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 Fascismo, populismo, democrazia/Non facciamo confusione
 «È noto che l'identità personale risiede 
                  nella memoria, e che l'annullamento di questa facoltà 
                  comporta l'idiozia» con questa citazione del grande scrittore 
                  e filosofo argentino Jorge Louis Borges (da Storia dell'eternità, 
                  1936) si apre il bel libro di Federico Finchelstein, Dai 
                  fascismi ai populismi. Storia, politica e demagogia nel mondo 
                  attuale (Donzelli, Roma 2019, pp. 279, € 28,00).
  Il saggio dello storico argentino, da anni trapiantato a New 
                  York dove insegna storia, analizza il percorso carsico che porta 
                  dal fascismo al populismo, con un approccio che fa dialogare 
                  passato e presente, Nord e Sud del mondo, Europa e Stati Uniti. 
                  L'analisi di Finchelstein ha il pregio di guardare al fenomeno 
                  populista intrecciando i piani nazionali, transnazionali e internazionali, 
                  in una prospettiva storica, ma avendo come orizzonte di riferimento 
                  l'attualità. Molti elementi del fascismo, ripudiati dalla 
                  politica dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per via 
                  della violenza, della guerra e della persecuzione degli ebrei, 
                  sono apparentemente scomparsi dalla società contemporanea 
                  ma qualcosa dell'iniziale radice è riemerso, anche se 
                  in modo non schematico, proprio nel momento in cui le nuove 
                  democrazie facevano i conti con se stesse, con la propria contraddittorietà 
                  e le proprie crisi. La fragilità della democrazia di fronte all'emergere 
                  dei populismi si manifesta apertamente in due distinti momenti: 
                  il primo quando il sistema democratico perde la propria legittimazione 
                  di fronte alla maggior parte dei cittadini, rischiando così 
                  di degenerare in un sistema autoritario di tipo fascista, in 
                  cui la prassi elettorale perde il suo significato, l'espulsione 
                  dell'avversario dai giochi politici viene accompagnata dalla 
                  violenza nei suoi confronti, magari in base a criteri di esclusione 
                  su base razziale, politica, religiosa o perfino di genere. Il 
                  secondo momento si ha quando la democrazia, agli occhi dei cittadini, 
                  perde non la propria legittimazione – perché la 
                  maggioranza degli elettori continua a credere nella bontà 
                  di fondo della prassi democratica – ma la fiducia 
                  nella capacità della classe politica di rappresentare 
                  le vere esigenze collettive. È proprio in questo caso 
                  che possono prendere forza, e arrivare al governo, movimenti 
                  populisti.
 «La storia che porta dal fascismo al populismo è 
                  essenziale per comprendere i processi politici a noi più 
                  vicini», avverte Finchelstein nell'introduzione scritta 
                  per l'edizione italiana. Fascismo e populismo, infatti, pur 
                  avendo una storia comune, hanno seguito due strade diverse. 
                  Il fascismo è stato una forma di dittatura politica, 
                  spesso emersa dall'interno della crisi della democrazia con 
                  l'intento di annientarla. Il populismo invece è «una 
                  concezione autoritaria della democrazia, che dopo il 1945 ha 
                  riformulato l'eredità del fascismo per associarlo a diverse 
                  procedure democratiche». Il populismo contemporaneo – 
                  in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina – è, 
                  dunque, una forma autoritaria di democrazia che prospera in 
                  contesti di crisi politica, sociale ed economica, reale o percepita, 
                  ponendo al contempo un problema di scarsa rappresentanza politica, 
                  che induce la gente a ritenere che le proprie preoccupazioni 
                  siano ignorate dai governi, e di crescente disuguaglianza economica 
                  e sociale, che fomenta posizioni politiche radicali, xenofobe 
                  e nazionaliste.
