Rivista Anarchica Online





I nuovi confini/
Non più demarcazione, ma condizione di vita (e sofferenza)

Confini, mobilità e migrazioni. Una cartografia dello spazio europeo (Milano 2020, pp. 268, € 15,00), la raccolta di saggi che Lorenzo Navone ha curato per Agenzia X, si pone l'obiettivo di mappare il territorio europeo tenendo conto della recente e continua opera di riconfigurazione dei confini che l'Unione Europea ha messo in atto negli ultimi anni per rendere più salda la propria “fortezza” dopo che, dal 2011 in poi, una serie di avvenimenti di portata globale ha compromesso i presupposti in base a cui l'Europa aveva fino ad allora governato le proprie frontiere esterne.
Davanti a questi processi di «riconfigurazione architettonica dall'alto», ai migranti e a coloro che sostengono il diritto all'attraversamento dei confini non resta che reagire adattandosi e modificando strategie e itinerari: le rotte migratorie sono in continua ridefinizione e si assiste alla costruzione di nuove pratiche e nuove reti di solidarietà; è di questo fenomeno articolato, precario e in movimento che gli autori compiono un'approfondita analisi.
I saggi raccolti in questo volume propongono un'immagine del confine che supera la dimensione lineare tradizionalmente diffusa: i confini appaiono come «centri di gravità che attirano verso di sé forze, saperi, beni e persone», non linea e non margine, ma spazio. Partendo dal significato che aveva per i romani, Claudia Moatti dimostra come la frontiera sia una categoria del pensiero la cui interpretazione varia secondo i tempi e i luoghi e ci invita, oggi, a «decentrare il nostro sguardo» pensando a tale frontiera come a uno spazio e lavorando sulla sua indeterminatezza. Quest'idea di confine come centro alternativo e luogo di interazione viene confermata dal filosofo francese Étienne Balibar, che intervistato da Lorenzo Navone e Federico Rahola riflette sul sistema di accoglienza istituzionale e sulle pratiche informali di solidarietà. Balibar afferma che è proprio alla frontiera che «si trovano delle forze tra loro eterogenee il cui incontro e il cui conflitto è il fermento di una nuova invenzione del politico per gli anni a venire», e che il soggetto politico da cui dipende il destino dell'Europa è costituito dall'incontro di individui che provengono «da una parte e dall'altra di una frontiera»: i migranti e i militanti.
Tra le pratiche adoperate dall'Europa per mantenere il controllo sui propri confini vengono analizzati l'utilizzo delle infrastrutture aeree, nello specifico il recente impiego dei voli charter, come strumento di deportazione per espellere dal territorio i corpi indesiderati, e il fenomeno dell'esternalizzazione dei confini osservato attraverso il ruolo delle ONG nei paesi cosiddetti “di transito”, fenomeno multiforme e dinamico per cui si suggerisce di usare il paradigma della delocalizzazione del confine, più adatto a coglierne le sfumature.
Se nella prima parte del volume i contributi si concentrano maggiormente sui confini intesi nel loro significato politico e nella loro dimensione spaziale, nella seconda parte, attraverso i resoconti etnografici, ci si sofferma sui luoghi caldi della frontiera europea per dare spazio e voce ai migranti e alle loro esperienze. Qui il confine emerge come una «condizione esistenziale permanente», come un elemento che segna il corpo e la vita di coloro che si accingono ad attraversarlo per rimanervi impresso anche dopo il suo superamento. Scorrendo le diverse vicende umane emerge come il confine sia in grado di stravolgere la temporalità delle persone migranti e delle strutture in cui esse sono contenute: viene descritto il ciclo temporale dell'hotspot con il suo alternarsi di momenti di attesa e di urgenza, ma soprattutto è sottolineata la dimensione di sospensione tipica dei migranti in transito che condiziona anche il loro modo di abitare gli spazi e di relazionarsi con gli altri, come emerge dalla ricerca etnografica sulla quotidianità dei migranti sudanesi nella Giungla di Calais.
Le esperienze del senegalese Omar e del maliano Abdoulaye Diarra, che in tempi diversi hanno cercato di attraversare la frontiera ispano-marocchina a Melilla, provano quanto la dimensione dell'attesa, che può dilatarsi in maniera imprevedibile, possa a lungo andare essere distruttiva per i corpi, e quanto tale dimensione non si arresti una volta superato il confine, che il più delle volte è tra l'altro solo uno dei tanti.
Il confine in quanto «condizione esistenziale» in grado di stravolgere la temporalità si manifesta non solo come permanente ma anche come ereditabile, ciò emerge in relazione al caso del confinamento e della segregazione scolastica dei migranti italo-magrebini in Francia, a Strasburgo. Anche se nati in Italia, e quindi liberi di superare la frontiera interna, questi giovani portano i segni del confine “scomodo” attraversato dai loro genitori prima che nascessero, quando dal Nord Africa si diressero in Italia; a causa di questa colpa ereditata, si vedono spesso negare, nonostante il loro plurilinguismo, la possibilità di partecipare alle elitarie sezioni internazionali e si ritrovano invece parcheggiati in classi-dispositivo subalterne, luoghi «simbolo di una provvisorietà infinita, in cui diverse temporalità si dilatano».
I contributi sulla rotta balcanica, sul confine italo-francese e sui contro-rivelamenti ai confini marittimi dell'Europa ci mostrano la brutalità di un potere che è disposto a tanto – forse a tutto – pur di esercitare il controllo sull'attraversamento dei propri confini. È disposto a respingere con efferata violenza chi osa sfidare le sue frontiere, a vietare e perseguire la solidarietà e a temporeggiare anche di fronte a esseri umani che chiedono aiuto nel mar Mediterraneo, talvolta con esiti drammatici.
Ma questi stessi contributi ci mostrano anche la tenacia e la creatività dei migranti, in grado di adattarsi rapidamente alle ridefinizioni dei confini e di non arrendersi di fronte ai muri vecchi e nuovi, ci mostrano la capacità degli attivisti e di parte della società civile di pensare a nuove pratiche e di costruire reti di supporto, ci mostra infine il successo dell'uso da parte di attivisti e migranti di tecnologie e strumenti innovativi «per ribaltare la sorveglianza» e costringere gli stati a intervenire anche laddove preferirebbero fingere di non avere visto o sentito.
Confini, mobilità e migrazioni ci accompagna nello spazio di frontiera, tra i confini interni e quelli esterni d'Europa, nelle strutture di contenimento e di deportazione, fra i migranti, gli attivisti e i solidali, ci mostra pratiche di resistenza individuale e collettiva, mobilitazioni comuni che rivendicano «il diritto di movimento, ma anche di critica e di trasformazione del governo delle mobilità umane». Questa “cartografia aggiornata” ci invita a ripensare il nostro concetto di confine e ci suggerisce che un'opposizione e una resistenza all'attuale regime delle frontiere sono non solo possibili, ma anche necessarie.

