Cascina Torchiera/
Profitto e interessi (di nuovo) contro l'autogestione
Lo scorso 5 giugno il Comune di Milano ha annunciato la pubblicazione
di un avviso di interesse pubblico per la “valorizzazione
economica e socioculturale del patrimonio dismesso”.
Quanto della Milano verticale cresciuta negli ultimi quindici
anni, tra rendite di posizione, marketing territoriale e turistificazione,
ritroviamo nella scarna comunicazione apparsa sul sito della
municipalità? Tantissimo.
Per cominciare vi troviamo una delibera di giunta, una decisione
del governo della città che bypassa il consiglio comunale
e la discussione con la cittadinanza. In seconda battuta vi
riconosciamo l'ambizione di monetizzare (alienazione? affitto?
ci torniamo più avanti) di venticinque tra spazi e aree
dismesse colpevolmente tenute vuote, e quindi sottratte all'uso
civico dal Comune stesso. In terzo luogo vi troviamo la manifestazione
d'interesse, che è l'anticamera di un bando pubblico,
e dunque il rifiuto di una frequentazione del territorio utile
a riconoscervi le effervescenze, gli interessi locali, le forme
spontanee di genuina appropriazione di questi spazi che spesso
tutto sono tranne che vuoti (d)a rendere.
Lo strumento del bando, alla rovescia, corrisponde a un set
di criteri economico-amministrativi che privilegia le relazioni
pregresse con la pubblica amministrazione, il portfolio di competenze
ed esperienze alle spalle, oltre che, ça va sans dire,
un business plan credibile per mettere a norma di legge
uno stabile il cui impianto originale è databile al quattordicesimo
secolo.
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Cascina Autogestita Torchiera SenzAcqua (Milano) |
Cultura dal basso, reti territoriali e mutuo aiuto
In questa cornice, per la terza volta in 11 anni, la Cascina
Autogestita Torchiera SenzAcqua si trova dalla sera alla mattina
coinvolta nella macchina della cartolarizzazione e della sussidiarietà
di facciata. All'alba dei trent'anni di autogoverno, l'antico
cascinale dell'ovest milanese si ritrova infatti in compagnia
dello spazio sociale RiMake, nella morsa degli interessi di
un comune indebitato e ansioso di mostrare un bilancio socialmente
accettabile alla soglia di una nuova campagna elettorale. E
proprio su RiMake, che pure ha una storia certamente diversa,
va posto uno sguardo d'attenzione perché soggetto capace
di impegno non comune nella costruzione di reti territoriali,
nel welfare dal basso, in percorsi che spaziano generosamente
dalle economie locali alla critica di genere.
Non è tutto. Tra le molte battute stridenti della news
sul sito dell'amministrazione l'affronto peggiore recita “possiamo
iniziare a recuperarli aprendo all'interesse dei privati. Siamo
fiduciosi sulla possibile rigenerazione di luoghi rimasti a
lungo senza identità”. Senza identità. Non
è il gusto della dialettica politica, il riconoscimento
della controparte, il gusto amaro di una stilettata. Il cuore
freddo di questa giunta vede solo pieni e vuoti: pieni quando
chi governa intercetta la fame di opportunità del privato,
vuoti laddove questa opzione non è (ancora) stata percorsa.
Tutto il resto è landa e poco importa che oggi non esisterebbe
alcuna Cascina senza 27 anni di autocostruzione, cultura dal
basso, creatività che sono la cifra stilistica di un'esperienza
unica nel panorama milanese.
Le porte della Cascina Autogestita Torchiera SenzAcqua sono
sempre state aperte. Di tutte le ipocrisie utilizzate per chiuderle
in questi anni, quella dell'abbandono è la più
sporca di tutte. Se Torchiera, che non ha mai chiesto nulla
ma ha sempre gratuitamente dato, deve diventare materia di carteggio
pubblico, il tema dev'essere anzitutto quello della restituzione
del diritto universale all'acqua. Chi affronta frontalmente
la Cascina, riducendone ogni ricchezza all'atto di un'occupazione
di proprietà demaniale, nega il diritto di un pezzo di
città a fare quotidianamente una Milano differente, a
Milano.
Non è il momento di barricare Torchiera, non oggi. Né
basterà un esorcismo editoriale a scongiurare l'ipotesi.
Il modo migliore con cui la comunità di chi ama, vive,
anima, attraversa la Cascina è però oggi quello
di sbarricarla: aprirsi al territorio e alle reti di mutuo soccorso,
agli spazi sociali e alle relazioni coltivate con pazienza negli
anni di ricucitura di una periferia spesso dimenticata. Torchiera
si apre a dimostrare che chi la tocca, tocca un pezzo di città
che si appresta alla prossima fase, quella dell'incedere di
relazioni e progettualità attente alla cura dell'altro
e per questo mai distanti, sottratte alla produzione e non necessariamente
smart, sane e non sanificate.
