  
                
  
				Bruschi risvegli 
                Il medioevo statunitense, fatto di segregazione e di razzismo, non è mai finito. E del pensiero di Martin Luther King restano solo le celebrazioni ufficiali, assorbite e indebolite dal potere. 
				“Sogno che un giorno, in Alabama, i bambini neri e le bambine nere possano tenersi per mano con i bambini bianchi e le bambine bianche, come fratelli e sorelle”. 
(da I have a dream, Martin Luther King Jr, 1963) 
				A gennaio, negli Stati Uniti, si celebra una ricorrenza particolare: 
                  il paese affronta i suoi demoni peggiori ricordando ufficialmente 
                  Martin Luther King. Un lunedì di uffici e scuole chiuse, 
                  conferenze pubbliche e meditazioni private dedicate al tormentato 
                  pastore battista, il discendente di schiavi africani che pronunciò 
                  discorsi indimenticabili combattendo gli orrori del segregazionismo 
                  nel paese simbolo della democrazia e della libertà. In 
                  un giorno d'inverno si ricorda l'uomo nero che, armato di nonviolenza, 
                  costrinse il potere alla resa. 
                  Credo che, nel segreto, quella ferita sanguini ancora. Mi ci 
                  ha fatto riflettere Karen, un'anziana e colta signora dell'Alabama 
                  che vive da decenni qui a New York, ma torna spesso dalle sue 
                  parti. Un giorno di gennaio mi sono attardato a osservarla mentre 
                  sorseggiava il suo cappuccino, seduta al tavolino di un bar 
                  qualsiasi, con gli occhi che le vagavano a caccia di ricordi 
                  mentre nei pressi un professore spiegava ai suoi alunni il significato 
                  della ricorrenza dedicata a Martin Luther King. 
                  Karen non è certo razzista, né ha desiderio di 
                  tornare indietro nel tempo, però è cresciuta in 
                  Alabama e, da giovane, ha vissuto quei tempi con la naturalezza 
                  di chi non ha bisogno di porsi troppe domande e coi privilegi 
                  di chi è nato dalla parte buona della barricata. Frequentava 
                  belle scuole riservate ai bianchi e i neri erano solo ombre 
                  che vagavano nella sua casa, rendendole facile la vita. Chissà 
                  se ricorda almeno i nomi di chi le faceva trovare i panni candidi 
                  e ben ripiegati nei cassetti. Viveva in quella realtà 
                  fatta di autobus e bagni pubblici segregati, di negozi, chiese 
                  e piscine comunali separate, di solidi edifici scolastici per 
                  bianchi e scuole-capanne mezze diroccate per i bambini neri 
                  e poveri che andavano a scuola scalzi e spesso anche affamati. 
                  Viveva ancora lì quando i neri cominciarono a ribellarsi 
                  e le parole del suo conterraneo iniziarono a far vibrare gli 
                  altoparlanti delle radio e i cuori di molti. Erano fatti che 
                  accadevano anche nella sua città, eppure lontani anni 
                  luce dal suo quartiere. 
                  Nel segreto la ferita sanguina ancora e Karen ne parla con cautela, 
                  provando a ricucirne i lembi, cercando le parole giuste per 
                  scusare l'inescusabile e giustificare l'ingiustizia di quei 
                  tempi lontani. Mentre distolgo lo sguardo non posso fare a meno 
                  di immaginarla giovane ragazza spensierata nell'Alabama cupa 
                  di quei tempi, quando il razzismo era sancito dalla legge e 
                  i bianchi aggredivano i neri nella più totale impunità. 
                  Nel dopoguerra il sogno americano era fatto ancora anche di 
                  quel mondo separato e irreale. Era il mondo in cui a un giudice 
                  della Carolina del Sud erano bastate due ore di processo e dieci 
                  minuti di camera di consiglio per condannare a morte George 
                  Stinney, tredicenne nero, bruciato sulla sedia elettrica nel 
                  giugno 1944 e riabilitato solo settant'anni più tardi. 
                  Lo stesso mondo in cui ha poi vissuto Ruby Bridges Hall, la 
                  prima bambina nera che abbia mai frequentato una scuola elementare 
                  desegregata in Louisiana e che, per un anno intero, dovette 
                  essere scortata, nel percorso fra casa e scuola, da quattro 
                  agenti federali, mentre attorno la gente perbene le sputava 
                  addosso e la insultava. Correva l'anno 1960, in pieno medioevo 
                  nordamericano. 
                  Guardo il viso di Karen, anziano ma ben levigato da creme e 
                  massaggi, un volto innocente mentre cerca parole che non possono 
                  davvero esistere per tentare di giustificare tutto questo, i 
                  tempi andati. Provo a pensare che in fondo Karen è una 
                  qualsiasi, con l'unica colpa di essere nata proprio lì, 
                  in Alabama, ai tempi di Martin Luther King. È una che 
                  in fondo non ha fatto nulla di male, penso. Una che non ha fatto 
                  nulla, rifletto, abbassando gli occhi per celare il mio disappunto. 
                  Se non fai nulla diventi colpevole, diceva King. Quasi nessuno 
                  fra i suoi fece nulla, a quei tempi, assistettero al dramma 
                  di un mondo che cambiava e si adattarono malgrado tutto ai nuovi 
                  tempi. Qualcuno se ne andò. Chissà, forse per 
                  questo Karen venne a vivere a New York. O forse no, forse solo 
                  per la sua passione per l'arte, che è difficile coltivare 
                  in Alabama. 
                