Diana Galletta



Mister No/
La fine di una storia (con dubbi e senza eroi)

«Questo è il quartiere in cui sono cresciuto, Harvey, dove ho imparato per la prima volta come funziona il mondo! È da molto tempo che desideravo tornarci, ma..»
«...Ma adesso che ci sei vorresti non averlo mai fatto, vero?»
Anni di film sul Vietnam, la guerra ingiusta e sporca per antonomasia, hanno cristallizzato la narrazione del ritorno a casa dei soldati. Gli incubi, gli amici caduti, la gioventù sprecata in battaglia, il compagno paralitico: la vita civile è forse un inferno peggiore della foresta dell'Indocina. Ultima spiaggia, il dialogo con lo psicologo dell'associazione dei veterani, spesso un altro reduce. Un copione già visto che però potrebbe essere utile per parlare con un veterano di un'altra guerra, a patto di pescarlo fra i bar e le sale da gioco di Manaus, Brasile.
«Tu sai soltanto che hai l'ordine di uccidere e allora fai una bella picchiata e TATATA-TATA tutti morti! Semplice, no? Poi si torna alla base... Ci si sbronza per non pensare a quanto è successo, ci si applica magari un grado in più sulla manica e si continua così, aspettando la fine, anche se dentro ti senti il terribile sospetto che la fine non arriverà mai».
Quel mondo te lo ritrovi cucito addosso, anche con la pace. Altrimenti, perché continuare ad indossare, nella soffocante umidità della Foresta amazzonica, il giubbotto di pelle da pilota e presentarsi con quel vecchio nome di battaglia? Tributo alla memoria di un paio d'amici a cui si deve tutto - in primis il mestiere - e il privilegio di scegliere la propria identità, abbandonando quella di Jerry Drake da New York per essere semplicemente Mister No (Sergio Bonelli Editore). Un eterno burlone e scavezzacollo che però si sente veramente a suo agio solo in compagnia di vecchi commilitoni o, al massimo, con dei vecchi nemici che hanno sulle spalle le medesime delusioni, come l'ex soldato dell'Afrika Korps Kruger, il vecchio Esse-Esse.
Un reduce in tutto e per tutto.
«Non sei stufa di sentirmi raccontare le mie imprese di guerra?»
«Niente affatto. Tu sei molto più chiuso di quanto sembri, Mister No. Questi racconti, in fondo, sono le uniche occasioni in cui mi parli di te!»
Non è con il nostro immaginario terapeuta che sta parlando. Anche una donna amata e rispettata come l'archeologa Patricia Rowland, per andare oltre le solite chiacchiere da bar, deve scavare in una memoria scandita dalle date della Seconda guerra mondiale. 1941 in Cina con la squadriglia aerea delle Tigri volanti, l'anno successivo Birmania e Guadalcanal, 1944 Italia e l'inferno delle Ardenne. Poi il conto si perde, nel disastro del ritorno a casa.
Anni duri quelli in patria. Tutto è cambiato. L'America degli anni Trenta, quella in cui Jerry era cresciuto, creava criminali, tanto a New York quanto a Des Moines, ma lasciava intuire il nuovo corso. Il sogno americano del secondo dopoguerra produce invece solo marginali disperati. Nel 4 luglio del 1947, a Oakland in California si riuniscono 4000 motociclisti, quasi tutti reduci: la gente perbene brontola e si organizza per cacciarli via. Licenziato dall'ennesimo lavoretto, Mister No viene accolto dagli Hell's Angels, con i quali scopre l'amara verità: eroe o no, per i vagabondi della frontiera, gli hobos, non c'è posto. Se neanche al West c'è più libertà, un nuovo altrove lo raggiungi con un biglietto per l'Amazzonia. A Manaus non importa chi tu sia e al bar di Paulo Adolfo un bicchiere e due parole non si negano a nessuno.
«Jerry, hai trovato ciò che cercavi. Ora è finita la tua fuga?»
Dietro la fuga, c'è un ricordo che brucia. Jerry aveva già comprato un biglietto di sola andata nel 1938, l'anno in cui il professor Jerome Drake, reduce deluso della Guerra in Spagna, era entrato in carcere per l'omicidio del suo miglior amico, il giornalista Logan. Di fronte al silenzio del padre il figlio era partito e non è più rientrato.
«Perché ora non torni a casa, Jerry?»
New York è una città dannata. Nel 1949 stava per lasciarci la pelle in quelle vecchie strade e ci ha rimesso piede solo quando il suo rifugio in Brasile stava andando in frantumi per colpa della Legione dei Non-vivi. Alla fine ha ottenuto la sua vendetta chiudendo i conti con Ishikawa ma i mesi successivi sono scivolati via in tante bottiglie, senza il gusto della sbronza allegra di Manaus. È massacrante rendersi conto che per difendere la propria pace sia necessario scendere di nuovo in guerra, come è logorante contare i giorni per rompere quel silenzio che dura da vent'anni. Un'attesa che gli eventi prolungheranno ulteriormente.
Prima del definitivo chiarimento, si scontreranno ancora una volta il padre severo con il figlio ribelle, riprendendo al punto in cui si era bloccato il loro rapporto. Del resto, il lutto della separazione non fa altro che acuire degli atteggiamenti che abbiamo sviluppato nell'infanzia: per Drake Junior fuga e guerra non sono state che risposte al dolore. È per questo che Mister No ha sempre precisato di non essere un eroe: se lo è stato, non è stato per vocazione. E infatti quando vedrà la sua Manaus sgretolarsi per il ritorno del Capitale malgrado la coraggiosa resistenza degli ambientalisti, sentirà che rispetto ad una nuova guerra forse è meglio voltare pagina. La Bolivia, l'ennesima fuga, certo: però che ci resti come ultimo diritto quello di scegliere le battaglie da combattere.
«Se fossi un bambino avrei risolto il problema: mi metterei a piangere e buona notte. Ma siccome non sono un bambino, mi è negato anche questo conforto. Bah! E chi l'ha detto che non sono un bambino?»
Mister No è stato il primo personaggio “reale” della casa Bonelli: un reduce schiacciato dalle trasformazioni storiche delle Americhe metafora dell'uomo che, con dignità, sbaglia e soffre. Una sensibilità figlia del suo creatore Guido Nolitta, nom de plume di Sergio Bonelli, in evidente contrapposizione con il carattere del padre Gianluigi e della sua più celebre creatura Tex Willer. «Mio padre non aveva dubbi: lui era un ammiratore del coraggio, dell'eroe, quindi le sue storie erano decisamente avventurose. Io all'eroe ci credo un po' meno [...]. Mio padre si identifica molto in Tex perché è un uomo che non ha mai dubbi, che pensa di essere capace di amministrare il mondo intero da solo. Io invece sono un uomo pieno di dubbi». L'attenzione alla voce del figlio che tutti abbiamo dentro ha aggregato attorno alla testata un folto seguito per anni.
«Mister No è un personaggio che ha vissuto serenamente. Non dobbiamo essere viziati da Tex che ha quarant'anni e ancora va. Bisogna accettare serenamente che un personaggio che ha vissuto un certo periodo buono e ha avuto il suo successo, passato quello, se si perde il feeling con quella generazione, non funzioni più». Se Bonelli e Mister No hanno capito di dover chiudere un capitolo, serve proprio riaprirlo? Probabilmente no.

Jacopo Frey



Resistenza antifascista/
Il ruolo delle donne (e quello degli anarchici?)

