcolo statistico, curva di contagio, di virus e morte che si nascondono dietro lo sguardo e il sorriso del prossimo? Sono domande a mio avviso tanto legittime quanto più i dati a disposizione sono incoraggianti: lo studio condotto sugli abitanti di Vo' Euganeo, coordinato dal prof. Crisanti dell'Università di Padova e pubblicato a metà aprirle, ha registrato che nessun bambino al di sotto dei dieci anni è risultato positivo al virus; nemmeno coloro che avevano vissuto a contatto con i positivi in grado di trasmettere l'infezione.
A prescindere dalla risposta che ognuno può darsi in merito all'assunzione collettiva di un ragionevole rischio, a farne sicuramente le spese è la sensatezza intrinseca della libera sperimentazione educativa. Insegnare è una pratica che richiede una robusta dose di quotidiana improvvisazione creativa, lettura a occhio del “campo di gioco”, antenne percettive, un grande buonsenso: è una cosa che assomiglia di più alla pratica del guidare la bicicletta in città durante un carnevale, che non condurre un treno merci lungo un binario solitario. Eppure, il corpo docente italiano è già da tempo costretto ad adottare paradossalmente metodi da “sciopero bianco”: ovvero l'osservazione dei regolamenti con assoluto puntiglio, l'applicazione alla lettera delle istruzioni ricevute, l'attenersi rigidamente alle sole mansioni previste dal contratto.
Il risultato è il medesimo di quello ottenuto dai tassisti parigini e dai sindacalisti francesi, che così facendo bloccano il traffico della città intera e rallentano la produzione delle fabbriche, e danno dimostrazione che il loro lavoro quotidiano si basa in realtà sugli accordi informali, sulle regole non scritte, sul riadattamento creativo delle norme imposte e sulla libera iniziativa individuale. E infatti anche la macchina scolastica italiana è “grippata” da molti anni, farraginosa, inceppata, e difficilmente i nostri studenti la amano.
Ora, per come pare profilarsi la gestione del contagio da coronavirus nelle scuole a partire dal prossimo anno, c'è il rischio di ammazzare quel poco di libera sperimentazione che ancora resiste ignorata dentro e fuori le mura della scuola statale, non lasciarle quasi più alcun margine di manovra: nonostante essa sia il “sale della terra” per un'educazione viva, sensata e sopportabile.
Prima del coronavirus, la cultura della sicurezza applicata al mondo della scuola era un dio esigente a cui offrire in sacrificio un'ecatombe di cento buoi, come fece Conone dopo la vittoriosa battaglia di Cnido. Un dio, però, lo si può pur sempre ammansire, lisciare un poco, accondiscendere, per poi continuare con la vita di prima. Ma la biosicurezza richiesta dalla gestione straordinaria del rischio coronavirus non è più un dio, bensì un mostro che si nutre di carne di fanciulli, come il Minotauro del mito.
Compiti da svolgere durante le vacanze estive per noi insegnanti: scrivere su foglio protocollo un tema di almeno tre colonne argomentando su che cosa stiamo sacrificando in nome dell'emergenza coronavirus, e perché siamo disposti a farlo. (Il tema non lo legge né corregge nessuno, per cui potete essere sinceri.)

Davide De Martini

Lo scritto è apparso su www.inchiestaonline.it