                   
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                    |   Pubblicità di guerra dei Tuskagee, corpo segregato degli 
                  aviatori neri  | 
                   
                  
                Un Lincoln dalla pelle scura 
		        La ricorrenza intitolata a King si affaccia, quasi inopportuna, 
                  fra la festa del ringraziamento di fine novembre, amatissima 
                  dagli americani, e il giorno dedicato ai presidenti USA a inizio 
                  febbraio: giornate di unità nazionale in cui gli americani 
                  dimenticano le differenze e si affollano sotto il manto della 
                  bandiera a stelle e strisce. La faccia scura di King si insinua 
                  fra i miti fondanti del patriottismo made in USA e li insidia 
                  col ricordo spiacevole di una storia di cui non c'è da 
                  essere orgogliosi. Penso che questo sia di per sé un 
                  fatto notevole, in un paese che per secoli ha schiavizzato, 
                  sottomesso e umiliato i neri considerandoli esseri inferiori. 
                  In fondo King, come Angela Davis, non era nulla più che 
                  un nero dell'Alabama, cresciuto nel profondo sud razzista dove, 
                  negli anni cinquanta del novecento, il Ku Klux Klan agiva alla 
                  luce del sole, linciando i neri, lanciando bombe sulle loro 
                  case e facendo saltare in aria le loro chiese.1 
                  Dietro ai patetici cappucci si celavano le facce note dei membri 
                  illustri e feroci della buona società dalla pelle bianca, 
                  benestante e affascinata dal nazismo. Per combatterli King rifiutò 
                  l'odio, scelse di percorrere la difficile strada della nonviolenza 
                  e divenne il simbolo di quella rivolta che, negli anni sessanta, 
                  scosse l'America e il mondo. Una lotta che coinvolse anche molti 
                  giovani bianchi e costrinse il paese a fare i conti con la sua 
                  apartheid. 
                  Ripensando a tutto questo mi chiedo se sia giusto che il pastore 
                  nero sia diventato una specie di santino, sterilizzato e celebrato 
                  dallo stesso potere che aveva combattuto, il suo pensiero ormai 
                  congelato nel tempo. Lui certo non mirava a diventare un mito 
                  in più nel Pantheon americano, un Lincoln dalla pelle 
                  scura seduto sul suo enorme trono di marmo nella gelida Washington 
                  che cerca di imitare i fasti della Roma imperiale.  
                  King aveva le sue incertezze, le sue paure e, come tutti gli 
                  esseri umani, le sue zone oscure. In ogni caso negava di essere 
                  il leader di quella rivolta, se ne considerava piuttosto un 
                  portavoce, uno che sapeva usare le parole giuste e per questo 
                  parlava a nome di tutta quella gente semplice, umile, coraggiosa, 
                  che aveva deciso di dire basta all'ingiustizia e sfidava a mani 
                  nude e braccia conserte la brutalità della polizia e 
                  delle inferocite milizie bianche. Per King era il movimento 
                  che contava, la gente pronta a mettersi in gioco: le innumerevoli 
                  Rosa Parks che avevano smesso di sedersi nella parte degli autobus 
                  destinata ai neri; i discendenti degli schiavi che finalmente 
                  scendevano in strada a caccia di diritti e dignità; i 
                  giovani studenti bianchi che lasciavano la vita comoda dei campus 
                  universitari del nordest e andavano a sud, perché avevano 
                  capito che da lì stava passando la storia e volevano 
                  partecipare a quella lotta, disprezzati da compagni e familiari, 
                  marchiati come traditori e rinnegati, a volte brutalmente aggrediti 
                  dai bianchi del sud, che li odiavano più di quanto disprezzassero 
                  i neri. 
                