 L'idea di democrazia dei populisti, secondo Finchelstein, «combina 
                  l'idea che il potere deriva dal popolo con una prospettiva nella 
                  quale il leader è non solo la voce del popolo, ma anche 
                  un individuo dai tratti messianici e illuminato, predestinato 
                  a incarnare il potere». Questa natura particolare del 
                  populismo fa sì che esso occupi «una posizione 
                  ambivalente fra la democrazia e la dittatura» perché 
                  accanto all'esaltazione del leader, in termini mitici e sacrali, 
                  utilizza «processi di legittimazione elettorale». 
                  Ma l'accettazione del gioco parlamentare e democratico non significa 
                  affatto adesione ai principi ispiratori della democrazia, tutt'altro: 
                  i populisti, dal momento in cui salgono al potere, caratterizzano 
                  la gestione dei loro governi «autoritari» con azioni 
                  che tendono spesso a svilire la democrazia. Inoltre, un tratto 
                  comune di questi movimenti e della loro cultura politica è 
                  la «visione unanimistica» dell'azione politica. 
                  Infatti, è radicata in loro la convinzione che il «popolo 
                  – escluso dal potere da parte delle élites – 
                  sia uno e uno solo, e che quindi abbia una voce sola e un solo 
                  rappresentante, il capo carismatico. Un capo che si identifica 
                  con il popolo e in cui il popolo proietta le proprie attese. 
                  Il populismo trasforma cioè il plurale in singolare, 
                  i tanti Io in un unico Noi». Di conseguenza, 
                  per il populismo «la volontà unica della maggioranza 
                  non può accettare altri punti di vista». Sotto 
                  questo aspetto è, come il fascismo, una reazione e una 
                  «risposta alle concezioni politiche liberale e socialista».
 In conclusione, si può condividere la riflessione di 
                  Finchelstein secondo la quale «spesso il fascismo» 
                  diventa populismo e non viceversa quando si trasforma in regime 
                  appoggiandosi «costantemente sui residui del primo per 
                  lanciare una sfida» alla democrazia e approdando a «un 
                  autoritarismo rimodernato» che trasforma la «tradizione 
                  dittatoriale del fascismo classico in una forma di democrazia 
                  antiliberale e intollerante». La novità maggiore 
                  in questo primo ventennio del nuovo secolo è rappresentata 
                  dall'ascesa del potere del populismo negli USA con la presidenza 
                  Trump, nel paese considerato da tutti il baluardo della democrazia 
                  nel mondo.
 Tutta la riflessione di Finchelstein è sviluppata, comunque, 
                  all'interno di un quadro democratico, la critica alla concezione 
                  dello Stato autoritario, sia fascista che populista, non approda 
                  quasi mai ad un'interpretazione libertaria. Per lo storico argentino 
                  non vi è altra prospettiva che la democrazia così 
                  come noi la conosciamo, un sistema politico che rimane fortemente 
                  ancorato al sistema capitalista. Un modello questo nel quale 
                  la funzione dell'organizzazione statale è soprattutto 
                  quella di garantire e difendere solo gli interessi comuni della 
                  classe dominante, cioè, nel mondo moderno, della classe 
                  capitalistica. Non vi è lo spazio nella riflessione di 
                  Finchelstein per uno sviluppo della società oltre la 
                  forma della democrazia rappresentativa o se vogliamo essere 
                  più precisi non si concepisce nessuna libertà 
                  al di fuori del sistema democratico. La democrazia, secondo 
                  lo storico argentino, non può conseguentemente svilupparsi 
                  in un progetto più elevato dove la libertà, in 
                  tutte le sue forme, sia maggiormente acquisita come processo 
                  di riscatto sociale e condizione fondamentale per lo sviluppo 
                  dell'umanità.
 Per lo storico argentino l'unico argine al dilagare dei nuovi 
                  populismi è proprio la riaffermazione dei principi democratici, 
                  la difesa intransigente della «diversità dei valori 
                  e delle opinioni» e del pluralismo come unico antidoto 
                  capace di «impedire che la convivenza democratica possa 
                  drammaticamente degenerare», dimenticandosi però 
                  quanto la libertà, sia individuale che collettiva, si 
                  conquista e si difende eliminando alla radice le strutture autoritarie 
                  sia economiche che politiche.
