Rivista Anarchica Online


informazione

Il cattivo giornalismo
(che piace al potere)

di Mario Di Vito

Esistono emergenze che nascono e crescono sulle colonne dei giornali, si riverberano in televisione e poi diventano una priorità per tutti. In un vortice di cattiva informazione che alimenta la peggior politica.


La cronaca nera, si sa, è una brutta bestia. Guardata con sospetto, giudicata talvolta come una forma di voyerismo, affidata spesso e volentieri a personaggi che non si fanno troppi scrupoli nell'attraversare i confini della pornografia, a indulgere sul dolore delle persone, sulle loro lacrime, sui loro problemi.
Eppure, se fatta bene, la cronaca nera è forse la lente migliore per leggere la società che ci circonda: è quando le cose si mettono male che viene a galla la sostanza di cui è fatto il consesso cosiddetto civile, quello che di solito resta nascosto tra le pieghe più profonde della realtà. Osservare come i media mainstream affrontano questa materia può essere un esercizio molto utile per comprendere dove sta andando la società. E come viene manipolata: il giornalismo, infatti, non è mai neutro, ma esprime sempre un punto di vista, e ci sono vari metodi per arrivare a imporlo: viviamo in un periodo storico in cui spesso è la maggioranza della popolazione a chiedere misure repressive sempre più potenti, senza accorgersi che poi è della propria vita e del proprio modo di stare al mondo che si parla.
Manipolare l'informazione, in questo senso, è fondamentale: esistono emergenze che nascono e crescono sulle colonne dei giornali (di carta e online), si riverberano in televisione a ogni ora della notte e del giorno e poi, di conseguenza, diventano una priorità per tutti. È la logica dell'emergenza: la si crea e poi la si risolve. E questo senza nemmeno il bisogno di forzare troppo la mano: è la gente a volerlo, d'altra parte.
Vediamo, dunque, alcuni casi emblematici degli ultimi tempi. Nel tentativo di capire come, quando e perché le cose hanno cominciato a prendere una certa piega. E cosa significa.

Macerata, Italia

Un mese prima delle elezioni politiche del 2018, Macerata, nelle Marche, è diventata uno snodo cruciale per la propaganda della Lega di Matteo Salvini. Questo grazie a un brutale caso di cronaca nera – l'omicidio di Pamela Mastropietro – seguito a distanza di qualche giorno dall'attentato terroristico di Luca Traini, che «per vendetta» scese in strada armato di pistola e ferì sei persone accomunate solo dal fatto di avere la pelle nera.
I fatti si raccontano in poche righe: il 29 gennaio del 2018 la diciottenne romana Pamela Mastropietro si allontana volontariamente dalla comunità Pars di Corridonia, in provincia di Macerata; il 31 gennaio il suo corpo viene ritrovato fatto a pezzi in due valigie nella canalina di scolo ai lati della carreggiata di via dell'Industria a Casette Verdini di Pollenza. Per il delitto vengono arrestati tre uomini, tutti nigeriani: Innocent Oseghale, Desmond Lucky e Lucky Awelima. Questi ultimi due saranno in breve prosciolti dall'accusa di omicidio ma rimarranno comunque in carcere per spaccio. La ricostruzione fatta dagli inquirenti racconta di un incontro tra Pamela e Innocent, con lei che va a casa di lui, e lì lui la ammazza a coltellate. Poi fa a pezzi il corpo, lo mette in due valigie, chiama un taxi, lo fa fermare a Casette Verdini e lì scarica il tutto. Cosa è successo nella serata incriminata? Per la procura di Macerata, Innocent avrebbe dato due coltellate al fegato di Pamela dopo averla violentata, per gli avvocati difensori dell'imputato, Pamela sarebbe morta di overdose e poi Innocent l'avrebbe fatta a pezzi per disfarsi del corpo. Nel maggio del 2019, Oseghale è stato condannato in primo grado all'ergastolo.
Gli ingredienti, dunque, ci sono tutti: una vittima italiana, un assassino nero, l'eroina, la provincia cronica e tendenzialmente sonnacchiosa che si ridesta nel bel mezzo dell'orrore. Su una cosa del genere i giornali e le televisioni ci possono campare per mesi. E in effetti l'hanno fatto e lo stanno facendo, visto che dell'omicidio Mastropietro ancora si parla, spesso e volentieri collegandolo alla mafia nigeriana (che almeno qui, carte giudiziarie alla mano, non c'entra nulla) e alla «immigrazione incontrollata» che per la destra italiana produce solo violenza e sopraffazione.
Come sono stati manipolati i fatti? Ad esempio, mettendo in giro notizie assurde sull'autopsia sul corpo della ragazza: si è arrivato a scrivere addirittura che fosse sparito il suo cuore, utilizzato poi dal suo assassino per compiere un rito voodoo. Tutto questo è stato poi smentito in sede processuale, ma la suggestione è rimasta: non una storiaccia di cronaca nera, ma un vicenda di magia nera, qualcosa di cui aver paura a prescindere da tutto, anche a prescindere dai fatti. E ancora: Pamela Mastropietro è passata per Macerata mentre fuggiva da una comunità di recupero. Se non fosse stata uccisa, chi oggi chiede a gran voce giustizia per lei (e questo anche in presenza di una condanna all'ergastolo per il suo omicidio) l'avrebbe tenuta a debita distanza, ignorandola o, peggio ancora, perseguitandola.
Negli stessi giorni in cui montava il caso Mastropietro, a Milano il 39enne Alessandro Garlaschi uccide la 19enne Jessica Faoro con ottantacinque coltellate. Un altro omicidio orribile, che però non ha avuto particolare fortuna sui media, tutti concentrati sull'orrore di Macerata.
Il fatto è che a forza di sentire discorsi su quanto l'immigrazione sia un pericolo per il nostro paese, va a finire che qualcuno ci crede per davvero. Il 3 febbraio Luca Traini compie il suo attentato: gira per le strade con la sua auto e ogni volta che vede un africano apre il fuoco. Verrà arrestato nel giro di qualche ora, e successivamente processato e condannato per strage a dodici anni. Una settimana dopo saranno trentamila gli antirazzisti a manifestare per le strade, con la destra a lamentarsi perché «Pamela è già stata dimenticata». Un mese dopo la Lega calerà la sua scure e in città arriverà a prendere il 40% dei voti.

