Rivista Anarchica Online





Tolstòj e l'anarchismo/
Un terreno comune

Lev Nikolàevi Tolstòj è stato uno straordinario scrittore di romanzi e racconti. Ma è stato anche un formidabile polemista e un saggista infaticabile. Due terzi dei novanta volumi dell'edizione russa delle sue opere sono infatti occupati da scritti non letterari. Si tratta in gran parte di diari e di saggi di carattere filosofico e religioso, che documentano la sua instancabile e tormentata ricerca intorno al senso e alla direzione da imprimere alla propria vita.
Vi sono però anche numerose lettere aperte, articoli e pamphlet di natura “militante”, nei quali egli affronta quelli che considera i problemi fondamentali del proprio tempo: il militarismo, il nazionalismo, il colonialismo, le disuguaglianze sociali, la perdita di una relazione profonda e simpatetica con l'ambiente naturale e gli animali non umani, l'educazione popolare, la pena di morte e la tortura.
Nel mare magnum degli scritti tolstojani, Francesco Codello ha pescato alcune perle preziose e le ha raccolte in questa piccola antologia (Lev Tolstòj, Il rifiuto di obbedire, Elèuthera, Milano 2019, pp. 192, € 16,00), con l'intento di sprigionare e rimettere in circolazione la loro dirompente carica libertaria.
Tolstòj ha sempre rifiutato di essere definito “anarchico”. Preferiva infatti essere considerato, semplicemente, “un cristiano”. Ciononostante, il terreno comune tra Tolstòj e l'anarchismo “classico” è davvero molto vasto. Egli critica lo Stato e la proprietà privata. Smaschera il ruolo ideologico e repressivo delle istituzioni scolastiche e religiose. Rifiuta la retorica della patria e il nazionalismo. Contesta il socialismo di stato e ogni concezione “sviluppista” e produttivista dell'economia. Si oppone alla concezione antropocentrica della natura e allo sfruttamento degli animali non umani. Per questo, molti pensatori e militanti anarchici – da Kropotkin a Landauer – hanno riconosciuto in Tolstòj un maestro e un compagno. Altri, come Malatesta, pur apprezzandone il messaggio antistatalista e antimilitarista, hanno invece ritenuto che il cristianesimo di Tolstòj e la sua teoria della “non resistenza al male” fossero di ostacolo al processo di trasformazione rivoluzionaria della società.
L'anarchismo cristiano – o come sarebbe più corretto dire, il cristianesimo anarchico – di Tolstòj è in effetti integralmente religioso, e dunque radicalmente “impolitico”, nel senso di estraneo e avverso alla politica. Tolstòj fa appello alla coscienza del singolo individuo, a cui chiede di accogliere la legge dell'amore universale che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo, e di rifiutare la propria obbedienza alle autorità e alle leggi terrene, che sono di inciampo nell'adempimento della volontà divina, e quindi vanno distrutte e spazzate via. Questa ispirazione religiosa è, al contempo, la forza e il limite del pensiero di Tolstòj. La sua forza, perché è grazie ad essa che nella sua critica al potere – a tutti i poteri – ritroviamo una radicalità, un furore e un'urgenza che ricordano quelli degli antichi profeti d'Israele. Il suo limite, perché – come è caratteristico del pensiero religioso – Tolstòj sembra riporre la propria speranza di trasformazione della società nella sommatoria delle “conversioni” individuali. Sottovaluta invece l'importanza di costruire un progetto collettivo di emancipazione, e quindi la necessità di ricercare e sperimentare – con la fatica e la pazienza che questo richiede – un metodo di azione politica e sociale alternativo sia al parlamentarismo (che Tolstòj rifiuta in quanto “dittatura mascherata”) che alla violenza rivoluzionaria (che egli condanna in quanto contraria al “Vangelo dell'amore”).
È questa la differenza tra la non resistenza al male di Tolstòj e la nonviolenza attiva di Gandhi, Capitini e Luther King. Tolstoj ha predicato e dato l'esempio, vivendo in coerenza con i propri ideali. Gandhi, Capitini e Luther King hanno cercato senza sosta gli strumenti e le tecniche per far diventare la nonviolenza una strategia di conduzione dei conflitti non solo eticamente coerente con il fine della costruzione di una società di liberi e eguali ma anche politicamente e socialmente efficace.
Per essere nonviolenti (o almeno tentare di esserlo) non basta astenersi dalla violenza. Occorre unirsi agli altri per combattere attivamente la violenza in tutte le sue forme.