La Storia della Resistenza di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli (Laterza, Bari 2019, pp. 671, € 35,00) rappresenta un'originale sintesi dei risultati finora raggiunti dalla ricerca storica intorno al periodo – cruciale e controverso – compreso tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945.
La caratteristica principale di quest'opera è quella di adottare una concezione aperta e plurale di Resistenza, nella quale trovano posto, accanto alla lotta armata delle formazioni partigiane operanti nelle zone di montagna e dei gruppi guerriglieri operanti nelle città – di cui gli autori ricostruiscono con precisione consistenza, organizzazione, azioni, dinamiche di collaborazione e conflitto tra bande di diverso orientamento politico – le molteplici “resistenze civili” che contribuirono alla sconfitta del nazifascismo.
Quella delle operaie e degli operai che con scioperi e atti di sabotaggio cercarono di inceppare e indebolire la macchina bellica del Terzo Reich e dei suoi alleati repubblichini; quella degli internati militari che preferirono la detenzione in condizioni disumane alla collaborazione con nazisti e fascisti; quella delle donne e degli uomini (contadini, commercianti, impiegati pubblici) impegnati a ostacolare con coraggio e creatività l'esercito occupante e le milizie e istituzioni fasciste.
Ne emerge l'immagine della Resistenza come di un'esperienza collettiva in cui una minoranza di antifascisti di lungo corso – caparbiamente sopravvissuti tra carcere, confino ed esilio – riuscì a coinvolgere nella lotta al nazifascismo strati sempre più ampi della popolazione. E in particolare riuscì a dare una prospettiva e un'organizzazione ai giovani che, indottrinati nel ventennio mussoliniano e mandati al macello nella Seconda Guerra Mondiale, dopo l'8 settembre passarono risolutamente all'opposizione antifascista.
Di grande interesse il capitolo dedicato alle “donne resistenti”. Sulla base degli studi di numerose storiche femministe – tra le quali va senz'altro ricordata Anna Bravo, da poco scomparsa – gli autori denunciano come nel dopoguerra “l'universo maschile (e maschilista) della resistenza armata abbia ridimensionato, stravolto ed escluso, fino quasi a tacerla, la presenza femminile”, e dimostrano il ruolo rilevante occupato dalle donne nella lotta al nazifascismo. Sia nelle formazioni combattenti in cui – contrariamente alla vulgata corrente – ricoprirono spesso posizioni di grande responsabilità. Sia nelle diverse forme di “resistenza civile”, come, ad esempio, negli scioperi che tra il marzo 1943 e la primavera del 1945 minarono alla base il consenso di cui fino ad allora il regime sembrava godere anche tra le classi popolari; nella mobilitazione a sostegno dei giovani renitenti alla leva, degli ebrei, degli internati e confinati politici, degli ex prigionieri alleati; nelle manifestazioni di piazza contro la guerra e il carovita. Dalle testimonianze di queste donne emerge con forza la rivendicazione del fatto che la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo avesse rappresentato per loro anche un atto di rivolta contro il ruolo di “angelo del focolare” in cui la Chiesa e il fascismo le avevano confinate. E l'amarezza per il fatto che i loro stessi compagni, a guerra finita, avessero tentato – più o meno consciamente – di costringerle ancora una volta in ruoli subalterni.
E gli anarchici?
Flores e Franzinelli citano – è vero – alcune luminose figure di libertari. Camillo Berneri, di cui ricordano la presenza determinante tra le fila degli antifascisti accorsi in Spagna a combattere il franchismo nel 1936; Gino Manetti, antifascista irriducibile, prelevato dal carcere delle Murate a Firenze e fucilato dai fascisti il 2 dicembre 1943; Italo Cristofoli “Aso”, comandante del battaglione Garibaldi “Carnia”, morto durante l'assalto a una caserma della milizia fascista a Sappada (Belluno) il 27 luglio 1944; Renato Perini, comandante della colonna Giustizia e Libertà fucilato dai tedeschi a Adelano di Zeri (Massa Carrara) il 21 gennaio 1945 insieme ai due figli, Giocondo e Emilio. Manca però una ricostruzione, sia pure sintetica, del ruolo complessivamente svolto dagli anarchici nella resistenza al fascismo. Eppure – come è ormai ampiamente documentato – questa presenza, soprattutto nelle zone di tradizionale radicamento del movimento libertario, è stata tutt'altro che marginale.

Ivan Bettini



Musica/
La banda, un laboratorio di uguali

Chiunque abbia vissuto a Milano tra la metà degli anni '80 e oggi non può non aver incontrato, almeno una volta, la “Banda degli Ottoni a Scoppio”, un collettivo di pittoreschi musicisti di ogni età che imbracciano gli strumenti in piazza come gesto di azione politica. Probabilmente li avrete visti a un corteo, un presidio, una commemorazione, magari un funerale, come quello di Dario Fo in piazza Duomo. Fo, infatti, era amico degli Ottoni, che furono ritratti in uno degli acquerelli da lui presentati alla cerimonia di consegna del Nobel, oltre a Franca Rame, Jannacci, Ivan Della Mea, Primo Moroni e il gastronomo Luigi Veronelli. Potreste aver visto la banda in tv, insieme a Giorgio Bracardi, oppure nel film Aprile di Nanni Moretti.
Oggi finalmente la storia di questo strano “esperimento sociale”, la banda che dà voce a chi non ce l'ha, viene narrata in un libro scritto da un membro del gruppo (Guido Tassinari, Ma in fondo, delle note, chissenefrega. Vita, romanzo e miracoli della Banda degli Ottoni a Scoppio, Meltemi, Sesto San Giovanni – Mi 2020, pp. 230, € 18,00), assemblando in coro le voci dei protagonisti, così da ricostruire un puzzle che è memoria collettiva e che, grazie al tono ironico quando non tragicomico, riesce a snocciolare, tra un sorriso e l'altro, anche profonde riflessioni sul contemporaneo.
“Quando ancora non c'erano i carri dei centri sociali, portare il motocarro con la banda in giro per la manifestazione fu un'idea fantastica”. E fu così che diventò prassi tra mille occasioni, legali e illegali, organizzate e improvvisate: una performance contro la guerra del Golfo, un alzabandiera contro la guerra in Serbia, raduni di bandisti (le cosiddette “sbandate”), lotte per la casa, cortei alla frontiera in sostegno dei migranti, presidi anti-sgombero, concerti fuori e dentro le carceri, per il Telefono Viola, gli operai, il G8 di Genova, i cortei NoTav, e poi ancora viaggi in Europa, spedizioni umanitarie a Cuba, in Palestina, a Sarajevo, fino alla creazione di “Unza!”, un'associazione per musicisti di strada stranieri prevalentemente di etnia rom.
La lista degli spazi occupati che hanno ospitato le prove degli Ottoni prima del ventennale sodalizio con la Cascina Torchiera include l'occupazione pre-Cox18 del cosiddetto “acquario” di porta Genova, Sqott di Viale Bligny, casa Gorizia, circolo Torricelli, Leoncavallo... Tutti sono stati contagiati dalla loro singolarità: “La Banda, un laboratorio di uguali. Esperimento collettivo, pluralismo, trasversalità, rendere divertente la noia politica.” E in molti hanno capito che la loro unicità risiede nella modalità, fuori dalle comuni concezioni di tempo e spazio, con cui l'impegno è profuso collettivamente: “Fu fondamentale, nel senso più stretto, l'esperienza di quel collettivo musicale e politico: le discussioni che mi aprivano la testa, il modo di suonare, libero e collettivo. [...] Suonare in banda non era suonare fine a se stesso, ma aderire a un modo di partecipare alla vita sociale. [...] Sono le stesse cose che faresti da solo ma che da solo non puoi fare: suoni e intorno ci sono gli altri, suonano con te, e il risultato diventa energia. Vai alla manifestazione e magari c'è un momento in cui la tensione si alza e la Banda passa avanti per evitare che tutto scoppi e tu ti trovi lì di fronte ai poliziotti, rabbia, paura, ma sempre gli altri intorno. [...] Quante volte, suonando stretti tra la polizia in guerra e giovani incazzati che cercavano lo scontro abbiamo fatto calare la tensione con interventi da clown”.

La Banda degli Ottoni a Scoppio durante la “Sbandata” (festa popolare della musica), 2003
foto di Danilo kiver Borrelli

La Banda degli Ottoni a Scoppio, manifestazione contro Expo 2015
foto di Danilo kiver Borrelli

La Banda degli Ottoni a Scoppio, la “Sbandata” del 2003
foto di Danilo kiver Borrelli

Una di queste volte, purtroppo, non ce l'hanno fatta e, nonostante il video che sembra scagionarli, due membri della Banda sono attualmente sotto processo per fatti accaduti il giorno della prima della Scala il 7 dicembre 2014, nel pieno della protesta contro Expo 2015. Chiunque sia interessato ad aggiornamenti sulla situazione può visitare www.ottoniascoppio.org, ma sicuramente l'acquisto di questo splendido libro è il modo più immediato per sostenerli a distanza, oltre che per rievocare delle storie che scopriremo essere un po' nostre, e per regalarci dei momenti di semplice poesia: “Scoprii lo spessore del collettivo politico del caos. Abbracciai la causa dei militanti del rintronamento. Partecipai al tribale lancio di vibrazioni scagliate nel petto della cittadinanza inerme. Feci mia l'ideologia rivoluzionaria dell'assolo alcolico. Camminai incordonato nelle fila della ribellione acustica. Risposi con colpi e colpi ad altro genere di colpi e colpi; che la pelle arrivasse a gridare. [...] La musica fatta insieme cambia la vita! Fraternità! Iconoclastia!”