Alberto “Abo” Di Monte
Messico, pandemia e popoli indigeni/
Tra quarantene collettive e processioni religiose
Romario Guzmán Montejo si inginocchia e cade sulla strada.
Avvicina la mano destra al petto per cercare il dolore che improvvisamente
gli ha tolto l'aria; scoprirà che una pallottola della
Polizia Municipale di Yajalón gli ha penetrato i polmoni
fino a toccargli una vertebra, e che forse non potrà
mai più camminare. Romario è frastornato dalle
grida, dagli spari, dal sangue che poco a poco colora la sua
maglietta. In Chiapas il coronavirus non ha causato solo malati,
ma anche feriti da arma da fuoco.
Era il 27 aprile 2020 e da diciassette giorni la pandemia era
arrivata in questa zona del Chiapas dove la maggior parte della
popolazione è indigena maya chol e maya tseltal. Romario
Guzmán Montejo stava protestando con altri abitanti del
villaggio Hidalgo Joshil, nel Municipio di Tumbalá, perché
da settimane il piccolo ospedale della sua comunità era
chiuso. Manifestavano anche contro i “filtri sanitari”
delle autorità della vicina Yajalón, dei posti
di blocco installati per impedire l'entrata dei forestieri come
misura di prevenzione dal coronavirus.
Una decisione che è stata presa da molte comunità
indigene messicane: chiudersi nel proprio territorio, stabilire
una quarantena collettiva invece che individuale. I primi a
farlo sono stati gli zapatisti, che si sono dichiarati in allerta
rossa e parallelamente hanno lanciato nel loro territorio una
strategia di prevenzione al Covid-19. “Considerando la
mancanza di informazione veritiera ed opportuna sulla portata
e gravità del contagio, così come l'assenza di
un piano reale per affrontare la minaccia, considerato il compromesso
zapatista nella nostra lotta per la vita, abbiamo deciso di
decretare l'allerta rossa nei nostri villaggi, comunità
e quartieri e in tutte le istanze organizzative zapatiste”,
scrive l'EZLN in un comunicato del 16 marzo.
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San Juan Chamula (Chiapas) - Un abitante incontra un medico della “carovana della salute”, organizzata dal governo del Chiapas
per arrivare nelle zone indigene isolate e senza ospedali
Foto di Isabel Mateos Hinojosa |
Sanità pubblica in Chiapas: problemi strutturali
Nel caso di Yajalón, però, i “filtri sanitari”
impedivano alla popolazione che vive nei municipi circostanti
di raggiungere il suo ospedale pubblico, che è il più
grande della zona.
Roberto N. stava accompagnando un famigliare malato all'ospedale
di Yajalón, quando è arrivato all'incrocio dove
si trovavano i manifestanti del villaggio di Hidalgo Joshil,
poco prima che Romario Guzmán Montejo venisse ferito.
Si è messo in fila dietro alle altre macchine senza capire
cosa stesse succedendo. Ha sentito le sirene e gli spari, e
le pietre hanno iniziato a volare. Improvvisamente è
apparso un gruppo di uomini con una maglietta rossa con la bandiera
messicana cucita sulla manica, mascherine chirurgiche e bastoni.
Li hanno utilizzati per rompere i vetri e il parabrezza della
sua auto.
Era il Grupo Táctico, un gruppo di tipo paramilitare
che faceva il lavoro sporco per il sindaco di Yajalón,
Juan Manuel Utrilla, e che è stato smantellato all'inizio
di giugno dopo essere stato accusato di sequestro e omicidio
di un commerciante.
Se il Grupo Táctico avesse permesso a Roberto N. di raggiungere
l'Hospital General de Yajalón, avrebbe trovato una struttura
che ha iniziato a operare mesi dopo il taglio del nastro realizzato
in pompa magna dall'ex governatore dello Stato del Chiapas,
Manuel Velasco Coello, con interi reparti che non sono mai stati
aperti e con 220 lavoratori al posto dei 638 che sarebbero necessari.
All'inizio di maggio, il sindaco di Yajalón aveva annunciato
l'apertura di una “clinica Covid” in questa che
è una delle zone indigene con il maggior numero di casi
di coronavirus del Chiapas, ma la struttura non è stata
mai inaugurata: non ci sono gasometri clinici e mancano i medici
specialisti.
I primi pazienti con sintomi di Covid-19 sono arrivati a Yajalón
all'inizio di aprile. Medici e infermieri hanno inviato al Ministero
della Sanità chiapaneco una lettera in cui esigevano
l'indispensabile: gel antibatterico, guanti, sapone, cloro,
alcool, mascherine. Non hanno ottenuto risposta. Ne hanno scritta
un'altra e un'altra ancora. Poco a poco hanno iniziato a ricevere
alcune cose, ma non abbastanza da impedire a 10 persone tra
medici e infermieri di Yajalón di risultare positivi
al coronavirus.