Ivan Bettini



Viaggiando con Corto Maltese/
Né Itaca, né Penelope

«È la nostra utopia. Quella delle cose che non finiscono mai, dei sogni che si ostinano a ritornare, dei fantasmi che non si disperdono, dei ricordi che non si cancellano, delle immagini che si rincorrono, dei brividi che non si dimenticano. È l'utopia degli ideali che non si piegano agli avvenimenti. Che non si consumano col tempo. Che trovano sempre qualcuno convinto a farli propri». Parole di Destinazione utopia, (Elèuthera, 1988) racconto del viaggio verso l'orizzonte di un impossibile possibile di tre grandi ribelli del fumetto, Corto Maltese, Mister No e Ken Parker, scritto da tre grandi fumettari, Luigi Bernardi, Luca Boschi e Graziano Frediani. L'utopia come legame fra futuro e passato, memoria e scelta nel presente: il filo giusto per seguire le nuove avventure del personaggio di Hugo Pratt che Juan Diaz Canales e Rubén Pellejero continuano a far vivere, oggi con Il Giorno di Tarowean (Rizzoli Lizard, Roma 2019, pp. 96, € 20,00).
Cultura celtica letta con spirito mediterraneo e mistica ebraica, cuore da marinaio e lo sfacciato orgoglio di chi si traccia una linea della fortuna col rasoio, Corto Maltese vive sulla propria pelle di eroe di carta il significato di utopia che davano i tre autori.
«Questa nave non fa scalo a Malta.»
«Lo so.»
«Dove andrai quando sbarcherai? »
«Chi lo sa? Dovunque, tranne che a Itaca», così si parlavano Corto e la sua isola in Equatoria. Sembra sia nato il 10 luglio 1887 ma Corto è sempre stato vago sull'età, forse perché non invecchia mai o ha il gusto della balla delle bettole di porto: di sicuro c'è che dai dieci anni in poi, non è più tornato a La Valletta. Ciò che si considera casa è in fondo una scelta. Venezia anche se impigrisce, la Bahia di Bocca dorata, l'appartamento di Hong Kong da cui Rasputin portò via un Gauguin? A volte è solo un indirizzo sul passaporto, come l'isola di Antigua. Il fatto è che per Corto non c'è un'Itaca, forse perché non c'è una Penelope da cui tornare.
L'orizzonte della sua vita è il mare e i porti non sono che tappe di una sconfinata caccia al tesoro che attraversa la Storia, con l'amico-nemico Rasputin o con un avventuriero come Levi Colombia. La barra gliela dà l'etica dei gentiluomini di fortuna, goffamente spacciata per cinismo: lui, che ha un mazzo con cinque assi, se prende a pugni uno schiavista, si affretta a precisare che si tratta di un baro.
Fare le cose solo perché è proprio piacere farle, avrebbe chiosato il guerrigliero dancalo Cush. Testimone di guerre e rivoluzioni, il Maltese sceglie una parte da solo, mai in nome di una fede: può nascondere un disertore russo come Rasputin, sostenere la guerra di corsa tedesca col Monaco e pochi anni dopo aiutare gli alleati smascherando spie imperiali. È nella pratica che i suoi doveri di eroe dei fumetti vengono rispettati, rispondendo ad un personale senso della giustizia o dell'amicizia: caccia assieme agli uomini leopardo per vendicare un ufficiale tedesco tradito da un camerata e libera un giovane principino arabo solo perché c'è in gioco la pelle di amici come Cush ed El Oxford.
Dalle sue azioni prendono però corpo le scelte di altri personaggi che si confrontano con la Storia: Corto, che dovrebbe limitarsi a consegnare ai cagançeiros le armi di Bocca dorata, indica a Tiro fisso e poi al giovane Corisco come raccogliere l'eredità del Comandante Redentore perché la lotta contro il Colonello, simbolo dello sfruttamento, è eterna. Corto apre la strada alle rivoluzioni, magari condividendo con il piccolo Partito repubblicano del Montenegro l'oro del vecchio re che transfughi di tutte le patrie hanno portato via dal fronte della Grande guerra. La sua etica gli permette anche di riconoscere l'onore delle armi a certi nemici: Enver Bey morto all'assalto solitario di un battaglione di armeni affamati di vendetta e il Barone Ungern von Stanberg, salutato senza disprezzo mentre guida la sua cavalleria asiatica alla guerra santa.
Non a caso, perdiamo le tracce del marinaio quando volge al tramonto l'epoca dei gentiluomini di fortuna e inizia il Novecento della guerra totale, del grande capitale e dei totalitarismi. Ad Escondida ha lasciato che i papua e i kanakas riconsiderassero la fedeltà data al Monaco, partendo quando si profilava la nuova dominazione britannica e quindi dei potenti armatori Groovesnore. Ha vendicato i militanti dello Sinn Feinn, lasciando l'amata Banshee a scoprire la guerra civile che sarebbe scoppiata nel 1921 e ha detto addio ad un altro dei suoi amori impossibili, Shangai Lil, quando la rivoluzione bolscevica era un sogno di emancipazione proletaria e non terrore.
Partenze che hanno un sapore amaro e anche Corto, personaggio concreto e umano, soffre. Nel 1923 torna in Argentina, quasi vent'anni dopo le scorribande in Patagonia con la banda di Butch Cassidy e Sundance Kid, per ritrovare quella Louise Brooksowic che lo aveva nascosto a Venezia. Un'avventura in cui ponte fra passato e presente è il dolore. La delusione per gli amici che lo ritengono causa della catena di omicidi innestatasi a Buenos Aires o che invece sono realmente coinvolti, proprio come Butch, perché hanno scambiato la sicurezza personale con il tradimento degli ideali di libertà di un tempo. Perché cercare Louise, allora? Un'altra Penelope è morta, lasciando una bambina che si sospetta possa essere del marinaio.
Corto ha poi cercato una fuga viaggiando fra il continente leggendario di Mu e la Svizzera e forse ha anche trovato il segreto dell'eterna giovinezza. Sarebbe però una condanna dover continuare a sentire il fardello della tristezza provata di fronte alla tomba di Louise in Argentina: magari è proprio per questo che ha sognato un'ultima avventura nella Spagna rivoluzionaria, prima di ritrovarsi vecchio e stanco, come il Long John Silver di Bjorn Larsson, proprio nella casa di quella Pandora Groovesnore che fu una prima sognata Penelope.
Se questa storia malinconica non dovesse piacergli più, Corto potrebbe fare come i veneziani stanchi delle autorità costituite e recarsi, la notte fra il 24 e il 25 aprile, alla Calle dell'Amor degli amici o al Ponte delle maravegie o in Calle dei marrani ed entrare in nuove storie.
Le sue però finirebbero o inizierebbero sempre allo stesso modo. Alla vigilia di Ognissanti, o meglio di Tarowean, del 1913, legato ad una zattera costruita da marinai dell'isola di Sant'Eugenio che pretendono di vendicarsi di un mancato matrimonio. E se il pericolo della morte non fosse sufficiente, magari essere salvato da un siberiano, figlio di una sarta o di una ballerina del Bolshoi, cresciuto sparando ai cani, che non desidera altro che un amico ma che non ha problemi a sbatterlo nelle caldaie della nave.

Jacopo Frey



L'importanza dell'obiezione/
Contro tutti i fondamentalismi

Tre storie che si incrociano e si confrontano, tre persone con formazione, percorsi e appartenenze differenti che entrano in dialogo e si confrontano su temi, parole, dimensioni con le quali tutti noi abbiamo a che fare, nel nostro camminare la vita.
Così è costruito questo libro, Una vocazione controcorrente. Dialogo sulla spiritualità e sulla dignità degli ultimi (Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 172, € 18,00) dove don Virginio Colmegna, prete della Casa della Carità di Milano, prende spunto dalla ricorrenza dei suoi 50 anni di sacerdozio non per commemorare se stesso ma per rimettersi in dialogo e in discussione. Sceglie come compagni di viaggio, in questo impasto di vita e pensieri, Enrico Finzi, “ebreo, non credente e di estrema sinistra”, come lui stesso si definisce, e suor Chiara Francesca Lacchini, da trent'anni monaca clarissa cappuccina.
A dire la verità, quando ho letto il titolo e la quarta di copertina ho subito storto un po' il naso. La parola “vocazione” mi ha sempre un po' disturbato; parola utilizzata e abusata dal mondo religioso ed ecclesiastico per indicare la “specialità” di vita dei suoi “funzionari”, dei suoi “prescelti” che, con questa chiamata divina, si assurgono a funzionari sacri della Verità.
Superato, non senza difficoltà, questo primo disagio, anche grazie alle parole più allettanti che accompagnano il titolo (controcorrente, dialogo, spiritualità, dignità) ho cominciato ad addentrarmi nel testo, e più andavo avanti nella lettura, più mi accorgevo che il disagio si scioglieva, facendo spazio invece alla “semplice” preziosità di questo scambio e dialogo serrato e intenso fra queste tre voci.
Con le loro diversità, le loro passioni e i loro diversi sguardi, trattavano i vari temi affrontati arricchendoli e impreziosendoli, facendo emergere, non tanto la verità di ognuno ma semmai l'urgenza di andare “controcorrente” e vivere da “obiettori”. Emerge la ricerca e la costruzione di un terreno comune di non rassegnazione e di umanità, nel quale intrecciare, nella convivialità, le diversità e la “bellezza” di vita, di parole, di pensieri e di lotta di ognuno.
Don Virginio Colmegna scrive nell'introduzione: “Ecco perché questo libro è diventato via via il memoriale di una scelta, quella di vivere da “obiettori” in un paese e in un mondo attraversati da una crisi che rischia di far vincere sentimenti di indifferenza e di rancore, di sdoganare intolleranze, xenofobia e razzismo (...) con questo nostro dialogo vorrei che si aprissero brecce per non omologarci alla rassegnazione.”
Credo che il confronto e lo scambio fra queste tre persone diverse, ma accomunate dalla passione permanente per la vita, abbiano raggiunto questo scopo e questo obiettivo.
In questi tempi di chiusura, di ottusità, di fascismi striscianti e patenti, di linguaggio becero e di istigazione alla paura non penso proprio sia cosa di poco conto.
L'invito forte che ci viene dalla lettura di questo dialogo è la necessità di costruire, o ricostruire, le nostre città e le nostre esperienze collettive come “comunità del dubbio” (come veniva chiamata la cattedra dei non credenti pensata e voluta dal card. Martini a Milano); dove il dubbio e quindi, in altre parole, la ricerca, la domanda, il confronto, lo scambio, la passione possano tornare ad abitare il nostro vivere civile, politico, sociale, religioso e possano diventare l'elemento intorno al quale gli uomini e le donne, i viventi tutti si re-incontrino e tornino a restituirsi dignità e spinte di liberazione.
Comunità umane di resistenza e ri-esistenza dove davvero la parola e il pensiero, la storia di ognuno conti e valga, si impreziosisca nell'incrocio e nell'incontro con quella dell'altro. Dove nessuno possieda la verità, né il corpo, né la parola, né la terra. Dove la relazione fondi le nostre plurime identità, dove il credente e il non credente che è in noi convivano, si parlino e dialoghino.
Questo intreccio di parole e di pensieri che si snodano nel libro ci parlano di questo, ci invitano e ci spingono a riconoscere il dovere fondamentale di ognuno di noi a porci in ascolto della realtà e della storia, a leggere dentro gli avvenimenti per scorgervi una sapienza più grande. Questo è il più grande antidoto e la più profonda obiezione di coscienza culturale e concreta ai tanti fondamentalismi che abitano le nostre relazioni e nostre comunità: fondamentalismi religiosi e identitari, di appartenenza politica e sociale, fondamentalismi relazionali, dove l'unica cosa che conta è difendere il proprio lavoro, i propri confini, il proprio bene.