Tobia D'Onofrio



Contro l'auto/
Recuperiamo il (nostro) tempo

Forse è bene cominciare dall'ingombro: al momento per il mondo circolano (o meglio, stanno soprattutto ferme al parcheggio) circa un miliardo e 300 milioni di automobili. Moltiplicando questo numero per l'area di un'auto di media grandezza, si ottiene una cifra spaventosa – più o meno il doppio dello spazio occupato dagli esseri umani. È solo uno dei dati che riporta Andrea Coccia nel suo breve e incisivo pamphlet Contro l'automobile (Eris, Torino 2020, pp. 64, € 6,00), il cui scopo iniziale è demistificare la retorica pubblicitaria sulle autovetture, con i suoi valori di “velocità, avventura, privilegio, libertà” – e con quelle immagini tutte uguali di auto che sfrecciano solitarie su strade ampie e sicure. “Insomma”, scrive l'autore, “ci hanno convinti che la nostra libertà e la nostra possibilità di essere felici siano legate a qualcosa che, in realtà, è più simile a una prigione che a un vettore di libertà”.
Naturalmente non si tratta solo di persuasione occulta: sarebbe una spiegazione troppo schematica e comunque non più applicabile alla situazione odierna, dove il dominio dell'auto si basa su decisioni politiche e urbanistiche di amplissimo raggio: il modo in cui abitiamo, mangiamo, condividiamo esperienze è ormai influenzato per intero da tale mezzo di trasporto. Che con la sua diffusione planetaria “passa dall'essere una rivoluzione, una comodità e quasi un lusso, all'essere una prigione, una condanna, una schiavitù. Se tutti si muovono, nessuno si muove.”
In effetti la realtà quotidiana è quella che ogni pendolare conosce: una rabbiosa colonna di autovetture che procedono lente (”la velocità media di una automobile in Italia in questo momento è 29 km/h, e non certo in città”), inquinando terribilmente, isolandoci e causando tremila morti al giorno. Il tutto con costi enormi in proporzione all'uso, sia per quanto riguarda l'acquisto che la manutenzione.
Come siamo finiti così? Coccia ricostruisce in poche pagine la “cospirazione della General Motors”, un grande piano d'assalto alla mobilità pubblica affinché sia sostituita dal traffico su gomma. A restare colpita innanzitutto è la rete ferroviaria, il che contiene “un dettaglio politico che ha uno sfondo inquietante e quasi militare. Marginalizzare e in molti casi smantellare il tessuto ferroviario significa anche smantellare un tessuto sociale e politico tra i più forti del Novecento. Colpire i ferrovieri, in particolare, che erano per lo più socialisti e anarchici, significa colpire al cuore un movimento, quello del sindacalismo anarchico che portava avanti istanze comunitariste, federaliste e autonomiste, esattamente opposte a quelle individualiste, nazionaliste e centraliste degli Stati Nazione, ovvero i principali finanziatori dell'industria automobilistica”. È appena il caso di ricordare che una delle figure più luminose e tragiche del movimento anarchico italiano fu proprio un ferroviere: Pino Pinelli.
In sintesi, annota Coccia, “l'automobile è il cuore pulsante del capitalismo”: dopo aver duramente colpito il trasporto collettivo e iniziato la sua escalation, contribuisce a polverizzare il tessuto sociale delle piccole e grandi città; e nell'odio istintivo di ogni guidatore per tutti gli altri – che lo ostacolano e lo rallentano – si riflette lo stile di pensiero individualista, per cui il cittadino è un concorrente o un nemico. Come accennato, inoltre, l'avvento dell'auto di massa ha pesantissime ricadute sull'abitare: “L'idea delle banlieue e delle cinture residenziali suburbane infatti non sarebbe mai stata possibile senza l'esistenza e l'accesso di massa all'automobile. I nuclei residenziali satelliti alle grandi città [...] senza l'auto non avrebbero il minimo senso.”
Nascono quei luoghi anonimi, a metà fra grande parcheggio e dormitorio, dove è estremamente difficile creare connessioni politiche – innanzitutto perché i luoghi di connessione umana su base quotidiana sono scomparsi. È qui che la battaglia all'automobile (che tende a divorare qualsiasi possibilità alternativa di movimento) diventa molto complessa.
Sono cresciuto e ho vissuto per molti anni in un posto del genere, a una ventina di chilometri da Milano, dove per svolgere gran parte delle attività l'auto era già indispensabile nei primi anni Novanta. Eppure l'ho visto anche peggiorare: l'aumento delle strade e dei parcheggi, i piccoli negozi soffocati, l'automatismo del recarsi ai centri commerciali, l'assurdità di prendere l'auto anche solo per fare cinquecento metri. Così il corto-circuito si alimenta senza fine.
Coccia peraltro è molto consapevole: “Un mondo in cui le auto sono poche è semplicemente impossibile”, scrive. “Fuori dalle grandi città la situazione è disperata. Il mondo è pieno di angoli pensati esclusivamente per le automobili”. Battere continuamente il tasto sull'iniziativa individuale rischia di deprimere più che alimentare le possibilità rivoluzionarie, perché pretendere molto da sé – benché importante – non basta per opporsi allo stato di cose globale. Come ha scritto Colin Ward nel suo magnifico Dopo l'automobile (elèuthera), nume ispiratore del libro di Coccia, “Il possesso di un'auto comporta troppi vantaggi per troppe persone perché si possa pensare di lanciare una campagna puramente politica per il suo abbandono. Non si può «disinventare» la macchina.”
E allora? Allora la ricetta è sempre la stessa: lavorare per un movimento sociale il più ampio possibile capace di confrontarsi col vero cuore del problema. A questo punto il saggio di Coccia si fa molto acuto, procedendo verso il suo scopo finale e militante: invece di combattere direttamente le automobili, combattiamole indirettamente recuperando il nostro tempo. Il tempo è la chiave: “lottiamo [...] per far diventare l'atto di spostarsi qualcosa che sia legato soltanto alla nostra scelta e non all'obbligo di presentarsi in un luogo di lavoro come se fosse una caserma dove firmare per la propria libertà vigilata. Pretendiamo il telelavoro ovunque sia possibile, ma non per starcene ognuno nella propria stanza davanti al proprio computer esasperando ancora di più quella solitudine esistenziale di cui l'auto è il simbolo semovente e su cui basa il suo dominio.”
Solo una chiosa: tale invito è quanto mai benvenuto, ma anche più facilmente realizzabile, per i vari professionisti del terziario; per chi lavora nel vasto campo della produzione o della manifattura – dai campi alle fabbriche – le cose sono assai più difficili. Ma sul loro bisogno di una mobilità sostenibile e comunitaria si gioca la parte più radicale della lotta.

Giorgio Fontana



Pippa Bacca/
Sogni di candore e di bellezza

Se si pensa al macellaio di guerra e al violatore dei diritti umani che negli ultimi dieci anni è diventato il rais turco Recep Tayyip Erdoğan, fa un certo effetto vederlo nel nuovo docu-film di Simone Manetti, Sono innamorato di Pippa Bacca (2019), quando nelle vesti di primo ministro manifestava pubblicamente il proprio cordoglio e la condanna per la violenza con cui era stata ammazzata Giuseppina Pasqualino di Marineo, in arte Pippa Bacca. E sempre dal nuovo lavoro di Manetti, sono un brivido lungo la schiena quelle sequenze iniziali che mostrano le immagini di un matrimonio girate proprio con la videocamera dell'artista milanese portata via dal suo assassino (sta scontando una pena di trent'anni).
Doveva arrivare in questi giorni nelle sale il lavoro del quarantunenne regista livornese, ma la serrata a cui è stata sottoposta tutta la cultura italiana per il virus Covid-19 ne ha procrastinato l'uscita a data da destinarsi.
Il film di Manetti giunge dopo che a Pippa Bacca, stuprata e uccisa nel marzo di dodici anni fa, sono stati dedicati i brani E se poi di Malika Ayane e Velo di sposa dei Radiodervish, due opere letterarie e un giardino recentemente inaugurato a Milano.
Sullo schermo viene ricostruita la vita dell'artista e il suo ultimo viaggio-performance fatto in abito da sposa per simboleggiare il matrimonio tra le genti. Ma il docu-film vuole essere pure un attestato di gratitudine verso un'artista sì bizzarra ma speciale, una visionaria che sognava un mondo-altro, eretto anche col contributo dell'arte e inondato di candore e bellezza.

