Rivista Anarchica Online


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Basta polizia

intervista di Carlotta Pedrazzini a Alex Vitale

Le proteste organizzate dal movimento Black Lives Matter hanno portato all'attenzione i fallimenti delle riforme della polizia, che continua a uccidere, soprattutto afroamericani, appartenenti a minoranze e fasce deboli. Il movimento per l'abolizione della polizia cresce e avanza proposte concrete. Ne abbiamo parlato con il sociologo statunitense Alex Vitale.


Mille all'anno è il numero delle persone uccise dalla polizia statunitense. Un computo orribile in cui gli afroamericani rientrano in maniera sproporzionata, così come le minoranze e le fasce più povere della popolazione.
L'eccesso dell'uso della forza, un eufemismo utilizzato per descrive abusi, brutalità e omicidi, è l'esito mortifero e visibile di un problema più grande che riguarda l'intera struttura delle nostre società, profondamente diseguali, razziste e ingiuste, in cui punizione e repressione sono i metodi preposti alla risoluzione dei problemi sociali. Metodi che non hanno mai funzionato, se non nella riproduzione di nuova diseguaglianza e di nuova ingiustizia.
Come ci ricorda il sociologo Alex Vitale nel suo libro The end of policing (Verso Books), storicamente le cose non sono mai state diverse. Fin dalla sua nascita la polizia ha avuto l'ordine di “gestire” gli effetti di povertà e diseguaglianza e di reprimere ogni segno di disallineamento, di malcontento e di ribellione.
Il potere che prendeva decisioni volte a sfruttare e impoverire la maggioranza della popolazione chiedeva alla polizia di assicurarne l'effettività, con la pistola e il manganello. Una relazione, quella tra potere e polizia, che non è mai cambiata.
Da alcuni anni, nel tentativo di spezzare la catena di omicidi, razzismo e violenza, negli USA sono state attuate riforme che hanno portato all'introduzione di videocamere sulle divise, all'assunzione nei dipartimenti di un maggior numero di afroamericani e appartenenti a minoranze, all'introduzione di corsi e di supporto psicologico. Eppure il numero delle persone uccise dalla polizia non è diminuito.
A giugno, mentre il fenomeno degli omicidi polizieschi continuava lungo la sua traiettoria, qualcosa si è interrotto. Le proteste e le manifestazioni oceaniche del movimento Black Lives Matter, seguite all'omicidio di George Floyd a Minneapolis, hanno iniziato a riempire le strade. E in risposta ai fallimenti delle riforme degli ultimi anni sono state avanzate proposte che hanno raggiunto il dibattito pubblico: definanziare la polizia, reindirizzare le risorse verso i reali bisogni delle comunità, abbattere un sistema sociale razzista che produce povertà, diseguaglianza e che propone violenza e repressione come “cura”.
Ne abbiamo parlato con Alex Vitale, professore di sociologia al Brooklyn College, coordinatore del “Policing and Social Justice Project”.

CP


Carlotta – Il movimento Black Lives Matter ha portato al centro la questione del razzismo negli USA, che è vivo e sta benissimo, così come le violenze e le brutalità della polizia.
Nel tuo libro The end of policing (Verso Books) riporti che tra il 2014 e il 2016 la polizia ha ucciso più di 3000 persone, e che il numero di afromericani vittime di violenze poliziesche è sproporzionato. L'omicidio di George Floyd, avvenuto a Minneapolis, ha riacceso le proteste, negli USA, ma non solo. Cosa ha dato, proprio ora, al movimento la forza di dire “adesso basta” e di travalicare i confini statunitensi?

Alex – Dall'omicidio di Mike Brown (avvenuto nel 2014 a Ferguson, ndr) il movimento ha continuato a organizzarsi come non aveva fatto in seguito agli abusi di polizia subiti da Rodney King (nel 1991, ndr) o da altri in passato.
In molte città in tutto il paese sono state organizzate campagne per definanziare le carceri e la polizia e reindirizzare le risorse verso i bisogni delle comunità. Di conseguenza, quando si è verificato quest'ultimo episodio, le persone avevano già profonda coscienza del fatto che le riforme superficiali proposte 6 anni prima non avessero funzionato e non erano in grado di funzionare, e che solo un cambiamento strutturale del ruolo della polizia avrebbe potuto portare sollievo alle comunità ultra sorvegliate, e a fornire nuove risorse per un incremento della sicurezza pubblica.
Va detto che queste proteste non riguardano solo la polizia, ma un'ampia serie di problemi legati al razzismo su cui si basa l'economia statunitense e globale, così come la mancata considerazione della diseguaglianza razziale e sociale da parte delle leadership di entrambi i nostri partiti politici.
Sotto molti aspetti si tratta di un problema legato alle politiche di austerità, divenute pervasive, che hanno eroso le reti di sicurezza sociale anche in molte parti d'Europa, specialmente per gli appartenenti alle comunità non bianche e immigrate; tutto questo ha portato, anche lì, a un uso aggressivo e intensivo della polizia.