Strade diverse

Corso Francia è uno stradone che attraversa il quartiere dei Parioli a Roma, la «zona alta» per definizione della capitale. La notte tra il 21 e il 22 dicembre del 2019 un ventenne alla guida di un Suv travolge e uccide due ragazze di sedici anni, Gaia von Freymann e Camilla Romagnoli. Stavano attraversando la strada, forse sulle strisce pedonali o forse no, forse mentre il semaforo era rosso o forse no. C'è un'indagine in corso e molte cose sono da chiarire. Si sa soltanto che l'investitore si chiama Pietro Genovese e i giornali ci mettono molto poco a scoprire che suo padre è Paolo, il regista.
I media, in questo caso, impazziscono nel sentire l'odore del sangue e fiutano anche quella che appare come un'ottima possibilità commerciale: un caso del genere può aiutare le vendite in crisi o l'audience non sempre trionfale. Per farlo, però, non ci si può limitare a raccontare i fatti per come si sanno e aspettare le conclusioni delle varie perizie. No, bisogna mettere in scena un bel processo. A tutti: l'investitore era ubriaco? Era fatto? Le due ragazze sono spuntate fuori dal nulla? Esiste una moda giovanile che prevede l'attraversamento di strade molto trafficate senza guardare? Illazioni, ipotesi al massimo. Tutto questo però viene sparato fuori senza pensare: la rincorsa all'orrore non può fermarsi nemmeno un secondo a cercare di capire qualcosa. Lo spettacolo che ne viene fuori è avvilente: gli investimenti diventano un trend per quasi un mese. Sulle pagine dei quotidiani si alternano ricostruzioni più o meno fantasiose dei fatti di Corso Francia e altri casi sparsi per l'Italia. Un popolo di investitori e di investiti.
«Il grande trucco dei tempi che viviamo è far sentire isolate le parti senzienti dalla società – scrivono sul “Manifesto” i conduttori radiofonici Loredana Lipperini e Massimiliano Coccia a commento della bolla mediatica che ha segnato la fine del 2019 e l'inizio del 2020 –, derubricare tutto al dibattito sul politicamente corretto come se essere rispettosi delle differenze, usare nuove parole, evitare discriminazioni lessicali sia una riduzione delle capacità narrativa e dialettica, riprendersi parole e spazi dibattendone, come sempre, è la creazione del primo spazio, che elimina lo spazio bianco». E ancora: «C'è uno iato di fiducia sempre più grande tra i lettori, gli ascoltatori e i mezzi di informazione, così come c'è una politica che si serve sempre di più della mediazione giornalistica al fine di amplificare messaggi sempre più semplificati, a questa distanza va messo un argine, non tanto per tutelare le nostre professionalità ma per evitare l'inizio di un totalitarismo dell'informazione che vale la pena ricordare inizia prima di ogni dittatura».