                   
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                        York, dicembre 2019 - Un provocatore filo Trump 
                        e pro armi alla manifestazione delle donne  | 
                   
                  
                Una storia colma di paradossi 
		        Tutta questa storia così importante dovrebbe risuonare 
                  nelle coscienze ancora oggi, ma resta come sfocata dietro la 
                  vetrina appannata delle stanche e ripetitive celebrazioni ufficiali, 
                  nella muffa dei discorsi sempre uguali, scritti scegliendo con 
                  cura gli aggettivi da usare per restare nel regno del politicamente 
                  corretto. Fra retorica scontata, noiosi temi in classe e discorsi 
                  di circostanza, del pensiero del pastore nero resta poca cosa, 
                  ancor meno del senso di quella lotta. Il potere lo ha assorbito, 
                  ha fatto suo quel movimento, e oggi può vantarsi di quei 
                  fatti, che rappresentarono in realtà una bruciante sconfitta 
                  e una resa incondizionata. Il merito storico di aver approvato 
                  il Civil Rights Act nel 1964, che pose fine alla discriminazione 
                  razziale, va infatti al Presidente Lyndon Johnson, che però 
                  non avrebbe mai firmato quella legge se non gli fosse stato 
                  imposto dalla storia. E ai nostri tempi un presidente suprematista 
                  e razzista come Donald Trump, ogni anno, nel firmare il proclama 
                  ufficiale con cui inaugura la giornata dedicata al pastore nero, 
                  osa paragonarsi a lui e reclama di star concretamente mettendo 
                  in pratica gli ideali di King, definito pomposamente: “Un 
                  modello di patriottismo americano”.2 
                  La storia è dunque davvero colma di paradossi, tanto 
                  che, quest'anno, della giornata festiva hanno approfittato i 
                  fanatici difensori del secondo emendamento,3 
                  che hanno organizzato nelle piazze di molte città del 
                  sud grandi manifestazioni in favore del diritto di acquistare 
                  e portare liberamente armi da fuoco, per contrastare i tentativi 
                  in corso in alcuni Stati di approvare leggi restrittive. Molto 
                  partecipati i raduni di Pittsburgh in Pennsylvania e di Richmond 
                  in Virginia con decine di migliaia di manifestanti che hanno 
                  invaso le strade in armi, scandendo a gran voce uno slogan paradossale: 
                  “Gun Save Lives”, le pistole salvano vite. Parole 
                  appuntate sul petto e urlate con orgoglio, a dispetto delle 
                  statistiche che dimostrano come, fra i paesi occidentali, gli 
                  Stati Uniti, unico posto dove sia possibile acquistare un fucile 
                  da guerra al supermercato, registrino il numero più alto 
                  di vittime da armi da fuoco, fra omicidi, liti degenerate in 
                  sparatorie, massacri programmati da folli di turno, incidenti 
                  domestici e suicidi. 
                  Ho letto vari reportage su questi stupefacenti avvenimenti ma 
                  nessun commentatore sembra aver colto la contraddizione di organizzare 
                  raduni armati proprio nel giorno in cui si ricorda quell'americano 
                  che, più di ogni altro, ha fatto della nonviolenza il 
                  punto fermo della sua azione politica e sociale. Eppure colpisce 
                  oggi più di ieri rivedere le immagini d'epoca, con i 
                  manifestanti inermi picchiati selvaggiamente dalla polizia e 
                  persino da semplici cittadini e riascoltare gli appelli di King 
                  a mantenere la lotta nel solco gandhiano della nonviolenza. 
                  Mi chiedo che eredità abbiano lasciato al paese quelle 
                  parole. 
                
                   
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                    |   New York, dicembre 2019 - Un provocatore filo Trump e pro armi alla manifestazione delle donne  | 
                   
