Rivista Anarchica Online


razzismo

Si fa ma non si dice

di Davide Biffi

È la solita musica: niente razzismo, italiani brava gente. Ma se si va al di là delle dichiarazioni, e si guarda ai comportamenti e alle relazioni, ci si accorge che il fenomeno è tutt'altro che in calo. Lo conferma il nostro collaboratore, da anni impegnato in un'associazione di solidarietà con le persone migranti e senza diritti.


Qualche giorno fa alla radio seguivo una trasmissione in cui ci si domandava se l'Italia fosse un paese razzista. Secondo me il tema, attraverso quella domanda, è mal posto. Un paese non è un essere umano che applica categorie morali. Si può dire però senza ombra di dubbio che esistono tanti razzisti e tante forme di razzismo di stato: molte più di quelle che vediamo e riconosciamo come tali.
Tutti quanti abbiamo provato in prima persona almeno una volta nella vita pensieri etnocentrici, il che non ci rende automaticamente razzisti. Etnocentrismo significa pensare che usanze, tradizioni e modi di vivere di un soggetto che si riconosce parte di una certa popolazione di riferimento (per esempio gli italiani) siano i migliori in assoluto e gli unici modi di vita percorribili e desiderabili dal resto del mondo.
Mi sia concessa la banalizzazione con un esempio: quanti di noi pensano che “la cucina italiana sia la migliore del mondo”? Ecco, questo è un pensiero etnocentrico.
Se vivessimo in uno stato che decidesse di vietare pietanze non italiane (sull'origine del sugo per la pasta al pomodoro e la pizza ci sarebbero fiumi di inchiostro da consumare) allora sì, vivremmo in uno stato razzista. Penso alle tante ordinanze comunali che regolano alcuni esercizi commerciali dopo una certa ora o in alcune zone delle città. Misure che vengono utilizzate solitamente contro i “kebabbari” e i mini-market, esercizi commerciali gestiti quasi esclusivamente da stranieri. Misure razziste camuffate con la retorica del rispetto del decoro, della limitazione della concorrenza sleale e quant'altro, che vanno a colpire gli stranieri: misure razziste di fatto ma non in sé.

Perché solo la bici?

È importante riconoscere il razzismo insito e mal celato in questo tipo di provvedimenti. Da anni lavoro e seguo da vicino le questioni dei richiedenti asilo e dei rifugiati e ne ho già scritto su questa rivista. Mi hanno sempre colpito una serie di assunti che ho trovato in tante brave e oneste persone che lavorano in questo ambito.
In tanti centri di accoglienza, fin dal 2011, ho visto mettere a disposizione come unico mezzo di trasporto per gli “ospiti” la bicicletta. Gentili, no? No. Perché non garantire invece a tutti un abbonamento per i mezzi pubblici? La risposta è articolata. Primo, costa infinitamente più un abbonamento annuale di una bici una tantum. “E poi la bici è libertà, autonomia negli spostamenti, soprattutto se la rete dei mezzi pubblici è limitata...”; vero, in parte. E comunque “dai... sono ragazzi giovani, grandi e grossi... che pedalino, su!”. Questi i ragionamenti che incontravo.
Se non hai che la bici, devi per forza pedalare e non è una libera scelta ecologista o di salute personale. Vivo in provincia, dove le piste ciclabili sono scarse e sulle strade provinciali percorse da tir e automobili sul margine della carreggiata vedo solo stranieri che pedalano, tanti con gilet catarifrangenti e altri dispositivi luminosi. Alle volte però i gilet non bastano e vengono falciati, come le lepri o i ricci d'estate.
Perché non la bici (in treno)?
A loro altre forme di mobilità sono precluse, principalmente per questioni di reddito o di assenza di servizi adeguati. Lo straniero va quindi in bici per forza. La bici non è un vezzo, ma un mezzo di sostentamento fondamentale, come per i riders.
In Lombardia Trenord, farcita di dirigenti leghisti fedeli prima a Maroni e oggi a Fontana, con la scusa della pandemia che fa? Vieta l'accesso alle bici sui propri convogli! Ora che il traffico di persone sui mezzi è diminuito, che intralcio potrebbero dare le bici dei fattorini (e di chiunque altro)? “Non ce l'abbiamo con loro ma con le biciclette che ingombrano!”. Un provvedimento in sé non razzista, ma che, guarda caso, va a colpire ancora una volta prevalentemente gli stranieri. Non siamo razzisti, ma quelle bici intralciano i lavoratori (bianchi)! L'accesso alla mobilità diventa quindi una questione di razza, oltre che di censo.
Un altro grande classico è l'offerta formativa e lavorativa che viene proposta a richiedenti asilo e rifugiati. Al razzismo si aggiunge una visione fortemente sessista del lavoro. Tendenzialmente lavoro di cura, cucina, sartoria e pulizia per le donne; giardinaggio, sicurezza (soprattutto se nero, alto e muscoloso), volantinaggio e servizi vari per gli uomini. E gli immancabili fattorini di cui parlavo prima. A pochissimi vengono proposti corsi di altro genere o la possibilità di proseguire gli studi oltre la terza media.
Razza, sesso e classe si intersecano limitando le possibilità della “scalata sociale”. Il messaggio è chiaro: “Per te c'è questo: piglialo senza fare lo schizzinoso!”.
Basti pensare che una nazionalità è diventata sinonimo di uomo o donna delle pulizie: il filippino.