 Franco Bertolucci 
 
 Macchine e algoritmi/L'assoggettamento è già avvenuto
 Torna a spalancare una finestra sul presente, e in questo caso 
                  anche sul futuro, Renato Curcio che da trent'anni, grazie alle 
                  pubblicazioni e ai cantieri socioanalitici di Sensibili Alle 
                  Foglie, fornisce preziosi contributi per l'analisi del contemporaneo. 
                  Nello specifico, siamo alla quinta tappa editoriale di un percorso 
                  aperto nel 2015 con L'Impero Virtuale. Colonizzazione dell'immaginario 
                  e controllo sociale, un lavoro per molti aspetti profetico 
                  seguito da L'Egemonia Digitale. L'impatto delle nuove tecnologie 
                  nel mondo del lavoro, che ha portato avanti l'esplorazione 
                  delle implicazioni sociali dei nuovi strumenti digitali, svelando 
                  i meccanismi di allontanamento dall'auspicato progresso che 
                  queste tecnologie avrebbero dovuto portare, se non fossero state, 
                  ahimè, strumento nelle mani di grandi corporation intente 
                  ad affermare una nuova forma di totalitarismo.
  La 
                  rapida evoluzione degli scenari descritti si palesa sin dai 
                  titoli dei libri. Se nel successivo La Società Artificiale. 
                  Miti e derive dell'impero virtuale (2017) la domanda rivolta 
                  al lettore era “sapremo scegliere o ci accontenteremo 
                  di essere scelti?”, nel 2018 si è passati ai toni 
                  allarmanti del fondamentale L'Algoritmo Sovrano. Metamorfosi 
                  identitarie e rischi totalitari nella società artificiale. 
                  Oggi, infine, si discute de Il Futuro Colonizzato. Dalla 
                  virtualizzazione del futuro al presente addomesticato (Sensibili 
                  Alle Foglie, Roma, pp. 128, € 16,00) pubblicato alla fine 
                  del 2019; ma l'invito, stavolta, è ad agire nell'ottica 
                  di una vera e propria “decolonizzazione”, perché, 
                  come viene evidenziato, l'assoggettamento è già 
                  avvenuto da tempo. A quanto pare, non è stato sufficiente aver compreso 
                  che “ogni volta che ci attiviamo sul web diamo vita a 
                  uno scambio ineguale tra il servizio che riceviamo e l'insieme 
                  di dati e metadati che con la nostra attività produciamo 
                  su noi stessi e, cedendo i quali, lo remuneriamo”, e che, 
                  così facendo, ci consegniamo “agli automatismi 
                  di quei processi comunicativi manipolatori che ci catapultano 
                  in una condizione di libertà colonizzata, addomesticata 
                  e radicalmente alienata [...] perché la ripetizione di 
                  quelle pratiche abitudinarie finisce per consolidare effetti 
                  di dipendenza sociale sempre più strumentalizzabili da 
                  chi, di quelle macchine, è padrone.” Purtroppo, 
                  infatti, la nostra capacità di svincolarci da questi 
                  ingranaggi sembra non tenere il passo con il fulmineo mutamento 
                  che ci investe.
 Ne L'Algoritmo Sovrano si leggeva del progetto Neuralink 
                  che produce interfacce neurali impiantabili, una sorta di smartphone 
                  nel cervello. Ne Il Futuro Colonizzato si parla dei laboratori 
                  Carboncopies dove si producono “protesi neurali 
                  artificiali in grado di ripristinare le funzioni cerebrali infragilite 
                  e di emulare il cervello e la mente al fine di trasferirli entrambi 
                  su supporti non biologici di durata illimitata.”
 In Cina, il sistema di punteggio del “credito sociale” 
                  che valuta l'affidabilità dei singoli cittadini, istituito 
                  su base volontaria nel 2014 e obbligatorio dal 2020, ha raggiunto 
                  livelli di invasività degni dei migliori racconti di 
                  fantascienza distopica. Lo Stato di sorveglianza è 
                  stato denunciato negli ultimi mesi da media e politici occidentali 
                  che ipocritamente criminalizzano il “dittatore”, 
                  salvo poi imboccare la medesima direzione in nome dell'agognata 
                  “sicurezza”, anche qui in Italia.
