Rivista Anarchica Online


America Latina

Contro predazione e autoritarismi

di Francesco Martone

I paesi del centro e del sud America, ricchi di risorse e materie prime, sono da sempre scenario di dispute economiche e geopolitiche internazionali. Il susseguirsi di autoritarismi di destra e di sinistra, insieme ai modelli economici imposti alle popolazioni, continua a danneggiare classi popolari e popoli indigeni.


El Negro Matapacos era un cane nero che, bandana rossa al collo, precedeva la testa dei cortei di protesta in Cile. Ucciso dalle forze di polizia è diventato il simbolo della rivolta popolare che ha attraversato le strade di Santiago e di tutto il paese. Uno scenario simile registrato in altri paesi della regione. “Un diffuso spostamento di intere placche tettoniche”, così ha definito la sociologa argentina Maristella Svampa, all'indomani delle rivolte popolari in Ecuador, Bolivia e Cile, il susseguirsi degli eventi, delle mobilitazioni e delle manifestazioni di piazza che hanno attraversato l'America Latina alla fine dello scorso anno.
Una scossa che ha attraversato anche altri paesi, dalla Colombia ad Haiti, all'Honduras, al Costa Rica e i cui esiti non sono ancora facilmente intellegibili. In parte perché la storia degli ultimi decenni dell'America Latina ha mostrato la difficoltà di applicare categorie “eurocentriche” per definire chi fossero i vincitori e chi i vinti, questione che rende ancor più urgente un processo di revisione delle categorie di analisi politica e culturale dei processi storici e di rivolta popolare oltre oceano. In parte perché, seppur con differenti conformazioni, quel continente da sempre considerato come il patio trasero, il cortile di casa di Washington, è ora al centro di importanti dispute geopolitiche e geoeconomiche che vedono contrapposte vecchie e nuove potenze, quali la Russia e la Cina. Un continente ricco di materie prime oggi assai ambite per continuare ad alimentare il ciclo di estrazione e produzione proprio dell'economia di mercato capitalista, e anche ricco di ecosistemi cruciali per provare a far fronte all'urgenza del cambiamento climatico.
Una situazione che ha fatto retrocedere, secondo l'uruguayano Raúl Zibechi, l'America Latina al periodo coloniale, con paesi che esportano materie prime per reimportare manufatti senza attivare economie regionali o locali, e perpetuando una logica di dipendenza e dominio ai danni delle classi popolari, contadine e dei popoli indigeni. Non ne sono rimasti indenni neanche i governi di “sinistra” o progressisti. Non si tratta solo del Venezuela, della Bolivia, Ecuador, del Brasile di Dilma e Lula, del Nicaragua, dell'Uruguay di Pepe Mujica o del Messico di López Obrador, visto che anche il neoeletto presidente argentino Fernández si è trovato a dover fronteggiare una rivolta popolare contro l'estrazione mineraria nel Chubut.

Gli effetti delle politiche estrattiviste

Come affermato dal sociologo venezuelano Edgardo Lander in un'eccellente pubblicazione dal titolo Crisi civilizzatoria. Esperienze dei governi progressisti e dibattito nella sinistra latinoamericana (attualmente in fase di traduzione in italiano): “la sinistra stato-centrica e sviluppista, lungi dal rappresentare l'alternativa all'ordine esistente, è diventata parte del problema e, con la sua relativa egemonia politica e discorsiva in quanto alternativa al capitalismo, ha contribuito a negare, e ad impedire l'affermazione e la visibilità di altre alternative.”
Non sarà pertanto possibile decodificare la portata delle rivolte popolari recenti senza fare i conti con il fatto che oggi più che mai l'America Latina è una regione le cui risorse ed ecosistemi sono profondamente connessi al sistema di infrastrutture, scambi, commerciali e di investimento caratteristici della fase cosiddetta “estrattivista” del modello capitalista. Da qua l'illusione che attraverso l'estrazione su larga scala di risorse naturali si sarebbero potute generare le risorse necessarie per provare, da parte delle esperienze in particolare del Socialismo del XXI secolo, a restituire un debito storico nei confronti di masse popolari da sempre escluse dal benessere e dall'esercizio di ogni forma di diritto. Un'illusione che si è andata a infrangere contro le stesse leggi del mercato dal quale si cercava di emanciparsi, e che ha portato a maggior indebitamento e all'accumulazione di altro debito, quello ecologico, verso queste generazioni e quelle a venire.
L'aumento dei prezzi delle materie prime fino al 2015 aveva infatti assicurato un aumento della qualità della vita e crescita economica. Il seguente crollo dei prezzi in primis del petrolio ha significato per paesi con “monocolture” produttive petrolifere il crollo delle entrate, con conseguente indebitamento e riduzione della spesa sociale. A farne le spese non sono certo le vecchie e nuove élite, ma gli esclusi di sempre, contadini, indigeni, classi popolari delle aree urbane.
Particolarmente vulnerabili sono le donne, vittime di una persistente cultura “machista” e sessista. Inoltre, l'urgenza di accelerare l'estrazione di risorse e di costruire nuove infrastrutture per agevolarne l'immissione nei mercati globali sta aumentando la pressione su ecosistemi fragilissimi e, allo stesso tempo, sul livello di repressione e militarizzazione dei territori di popoli indigeni che resistono. Non a caso, l'America Latina è il continente con il maggior numero di difensori dell'ambiente e indigeni, uomini e donne, assassinati negli ultimi anni, 28 solo nel 2019. Una strage continua soprattutto nel Messico di López Obrador e nella Colombia dove l'accordo di pace tra governo e FARC non ha certo portato a una riduzione degli attacchi contro leader rurali e indigeni ad opera di formazioni paramilitari. Anzi.