Alex Santoro
prete



Potere, stato e diritto/
Alcuni saggi sul pensiero anarchico

Nell'ultimo scorcio del 2019 sono apparse due interessanti raccolte di saggi sul pensiero anarchico, che presentano al pubblico interventi proposti in alcuni convegni organizzati negli scorsi anni presso istituzioni accademiche italiane.
Il primo volume, intitolato Diritto e potere nel pensiero anarchico e curato da Paola Chiarella (2019, pp. 238, € 27,00), è apparso nella collana del Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia dell'Università di Catanzaro edito dalla Cedam. Si presenta come una raccolta (parziale) di Atti di Convegni sul pensiero anarchico e libertario organizzati nell'arco di un triennio all'interno del Dottorato di ricerca in Teoria del diritto e ordine giuridico ed economico europeo attivo nell'ateneo calabro. Il volume contiene saggi di Pietro Adamo su William Godwin, Daniela Andreatta su Pierre-Joseph Proudhon, Alberto Scerbo su Carlo Pisacane, Massimo La Torre su Michail Bakunin, Marco Cossutta su Errico Malatesta, ai quali si aggiungono, oltre alle riflessioni di Luciano Nicolini sul pensiero antropologico di Pierre Clastres, quelle di Saul Newman intorno ad anarchismo e legge e di Ruth Kinna su Paul Goodman (quest'ultime in lingua inglese).
La raccolta offre al lettore una buona panoramica sul pensiero anarchico classico (anche in assenza delle riflessioni su Kropotkin proposte in quelle occasioni da Giampietro Berti), corredata da un appartato di note che dà conto della più recente letteratura italiana e straniera in materia, nonché delle principali questioni politico-giuridiche affrontate dall'anarchismo nel suo sviluppo storico.
Purtroppo, come già osservato, la curatrice non ha potuto raccogliere nel volume tutti i contributi presentati durante i seminari catanzaresi (fra i quali si segnalano gli interventi di Ferruccio Andolfi, Adriano Ballarini, Enrico Ferri, Salvo Vaccaro); alcuni di questi sono reperibili sulle colonne della rivista elettronica “Tigor. Rivista di scienze della comunicazione e argomentazione giuridica” pubblicata dalle Edizioni dell'Università di Trieste e consultabile sul sito www.openstarts.units.it
Proprio la rivista in questione pubblica sul suo secondo fascicolo del 2019 gli Atti del Convengo di Studi su “Stato e Anarchia” organizzato nel maggio dello scorso anno dall'Associazione Philosophicum Ghisleri a Pavia. Del Convegno pavese vengono proposte le relazioni di Marina Lalatta Costerbosa, Sull'anarchismo come teoria critica, di Giorgio Sacchetti, L'immaginario anarchico in età contemporanea, di Laura Anita Zavatta, Lo Stato di diritto e la morte dello Stato in Nietzsche e di Marco Cossutta, Anarchismo versus liberalismo. Note su alcune pagine di Michail Bakunin, integrate da una nota introduttiva di Lisa Bin. Le relazioni di Pietro Adamo su Lo Stato, lo stato moderno e l'anarchismo e di Gianfranco Ragona su Anarchici e marxisti nella prima internazionale troveranno ospitalità sul primo fascicolo del 2020.

Marco Cossutta



Piemonte/
Memorie antifasciste (e anarchiche)

È uscito Aldo Garino, Perché raccontassimo. Memorie partigiane di un antieroe (Edizioni Seb27, Torino 2019, pp. 308, € 18,00), il testo delle memorie partigiane di Aldo Garino, figlio del più noto Maurizio, esponente di primo piano dei consigli operai torinesi all'epoca delle occupazioni delle fabbriche, curato dalla figlia Laura e da Andrea D'Arrigo, dell'Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea in Piemonte.
Aldo, cresciuto in una famiglia di saldi valori antifascisti, durante la resistenza si proclama comunista libertario, anche se nel dopoguerra (escludendo alcune lezioni tenute alla risorta Scuola Moderna) non frequenterà più il movimento. È un giovane studente in medicina quando, sin dagli esordi, decide di prendere parte alla lotta partigiana, unendosi a una banda di Giustizia e Libertà (GL) in Val Pellice (dove la famiglia era solita andare in villeggiatura e dove si trovava sfollata dopo l'8 settembre). Ed è proprio il padre Maurizio che lo accompagna in montagna condividendone in pieno la scelta. La sua partecipazione alla resistenza nelle valli valdesi terminerà a causa di un pesante rastrellamento che lo isolerà dai compagni, obbligandolo a rientrare in città.
Dopo un breve periodo Aldo decide di riprendere nuovamente la via della montagna, questa volta con i garibaldini delle Valli di Lanzo. In quest'occasione il tramite sarà lo zio Antonio (fratello di Maurizio, redattore e stampatore del foglio anarchico clandestino Era Nuova, oltre che di documenti falsi) che svolgeva opera di collegamento e reclutamento per i partigiani della zona.
A causa di un altro pesante rastrellamento, Aldo ritorna nuovamente a Torino, nascondendosi (era in età di leva e quindi renitente) all'interno della Samma, la cooperativa di operai modellisti di cui il padre era presidente e socio fondatore.
In seguito a una perquisizione all'interno dell'azienda, padre e figlio sono tratti in arresto dai fascisti e rinchiusi alle carceri Nuove, dove saranno liberati dopo un breve periodo di reclusione. I dirigenti della cooperativa erano riusciti a dimostrare che il giovane Aldo era indispensabile alla produzione (mandando dei tecnici addirittura in carcere per sottoporgli disegni e progetti di cui non capiva nulla).
Il libro descrive le vicende partigiane del protagonista (che concluderà la sua partecipazione alla lotta armata, nella SAP di Settimo Torinese fino alla liberazione) senza prosopopea e senza retorica. Con linguaggio semplice, ma di piacevole lettura, racconta le asprezze (il freddo, la fame, i parassiti, ecc.) della guerra partigiana, senza protagonismo ma da antieroe, come recita il sottotitolo, riflettendo anche sulla pietas nei confronti del nemico vinto, su cui non si sarebbe dovuto infierire.
È una storia che ci parla di resistenza ma anche di anarchismo, sia per la forte tradizione familiare, sia per alcune vicende interconnesse come, ad esempio, l'arrivo alle Nuove dove vengono ricevuti dall'anarchico Michele Guasco, anche lui detenuto, che immediatamente li inserisce nell'ambiente dei prigionieri politici antifascisti.
Aldo decide di scrivere queste pagine per dar voce ai tanti giovani partigiani morti, che non avrebbero più potuto parlare, “morti così, innocenti, perché noi udissimo, perché raccontassimo”.
Queste memorie costituiscono un altro piccolo tassello che aiuta a riscoprire e a ricomporre la storia della resistenza sconosciuta, quella degli anarchici.