 Questo testo illuminante, difatti, parla di “un futuro 
                  virtuale che preme sul presente e si manifesta in forme differenziate, 
                  ma in tutti i continenti del pianeta”, ed è interessante 
                  vedere come il nostro paese stia lavorando per allinearsi ai 
                  giganti, nonostante il cittadino sia il più delle volte 
                  ignaro dei processi di cui diventa parte integrante. Di certo 
                  siamo stati pionieri, grazie ai 5 Stelle e all'ufficio stampa 
                  di Salvini, nello sperimentare l'enorme incidenza dei dispositivi 
                  digitali sulle dinamiche politiche reali. Ma tornando invece 
                  all'identificazione biometrica, che da Cina e India ha già 
                  conquistato quasi tutta l'Europa, apprendiamo che in Italia 
                  è stata ufficializzata nel 2014 e a breve le nostre nuove 
                  carte d'identità elettroniche includeranno pattern facciale 
                  e impronte digitali. E se già nel 2009 era stata istituita 
                  la Banca Dati Nazionale del DNA, nel marzo 2019 è stato 
                  approvato l'articolo “che prevede l'istituzione di sistemi 
                  di verifica biometrica dell'identità per tutti i dipendenti 
                  pubblici”. E scopriamo anche che a Roma abbiamo aperto 
                  la Singularity University di Google, mentre a Napoli, dal gennaio 
                  2019, quaranta robot umanoidi sono diventati “badanti” 
                  di altrettante persone affette da Alzheimer.
 Il fatto che il progresso tecnologico, specialmente nel mondo 
                  del lavoro, non abbia portato a una liberazione dalla fatica, 
                  ma piuttosto a richieste sempre più pressanti nei confronti 
                  dei lavoratori, è tra gli assunti da cui muovono le riflessioni 
                  contenute nel libro. Abbiamo accettato l'automatizzazione senza 
                  che ciò aprisse “la strada ad alcuna riduzione 
                  della pena, del tempo di lavoro, né a un proporzionale 
                  aumento della retribuzione”. Ad esempio, nel marzo 2019, 
                  “la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge 
                  che autorizza la realizzazione di percorsi formativi di sei 
                  mesi in ambito militare con modalità e-learning”. 
                  Ancora una volta si gioca al risparmio e una semplice App 
                  garantisce di “sostituire i formatori in carne e ossa 
                  con docenti virtuali, registrare la traiettoria di ciascun allievo, 
                  valutarne per via algoritmica prestazioni e risultati”.
 Di certo non siamo a Tokyo, dove gli ascensori nei condomini 
                  si attivano grazie al riconoscimento dell'iride; o dove una 
                  catena della grande distribuzione ha sperimentato un sistema 
                  di sicurezza dotato di Intelligenza Artificiale che porta a 
                  bloccare i potenziali taccheggiatori prima ancora che abbiano 
                  commesso il reato, come nel racconto di Philip K. Dick del 1956, 
                  The Minority Report.
 “Se non siamo entrati in uno stato di allerta forse è 
                  soltanto perché i nostri sguardi sul futuro sono stati 
                  già colonizzati a dovere e la domanda su un futuro diverso 
                  è ormai uscita dal nostro stesso orizzonte”, avverte 
                  Curcio. Ma in ultima analisi “siamo noi a trasformare 
                  la finzione predittiva in pratiche fattive, siamo noi a decretare 
                  il successo o l'insuccesso di quel futuro che ci viene prospettato 
                  attraverso il trucco della previsione, anche se l'induzione 
                  per farcelo interpretare solitamente lavora al di sotto del 
                  livello della nostra consapevolezza”.
