Rivista Anarchica Online


società

Una vocale di meno

di Salvo Vaccaro

Quella “e”, che trasforma sociale in social, cambia tutto. Le identità, le relazioni interpersonali, la comunicazione, la politica. Tutto. È in questa chiave che il nostro collaboratore, docente di Filosofia politica all'Università di Palermo, legge l'accelerata trasformazione che nell'era della pandemia sta caratterizzando la società e il potere. Con un'attenzione particolare al mondo dell'istruzione.


Intendo avanzare una riflessione un po' più approfondita sul tema del distanziamento sociale. In questi mesi, mi sono chiesto perché si è adoperato questo aggettivo sociale e non, ad esempio, distanziamento “fisico”, un distanziamento “corporeo”. Peraltro, se si leggono le prime righe del decreto del presidente Conte del 26 aprile, troviamo scritto chiaramente “distanziamento interpersonale”: quindi l'intento è chiaro: dobbiamo stare a un metro, un metro e mezzo, una distanza tra due individui, tra due o più persone. La società, la socialità, il sociale non c'entra nulla da un punto di vista del rimedio riconosciuto per evitare il contagio. Però dai primi provvedimenti, da marzo in poi, il distanziamento è stato etichettato, e nei media viene riproposto, e ne parliamo tutti, come un “distanziamento sociale”.
Mi è scattata allora la molla per capire se il ritornello altrettanto ossessivo nulla sarà come prima allude, e significa in senso forte, al tentativo, utilizzando l'emergenza pandemica, di accelerare una tendenza in atto, quella di ritagliare un'idea, e quindi poi anche un modello, di società che sia completamente diverso da quello che ci ha rivestito come una seconda pelle. Una società che sia social e non sociale.
Sembrerebbe un gioco di parole – una semplice vocale in meno – e probabilmente lo è, non voglio rivendicare nessun tipo di primazia su questo. Ma a mio sommesso parere, la “e” finale di differenza tra sociale e social spalanca un mondo completamente diverso, perché l'idea di sociale per come l'abbiamo sempre non solo concepita, ma praticata, rinvia a una relazionalità collettiva, banalmente socialità vuol dire stare insieme. Non, come si direbbe in latino, uti singuli, ma stare insieme come segmenti sociali, appunto, come ceti, come classi (ognuno può utilizzare il sostantivo che ritiene più calzante), la socialità è in ultima analisi una dimensione collettiva. Socialità a livello dell'io e del me, della mia psiche, del mio subconscio, addirittura di un inconscio collettivo, come invita a riflettere Freud. Sociale vuol dire relazione, attivare relazioni, attivare conflitti, significa attivare pratiche collettive. In primis, significa umanità, essendo la cifra dell'umano, senza necessità di scomodare Aristotele e il suo zoon politikon (essere socievole dotato di logos, di linguaggio/ragione, ma anche di calcolo, a differenza del mero zoon animale, nonché a differenza, secondo Aristotele, del genere femminile...).
Se abbiamo imparato qualche cosa dal neoliberalismo in questi ultimi decenni è proprio il tentativo di demolire le pratiche collettive, di ridurre il conflitto a un'idea vis à vis, singolo vs. sistema. Prototipo ne è l'affermazione perentoria dell'allora Premier britannica Margaret Thatcher, secondo la quale non esiste la società, ma solo individui: “La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie”.
Quello che successivamente è stato tipicizzato con l'esempio “se sei disoccupato è colpa tua che non ti sai adeguare, non è colpa del sistema”, esonera sia il sistema politico che le leggi del mercato, della produzione e della redistribuzione di ricchezza dalle proprie responsabilità, grazie anche al pensionamento concettuale e immaginario di un termine considerato démodé, superato, tipico di reduci nostalgici di movimenti risalenti al famigerato '68. Oggi è il singolo individuo al centro della scena sulla cui misura è obbligato ad adeguarsi, alimentando ricorsivamente un iper-individualismo di una società che è esattamente a immagine della dimensione social, questa volta senza la “e” finale.