Tobia Imperato



Anarchismo, popoli indigeni, decolonizzazione/
Questioni aperte

Quando ho letto per la prima volta Anarchici d'oltremare. Anarchismo, indigenismo, decolonizzazione (Carlos Taibo, Zero in Condotta, Milano 2019, pp. 240 € 15,00) sono rimasto positivamente colpito. La narrazione è coinvolgente, scorrevole, ma densa di contenuti e di spunti di riflessione. Quando gli ho ridato un'occhiata veloce prima di scrivere queste righe, ho iniziato a sentirmi a disagio. E non a causa della qualità dei contenuti del libro, ma del soggetto al quale sono diretti questi contenuti. Sarà una ricaduta di quel narcisismo di massa in cui siamo quotidianamente immersi, ma mi sono sentito coinvolto nella critica presente in Anarchici d'oltremare: una di quelle critiche pacate ma ferme, una di quelle critiche che fanno fare quella smorfia come a dire «mi tocca ammetterlo, un po' hai ragione». Scrivo quindi queste righe sotto l'effetto di questa sensazione, che ora cerco di spiegare.
Anarchici d'oltremare è uno studio che si muove tra la storia e l'antropologia (Carlos Taibo insegna scienze politiche presso l'Università Autonoma di Madrid) e si concentra sui rapporti tra anarchismo e pratiche libertarie indigene tra il 1870 e il 1930. L'accezione in cui questi termini vengono usati è fondamentale per capire la prospettiva del libro. Per anarchismo Taibo intende quella corrente politica contraddistinta da uno specifico corpus di idee che nasce in Europa nell'Ottocento e che in seguito si è diffusa nel resto del mondo, talvolta meticciandosi e dando vita a quelli che lo studioso chiama «anarchismi ibridi». In questo senso, Taibo contesta la tesi di Süreyya Evren, il quale accusa di eurocentrismo chi colloca la nascita dell'idea anarchica nel Vecchio continente, sostenendo l'esistenza di varie espressioni anarchiche, nate in autonomia e parallelamente all'anarchismo europeo. «Pratiche libertarie» è un'espressione che indica quelle pratiche indigene che, pur nella loro disomogeneità, sono (o sono state) all'insegna della libertà, dell'autogestione e dell'autonomia. Il termine «anarchismi d'oltremare», infine, indica gli anarchici fuori dall'Europa, includendo anche coloro che «attraversarono mari e oceani per portare la buona novella anarchica in luoghi quasi sempre lontani».
Taibo individua due modelli di diffusione delle idee dell'anarchismo. Il primo vede l'attività di propaganda di lavoratori, perlopiù uomini provenienti dall'Europa, che diffondono l'anarchismo negli altri continenti. Il secondo, invece, riguarda i casi del Giappone, della Corea, della Cina, del Vietnam e delle Filippine, dove le idee anarchiche vengono portate da operai e studenti, solitamente maschi, che avevano per diversi motivi vissuto per qualche tempo in Europa prima di tornare nei rispettivi paesi d'origine. Le idee seguono dunque le rotte dei grandi movimenti di persone che solcano il mondo tra l'Ottocento e il Novecento. In tutto ciò, Taibo sottolinea il ruolo fondamentale dei libri e delle riviste, degli atenei libertari, delle biblioteche autogestite e dei teatri sociali, ruolo che tra l'altro spiega a suo parere l'influenza delle idee stesse dell'anarchismo su molte letterature, soprattutto dell'America latina. Invita inoltre a studiare con maggiore attenzione i porti come snodi di idee e di persone (ancora una volta, non solo quelli europei come Amburgo o Marsiglia, ma anche Tokyo, L'Avana, Shanghai, Buenos Aires e via dicendo)
In questa grande circolazione di idee e di persone, gli anarchici si incontrarono con le popolazioni vittime del colonialismo europeo. Veniamo così al cuore del libro. Specialmente con studi antropologici alla mano (Clastres, Sahlins, ecc.), Taibo mostra come i popoli indigeni abbiano messo in atto, da ben prima dell'arrivo degli europei, pratiche libertarie. Certo, all'autore non sfugge che frequentemente da queste «pratiche libertarie dei popoli indigeni» erano escluse le donne, relegate e sottomesse. A Taibo non sfugge però nemmeno l'atteggiamento degli anarchici europei che giungevano in quelle terre. Pur schierandosi spesso, quasi istintivamente, al fianco dei popoli indigeni, il pensiero anarchico tra il 1870 e il 1930 non produsse un serio e approfondito discorso anticoloniale. Pur talvolta apprezzando il carattere libertario di alcune pratiche indigene, queste venivano ritenute il prodotto di un tempo oramai passato.
Ciò poteva accadere, sostiene Taibo, a causa della visione eurocentrica di cui anche gli anarchici erano permeati. In altri termini, l'anarchismo come corrente ideale è uno dei prodotti della modernità che, per quanto critico nei suoi confronti, a lungo non ha potuto non muoversi nel suo perimetro culturale. Taibo sembra contraddistinguere la modernità per la sua capacità di imposizione di gerarchie (sociali, di genere, economiche, politiche), per il suo senso di superiorità sfociante nella violenza, per la sua attitudine aggressiva e dominatrice nei confronti della natura, per la sua fiducia nella scienza, nella tecnologia, nel progresso, per un universalismo che estende al globo criteri in realtà forgiati nel contesto europeo. Per come ho capito l'argomentazione di Taibo, la modernità – cerco di spiegarmi usando una metafora – appare quindi come un paio di occhiali: indossandoli inconsapevolmente (e paradossalmente, poiché l'anarchismo nasce anche come critica a tale modernità, ricordiamolo), l'anarchico europeo non riusciva a riconoscere le pratiche libertarie dei popoli indigeni, il loro valore per il presente.
Pertanto, Taibo afferma che è giunto il momento per l'anarchismo di decolonizzarsi, o meglio, di proseguire quella riflessione su se stesso che alcune sue parti stanno portando avanti da alcuni anni, per potersi emancipare definitivamente dai detriti eurocentrici e patriarcali che ancora albergano al suo interno. Non solo, lo studioso auspica che l'anarchismo stesso tragga alimento dai movimenti sociali del Sud del mondo (un capitolo a questo proposito è dedicato al Chiapas e al Rojava), trovi la capacità di meticciarsi per sfociare in un «anarcoindigenismo». Decolonizzazione quindi, ma anche femminismo e critica del patriarcato, essenziali per le pratiche indigene stesse (o almeno per alcune). La formula finale proposta dal libro è pertanto: anarchismo + indigenismo + femminismo = anarc@indigenismo.
Ho trovato il libro davvero stimolante per la sua visione globale, per la sua capacità di far dialogare storia e antropologia e per il suo sforzo di allargare metodologicamente i confini verso il quale il nostro sguardo si spinge. La lettura di Anarchici d'oltremare stimola, benevolmente ma con decisione, a riconoscere quell'eurocentrismo che si annida nel nostro sguardo, nei nostri “occhiali” di anarchici europei che indossiamo quotidianamente, quando agiamo nel reale e quando facciamo ricerca. Non sono d'accordo proprio su tutto-tutto di quanto sostenuto da Anarchici d'oltremare. Alcune tesi di Taibo, a mio parere, non sono sufficientemente argomentate, ma il nocciolo del messaggio di questo volume mi sembra importante e meritevole di un dibattito e di una riflessione ben più ampia, preparata e approfondita di quanto possono offrire queste righe.
Quella di Taibo alla tradizione del pensiero anarchico rimane comunque una critica sempre ponderata, cauta, che non disconosce il valore di quella tradizione, che non aspira mai alla tabula rasa. Si legge infatti nelle ultime pagine di Anarchici d'oltremare: «l'esistenza di una comunità di idee, di sentimenti e di pratiche non ci obbliga a concludere che tutto ciò che viene dal Nord – mi si conceda l'utilizzo di questa metafora – è perverso e tutto ciò che arriva dal Sud è, al contrario, salutare. Una simile assunzione non può essere accompagnata, tuttavia, da una dimenticanza: dato che l'aggressione arrivò dal Nord, è necessario che quello stesso Nord si faccia carico dei suoi debiti e abbandoni le sue brame di superiorità».