                  
                Contro il “diritto” alle armi 
		        Al raduno di Pittsburgh hanno aderito anche certi piccoli gruppi politici: molti neofascisti e suprematisti, ma anche anarchici, socialisti e libertari individualisti, tutti uniti dalla comune convinzione che il diritto ad essere armati costituisca una libertà fondamentale degli individui e una garanzia contro i tiranni che volessero prendere il sopravvento. 
Personalmente non capisco come possano anarchici e socialisti scendere in piazza al fianco di quei fascisti convinti della superiorità della razza bianca. Tantomeno capisco la loro tendenza a considerare sacro e inviolabile quel testo antiquato scritto dagli ambigui padri fondatori. Per quanto comprenda che a sinistra il dibattito sull'uso della violenza politica resta aperto, non mi riesce però di capire la difesa a oltranza di quella privata, del diritto di possedere un arsenale e difendere col piombo il giardino di casa da eventuali intrusi.  
Inoltre, nell'impegno di gente di sinistra in favore delle armi, leggo un'ulteriore contraddizione: quei fucili da guerra che anche certi anarchici vogliono potersi comprare liberamente non sono affatto innocenti e il loro acquisto non è privo di conseguenze. Non mi riferisco qui solo all'uso che se ne potrebbe fare ma soprattutto alla loro origine: non si tratta certo di rudimentali carabine autoprodotte per difendersi, ma di tecnologia di precisione che solo la grande industria capitalista può produrre in serie e immettere sul mercato. Quei pezzi d'acciaio studiati per distruggere, sempre più precisi, sempre più mortali, che personalmente non posso nemmeno sfiorare senza provare un brivido di orrore, rappresentano un affare lucroso per quel sistema di produzione capitalista in stretta combutta col potere, avversato e contestato da quegli stessi socialisti e anarchici che sono scesi in piazza nel giorno di Martin Luther King mettendo in bella mostra le loro pistole lucide e i loro fucili ben ingrassati.  
Acquistando le armi si fortifica in realtà quel complesso militare-industriale da cui, già nel 1961, Eisenhower aveva messo in guardia il paese. Questo esasperato amore per quei pezzi di metallo che possono sputare fuoco infernale mi sembra quindi perfettamente consustanziale al sistema che si afferma di combattere. Rifiutarle, smettere di comprarle, bandirle, sarebbe un gesto davvero rivoluzionario. Lo aveva capito già molti decenni fa Martin Luther King, che non voleva annientare il suo nemico ma costringerlo alla ragione e farlo passare dalla sua parte, perché tutti potessero vivere assieme nel suo paese, come fratelli e sorelle. 
Il presidente Trump nei proclami mostra la sua insopportabile superbia paragonandosi a Martin Luther King e intanto il suo governo, silenziosamente, giorno dopo giorno, smantella lo stato sociale, riduce i diritti, avvilisce la democrazia. Legge dopo legge, decreto dopo decreto, si colpiscono le donne, le minoranze, i disabili, i migranti, le fasce sociali più deboli. Si aggredisce l'ambiente, si avvelenano il cibo e le acque pubbliche. Alla frontiera sud si continua a morire. Ma nel giorno dedicato all'uomo che forse più di ogni altro ha cercato l'unità di tutti gli americani rifiutando la violenza, non si scende in piazza per difendere i diritti minacciati ma quello di sparare, ingrassando i profitti dell'industria. La lobby delle armi, che agisce incessante nell'ombra, ringrazia. 
Paese strano, ambiguo, sfuggente, dove i boy scout aiutano le autorità di frontiera a pattugliare il confine meridionale a caccia di migranti.4 Chissà se anche loro festeggiano King a gennaio. Chissà quante medaglie si appuntano sul petto per ogni clandestino consegnato agli sbirri e quanti fucili pronti si tengono negli armadi di casa. 
Quando incontro Karen al bar la guardo sorseggiare il cappuccino mentre lo sguardo le si perde nel tempo e forse corre all'Alabama della sua giovinezza. Guardandola mi tornano in mente certe parole di King, che travalicano i confini di quest'America e mi lasciano in bocca un sapore amaro: non siete responsabili della situazione in cui vi trovate, ma lo diventate se non fate nulla per cambiarla. Karen non fece nulla allora e oggi ancora cerca le parole giuste per giustificare quei tempi e, in fondo, anche questi, ed è un brusco risveglio dal bel sogno di Martin Luther King. 
                Santo Barezini 
                
- Famoso l'attentato dinamitardo che il 15 settembre 1963 distrusse una chiesa battista a Birmingham, Alabama, uccidendo 4 bambine e ferendo 22 persone. Si trattava della chiesa frequentata dalla famiglia di Angela Davis, all'epoca bambina, che solo per caso non rimase coinvolta nella tragedia. I responsabili vennero individuati ma mai processati. Il caso giudiziario è stato riaperto solo nel 2000.
 - I “proclami” presidenziali sono reperibili sul sito ufficiale della Casa Bianca: whitehouse.gov.
 - Il discusso secondo emendamento della Costituzione americana, costituito da un testo per certi aspetti sibillino ma costantemente interpretato nel senso di sancire l'inviolabile diritto dei privati cittadini a possedere e portare armi.
 - Si tratta dell'US Border Patrol Explorer Program, denunciato dalle organizzazioni di difesa dei diritti civili, con cui i Boy Scout statunitensi, semi-militarizzati, hanno sposato ufficialmente l'ideologia trumpiana.
                
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