Pippa Bacca

Nata a Milano nel 1974, nipote di Piero Manzoni (la madre è la sorella del noto creatore delle boîtes di cacca d'artista), l'8 marzo del 2008 Pippa Bacca, insieme a un'altra performer, Silvia Moro, partì dal capoluogo lombardo per dar vita al tour “Spose in viaggio”. Vestite da abito nuziale su delle scomodissime scarpe coi tacchi, Pippa e Silvia si proposero di percorrere in autostop circa seimila chilometri fino a Gerusalemme (“la città a cui salgono le tribù del Signore”) passando per le terre martoriate dalla guerra dell'ex-Jugoslavia, Bulgaria, Siria, Libano, Egitto, Giordania e Cisgiordania. Una performance-viaggio che voleva essere il lancio di un messaggio di pace o, come dichiarò alla partenza la stessa Pippa Bacca: “È un modo per affidarsi al prossimo, dimostrare che dando fiducia si riceve solo bene”.
Purtroppo accadde che, quando le due amiche si separarono prevedendo di ritrovarsi di nuovo insieme a Beirut, Pippa prese il passaggio sbagliato e il 31 marzo il suo corpo venne trovato senza vita in un bosco di Gebze, cittadina a una cinquantina di chilometri da Istanbul. Sulle testimonianze di Silvia Moro e di amici, sul ricordo della madre, delle quattro sorelle e sulle immagini girate con la videocamera dalla stessa artista, Simone Manetti riesce a riportare sullo schermo il coraggio, la purezza, la vita tutta che si è lasciata passare addosso la giovane donna.
Dal film – che chiede allo spettatore un occhio complice – è giovevole ritrovare la Pippa Bacca coraggiosa, perennemente in stato di grazia per indicare il viatico di un'arte sviante le convenzioni, fare di ogni suo atto creativo una scelta d'amore per qualcosa, per qualcuno.

Mimmo Mastrangelo



I media digitali e noi/
Una fame ossessiva di identità

La storia degli ultimi 40 anni ci ha lasciato in eredità un deserto sociale privo di punti di riferimento che ha impoverito e rimpicciolito il nostro mondo relazionale, condannandoci a un radicale isolamento narcisistico. Questo mondo, attraversato dal richiamo scomposto al godimento consumistico, è supportato e alimentato da un capitalismo digitale senza scrupoli che, sorvegliandoci, alimenta la nostra costitutiva instabilità per assicurarsi un'adeguata produzione di dati. Dati che, opportunamente analizzati, ci trasformano in target pubblicitari o elettorali da vendere al miglior offerente.
È questa la tesi di fondo del saggio del giornalista Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell'intelligenza collettiva nell'era del capitalismo della sorveglianza (Mimesis, Sesto San Giovanni – Mi 2020, pp. 144, € 10,00). È una tesi che riprende la critica, ormai nota da diversi anni, della grande utopia libertaria dell'intelligenza collettiva formulata negli anni Novanta del secolo scorso. La novità è che quell'utopia viene qui decostruita – con strumenti filosofici, sociologici e psicoanalitici – per problematizzare la relazione tra il piano di immanenza del capitale e l'enigma della macchinizzazione dell'umano.
L'idea che la digitalizzazione stesse per portarci verso un pensiero collettivo distribuito tra noi e le macchine, come riteneva Pierre Lévy insieme ad altri esponenti del partito del determinismo tecnologico, è oggi un nonsense di fronte a un medium digitale integrato infarcito di fake news, spionaggio, odio, cyberbullismo. Invece di liberarci dal messaggio allucinatorio dei mass media analogici, la digitalizzazione della comunicazione ha mostrato la nostra radicale fragilità e la nostra incapacità di elaborare, al contempo, una progettualità esistenziale personale e un pensiero di specie. Al posto di un'intelligenza collettiva ha preso corpo, senza che ce ne accorgessimo, un'inquietante intelligenza tecnico-algoritmica, nel senso di efficiente, che ora governa, sregolandolo sempre di più, il nostro rapporto malato con la vita e con l'ambiente.
Ciò nonostante, come fa notare Calzeroni riprendendo alcune tesi di Morozov, l'utopia tecno-razionalista “ritorna” puntualmente, con lo stesso entusiasmo del passato, quando, ad esempio, consideriamo la “liberazione digitale” e il protagonismo del singolo attivista armato di smartphone fattori strategicamente determinanti in un qualsiasi processo rivoluzionario, in Egitto come in Iran. Oppure quando, a casa nostra, ci affidiamo agli slogan del cyberpopulismo pentastellato in nome di una fantomatica cyberdemocrazia diretta senza più distinzione tra amministratori e amministrati. O ancora quando, come capita in certe letture sovversive dell'economia politica, poniamo aprioristicamente l'accento sul potere costituente del lavoro vivo immateriale, già di per sé orientato – se non ci fosse di mezzo lo zampino del capitale – a una razionale (nel senso di organizzata e organizzabile) cooperazione intersoggettiva.
L'errore, in questi casi, è dovuto a due sviste diverse. La prima è quella di considerare il “progresso” tecnologico come il vero motore della storia, senza minimamente tener conto della realtà dei conflitti sociali che lo intersecano. La seconda, riferita in particolare alla scuola di pensiero critico materialista in salsa post-operaista o accelerazionista, è quella di non riuscire a interpretare correttamente il sintomo che si rende evidente negli scambi comunicativi, ovvero il malessere del soggetto, la sua destabilizzazione.
L'essere umano contemporaneo è stato singolarizzato e scollegato dalla dimensione sociale che dovrebbe costituirlo al punto da diventare ingovernabile, chiuso in se stesso, preda di patologie narcisistiche che nascondono il suo bisogno di equilibrio. In termini psicoanalitici, l'autore ritiene che la realtà esterna sia diventata una terra arida e inospitale che impedisce all'individuo di trovare accesso all'altro e di elaborare, attraverso l'altro, un limite in grado di dare un senso erotico alla propria corporeità.
Il soggetto è oggi annegato nel suo delirio narcisistico e allo stesso tempo è costantemente bersagliato da un potere biopolitico che ha messo a nudo la propria carica iper-repressiva e autoritaria proprio per il fatto di non essere più in grado di penetrarlo e riprodurlo. Ne consegue che l'intelligenza algoritmica estrae valore dalle nostre vite in due modi contrapposti e paradossalmente complementari: da una parte le organizza in modo asfissiante quando siamo al lavoro, come ci ha mostrato Ken Loach nel film Sorry we missed you, dall'altra amplifica, sul lavoro e fuori dal lavoro, la nostra destabilizzazione interna, capitalizzando la nostra ricerca incessante e mortifera di oggetti e performance di godimento. Oppure amministrando la nostra fame ossessiva di identità, tesoro di ricchezza e fortuna per gli spin doctor della politica più reazionaria.
Dopo la pars destruens, l'autore suggerisce una possibile soluzione riprendendo il concetto di immaginario di Castoriadis, sospeso tra le potenze creative individuali e le forze sociali-storiche collettive: per uscire dall'incubo della desoggettivazione non resterebbe altro che tornare al centro propulsivo della nostra vita, la corporeità, cercando di rovesciare la virtualità dissipativa del nostro immaginario antisociale che tende a imbrigliarla nei modi sregolati offerti dal capitale. Occorrerebbe allora scendere in strada, creare occasioni di incontro e confronto, tornare nelle piazze, partecipare ad assemblee. E lì sperimentare nuovi modelli societari inclusivi che possano permetterci di avere cura, nel nostro essere elementi di un più vasto ecosistema, della nostra socializzazione e del nostro godimento.
“Le tecnologie di per sé non ci salveranno”, conclude Calzeroni. L'unica possibilità che abbiamo è quella di metterci in gioco, fisicamente, e nel gioco collettivo trovare nuovi ordini aperti e vitali in grado di arginare le forze entropiche dello sfruttamento.