David Bernardini



Beatles/
Sfumature d'ingegneria sociale

«Cosa invece spingeva a quelle scene di follia e pianti a dirotto e svenimenti, tipiche della Beatlemania, per i tecnici cerebrali? È il sistema nervoso involontario, quello del gran simpatico e del parasimpatico, azionati dall'ipotalamo. Il primo è per l'azione, per il movimento, una sorta di upper per il corpo umano. E il secondo è un downer, rilassa. E così le ragazze, rilassate dal poter vedere i loro beniamini, rilasciavano lacrime, grazie all'acetilcolina, un neurotrasmettitore che attiva i ricettori parasimpatici del cervello. Ad altre ragazze, quelle più sensibili, l'attivazione del sistema parasimpatico comportava cambiamenti più profondi, con un abbassamento subitaneo della pressione causato dalla distensione dei vasi sanguigni e dal rallentamento del battito cardiaco, e da questi arrivavano gli svenimenti di massa.»
L'ennesimo libro sui Beatles? Non proprio. Come dichiarato dal sottotitolo, il volume di Luca Majer (Beatlemania! 1029 giorni di controllata follia, Turtle Edizioni, Farneta – Ar 2020, pp. 125, € 12,00) non si occupa della storia del più famoso gruppo musicale di tutti i tempi, ma dell'apparente “follia” che per tre anni – dal 1963 al 1966 – la band suscitò prima nel Regno Unito e poi in gran parte dell'occidente industrializzato, con effetti subordinati un po' in tutto il pianeta. E lo fa da una prospettiva a dir poco insolita, ovvero con lo sguardo di chi ritiene quel colossale fenomeno sociale come rispondente a un passaggio storico con pochissimi margini di spontaneità, in totale controtendenza con l'idea dominante di un forsennato fanatismo generazionale dovuto a un misto di caso, genialità e interessi commerciali.
L'autore, va precisato, non è tra quanti considerano la discografia dei quattro un caposaldo della cultura del ‘900, e a volte si mostra sin troppo critico nei confronti dei ragazzi di Liverpool, non riconoscendo l'enorme potere evocativo che quelle canzoni conservano a oltre mezzo secolo di distanza e addirittura qualificandoli (p. 62) come “piccolo-borghesi”, epiteto marxista-leninista che sta veramente stretto alle piuttosto umili origini dei giovinotti. Ma non si confonda Majer con la vulgata tardo-stalinista: anche se la breve e criptica nota biografica riportata in quarta di copertina non consente di individuare le coordinate culturali sulle quali si muove il saggista, le variegate citazioni (da Bertrand Russell a Joe Bageant, con un occhio di riguardo per Jacques Ellul, quello di Propaganda e di Anarchia e cristianesimo) e le scarne e contraddittorie notizie presenti in rete indicano una disposizione da analista delle strutture di potere (tecnico ed economico, innanzitutto) di uno che qualcosa pare saperne. Per una scelta di cui non è chiarissimo il motivo, le tesi fondamentali che andrebbero a spiegare il Fenomeno giovanile per eccellenza si scoprono solo gradualmente nel corso del libro e vengono espresse chiaramente quasi in fondo (p. 92) quando viene finalmente spiegato che quella proposta è «un'analisi che [...] mi fa concludere che molto probabilmente la Beatlemania fu un'operazione con imponenti sfumature d'ingegneria sociale».
La strutturazione di tale analisi si dipana nel corso dello scritto – attraverso un'eclettica scrittura della quale si è riportato esempio in apertura – tra eventi storici apparentemente poco collegati tra loro e che invece, a uno sguardo ravvicinato, dimostrano inquietanti punti di connessione. Lo sviluppo della Tecnica durante e dopo la Seconda guerra mondiale, il subentrare della superpotenza Usa nel controllo della società occidentale, i programmi di sviluppo di un «progressivo, raffinato lavoro della psicologia applicata al business – la più devastante invenzione di tutto il XX secolo», l'opera di smantellamento delle strutture sociali tradizionali e della figura dell'adulto come guida della famiglia, il lancio dell'iconografia della star giovanile di cui Elvis Presley fu ineludibile atto fondativo ma della quale i Beatles costituirono (attraverso l'abbandono dell'estetica machista sostituita da una accattivante femminilizzazione) la compiuta espressione, sono solo una parte del rutilante racconto di Majer.
Ci si ritrova a vorticare tra scandali farciti di ministri clienti di prostitute minorenni, servizi segreti internazionali, omicidi e suicidi più o meno sospetti, il tutto pilotato per favorire l'ascesa di un governo laburista più adatto all'incalzante ristrutturazione dell'assetto del Dominio internazionale. A parte qualche eccessiva ma veniale insistenza sulle questioni economiche, l'autore centra una serie di punti cruciali – la fondazione dell'appendice della Cia denominata Propaganda Assets Inventory nel 1947 e la sua influenza nello sviluppo di nuove forme artistiche, l'elaborazione delle tecniche di controllo della psicologia di massa delle quali l'apparato comunicativo costituiva un settore essenziale, la formulazione delle strategie di Mindwars e delle PsyOps e così via – in un caleidoscopio di presenze degli apparati informativi in eventi opachi e segreti di stato ancora in vigore a più di cinquanta anni dallo “Scandalo Profumo”, a dimostrare quanto sia ingenua l'immagine di un Sistema anglo-americano sostanzialmente diverso da quello del Belpaese.
Un agile testo da affrontare senza fretta di arrivare alla fine, in quanto pieno di roba della quale, vi garantisco, non avevate idea alcuna.