In mancanza della “clinica Covid”, il personale
medico ha deciso di utilizzare uno dei reparti inaugurati nel
2018 e mai aperti per isolare i possibili casi di coronavirus
e stabilizzarli. Un membro del Sindicato Nacional de Trabajadores
de Salud (SNTS) di Yajalón – di cui non diremo
il nome perché vari suoi colleghi hanno sofferto minacce
di licenziamento per aver fatto denunce pubbliche – afferma
che in questa zona molte persone con sintomi di Covid-19 non
si muovono dai loro villaggi, non fanno il tampone e non vengono
contabilizzati dalle statistiche, e che chi arriva all'Hospital
General normalmente è già in condizioni molto
gravi. Se l'esito del tampone di questi pazienti è positivo,
vengono trasferiti alle “cliniche Covid” delle città
di Ocosingo, San Cristóbal de Las Casas e Tuxtla Gutiérrez,
che si trovano fino a sei ore di una strada piena di curve e
dossi da Yajalón.
“Non abbiamo soldi per pagare la benzina delle ambulanze
e siamo costretti a chiedere ai pazienti di coprire i costi
per farsi trasferire alla clinica Covid”, afferma il membro
del Sindicato Nacional de Trabajadores de Salud in un'intervista
telefonica. “In questa regione il 90% della popolazione
vive in situazione di povertà e non ha soldi per farlo.
Molti ci hanno detto che se devono morire preferiscono farlo
in casa loro, e se ne tornano al proprio villaggio”.
Secondo il Ministero della Sanità, tra il 28 febbraio
e il 15 giugno in Messico 1760 indigeni sono risultati positivi
al Covid-19 e 327 sono morti. Dati ufficiali mostrano che a
causa della marginalizzazione e della discriminazione strutturale
in cui vivono da secoli, gli indigeni hanno il 70% in più
di possibilità di morire a causa del coronavirus rispetto
a una persona non indigena.
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Las Rosas (Chiapas) - Un ambulanza e un ospedale comunitario distrutti durante le proteste per le fumigazioni contro la dengue
Foto di Isabel Mateos Hinojosa |
Processioni e proteste
Esistono regioni indigene che sono entrate in quarantena collettiva e altre in cui si continuano a organizzare eventi di massa. Nel paese maya tsotsil di San Juan Chamula, migliaia di persone hanno partecipato alla Via Crucis del Venerdì Santo, San Juan Cancuc non ha rinunciato alla sua festa patronale e nella settimana di Pasqua a Venustiano Carranza si è celebrata una processione con 3 mila persone che chiedevano al Signore del Pozzo di proteggerli dalla pandemia, come si dice abbia fatto nel 1882 con la peste.
La difficoltà delle autorità nel comunicare con la popolazione indigena riguardo alle caratteristiche del coronavirus e ai suoi rischi, aggravata dalla sfiducia che i popoli originari hanno nelle istituzioni che da cinquecento anni li discrimina e inganna, ha avuto conseguenze preoccupanti a Venustiano Carranza e in altri paesi indigeni.
Incitati da catene di Whatsapp e messaggi che giravano su Facebook, in cui si affermava che il coronavirus non esiste e che un drone del sindaco spargeva una polvere che causava forti danni ai polmoni, a fine maggio gli abitanti di Venustiano Carranza sono scesi per strada per protestare contro il sindaco, realizzando saccheggi e appiccando fuoco alla sua casa. Episodi simili sono successi in altri paesi indigeni come Las Rosas, dove la popolazione ha bruciato un'ambulanza e rotto i vetri dell'ambulatorio quando le autorità hanno realizzato fumigazioni contro la dengue. Secondo una catena di Whatsapp, le fumigazioni erano in realtà finalizzate a spargere il coronavirus nella loro comunità.
Orsetta Bellani
“Sì, ma all'epoca...”/
Perché giustificare gli orrori del passato?
Durante le proteste avvenute dopo l'assassinio di George Floyd negli Stati Uniti diverse statue di generali confederati, schiavisti e finanche statue di Cristoforo Colombo sono state imbrattate o, peggio, tirate giù. Al di là se sia giusto distruggerle, spostarle o come sostengono alcuni tenerle lì dove sono, ho da più parti sentito dire la frase “sì, ma all'epoca era normale” avere schiavi o commerciare corpi ridotti in schiavitù.