Santiago del Cile (Cile) 29 ottobre 2019 - La folla protesta per le strade
Foto di abriendomundo/Shutterstock.com

Violenza di stato e disuguaglianze sociali

Sulla violenza di stato vale la pena soffermarsi brevemente, visto che gli eventi di questi mesi hanno mostrato un ritorno in grande stile dei militari e di una repressione e impunità che parevano confinate alla storia passata. Invece, al crollo di fiducia e credibilità delle istituzioni pubbliche e statuali e della legittimità dei partiti della sinistra tradizionale, che non hanno più avuto la capacità di fungere da corpo “intermedio”, lo stato ha reagito con violenza inusitata.
Il caso del Cile è emblematico, ma anche altrove chi scende in piazza, dall'Ecuador alla Colombia si trova in un vero corpo a corpo con il lato più violento e oscuro del potere. La violenza di stato va di pari passo con quella del mercato e della finanza. I dati parlano chiaro: se da una parte Ecuador e Cile erano dal punto di vista macroeconomico i paesi con dati economici più positivi per quanto riguarda prodotto interno lordo e crescita, dall'altra sono i paesi dove le rivolte di piazza sono state decisamente più forti e diffuse. Questo perché alla crescita del PIL non si è associata la riduzione delle diseguaglianze, anzi il contrario.
3 persone su 10 vivono sotto la soglia di povertà, 1 su 10 in povertà estrema. I dati diffusi di recente dalla CEPAL (Commissione Economica per l'America Latina e i Caraibi) raccontano di un intero continente in preda al disincanto e alla rabbia, a una diffusa cultura del privilegio e crescenti diseguaglianze. Il 45,2% dei poveri vive in zone rurali, con una povertà superiore al 18,8% rispetto a quella nelle zone urbane, mentre per quanto riguarda i popoli indigeni (che rappresentano il 48,8% dei poveri di tutta l'America Latina) il loro livello di povertà è superiore del 26,7% rispetto ai non indigeni e non afro-discendenti.
Una situazione che perpetua un modello di dominio coloniale nel quale gli indigeni dell'America Latina vivono da tempo immemore, dovuto all'assenza di un vero processo di decolonizzazione del potere che continua a escludere sulla base dell'etnia e del genere.
In questo complesso quadro, il continente rischia di vivere un ritorno diffuso e generalizzato delle destre, basti pensare al Cile di Piñera, al Brasile di Bolsonaro o alla Colombia di Duque e al governo cosiddetto di transizione in Bolivia. Un destino che però non va considerato ineluttabile. Secondo Svampa, nel continente si assiste certamente ad una sorta di regressione politica e a un ritorno del conservatorismo, ma anche a  rivolte dal basso che non trovano alcun tipo di rappresentanza nei partiti di sinistra tradizionali. Sono rivolte alimentate da alleanze inedite tra “esclusi”, popoli indigeni, sindacati, studenti, organizzazioni popolari, movimenti transfemministi ed ecologisti. Non sembrano avere un carattere strettamente “rivendicativo”, bensì rappresentano da una parte l'espressione diretta e immediata della rabbia e del disincanto, della disperazione dettata dalla marginalità, dall'esclusione e dalla povertà. Dall'altra incarnano il tentativo di occupare lo spazio pubblico rivendicandolo come luogo di conflitto e di auto-organizzazione dal basso, anche con modalità inedite, inclusa la performance artistica (basti pensare al flashmob organizzato dalle femministe cilene che ha fatto poi il giro del mondo), che prefigurano nei fatti il modello di società e di trasformazione che si vuole conseguire.

L'integrazione delle lotte

Chi resiste per proteggere i territori e la madre terra crea nessi e connessioni con i movimenti transfemministi che lottano contro il patriarcato e il femminicidio, affermando i diritti della natura come strumento di lotta e contrasto al modello capitalista dominante e non come pura elaborazione accademica. Mutuo soccorso, solidarietà, auto-organizzazione, modelli decisionali assembleari, autoproduzione, sono le caratteristiche centrali di questi movimenti che riprendono parola e trasformano lo spazio pubblico, soprattutto nelle aree urbane, in “bene comune”, e le comunità e i territori di periferia in luoghi di pratica, convivenza, resistenza collettiva allo stato. Il tutto con il fine dell'autodeterminazione e dell'autonomia, in particolare per quanto riguarda le comunità e i popoli indigeni.
Come affermato dal Comitato delle Assemblee Popolari cilene in un comunicato ripreso da Raúl Zibechi in un articolo pubblicato in italiano su Comune-info.net, s'intende “rafforzare il soggetto popolare basandosi sul lavoro solidale e collettivo nei quartieri, sull'autoeducazione e sull'autoformazione popolare, e difendere una democrazia diretta senza gerarchie. (Il comitato) chiama a  destituire la classe politica, il potere e le militanze tradizionali, mentre difende l'idea di vivere in comunità e tessere vincoli di fiducia nei territori. Questo è il nucleo della ribellione e il patrimonio politico-culturale più importante per le prossime generazioni di ribelli.”

Francesco Martone