Giuseppe Aiello



Rotta alpina/
A piedi (quasi) nudi nella neve

Lasciate ogni speranza, o voi che vi accingete a leggere l'ultimo romanzo-inchiesta di Maurizio Pagliassotti, uscito da pochi mesi per i tipi di Bollati Boringhieri e già arrivato alla terza ristampa (Ancora dodici chilometri, Bollati Boringhieri editore, Torino 2019, pp. 218, € 16,00).
Fatica letteraria ma anche fisica, dato che l'autore lo ha scritto passando giorni e notti sul campo; e quando il campo è la “rotta alpina”, si capisce facilmente che la fatica non dev'essere stata poca. Perché in quei dodici chilometri si concentrano il meglio e il peggio del nostro quotidiano: i decreti sicurezza e i NoTav, la solidarietà e la miseria del pensiero, i novelli sottotenenti Drogo e i camionisti dell'Est, la pasta al sugo e le dita congelate, l'ipotermia e il calore umano, buoni e buonisti e cattivi e cattivisti.
Tutti insieme dentro una tragedia contemporanea e globale, che nel Belpaese ha assunto proporzioni da catastrofe epocale (sui media e nelle chiacchiere da bar, più che nei numeri. Ma tant'è).
Andiamo con ordine. I migranti sono ormai da molti anni il tema dominante della politica nostrana, con tutto ciò che – nel bene e soprattutto nel male – ne consegue.
Tra un incendio in Australia, l'epidemia globale di turno, una minaccia di terza guerra mondiale, queste donne uomini e bambini che si muovono in masse scomposte verso il pasciuto Occidente (più gonfio, a dire il vero, che grasso) rappresentano lo spauracchio quotidiano dei maleinformati, dei faziosi e dei leghisti. Ma anche la preoccupazione, seria e fondata, di tanti altri. Perché la difficoltà dell'accoglienza, l'educazione alla diversità, la necessità di predisporre terreni fertili da un punto di vista umano, culturale e anche economico, non sono temi da bar e non vanno confusi con i pregiudizi.
Parlarne (seriamente) non è facile, non solo perché, qualunque sia la nostra posizione al riguardo, lo facciamo la maggior parte delle volte seduti in poltrona. Ma anche quelli di noi, tanti, che qualche azione concreta, piccola o grande che sia, la fanno, anche quelli possiedono un paio di scarpe buone e a casa hanno un termosifone. E qui tuttavia aprirei una parentesi su una riflessione che, personalmente, ho trovato illuminante, che riguarda appunto il buonismo. Così screditato, preso in giro, denigrato a destra e ahimè soprattutto a manca.
Per Pagliassotti i buonisti sono importanti; anzi, fondamentali. Forse perché sono molti di più dei veri “buoni”. Di eroi ne nasce uno ogni, mentre un piccolo o grande buonista si nasconde dentro moltissimi di noi. In francese il termine equivalente è “les justes”, i giusti, che rende molto meglio il concetto. Che ci si ispiri a un alto ideale di uguaglianza e umanità, o che si debba semplicemente dar da bere qualcosa di sano alla propria coscienza, smettiamola di svendere la bontà ai nemici. I giusti rispondono a un'etica personale che sarà pure ridotta, smarcata dal bene supremo, a volte umorale e volatile, ma spesso le loro (nostre) piccole azioni fanno la differenza. A volte salvano addirittura vite umane, pensate un po'.
Cito al proposito un altro autore, Paolo Nori, che intervistato da un giornalista su argomenti quali potere ed eroismo, cita a sua volta il Viaggio sentimentale di Vitor Slovskij: “Se invece di cercare di fare la storia, cercassimo semplicemente di essere responsabili per i singoli eventi che la compongono, forse non ci renderemmo ridicoli. Non la storia si deve fare, ma una biografia”. Al giornalista che, provocatoriamente, gli domanda se non trovi questa affermazione un po' “buonista”, Nori risponde che il potere significa, molto semplicemente, “quello che uno è capace di fare. E si può essere molto potenti anche senza avere nessun ruolo preciso dentro un organigramma”.
Tornando al nostro libro, vi troverete di fronte, se deciderete di leggerlo, ad una moltitudine di personaggi e situazioni che daranno filo da torcere ai vostri luoghi comuni. Ad esempio: le guardie di frontiera. Lo sappiamo, certamente, noi che viviamo vicino a ValTav, lo sappiamo bene che non sono proprio il massimo della cordialità. E però voglio vedere voi, a fare quel mestiere. Provateci, poi vediamo se siete ancora simpatici.
A guardia del nulla, ore e giorni e notti di noia infinita, incatenati alla logica perversa che li governa dall'alto, bombardandoli di pregiudizio e burocrazia, contribuendo non poco a disumanizzarli. E in più con quei disgraziati che magari te la fanno sotto il naso, che quello che sta alla guida è bianco, è del tuo colore, è vestito normale e c'ha la moglie imbronciata seduta vicina, vuoi non farlo passare di là? E invece, ecco, è capace che arrivato in terra francese, quello apre il baule e ne fa saltare fuori uno nero come la pece, accartocciato e intirizzito, ma pronto a rimettersi seduta stante in viaggio verso la vita.
E poi: la gratitudine. Per la gratitudine, nelle vicende che Maurizio narra, lo spazio è molto ridotto. Questo è davvero difficile da mandare giù. Certo sulla gratuità del dono esistono fior fior di saggi scritti e studi, lo sappiamo tutti che il dono vero non prevede un ritorno, lo hanno detto in tanti, da Zarathustra al papa, sìssì, ma prova un po' tu a salvare una vita, rischiando sulla tua pelle, nascondendo in casa un clandestino, cedendogli il letto, nutrendolo per settimane, mantenendolo col tuo stipendio da precario.
Poi quello parte e non ti dice nemmeno grazie.
E ancora: gli autisti dell'est. Migranti su gomma, nomadi del trasporto, figli anche loro di terre che hanno faticato ad accoglierli. Il ritratto che Pagliassotti fa di questi uomini (che questo non è “mestiere da donne”, salvo eccezioni) è scevro di giudizi. Danno passaggi, nascondono nei telai, raccattano vite. Spesso le salvano. Lo fanno per soldi? Probabile. Biasimateli, se sentite di averne il diritto.
Ma loro, i protagonisti, i migranti? Dove stanno, loro, in questa storia? Loro stanno dentro le loro storie, che stavolta non sono fatte di barconi che affondano e capitane che salvano, ma di naufragi nel ghiaccio e approdi di fortuna. Di fughe estenuanti e a volte rocambolesche da una terra che li respinge ad un'altra che chissà. Stanno dentro gli scarponi che qualcuno gli procura, nelle dita congelate che qualcun altro riscalda e cura, nelle arance di Rosarno che altri ancora gli regalano.
Le loro storie sono crudeli e soffici come la neve delle nostre montagne. Sono, soprattutto, la fotografia di un'umanità pronta a tutto, determinata e ostinata. E sono invincibili; gente che niente e nessuno riuscirà mai a fermare. Né una frontiera, né un politicante, né un aspirante dittatore. Lasciate ogni speranza, appunto, se questo è ciò che speravate.
Un'ultima cosa: anche Maurizio Pagliassotti – diamogliene atto, se lo merita – è invincibile, poiché è ancora vivo e vegeto nonostante i suoi primi due libri Chi comanda a Torino (2012, Castelvecchi editore) e Sistema Torino, sistema Italia (2014, Castelvecchi editore).
Forse nemmeno il Potere è più quello di una volta. O forse Salvini non ha ancora scovato il suo citofono.

Claudia Ceretto



Pena di morte/
Opporsi è un dovere etico

Il diritto di opporsi (di Destin Daniel Cretton, 2019) è la storia di un giovane avvocato afroamericano, laureato ad Harvard, che sceglie di dedicare la propria carriera alla difesa di uomini poveri, di colore, ingiustamente accusati e condannati a morte: sceglie la strada di quello che, alla fine degli anni Ottanta in Alabama, poteva essere definito a tutti gli effetti un suicidio, anche sociale.
Bryan Stevenson, questo è il suo nome, si oppone allo status quo, alla facile e brillante carriera che lo attendeva nel Nord America e anche a sua madre che, profondamente preoccupata, gli fa pesare questa sua scelta, e si trasferisce in Alabama, dove fonda un'organizzazione, la Equal Justice Initiative. Bryan seleziona i suoi primi clienti e si accorge che molti di loro non hanno avuto diritto ad un'adeguata difesa: molti, non avendo soldi per pagare le parcelle, erano rappresentati da avvocati d'ufficio che non investivano alcuna risorsa nella loro difesa e non rappresentavano in alcun modo i loro diritti.
In questo punto il film si mostra già profondamente attuale perché ancora oggi, nel 2020, molte persone povere entrano in carcere con pene molto brevi, irrisorie – parlo addirittura di pochi mesi – che quindi dovrebbero essere scontate in misura alternativa, come previsto dalla legge. Sembra delinearsi una terribile equivalenza: miseria = minori diritti e ridotte possibilità di vederli rispettati. In questo punto il film si mostra già profondamente attuale perché ancora oggi, nel 2020, molte persone povere entrano in carcere con pene molto brevi, irrisorie – parlo addirittura di pochi mesi – che quindi dovrebbero essere scontate in misura alternativa, come previsto dalla legge.
Forse, aveva ragione George Orwell ne La fattoria degli animali quando scriveva: “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni lo sono più di altri.”
Ma torniamo a Bryan, tra i diversi casi che segue spiccano quello di Herbert, ex soldato afroamericano, che ancora profondamente provato dagli effetti della guerra, ha piazzato una bomba in un contesto residenziale e ha ucciso una ragazza; e quello di Walter, un taglialegna afroamericano accusato di aver ucciso una giovane donna bianca.
Poco dopo aver affidato l'incarico a Bryan, purtroppo Herbert riceverà la notifica che fissa la data della sua esecuzione. Herbert, in questo film, incarna la paura di morire, da cui nemmeno i criminali condannati a morte sono esenti: la notte prima della sua esecuzione Herbert piange, non riesce a respirare e cerca di dare un senso a ciò che sta per accadere in un breve dialogo con Walter, suo vicino di cella:
“Una ragazza è morta per colpa mia, me lo merito.”
“Questo non dà il diritto di uccidere te.”
Ecco un altro punto nodale che mette in evidenza la logica della giustizia retributiva, basata sulla legge della bilancia e sul principio del corrispettivo – ad ogni reato il suo giusto quantum di sofferenza – ma questo breve scambio, secondo me, offre anche un'altra occasione di riflessione: che modello di comportamento fornisce uno Stato che utilizza la pena di morte nel tentativo di far diminuire i crimini di sangue? Fornisce un modello di comportamento violento che non consolida l'idea che la vita sia un bene da proteggere, rafforzando invece un circolo vizioso di violenza e sofferenza. Siamo, ancora oggi, fermi alla legge del taglione: occhio per occhio, vita per vita.
Prima dell'esecuzione ci sono una serie di rituali da mettere in atto: Herbert viene rasato completamente, due agenti, uno più anziano e l'altro più giovane, preparano le sedie per coloro che assisteranno a questo macabro spettacolo. Mentre svolge meccanicamente il suo compito, l'agente anziano nota che il giovane collega è in difficoltà e commenta “prima volta nella camera, eh? Non pensare troppo o vai fuori di testa”.
Un saggio consiglio che sicuramente consente di sopravvivere all'interno di un contesto così violento come quello dell'Istituzione totale: tu sei solo una rotellina in un grande ingranaggio, svolgi il tuo compito e non farti domande. Ma quando il giovane agente incrocia lo sguardo terrorizzato di Herbert, seduto sulla sedia elettrica mentre gli stringe le cinghie alle caviglie, prova un'emozione, un sentimento e qualcosa in lui cambia. Infatti, questo sarà lo stesso agente che porterà a Walter, mentre è in isolamento in una cella liscia senza suppellettili, le foto che custodiva in cella della sua famiglia e gli consentirà anche di trascorrere qualche minuto insieme ai suoi famigliari fuori dal tribunale – cerco di non spoilerare troppo – prima di essere riaccompagnato all'Istituto correzionale Holman. Si tratta dello stesso agente bianco che trovatosi davanti per la prima volta Bryan gli intima di recarsi in una stanza e lo costringe a spogliarsi completamente per essere perquisito: questa umiliazione era la prassi che aveva arbitrariamente stabilito per identificare e registrare un legale di colore in visita al suo cliente.
Nel film e nello svolgersi della storia ci sono diversi risvegli della ragione che hanno condotto diversi personaggi a sviluppare un pensiero critico, ad opporsi alle logiche dominanti e ad assumersi in prima persona la responsabilità del proprio posizionamento, nonostante le ingenti pressioni sociali e i rischi, anche per la propria incolumità.
Io credo che questo film sia un inno al coraggio di opporsi quotidianamente e sempre, attraverso il proprio specifico, perché opporsi non deve essere solo un diritto, ma anche un dovere etico e morale di ciascuno di noi.
Mi piace chiudere questa riflessione con le parole che Eva Ansley, moglie madre e attivista al fianco di Bryan, pronuncia dopo aver ricevuto la telefonata di un anonimo che la informa di aver messo una bomba sotto casa sua: “non me ne frega di piacere alla gente finché faccio il mio dovere. Io non voglio che mio figlio sappia che sua madre ha smesso di fare una cosa giusta per paura di qualche stronzo bigotto.”