Eugenia Lentini



Il mutuo appoggio/
Attualità di un'idea e di una prassi

La giornalista Rebecca Solnit, considerata in molti ambienti come l'erede di Susan Sontag, in un suo importante lavoro di storia dei disastri che hanno segnato la contemporanea vita di milioni di americani (del nord e del sud), così si esprime: «Mutuo appoggio si opponeva a un'intera visione del mondo [...] Kropotkin mise in dubbio le basi di questa visione del mondo [...] Kropotkin mostra in modo meraviglioso come la collaborazione e non la competizione possa essere fondamentale ai fini della sopravvivenza».
Nel libro Un paradiso all'inferno del 2009 questa acuta scrittrice ci dice che la storia dei disastri dimostra che per la maggior parte siamo animali sociali alla ricerca famelica di legami solidali. Nel sostenere questo, Solnit ci conduce dentro alcuni tragici accadimenti che hanno segnato drammaticamente la vita e la morte di milioni di persone per evidenziare come sia proprio questa forza straordinaria di mutuo aiuto, di solidarietà, di condivisione, di auto-organizzazione, in grado di sostenere concretamente la vita delle persone, molto di più e molto più efficacemente di ogni organizzazione formale e burocratizzata. E grande importanza la nostra scrittrice assegna proprio a questa idea di mutuo appoggio che Pëtr Kropotkin ha così ben sintetizzato nel suo importante e basilare libro, di cui esce proprio in questo periodo la prima traduzione italiana (a cura di Giacomo Borella) direttamente dalla lingua inglese (in cui era stato scritto): Pëtr Kropotkin, Il mutuo appoggio. Un fattore dell'evoluzione (Elèuthera, Milano 2020, pp. 392, € 20,00).
Perché è fondamentale, oggi più che mai, leggere e riflettere su questo scritto del grande rivoluzionario anarchico russo? Perché, a mio modo di vedere, in esso sono contenuti importanti considerazioni, significative intuizioni, e soprattutto tante tracce di possibili sviluppi organizzativi concreti e di prospettiva etica, quanto mai urgenti in questa tragica epoca.
Kropotkin pubblica una serie di articoli (tra il 1890 e il 1896) nella rivista inglese “Nineteeth Century”, per confutare le tesi sostenute dal biologo Thomas Huxley che trasponeva la teoria della lotta per l'esistenza di Darwin alla vita della società umana (il darwinismo sociale e l'eugenetica). Gli stessi articoli costituiranno poi gli otto capitoli del libro che sarà editato nel 1902, Mutual Aid. A Factor of Evolution (London).
Kropotkin, oltre ad aver dedicato la sua vita alla militanza politica anarchica, rappresenta la figura del savant (sapiente), un intellettuale che oggi diremmo in qualche modo olistico, in quanto volgeva lo sguardo alla realtà in modo multi, inter e trans-disciplinare: era infatti geografo, zoologo, antropologo, filosofo, biologo, sociologo, storico. Il suo tentativo è stato quello di descrivere, per valorizzarle in senso libertario, le pratiche di mutuo aiuto e di cooperazione presenti in tutti gli esseri viventi (dai microrganismi ai vegetali, dalle varie specie animali fino agli esseri umani). Sforzo titanico sicuramente, ma che intanto mette in evidenza come la conoscenza vera e profonda non possa risolversi nella specializzazione fine a se stessa ma si debba nutrire di una varietà di sguardi e di approcci, nel quadro di una fondamentale visione etica che si nutre anche di un metodo scientifico, mai però assolutizzato in direzione autoritaria e divinizzata. Una conoscenza che proprio perché autenticamente scientifica cerca conferme continue nella realtà senza piegare la stessa ai propri dogmi aprioristici o rispondere a interessi specifici e spesso corrotti.
Un secondo insegnamento che possiamo trarre da queste pagine è che la rappresentazione che il dominio ci continua a imporre (che si nutre della massima secondo cui a prevalere è la legge del più forte e che la competizione è il fattore principale del progresso), viene smentita in modo evidente da uno sguardo obliquo rispetto a quello del Potere. Kropotkin capovolge questa visione del mondo che ha reso tossico il nostro pianeta e i nostri rapporti sociali, a favore della valorizzazione di pratiche di auto-organizzazione e di mutuo appoggio che rappresentano l'unica vera e possibile alternativa. Questo aspetto si rivela particolarmente importante oggi, ma rappresenta anche la base su cui ricostruire nuove forme di socialità e nuove configurazioni organizzative. Solo una vera sperimentazione di altri modi di vivere può sminuire la rappresentazione autoritaria delle relazioni umane, solo l'esempio può smontare un immaginario deleterio e avvilente e far trionfare la nostra scelta etica.
Un altro elemento significativo che giustifica la lettura e l'approfondimento di questo libro è rappresentato dalla sua portata generale e complessa che gli è oggi riconosciuta da diversi studiosi in molteplici ambiti disciplinari. Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale di fama internazionale, riconosce proprio nel pensiero di Kropotkin ciò che è oggi più che mai utile per comprendere il mondo vegetale, la sua straordinaria varietà, il suo significato per la vita di ogni essere vivente. Osservando la miriade di relazioni che governano i sistemi naturali noi troviamo proprio il mutuo appoggio come fondamento della interazione tra le varie piante.
Questa prospettiva, oltreché ecologica ante-litteram, è anche priva di quell'antropocentrismo che concorre a determinare le catastrofi e i disastri a cui assistiamo impotenti. Primatologi della fama di Frans de Waal e biologi evoluzionisti come Stephen Jay Gould hanno messo in evidenza come tra gli esseri animali (uomo compreso) lo stile cooperativo che conduceva al mutuo aiuto, non solo predominava in generale, ma caratterizzava le creature più avanzate di ogni gruppo: le formiche tra gli insetti, i mammiferi fra i vertebrati. Il mutuo aiuto diventava perciò un principio più importante della competizione e della strage per ogni società che si potesse sostenere. Riconoscendo il loro debito nei confronti di Kropotkin questi studiosi hanno argomentato, con ulteriori ricerche, quanto la lotta per l'esistenza non sia tanto del singolo individuo contro tutti gli altri ma dell'insieme degli organismi contro un ambiente ostile. Piante, animali, e persino microrganismi come le cellule eucariote (come ha dimostrato Lynn Margulis) fondano la loro esistenza e la loro vita evolutiva sul mutuo appoggio (simbiosi).
Questi, e molti altri, contributi che provengono da studiosi diversi non fanno che confermare che quanto sostenuto da Kropotkin è vero. Ma ciò che maggiormente ci interessa è l'aspetto etico che emerge da tutta questa teoria evolutiva. Vale a dire che, leggendo il corso dello sviluppo storico, possiamo trovare tra gli esseri umani utili insegnamenti per progettare e soprattutto sperimentare un altro modo di vivere. I contributi antropologici che hanno voluto cercare esempi di un'organizzazione sociale basata su fondamenti libertari sono diversi e interessanti ed è qui impossibile ricordarli. Il mutuo appoggio allora diventa non solo un modo per soddisfare le esigenze della vita (integralmente intesa) molto più appropriato della competizione e della guerra ma, a mio modo di vedere, anche il fine verso cui tendere nell'immaginare una società diversa.
L'insegnamento che possiamo trarre dal punto di vista complessivo è dunque molto significativo, soprattutto oggi, in questa epoca tragica e pericolosa, il monito che si evidenzia nelle pagine di questo testo può essere utile riferimento per le nostre azioni qui e ora. Parole di saggezza e al contempo di incitamento all'azione libertaria sono più volte espresse nel corso del libro: «A meno che gli uomini non siano resi folli sui campi di battaglia, essi non possono sentir chiedere aiuto e non rispondere [...] Tutte queste associazioni, società, confraternite, unioni, istituti, e così via, che oggi si contano a decine di migliaia nella sola Europa, ognuna delle quali rappresenta una quantità immensa di lavoro volontario, disinteressato, gratuito o poco pagato, che cosa sono se non altrettante manifestazioni, in un'infinita varietà di forme, della stessa tendenza sempre viva nell'uomo verso l'aiuto reciproco e il mutuo appoggio?» (pp. 321-325).
Una prospettiva, questa, indicataci in queste pagine, che possiamo fare nostra e trasformare in un nuovo stimolo all'azione tenendo conto (anche) delle riflessioni sui grandi temi che vengono affrontati e che qui sono stati solo parzialmente enunciati. Trovare le risposte organizzative autonome secondo un modello antiautoritario è il modo più efficace per rendere inutile la presenza dello Stato.