Queste affermazioni tendono indirettamente a sottolineare come duecento o più anni fa fosse normale, per la società di allora, comprare, schiavizzare o possedere corpi di uomini e donne come oggetti sessuali. Questa era anche l'opinione del Primo Ministro Olandese Mark Rutte, quando nel 2018 affermò che era una pazzia rimuovere il busto di Johan Maurits, governatore delle colonie olandesi in Brasile, dall'entrata della sua casa-museo all'Aja, come parte di un innovativo progetto di riscrittura della storia di questo personaggio. Secondo Rutte era come imporre “dei preconcetti della società di oggi sugli eventi nel passato remoto”.
Tuttavia, se è vero che archeologi e storici devono stare ben attenti a non proittare temi attuali nella ricostruzione del passato, bisogna anche stare attenti a non generalizzare il passato sulla base di supposte ricostruzioni. La condizione di schiavitù, così come anche i maltrattamenti e gli abusi, non sono sempre stati una pratica accettata da tutti nelle società del passato. Una prova sono i documenti sul processo a Cristoforo Colombo come Viceré delle Indie, creduti persi e riapparsi alcuni anni fa, che pongono il navigatore genovese sotto altra luce. I documenti sono stati ritrovati per caso negli archivi spagnoli, analizzati e pubblicati da Consuelo Varela.
Il ritratto che ne emerge è di un Viceré spietato, pronto a punire, uccidere e torturare, insieme ai suoi fratelli che lo avevano raggiunto, le popolazioni indigene che mal si allineavano ai suoi voleri. Tanto fu il clamore delle torture che la Corona Spagnola fu costretta a inviare il cavaliere Francisco de Bobadilla per indagare su Colombo; riprova, questa, che non tutto era considerato “normale” a quei tempi. Dopo la raccolta delle testimonianze, Colombo e i suoi fratelli furono dichiarati colpevoli e inviati, in catene, in Spagna.
Quando iniziarono gli interrogatori alla popolazione, con successiva redazione del rapporto, Bobadilla era già sostituto governatore delle Indie e aveva quindi poco interesse personale nello screditare Colombo, ormai destituito.
Riesce comunque difficile non credergli se prendiamo in esame le parole di frate Bartolomé de las Casas che, scioccato da quanto aveva visto nel nuovo mondo, scrisse di proprio pugno il testo Un breve resoconto della distruzione delle Indie destinato a Re Filippo II di Spagna. Già nella prima pagina del testo, il frate domenicano afferma come la bellezza della scoperta del Nuovo Mondo fosse stata oscurata dalla barbarie “[...] Tra questi ci sono gli omicidi e le devastazioni di persone innocenti e spopolamento di città, province e regni [...]”.
È palese che per il frate domenicano ciò che gli spagnoli stavano facendo non era un comportamento da “cristiani”. E che la schiavitù non fosse una condizione universalmente accettata e supportata dalla società dell'epoca emerge anche dalle statistiche.
Sul sito slavevoyages.org, che raccoglie migliaia di dati relativi alle navi che commerciavano schiavi e che rappresenta il frutto di anni di ricerca, emerge come il picco della tratta schiavistica transatlantica si ebbe solo tra la metà del 1700 e la fine del 1800. Sono questi i secoli che videro un enorme aumento della produzione e dell'importazione della canna da zucchero dal Nuovo Mondo. Ma sono anche i secoli in cui nacque l'Illuminismo che, nonostante alcuni usarono per trovare basi scientifiche dell'inferiorità di alcune etnie, gettò a sua volta le basi per i futuri movimenti rivoluzionari e le moderne teorie anarchiche e socialiste.
Riesce difficile credere che nei secoli che videro nascere e operare pensatori come Proudhon e Bakunin, e che corrispondono al picco della tratta degli schiavi, fosse normale per tutti vendere e commerciare corpi.
Non è un caso che mentre il signor Montanelli cercava di avere rapporti sessuali con una 12enne in Africa nonostante questo le procurasse dolore perché infibulata dalla nascita, un suo corregionale, Ilio Barontini, nato anarchico e morto comunista, faceva la differenza addestrando truppe etiopi contro l'esercito coloniale italiano.
La fine “ufficiale” della schiavitù (e purtroppo l'inizio di altre) non fu solo il frutto di una nuova coscienza collettiva, ma anche il risultato di secoli di denunce e di lotte perché (e questo sì che è vero!) non per tutti era normale schiavizzare persone. E se, come già affermato da alcuni, nei prossimi giorni o mesi gruppi di persone tireranno giù qualche statua dell'800, o qualche municipio deciderà di posizionarla in uno smorto magazzino, non staremo di certo cancellando la Storia, ma la staremo facendo.
Roberto Arciero
Dieci per uno, Scighera per tutti!
Dopo quasi tre mesi di blocco, senza corsi, concerti, spettacoli, presentazioni la situazione economica del circolo Arci milanese La Scighera si è fatta molto dura. Per questo il circolo sta raccogliendo contributi. Con 10 euro di donazione, La Scighera conta di ripartire a settembre.
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