Una nuova idea di socialità

Stiamo mimando una nuova idea di socialità, che non ha nulla a che vedere con l'incontro tra corpi. Nei social, invece, la dimensione è una dimensione completamente avulsa. Innanzitutto ognuno col proprio smartphone, ognuno tra sé e sé. Il dialogo o la socialità avviene tra l'io e il proprio device, smartphone o tablet o computer che sia, non con l'interlocutore. Con l'interlocutore abbiamo innumerevoli modi per interloquire, ma essi vengono tutti surrogati: il pollice alzato del like e, soprattutto, le tracce che noi lasciamo quando navighiamo sui nostri social. Tracce che vengono capitalizzate per tutta una serie di attività: le più banali sono quelle di marketing commerciale, ma ci sono quelle un po' più serie quali la formazione della volontà politica, la formazione dell'opinione pubblica, che viene artatamente orientata da chi possiede i dati della nostra socialità via social, la cui identità digitale profilata via cookies non coincide con la nostra idea di identità personale o individuale. Per di più, non siamo noi singoli i detentori dei dati. Perché quando navighiamo sui social, qualunque siano, pensiamo di farlo gratis, perché magari riusciamo a navigare senza sborsare un euro, ma in effetti stiamo regalando tutti i nostri dati alle famose Big Tech (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft...) che riescono a orientare non solo il nostro consumo, le nostre forme di consumismo, ma anche la produzione del consumo.

L'identità digitale prevarica

Troviamo un neologismo nella sociologia della comunicazione: prosumer. Sta ad indicare che oggi noi siamo produttori e consumatori nel medesimo istante, non come nella vecchia logica fordista in cui lo stesso individuo era produttore o era consumatore, in momenti ben distinti, separati e scissi. Oggi noi produciamo e consumiamo nel medesimo istante in cui operiamo su uno smartphone a qualsiasi titolo e finalità. E ciò che produciamo e consumiamo sono soprattutto dati che altri mettono a valore dopo essersene impadroniti, de jure e de facto. Di fatto noi siamo abituati a svendere, se non a regalare, i nostri dati che servono non solo, ripeto, per l'accumulazione dei profitti.
Ogni like che facciamo su una qualunque battuta su Facebook è un innalzamento dei profitti da parte di Mr. Zuckerberg, ma non solo. I like disseminati a destra e sinistra, su un libro, su un film, su una dimensione amicale, su quello che ho visto ieri, su quello che ho fatto, sull'apericena dell'altro giorno, sugli ultimi acquisti online, sulle preferenze politiche o sui semplici commenti rivelati sul web, costituiscono dati che servono alle Big Tech per costruire la nostra identità digitale. La nostra identità digitale non coincide con quello che noi percepiamo essere la nostra identità normale, che peraltro è già una cosa complicata. Ormai, da Freud in poi, sappiamo che c'è un buco nero in ciascuno di noi, per cui non possiamo pretendere, come voleva Cartesio – cogito ergo sum – di avere la nostra identità immediatamente a disposizione in modo trasparente perché siamo esseri intelligenti, pensanti e senzienti. Freud ha dimostrato l'illusione profonda dell'Io sovrano, perché c'è un buco nero che certe volte ci governa senza che noi ce ne rendiamo conto.
Adesso, nella dimensione social, l'identità digitale prevarica la nostra identità corporea. Perché l'identità corporea sta diventando un residuo nella vita cosiddetta reale, che è sempre più rarefatta, e non solo in queste settimane in cui siamo stati ai domiciliari di massa. In qualunque dimensione social la dimensione corporea diventa sempre più residuale, perché prevale l'identità digitale insieme e grazie alle pratiche social. Addirittura il corpo diventa la materia prima il cui sfruttamento digitale consente l'estrazione di valore e soprattutto di matrici predittive di comportamento sulle quali costruire diagrammi di valorizzazione, di sorveglianza e di controllo sociale.