Centro vs. periferia

Corso Francia è in centro a Roma, dicevamo, ma tradizionalmente la location preferita per un caso di cronaca nera che si rispetti è la periferia. E possibilmente i protagonisti devono essere dei marginali, persone che non corrispondono in maniera esatta allo standard sociale condiviso, qualsiasi esso sia in questo momento. Le cronache locali sono piene di notizie su arresti di spacciatori più o meno grandi: c'è spazio per il narcotrafficante, ovvio, ma anche per quello preso con pochi grammi di hascisc. E non si fanno grandi differenze di sorta: «lo spaccio è lo spaccio», dicono.
Di solito quando si scrivono questi pezzi, le informazioni arrivano tutte dalle veline e dai comunicati delle questure. Eventuali voci della difesa sono rare come l'allineamento di tutti i pianeti del sistema solare. In pratica, il lettore viene messo al corrente non dei fatti ma della versione delle forze dell'ordine.
Questo vale per lo spaccio, certo, ma anche per esempio per le varie operazioni in cui vengono arrestati militanti politici: sappiamo solo quello che polizia, carabinieri e procure vogliono farci sapere. Nessuno si sforza più di guardare oltre, nemmeno di fare una breve telefonata all'avvocato difensore per sentire un'altra campana: non ne vale la pena, anche perché spesso il cronista che si occupa di certe cose viene pagato pochi euro e la fatica di verificare una notizia non vale mai un compenso maggiore. Poi non fa niente se le accuse cadono o si ridimensionano, perché verrà pubblicata una smentita o una rettifica. Se Pino Pinelli fosse stato gettato oggi da una finestra della questura di Milano, sarebbe quasi impossibile immaginare una Camilla Cederna che sin da subito dubita della versione ufficiale e scopre le menzogne architettate dalla questura.
Non occorre a questo punto specificare che c'è una differenza bella grossa tra lo sparare una notizia in prima pagina e il pubblicare, a distanza di tempo, venti righe di precisazioni nascoste all'interno del giornale.
Al giorno d'oggi va molto di moda parlare di «fact checking» e questa pratica viene venduta come una nuova frontiera del professionismo giornalistico. In realtà si tratta di una pratica vecchissima e necessaria anche quando si scrive di incidenti stradali senza feriti.

Tabloid all'inferno

La fabbrica delle notizie, dunque, non può permettersi di fermarsi. Lo sa bene Selene Pascarella, giornalista freelance che ha militato in svariati tabloid italiani. Nel 2016, per le edizioni Alegre, Pascarella ha scritto un libro fondamentale per capire quale sia lo stato reale di salute dell'informazione italiana: Tabloid Inferno. Attraverso un racconto che dura quattro anni, l'autrice esamina i gialli più discussi del paese, con l'obiettivo di smascherare le narrazioni tossiche che escono dai confini dei giornali e dei rotocalchi televisivi per colare nella società. Non esistono solo le verità fattuali, mediatiche e giudiziarie: i piani si confondono, si intrecciano, diventano impossibili da distinguere. «Qualsiasi pezzo scritto con coscienza, sensibilità e impegno – sostiene Pascarella – viene trasformato in un capolavoro pulp a colpi di titoloni sensazionalistici e foto scabrose. Ma i titolisti non inventano nulla, pescano solo il lato più oscuro del brodo avvelenato servitogli dal cronista».
Fa male ammettere che è tutto vero: leggere la cronaca nera e provare a capirci qualcosa è un'operazione complicata ai limiti dell'impossibile. Serve impegno e costanza per riconoscere i tic dei cronisti e dei loro caporedattori. Serve pazienza. Ma ne vale la pena: è nella cronaca nera che i potenti costruiscono le loro favole, i fatti di sangue influenzano la società molto più dei rapporti statistici e delle alchimie della politica. Per questo bisogna pretendere una cronaca migliore, decisamente diversa da quella che viene proposta attualmente. Perché è solo imparando a guardarci dentro che è possibile cambiare la società.

Mario Di Vito