Francesco Codello



Memoria anarchica/
Quella fiaccola empolese

Empoli, città metropolitana di Firenze, 49.871 abitanti. Una delle tante città toscane, siano esse capoluogo di provincia o meno, che costituiscono parte importante di una regione – la Toscana, appunto – in cui la presenza delle idee e delle attività anarchiche affonda le proprie origini agli inizi della storia del movimento socialista, operaio e contadino. Una storia di un secolo e mezzo, che dalle origini della Prima Internazionale (Rimini, 1872) arriva ai giorni nostri, senza soluzione di continuità rispecchiando le grandi vicende nazionali (la nascita dei sindacati, la prima guerra mondiale, il fascismo e la multiforme opposizione, la Resistenza, il secondo dopoguerra, la strategia della tensione, il terrorismo, ecc.) sempre con una forte connotazione locale, con un radicamento e una passionalità particolari.
Va dato grande merito all'amico fraterno e militante anarchico Paolo Becherini (Empoli, 1956) di aver pubblicato, a proprie spese, con la curatela della figlia Emma, questo librone (La fiaccola dell'anarchia, Edizioni autogestite, Empoli 2019, pp. 512, € 20,00) ricchissimo di foto, manifesti, volti, manifestazioni. La vita militante di Paolo è la ragione e il collante di queste pagine, che pur strettamente legate appunto all'impegno militante di un singolo, non indulgono ad alcun autoreferenziale personalismo, ma si proiettano sul territorio, ad Empoli innanzitutto, ma anche in tante cittadine e borghi circostanti delle campagne e colline circostanti, tra l'Arno e l'Arbia, verso Firenze, Siena, Prato, Pistoia. Una bella terra, che tante volte percorsi negli anni '70 quando quasi in ogni paese c'era almeno un compagno, a volte un piccolo collettivo, un gruppetto anarchico, un collettivo di donne.
Tanta gente, complessivamente, tipi del '68 e anni immediatamente successivi, parte di quella generazione – come me – affacciatasi in quegli anni all'impegno politico. Ma in questa calda terra toscana, con forti analogie con altre regioni del Centro Italia (Umbria, Marche, Emilia Romagna) l'antica e profonda tradizione del movimento socialista e libertario, contadino e operaio, offriva la presenza meravigliosa di (ancora) tante anarchiche e anarchici, libertari che nelle iniziative pubbliche indossavano il fiocco alla Lavaliere, si vestivano bene, amavano l'opera.
Il libro del nostro Paolo per me, che negli anni '70 più volte partecipai nella sede anarchica empolese a riunioni dei Gruppi Anarchici Toscani, ma anche ad Empoli andai con mio suocero Alfonso Failla a trovare Oberdan Degli Innocenti – chi non lo conosceva in quel pezzo di Toscana libertaria? – è un vero e proprio tuffo nella memoria. Ma anche per chi più giovane non ha simili ricordi da Mesozoico, è un quaderno di appunti freschi e densi di storia umana e politica vissuta fino in fondo, nelle lotte per l'autogestione, le occupazioni, la diffusione della stampa, il dibattito sulla violenza, le conferenze e tante altre iniziative di cui Paolo è stato (e rimane) allegro e inossidabile punto di riferimento.
Procuratevelo questo librone, bell'esempio di quanto tante altre compagne e compagni della nostra generazione, dopo decenni di presenza militante, potrebbero fare. Ma quasi nessuna/o di noi l'ha fatto e ancora una volta val la pena citare quanto Gaetano Salvemini disse ad Armando Borghi, per invitarlo a scrivere la propria autobiografia (cosa che poi Borghi fece e in più di un libro). “Se non la scrivete voi anarchici la vostra storia, chi altro potrebbe farlo?”
Il gigantesco patrimonio di umanità, relazioni, attività, contatti, tipi di persone che Paolo ha incrociato nel sua perdurante militanza anarchica ci viene incontro attraverso la sua scrittura, semplice, chiara, a tratti romantica come lo conosco da mezzo secolo.
Il libro è acquistabile sul sito www.etsy.com.