Una raffinata tecnica di impoverimento culturale

La mia esperienza di docente universitario va in questo senso. Non solo stiamo facendo didattica, esami, lauree, programmazioni, tutto online, con piattaforme proprietarie, non delle università, non pubbliche quindi, ma già si comincia a mormorare “oh! che bello fare lezione a distanza! Giustamente i pendolari non sono più pendolari, giustamente tutti possono essere connessi e seguire le lezioni. Se le possono registrare, se le possono studiare dopo, la sera.... C'è ampia flessibilità”. Peccato che ci sia un digital divide, specialmente nel meridione d'Italia. Peccato che le famiglie non abbiano tutte un computer a testa o possano permettersi il costo di una massa di giga da adoperare ogni mese. Però questo sta diventando un obiettivo non solo consumistico: il governo finanzierà Apple, Samsung, Toshiba e altre imprese di questo genere, perché comprerà o darà dei bonus affinché le famiglie, per superare il digital divide, si dotino di un computer a testa. Assistiamo così all'ennesimo spostamento di somme dal pubblico al privato. Non al privato cittadino, bensì al privato multinazionale.
Ma c'è un altro aspetto. Già oggi nel mondo universitario, che è quello che sto sperimentando e su cui baso queste riflessioni, si parla del dopo lockdown, della fase 3. Ossia di una compresenza di didattica in presenza e a distanza, con degli effetti di regolazione curiosi. Un'università statale ha varato delle linee guida che i docenti devono adottare, ossia predisporre delle lezioni sempre più semplificate, sempre più schematizzate, quindi slides, powerpoint, formule, non intitolarle alla cattedra, non firmarle, perché possano essere replicate con le generazioni seguenti, con le matricole future. Può diventare uno standard di cui si appropria l'università e non il singolo docente, ovviamente anche con l'effetto curioso che si potrà evitare di fare un turn over: perché un giorno, quando andrà in pensione tutta una schiera di docenti, non ci sarà bisogno di sostituirli con colleghi più giovani, perché tanto ci sarà la macchina a surrogare il docente. La macchina avrà accumulato tante di quelle lezioni in tanti insegnamenti e discipline, che tutto avverrà a distanza. Beninteso, schemi, formule, slides e powerpoint impoveriscono la conoscenza dei saperi e l'acquisizione di facoltà critiche, appiattendo e banalizzando tutto come infiniti bignamini! Una raffinata tecnica di impoverimento culturale di massa, di regressione delle facoltà critiche (in verità già registrabile sin da oggi, anche nei livelli secondari dell'istruzione).

Tutto digitalizzato

Questa dimensione social, questa “e” che viene elisa dalle pratiche che ci vengono suggerite come best practice, come migliori pratiche in sintonia coi tempi, dove si va inesorabilmente verso la digitalizzazione e quindi incitati ad essere sempre up to grade e a dover colmare il digital divide, questa impostazione nasconde surrettiziamente un disegno, abbozzato, ancora claudicante, ma pur sempre un disegno di ritaglio, di revisione, di riformulazione delle nostre dimensioni sociali, associative, collettive, con una riscrizione della conflittualità sociale che verrebbe dislocata su altre dimensioni. Certo, anche online si può fare uno sciopero, basta sconnettersi durante l'orario di lavoro. Però si capirà bene che la conflittualità, la massa, la corporeità fisica, tutto ciò che ha fatto conflitto nel XX secolo, fa fatica a ridisegnarsi e riproporsi su un piano social.
Abbiamo allora a che fare con una nuova ri-articolazione dei poteri e delle forme di consenso. In questo modo il consenso non viene meno, non si abolisce la repubblica, non si abolisce la democrazia, non si aboliranno nemmeno le elezioni. Anzi, ne avremo sempre più a iosa perché saranno orientate e canalizzate. In fin dei conti, nelle elezioni presidenziali del 2016, Trump, pur avendo meno voti popolari di Hillary Clinton, ha avuto più grandi elettori, grazie alla differenza in tre stati per qualcosa come 10.000 voti. È in questi tre stati, cruciali per aver rappresentato la differenza vincente, che si sono appuntati soprattutto i “bombardamenti” individualizzati e personalizzati tramite i dati regalati dagli utenti, per convincere gli elettori indecisi, con le buone ovviamente, non con le cattive, in un porta a porta virtuale, a recarsi al voto e a votare per quel dato candidato. Ma questa volta la porta è la porta d'accesso del computer o dello smartphone, non la porta di casa (ma talvolta persino quella). “Bombardamenti” estremamente profilati per convincere a votare Trump (ma prima di lui Obama sia nel 2008 che nel 2012) diretti verso quell'elettore indeciso, di cui si era a conoscenza della sua indecisione in base a tutte le tracce lasciate sul proprio device.
E questo ha funzionato perfettamente e nulla esclude che possa avere già avuto degli effetti in passato prima dello scandalo di Cambridge Analytica, e non si sa se non saranno revisionati in futuro in ulteriori occasioni, con tecnologie sempre più avanzate, sofisticate e invisibili all'occhio dei comuni mortali. Per cui la propaganda politica istituzionale ormai non è più andare in strada, fare il volantinaggio, mettere lo striscione, rendersi visibili con una sede in piazza, ma è tutta digitalizzata. Ragion per cui i vecchi partiti di massa sono spariti e oggi assumono le forme di comitati elettorali per campagne permanenti, anche in assenza di elezioni a breve termine. Ma questa è un'altra storia.

Salvo Vaccaro

Trascrizione ridotta e revisionata dell'incontro online, organizzato dalla Federazione Anarchica Torinese l'8 maggio 2020, il cui video originale è rintracciabile su YouTube all'indirizzo: https://youtu.be/CSeFeBrEPXA