 Prepariamoci, dunque, per la nuova Resistenza all'addomesticamento 
                  digitale. In fondo, si legge, ha ancora senso lottare: le proteste 
                  di quattromila ricercatori e tecnici di Google, ad esempio, 
                  hanno costretto l'azienda a rinunciare a un lucroso contratto 
                  col Pentagono per realizzare dispositivi di riconoscimento facciale 
                  montati su droni di guerra. Ma soprattutto, volendo terminare 
                  con una nota di ottimismo, potremmo sforzarci di immaginare 
                  un futuro radicalmente diverso, così che “dalla 
                  critica radicale dell'intenzionalità capitalistica potrebbe 
                  finalmente fiorire [...] una tecno-scienza orientata alla costruzione 
                  di un futuro umano e decolonizzato.”
 Tobia D'Onofrio 
 
 GAAP/235 biografie, un ritorno alle fonti
 ”Nell'aprile del 1994 Pier Carlo Masini fece dono alla 
                  Biblioteca Franco Serantini di Pisa dell'archivio politico dei 
                  GAAP (Gruppi anarchici d'azione proletaria) e delle sue carte 
                  personali. L'impegno era che alla scomparsa di Masini, avvenuta 
                  nel 1998, dopo un periodo di dieci anni, come da volontà 
                  testamentaria, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili 
                  alle attività di studio e di ricostruzione storica. Questo 
                  volume, il terzo e ultimo, testimonia il rispetto di quell'impegno” 
                  (p. 4, Nota editoriale).
  L'uscita 
                  di questo terzo tomo (a cura di Franco Bertolucci, Gruppi 
                  anarchici d'azione proletaria. Le idee, i militanti, l'organizzazione, 
                  vol. 3. I militanti: le biografie, BFS/Pantarei, Pisa/Milano 
                  2019, pp. 456 + ill., € 40,00) chiude, davvero in bellezza 
                  si deve dire, l'opera imponente dedicata alla traiettoria sociopolitica 
                  e culturale, breve ma significativa, dei mitici GAAP. Se nei 
                  primi due sono stati presi in esame e analizzati, oltre che 
                  ripubblicati, atti e documenti relativi all'organizzazione (ossia 
                  le fonti soggettive, in massima parte provenienti dall'archivio 
                  Masini sopracitato), nel presente volume si tracciano i profili 
                  biografici dei militanti che – nella definizione del curatore 
                  – “formarono il nucleo di questo 'ardito' esperimento 
                  politico”. Franco Bertolucci, editore e storico di vaglia, nel caso mette 
                  in campo anche le sue competenze di archivista e bibliotecario, 
                  ricostruendo le mappe dell'anarchismo italiano nel secondo dopoguerra 
                  attraverso un focus puntuale e approfondito su quell'esperienza 
                  che – come abbiamo già rilevato nella nostra recensione 
                  al primo tomo (cfr. Umanità Nova, 4 febbraio 2018) – 
                  rappresenta, politologicamente parlando, una risposta classista 
                  e “di sinistra” alla grave crisi strutturale all'epoca 
                  in atto nel movimento, crisi dovuta a molteplici fattori.
 Se, per quanto riguarda mappe e geopolitica, la storiografia 
                  aveva già inaugurato, proprio in questi anni, percorsi 
                  virtuosi e fecondi – si pensi ad esempio alla serie di 
                  importanti convegni promossi dall'Archivio Berneri di Reggio 
                  e, nello specifico, si veda il nostro saggio Mappe del movimento 
                  anarchico italiano 1921-1991, pubblicato nell'opera collettanea 
                  L'anarchismo italiano. Storia e storiografia (Biblion 
                  2016) – in questo caso, invece, Bertolucci mette in campo 
                  un'ulteriore rilevante novità sul piano dell'approccio 
                  divulgativo e, per così dire, tecnico: il passaggio dalla 
                  mera narrazione di una mappa alla sua rappresentazione cartografica. 