Paolo Finzi



Libertà e potere/
I corpi al centro

Il libro di Arianna Sforzini Michel Foucault. Un pensiero del corpo (Ombre Corte, Verona 2019, pp. 138, € 13,00) focalizza una delle costanti analizzate da Foucault: il corpo, tanto centrale quanto sottovalutato dai commentatori della sua opera, come lamenta l'autrice. Un testo sintetico e ricco di rimandi, efficace nello scandire gli sviluppi delle elaborazioni del filosofo, storicizzati in maniera tanto minuziosa da evidenziarne gli aspetti attuali. Le riflessioni e le battaglie sociali di oggi attorno al genere; l'ingerenza di una bioetica che, attenendosi alla metafisica e alla centralità dell'anima, sancisce paradigmi che eludono il libero arbitrio, proprio laddove soltanto ogni singola persona dovrebbe poter scegliere... perché dare centralità al corpo significa comprendere quanto, per ogni potere, esso funga da pretesto per instaurare verità ipocrite e arroganti.
“Nulla è più materiale, nulla è più fisico, più corporeo dell'esercizio del potere” (M. Foucault in Microfisica del potere).
Corporeità saccheggiate, sottomesse, schiavizzate, segregate, ingannate, recluse, represse, svilite a tal punto da essere enumerate come “casi” per studi statistici, o annullate d'individualità e massificate tanto da apparire incorporee. Scrive Sforzini: “La filosofia di Foucault è uno straordinario gioco eterotopico attraverso la storia, il teatro dei corpi. Per Foucault, la realtà ha senso solo a partire dalla scena dei corpi che, realizzando i diversi giochi di verità, li imita, li caricaturizza, li trasfigura e li contesta”. In questa teatralità emerge la volontà di opposizione e mutamento: un'insubordinazione che produce scandalo all'autoritarismo simbolico e lo smentisce. E la trasformazione può impersonare l'utopia, perché dal corpo si dipana il movimento, il linguaggio, l'energia, il pensiero, il trucco, il desiderio di essere altro, o altrove, per inoltrarsi in una progettualità che, sottraendosi ai paradigmi, falsifica i regimi di verità.
Ecco che l'approccio di Foucault, risolvendo il dualismo anima/corpo, pone sul piano della contestazione anche quello di psiche/corpo, senza cadere nell'ambiguità del binomio mente/cervello. La mente è energia, immaginazione: i corpi si appropriano di una scena che spiazza gli artifici disciplinari. Foucault si sofferma sulle isteriche, ricoverate da Charcot alla Salpêtrière di Parigi a fine '800, che fecero fallire le declinazioni misogine (l'isteria sarebbe stata causata da un'alterazione dell'utero) proprio grazie alle loro doti di simulazione.
Così le streghe: catalizzarono sui loro corpi l'opposizione all'espansione del potere ecclesiastico che, non a caso, si servì anch'esso di costrutti misogini e crudeli applicando torture per estorcere confessioni con epiloghi processuali platealmente invasivi. Altro esempio: le possedute, attrici di una rappresentazione fisiologica atta a rendere visibile la scacciata del “male” tramite una gestualità diretta da un esorcismo maschile. E fra questi corpi femminili in rivolta, come ben evidenzia Sforzini, “la strega è un soggetto di diritto” in quanto sceglie e rivendica quell'estraneità codificata al patto con il diavolo, mentre l'ossessa si adegua ad un esame penitenziale in vista di una reintegrazione nella comunità teologica, pur in conseguenza ad una potente riluttanza che induce alla ripetizione dei riti di liberazione dal maligno.
Aspetti diversi di donne resistenti: caparbietà, impulsi inconfessabili e inammissibili per una morale religiosa che troverà continuità nella medicina alienista, cioè nei nuovi regimi di verità che si concentreranno sul sistema nervoso e sulle “anomalie” dell'apparato riproduttivo, senza mai togliere del tutto al clero il potere di interpretare le convulsioni come effetto di un male diabolico penetrato nelle viscere della peccatrice. Il corpo è “bersaglio e rivelatore privilegiato: tutti i rapporti di potere si esercitano su, attraverso e per mezzo dei corpi. Il corpo è un operatore fondamentale per definire le tecniche di governo e di dominazione. Le relazioni di potere assumono consistenza e circolano attraverso di lui” sottolinea l'autrice; più la costrizione è oggetto di una verità non riconosciuta, più la resilienza è rottura drammatica e drammatizzata.
I regimi di verità ora invadono altre formulazioni disciplinari attraverso linguaggi mediati dalla virtualità tecnologica, emozioni schermate da teatralità scomposte come navigassero fra l'appagamento e la sospensione. Da quando poi abbiamo conosciuto la segregazione per proteggerci dal contagio del Covid-19, le analisi sul corpo potrebbero richiedere una prospettiva di trasformazione storica inquietante opponendo la necessità alla libertà? Visioni distopiche che aprono nuove riflessioni...

Chiara Gazzola



Con le maschere di Dalì/
Banalizzazione della resistenza?

Da poco, come molti, mi sono imbattuta nella serie TV La casa di carta (La casa de papel di Álex Pina), che sta avendo enorme successo e a cui si fanno incessanti riferimenti soprattutto per l'iconografia. Il caso de La casa de papel è peculiare: si tratta di una piccola produzione spagnola per la tv, trasmessa nel 2017 con un successo non eccezionale che andava calando durante la seconda serie. Venne invece notata e poi comprata da Netflix e senza bisogno di grande pubblicità è diventata un fenomeno mondiale.
Il successo credo sia legato alla capacità di inserire una specie di favola in un contesto realistico e attuale: un gruppo di aspiranti eroi deve superare una serie di prove per raggiungere il proprio obiettivo. In questo caso gli eroi sono dei disoccupati senza futuro che si trasformano in un gruppo di moderni Robin Hood decidendo di rapinare niente di meno che lo Stato e prendendo in giro in modo spudorato le forze dell'ordine. Infatti il piano studiato nei dettagli e in cui veniamo subito coinvolti prevede di non rubare a nessuno bensì di assaltare la Zecca di Stato e stampare i propri soldi. Il riferimento immediato è alla crisi spagnola del 2008 e alle successive “iniezioni di liquidità” dello Stato e della BCE alle banche: perché lo Stato interviene per salvare i pesci grossi invece che pensare a quelli piccoli?

Una scena de La casa di carta

Il piano è geniale e tutti i trucchi e gli escamotage organizzati dal “professore”, la mente della rapina, ci mantengono incollati allo schermo sul quale sfilano personaggi che risultano subito simpatici alla maggior parte della platea: non solo iniziamo a condividere i loro obiettivi, ma si prova grande empatia anche perché rappresentano un gran numero di minoranze e vari tipi di carattere con i quali lo spettatore è portato ad identificarsi.
Intanto i personaggi hanno un'età tra i 20 e i 50 anni, e formano un gruppo coeso che permette alla maggior parte di noi di pensare che siano nostri coetanei. Gli amori che nascono tra i protagonisti sono la parte più scontata della trama, ma ci stanno anche quelli visto che grazie all'amore avvengono addirittura due cambi di fazione, persone che una volta innamorate si innamorano anche dei valori portati avanti dalla banda.
Infatti fa parte del piano anche conquistare l'opinione pubblica: averla dalla propria parte sarà una potente arma contro la polizia e le forze dello Stato, spesso messe alle strette dalla denuncia pubblica di metodi non proprio democratici per cercare di fermarli. E sarà anche un grosso aiuto nel momento della fuga.
L'egregio lavoro del direttore artistico ha poi scelto di identificare i rapinatori con un simbolo molto estetico e riconoscibile: una tuta da lavoro rossa e una maschera di Dalí, che hanno contribuito a consacrare la serie al successo. In realtà questa trovata era già presente nell'immaginario collettivo grazie alla maschera di V per Vendetta. La trovata geniale del “professore” è di farle indossare ai numerosi ostaggi trasformandoli in involontari complici, visto che in quel modo la polizia non poteva più riconoscere i membri della banda dalle persone da salvare.
I colpi portati a termine hanno bisogno di tempo per funzionare: una volta asserragliati nell'edificio quindi devono resistere più tempo possibile per preparare il bottino e creare la via di fuga. Per questo motivo, dopo aver fermato i primi tentativi della polizia di entrare, iniziano a parlare di Resistenza. Oltre al simbolo delle tute rosse che caratterizza la serie e riesce a bucare lo schermo, la banda si identifica anche con una canzone che viene intonata più e più volte nella serie: Bella Ciao, come simbolo della Resistenza. Usato forse a sproposito, l'inno dei partigiani italiani risuona nelle tv del mondo. Senza chiari riferimenti storici, Bella Ciao diventa la colonna sonora di chi lotta contro un'ingiustizia.
Ognuno ha fatto propria l'immagine della Resistenza verso un sistema ingiusto e corrotto. E di un piccolo gruppo di eroi mascherati che riesce a vincere con l'intelligenza (e un grande armamentario che spera di non dover usare).
Non so fino a che punto sia positiva la banalizzazione del concetto di Resistenza e la celebrazione del conflitto con le istituzioni non tanto per un ideale quanto per ottenere dei soldi... D'altra parte alcuni spunti che offre la serie possono essere interessanti, in quanto salta la classica divisione tra il bene e il male, e c'è un'ingenuità di fondo di voler mettere in pratica una grande impresa senza che ci rimetta nessuno. È condivisibile anche il modo in cui si parla di femminismo nella serie, così come la già accennata inclusione sociale dei protagonisti che provengono da famiglie disastrate o sfortunate che vogliono solo migliorare la loro situazione.
Per aumentare poi la possibilità di identificazione con i protagonisti si aggiungono alla banda un argentino, un colombiano, un francese e un'ambientazione tutta italiana, con tanto di canzoni di Tozzi e Battiato cantate da un coro di monaci che fanno anche scadere la scelta di Bella Ciao a puro intrattenimento per i telespettatori. Per assicurarsi un tripudio di consensi tra i monaci scopriamo niente di meno che il calciatore Neymar. La produzione è ancora in corso, visto che manca almeno la quinta serie, conclusione della seconda rapina, e anche se il regista è lo stesso possiamo affermare che la vendibilità del prodotto ha avuto decisamente il sopravvento su una bella idea di favola moderna.

Valeria Giacomoni