Elisa Mauri



Plastica/
Metafora dei rapporti umani

“Guardi che qui è proibito pescare.” Qui davanti a Marceddì c'è la base Nato di Capo Frasca.
“Ah, sì, ho capito. Perché è proibito pescare?”
“Perché questa è zona militare”
“Zona che?”
“Zona militare”
“E che cosa vuol dire?”. Li presi un po' per il culo e allora alzarono la voce.

Testimonianza del pescatore Emilio Aramu riportata da Carlo Bellisai nel suo libro Sulle rive di un mare di plastica.

Insegnante elementare a Cagliari, militante del Movimento Nonviolento, attivo nella mobilitazione sarda per la libertà dalle servitù militari che ancora appesantiscono, come un ricatto, la vita e l'economia di un territorio bellissimo e di una popolazione dignitosa, responsabile della Casa per la Pace nella gramsciana Ghilarza e animatore di un tema che, come anarchici, dovrebbe profondamente interessarci anche dal punto di vista operativo, oltre che ideale: il rapporto tra anarchismo e nonviolenza. Volentieri l'ho conosciuto tre anni fa a un convegno sul tema, e volentieri ho letto questo libro (Sulle rive di un mare di plastica, La Città degli dei, Cagliari 2018, pp. 160, € 15,00) che parte dalla figura della bottiglia di plastica in mare per esporci un problema di fondo di cui la plastica è il simbolo drammatico di una logica applicata, e non di uno sbaglio, di questo tipo di sviluppo.
Carlo Bellisai non è nuovo alla scrittura. Ha sempre scritto poesie, racconti, per amore e per insegnare in questo modo ai suoi piccoli alunni. È del 2007 Non so come sia da voi, ma da noi è così, favole per l'insegnamento della nonviolenza nelle relazioni umane con prefazione della pedagogista Pat Patfoort. Evidentemente scritti per bambini e non solo per bambini. Parte dalla sua infanzia, dai rifiuti che si producevano quando aveva 5 anni, che erano pochi, i soliti scarti di cucina, lische di pesce, bucce di frutta, piume e zampe di pollame, qualche carta unta e bisunta. “S'aliga”, la monnezza, era perlopiù questa, perché non c'era una cornice di confezioni sul prodotto comprato, c'era l'essenziale, il prodotto e basta.
L'arrivo della plastica va di pari passo con il cambiamento dei rapporti umani, dei rapporti sociali, si incunea nel cambiamento antropologico, nei contratti sociali che cambiano la raccolta rifiuti, l'usa-e-getta delle inutilità, la necessità artificiale della plastica richiesta dappertutto nei rapporti umani. Chi non ricorda fino a 20 anni fa la socializzazione adolescenziale degli Skifizz, Skifilor, orridi e cremosi, appiccicosi che creavano al di là del provocatorio schifo anche uno scambio “social” di informazione sulle novità e usi del prodotto e gli appuntamenti collettivi per provarli. E con la plastica si crea la sua giustificazione, la normalizzazione che crea indifferenza perché respirata come necessaria.
Le denunce divenute finalmente motivi di una rivolta giovanile sullo stato del pianeta hanno bisogno di un'analisi radicale del tipo di sviluppo. Nelle ultime pagine del libro vi è il racconto della rivolta dei rifiuti ammassati indifferenti ai margini. Rifiuti con comportamenti umani, rifiuti umani tenuti ai margini, perché lo sviluppo della plastica è sviluppo industriale, capitalistico e produce scarti di chi non è utile alla produzione, parassiti - persone umane, non banche private salvate - della spesa pubblica: i poveri, gli emigranti, i reietti dalla produzione che chiude, anche in attivo di bilancio, in nome della proprietà privata e libero mercato. L'elenco delle aziende che producono rifiuti umani è presente anche in Sardegna in questo momento di scrittura: Whirpool, Auchan, Airitaly, Moby, la scuola con contratti di precariato non rinnovabili.
Dicevamo che l'attuale rivolta giovanile sullo stato del pianeta vive il rischio di un assorbimento pacifico da parte del capitale e del potere se non ha un'analisi radicale delle cause. Il rischio è una lettura del libro di Carlo Bellisai come semplice incitamento a ridurre l'uso della plastica, al riciclaggio dei rifiuti, alla sostituzione delle bottigliette con uso del vetro negli incontri ufficiali e pubblici, con l'apertura in ogni comune della Sardegna, e non solo, delle “casette dell'acqua”. Nel libro c'è tutto questo e tutto questo è una proposta possibile e auspicabile.
Abbiamo grandi aziende che, sull'onda di un'immagine ecologica, stilano normative interne di differenziazione dei rifiuti, carta senza abbattimento di piante, riciclo, uso del vetro negli incontri, riduzione di sprechi d'energia, installazioni fotovoltaiche, e riescono a ridurre di 3/4 lo spreco. Indicazioni presenti anche nell'amministrazione americana delle basi Nato. Ora se avessimo queste certezze, queste presenze nella nostra vita sarebbero accettabili?
La risposta determina la qualità dell'analisi, dei comportamenti e delle lotte conseguenti, e non mettere in conto questo dubbio pone pericolosamente a rischio la possibilità che esista un altro tipo di sviluppo non compatibile con lo sfruttamento dell'uomo e della natura.
L'autore il dubbio lo pone sul tavolo di lettura. Sia motivo di azione.
A si biri kompanzos e kompanzas.