Sei straniero? Ti do del “tu”

Un altro assunto si basa sulla scarsità del welfare che è agitata in chiave etnica. “Non ci sono risorse per tutti, non possiamo accoglierli tutti: prima gli italiani!” quindi adeguatevi e ringraziate per quel che vi diamo. Il non detto è “osate pure lamentarvi che siete abituati a stare nel villaggio di capanne di fango?” e altri stereotipi ancora più volgari e razzisti.
Salvini in tv con il sindacalista e intellettuale Aboubakar Soumahoro, quando questi gli spiegava le ragioni dell'immininente sciopero dei braccianti di tutta Italia, non ha saputo far altro che ridere e grugnire, nascondedosi dietro a battute per nulla divertenti: “Adesso i clandestini scioperano? È il colmo!”. L'ex ministro era lì lì per dire: “Adesso anche i negri scioperano?”.
Notate come tanti parlano con gli stranieri. Il “tu” è d'obbligo, quando il “lei” invece è riservato solo ai caucasici. Mi è capitato innumerevoli volte in vari uffici pubblici di sentire persone relazionarsi con gli stranieri usando il “tu”, magari anche con persone non giovanissime, degne almeno di un atteggiamento cortese. Per quale motivo non si riesce a dare “del lei” a uno staniero? Lumumba diceva: “Chi potrà mai dimenticare che a un nero ci si rivolgeva con il tu, non perchè fosse un amico, ma perchè il voi era riservato solo ai bianchi?”. Forse tanti nostri concittadini non sanno usare la distinzione tra “tu” e “lei” (Lumumba parla del francese e quindi utilizza il voi), ma Lumumba con grande lucidità aveva centrato il bersaglio.
Pelle nera maschere bianche si intitolava un libro di Frantz Fanon. Con una banalizzazione che non rende giustizia alla grandezza dell'autore, il libro ricordava che, nonostante tutti gli sforzi per sbiancarsi, “un negro resterà sempre un negro” agli occhi di un bianco. Succedeva (succede ancora, ma un pò meno) con i meridionali. Dalle mie parti si dice che “un terun l'è semper un terun”.

Quella disciminazione razziale implicita, mimetizzata, opaca

Milioni di italiani sostengono politiche e politici razzisti. Tanti di loro con una mano aiutano quell'africano che incontrano all'angolo della strada o quella particolare donna ucraina che ha lavorato alla cura dei loro anziani. Con l'altra mano votano i peggio razzisti e i “non sono razzista ma”.
La propaganda politica trasforma gli stranieri in massa anonima, deumanizzata e pericolosa, veicolando identità stereotipate: contro di essi si scatenano i peggiori istinti.
È possibile smontare pezzo a pezzo assunti incistati in secoli e secoli di violenza perpetrata e pensata, in stereotipi, modi di dire e pensare. È possibile relegare una volta per tutte questo linguaggio alla satira e all'ironia? Un conto è prendersi per i fondelli: terroni e polentoni, bianchi e neri, interisti e milanisti. Un altro conto è non affittare casa ieri a un meridionale e oggi a uno straniero per quel che è.
Tradurre in norme e leggi dello stato teorie e pensieri che poggiano su una discriminazione razziale implicita (mimetizzata e opaca, difficile da riconoscere) o esplicita segna spesso un punto di non ritorno, un salto di qualità nella legittimazione del razzismo, nella sua normalizzazione e accettazione.
Il razzismo è un comportamento appreso. Senza educazione al rispetto di ogni forma di diversità che ogni singolo essere umano rappresenta, senza la conoscenza diretta, la condivisione di spazi e momenti, senza la decostruzione pezzo a pezzo dei nostri assunti non si abbatteranno le asimmetrie di razza, classe, genere, sesso, religione.
Con-vivere è l'unica strada. Socializzare sin da piccoli con le diversità, praticare quotidianamente convivialità, fare esercizio di decostruzione e ricostruzione del pensiero individuale e collettivo.
Ci sarà sempre chi agiterà l'odio razziale, di classe, di genere, di religione, ma l'obiettivo è farlo diventare minoranza e “schiacciarla”. Quella minoranza non ha diritto di esistere e nemmeno di essere tutelata.

Davide Biffi