Sembra che sempre più persone stiano realizzando che per risolvere il problema della violenza della polizia non sia sufficiente punire i poliziotti che commettono abusi e omicidi. I procedimenti verso i “cattivi poliziotti” suggeriscono che ci siano delle “mele marce” nei dipartimenti di cui è opportuno liberarsi, quando in realtà si tratta di un problema sistemico che riguarda, più in generale, la polizia.
Negli ultimi anni sono state proposte molte riforme, che sono fallite. Sta diventando sempre più chiaro che polizia e carceri sono risposte sbagliate ai problemi sociali?

Una delle caratteristiche centrali del movimento per l'abolizione della polizia e del carcere è proprio aver compreso che prigioni e polizia siano, per loro natura, dannose; si tratta di istituzioni progettate per agevolare la riproposizione di diseguaglianze razziali e di classe. Non vogliamo rendere quelle istituzioni più efficaci, professionali o efficienti, le vogliamo smantellare.
Stiamo chiedendo lo sviluppo di un nuovo mondo, che non poggi sullo sfruttamento supportato da uno stato violento e coercitivo.

Intanto la richiesta di definanziare la polizia si fa sempre più forte. Cosa significa e perché dovrebbe funzionare?
Dal punto di vista concreto, si tratta di una richiesta immediata di ridurre i fondi destinati alla polizia per spostare le risorse verso bisogni identificati delle comunità, cosa che le renderebbe più sicure rispetto a ora.
Le persone che portano avanti questo movimento sono, più di ogni altra cosa, preoccupate per l'assenza di sicurezza all'interno delle loro comunità, e la polizia fa parte di ciò che le rende meno sicure. Propongono strategie, supportate da dati oggettivi, che rimpiazzerebbero alcune funzioni della polizia, come gli interventi in caso di violenza domestica, crisi psichiatriche, violenza dei giovani, problemi legati ai senzatetto, alle droghe e alla prostituzione.

The end of policing, Verso Books

In molti pensano che polizia e carceri siano fonte di giustizia e sicurezza, motivo per cui non riescono a immaginare una società che non le implichi. La realtà però ci dice esattamente l'opposto. Per questo, quando si affronta l'argomento, si dovrebbe spiegare perché più polizia e più carceri non sono la giusta risposta ai problemi sociali, ma anche iniziare a pensare che, nonostante quello che ci è sempre stato detto, esiste un'alternativa al ricorso alla polizia e all'incarcerazione: mutuo aiuto, cooperazione, coinvolgimento nella vita delle comunità.
Sembra che queste proteste stiano facendo proprio questo, portando avanti processi di immaginazione e creazione sociale. Alcuni progetti concreti sono anche partiti (come, ad esempio, la zona autonoma di Seattle).
Cosa ne pensi? Siamo di fronte a un punto di svolta?

Stiamo assistendo ad alcune vittorie concrete, come la decisione di ridurre i finanziamenti alla polizia per investire di più nelle comunità, buttare la polizia fuori dalle scuole e creare competenze che riguardino la capacità di rispondere alle emergenze senza fare ricorso alla polizia. Ma abbiamo ancora molta strada da fare.
Nonostante ci siano state alcune piccole vittorie a livello locale, il discorso sulla “riforma della polizia” resta molto forte, soprattutto a livello nazionale.
Serve fare un grande lavoro a livello locale, di vicinato, per convincere le persone che esistono strategie migliori per tenerli al sicuro rispetto a quelle proposte dalla polizia.
Un obiettivo che si raggiunge attraverso un grosso lavoro di organizzazione locale, non attraverso le grandi marce nazionali o le conferenze stampa. E sta già avvenendo.

Carlotta Pedrazzini