Antonio Lombardo



Anarchismo, libertà e amore/
La vita di Nella Giacomelli

Sappiamo bene come anche la storia dell'anarchismo, e non solo la storia in generale, sia stata per lungo tempo prevalentemente declinata al maschile, anche se con qualche illustre eccezione. Finalmente, da qualche anno, c'è una crescente attenzione alla partecipazione delle donne alla militanza libertaria e a quella che potremmo definire la “questione femminile” all'interno del movimento anarchico con un fiorire di pubblicazioni che speriamo si intensifichi.
Sicuramente rientra in questo filone il libro di Ercole Ongaro, Nella Giacomelli. Un'anarchica controcorrente (Milano, Zero in condotta 2019, pp. 192, € 15,00), la prima biografia edita di questa donna che tanto ha dato al movimento libertario ma che è stata a lungo dimenticata e sottovalutata. Nella Giacomelli (1873-1949) non ha goduto infatti neanche della relativa “fortuna” di altre sue compagne a lei contemporanee come Maria Rygier o Leda Rafanelli, sulle quali sono apparsi diversi lavori; questo forse perché Nella già all'epoca era considerata una donna “dura e cattiva”, fortemente intransigente ed estremamente coerente.
Una vita intensa quella di Nella, abilmente ricostruita da Ongaro, segnata da una situazione familiare difficile, un pessimo rapporto con la madre, un tentativo di suicidio, duri attacchi personali nascosti sotto una finta parvenza politica, un complesso e intenso rapporto con il grande chimico Ettore Molinari e i figli di lui, due guerre mondiali, il fascismo, due arresti (nel 1921 e nel 1928), la continua sorveglianza poliziesca fino al 1941 e infine l'autoesilio a Desenzano del Garda dove muore il 12 febbraio 1949, a 75 anni, ancora convintamente e coerentemente anarchica.
Redattrice di molte testate sovversive, Nella nei suoi articoli si occupa di molti temi tra cui la sua visione dell'anarchismo, la critica alla situazione sociale, l'importanza dell'anticlericalismo, il problema dell'educazione, le riflessioni sul matrimonio e il libero amore, la situazione delle carceri, l'antimilitarismo, etc.
Autrice anche di testi teatrali e di un ricco epistolario, Nella dedica il suo impegno soprattutto alla lotta contro la guerra. I suoi articoli infatti, pubblicati a inizio secolo sul “Grido della Folla” sono tra i primi articoli antimilitaristi a firma femminile ad apparire sulla stampa libertaria.
È importante ricordare come l'opposizione femminile alla Grande Guerra - e alle guerre coloniali che la precedettero - fu ampia e coinvolse moltissime donne di varie tendenze politiche, tutte accomunate da una ferma critica al sistema di potere maschile in cui la guerra svolgeva (e svolge tuttora) un ruolo centrale. In campo anarchico, Nella è sicuramente tra le militanti più attive contro la guerra, tanto che lo storico Pier Carlo Masini la ricorda come “la voce dell'intransigenza anarchica e del più rigoroso internazionalismo”. In particolare, contrariamente a molti, Nella non è solo contro l'intervento militare ma anche contro la difesa militare del territorio in caso di invasione straniera, risultando così un fondamentale argine ai vari cedimenti guerrafondai.
Il suo impegno contro ogni tipo di guerra, non è solo teorico ma anche militante: Nella infatti è tra le principali promotrici di manifestazioni di donne contro la guerra, in particolare a Milano in piazza Duomo in occasione del Primo Maggio, sia nel 1915 che nel 1916. Proprio per questo suo impegno, nel 1916, viene fermata insieme ad altre 22 donne, tra cui Leda Rafanelli, ed è costretta al domicilio coatto a Lodi, suo paese di origine, tramutato poi in diffida “da ogni forma di propaganda contro la guerra”.
Nel dopoguerra Nella, con il suo compagno Ettore Molinari, partecipa a Firenze al convegno nazionale per la costituzione dell'Unione Comunista Anarchica Italiana dove preme per la fondazione di un quotidiano anarchico che uscirà poi effettivamente nel febbraio 1920, arrivando proprio quest'anno a compiere 100 anni dal primo numero. Nella, oltre ad essere consigliere delegata della società proprietaria del giornale, ne propone il nome “Umanità Nova”, spiegandolo così sulle pagine de “L'Iconoclasta” di Pistoia:
“Umanità Nova è il titolo del Quotidiano anarchico in progetto, titolo mite, quasi evangelico, non intonato, qualcuno dice, al concitato respiro della società in fermento, al tumultuoso avvicendarsi di eventi, al minaccioso delinearsi di azioni violente e di propositi audaci di quest'ora che viviamo. [...] Umanità Nova, meta suprema di tutte le nostre lotte e dei nostri dolori, noi ti adottiamo come simbolo luminoso d'una visione vivente, e ti innalziamo al di sopra di tutte le folle, verso tutti i cuori, faro e bandiera di luce e libertà”.
Nella collabora attivamente al quotidiano nel suo primo anno di nascita, con articoli di riflessione e approfondimento pubblicati solitamente in seconda pagina, con toni sempre più pessimistici e critici nei confronti degli anarchici a lei contemporanei che dedicano a suo parere troppo spazio alla propaganda e troppo poco al problema dell'educazione e della necessità di rinnovare l'umanità anche moralmente: «Se non si tiene conto della materia uomo e si attribuisce la sua elevazione e la sua perfezione ai miracoli del determinismo economico, la rivoluzione darà delle sorprese».
Proprio per queste sue posizioni, accusata di far letteratura e non politica, nel 1921 Nella lascia il giornale con “affetto di vecchio, per quanto ormai lontano fratello”, concentrandosi sempre più sulla dimensione ideale, culturale ed etica dell'anarchismo, sostenendo che “la libertà individuale sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà il rispetto reciproco di essa, in tutti” e che “non basta demolire le catene dello sfruttamento ma occorre cambiare l'uomo nella sua essenza”.
In questo senso si inserisce la consapevolezza da parte di Nella dell'esistenza di una questione di genere che la porta più volte a denunciare i pregiudizi e le difficoltà di partecipare in quanto donna al dibattito politico e sociale. Proprio per questo motivo, Nella sottolinea la necessità per le donne di acquisire, oltre che una coscienza politica, anche una coscienza di genere, esortandole a prendere consapevolezza del proprio valore e della propria forza in quanto donne. Nella inoltre denuncia come, anche tra gli anarchici, moltissimi non si sono ancora emancipati dal passato e da una mentalità di oppressione e sfruttamento femminile. Di conseguenza Nella critica duramente l'istituzione del matrimonio e la famiglia tradizionale, vista come una gabbia per l'individuo. La sua è una battaglia per il libero amore e più in generale contro il pregiudizio morale, “serpe velenoso in agguato che non risparmia nessuno”. Ed è contro questa forma mentis, figlia della società capitalista, che Nella proclama la ribellione e la rivoluzione, per poter creare una società improntata ad un ideale di “libertà e amore”, una società anarchica che non sarà soltanto il prodotto di una rivoluzione ma sarà anche il portato d'una lunga e paziente preparazione delle coscienze. Per Nella la demolizione della società in cui si vive deve andare di pari passo con la modifica radicale della cultura in cui si è immersi, anche attraverso il necessario sradicamento dei falsi concetti di Dio, patria, proprietà e famiglia.
Le riflessioni di Nella, per la loro attualità e originalità, meriterebbero sicuramente un maggiore approfondimento ma finalmente, grazie al libro di Ercole Ongaro, cominciano a riemergere e risuonare nuovamente.

Selva Varengo