                  È questo l'espediente di grande efficacia che caratterizza, 
                  fra le altre cose, il volume. Del resto si tratta di un trend 
                  molto innovativo, oggi sempre più utilizzato nelle opere 
                  storico-scientifiche, specie in quelle destinate a fungere da 
                  strumento di lavoro e di ricerca. Ne citiamo due recentissime 
                  a mo' di esempio, conosciute fra gli addetti ai lavori: la Infografica 
                  della seconda guerra mondiale (Ippocampo 2019) curata dallo 
                  storico francese Jean Lopez e il dossier sulla Repubblica Sociale 
                  Italiana, di Marco Borghi, pubblicato nella “E-Review” 
                  degli Istituti storici dell'Emilia Romagna.
 Anche per questa capacità di trasformare in piacevoli 
                  certe tematiche che, siamo sinceri, possono risultare a volte 
                  alquanto indigeste, se non “pallose”, bisogna rendere 
                  onore al merito dell'indefesso curatore. Questo terzo tomo, 
                  strutturato principalmente come dizionario biografico, si presta 
                  inoltre ad una stimolante lettura attraverso il prisma delle 
                  generazioni.
 “L'origine e la storia di questo nucleo di militanti, 
                  si possono leggere anche dal punto di vista generazionale, in 
                  considerazione del fatto che la parte più consistente 
                  di essi vive nel quadro di un medesimo contesto storico-sociale, 
                  quello della Seconda guerra mondiale, dell'antifascismo e della 
                  Resistenza, una comune esperienza fatta di modi di sentire, 
                  di pensare e di agire che è alla base poi di una forma 
                  di azione collettiva che si consolida nell'immaginario e nel 
                  dna politico di questa generazione e che crea quel nesso che 
                  fa sì che questo gruppo di individui si senta parte di 
                  una precisa comunità ideale” (p. 21).
 Il volume, oltre al saggio introduttivo, comprende 235 biografie 
                  e 109 tra lettere, relazioni e documenti redatti da una cinquantina 
                  di militanti dei GAAP.
 Nel suo complesso l'opera curata da Bertolucci ci permette di 
                  tornare alle fonti. Perché è da lì che 
                  bisogna sempre partire e poi ripartire, anche per decostruire 
                  tutte quelle narrazioni che si sono via via sedimentate già 
                  dalle interessate testimonianze “a caldo” dei protagonisti.
 Al di là degli esiti e dei successivi percorsi i GAAP 
                  riescono comunque ancora a interrogare l'anarchismo “ufficiale” 
                  su questioni dirimenti che riguardano gli inediti scenari che 
                  si sono prospettati nel secondo dopoguerra. Passati dal protagonismo 
                  primonovecentesco alla mera testimonianza, gli anarchici portano 
                  il fardello di una doppia sconfitta subita affrontando a viso 
                  aperto i totalitarismi fascista e comunista staliniano. Fordismo 
                  dispiegato, democrazia liberale, e forma repubblicana (conseguita 
                  peraltro dopo una secolare, epica, lotta antidinastica) costituiscono 
                  inoltre il quid novi per il quale servirebbe aggiornare 
                  un bagaglio teorico libertario il cui nucleo centrale si è 
                  formato nell'era geologica precedente.
 I partiti politici, nello specifico DC, PCI e PSI, ricopriranno, 
                  differentemente che dal periodo prefascista, un ruolo centrale 
                  per tutta la prima repubblica. Nella sinistra e nei sindacati 
                  sarà a lungo incontrastato il dominio dello stalinismo 
                  e del mito dell'URSS. Tutto questo non è cosa da poco 
                  e qualsiasi terzaforzismo, anche “borghese” se vogliamo 
                  (si veda ad esempio il destino dell'area azionista), si scontra 
                  con muri insormontabili. Certo i GAAP non sono in grado di dare 
                  risposte forti e credibili, politicamente efficaci a siffatte 
                  problematiche, tuttavia si deve riconoscere che almeno ne riescono 
                  a percepire il peso e l'importanza.
 Giorgio Sacchetti 
 
 Piazza Fontana/I depistaggi e le colpe della magistratura
 Era tempo che Guido Salvini, giudice istruttore di un troncone 
                  importante delle indagini sull'eversione di destra e sulla strage 
                  di Piazza Fontana, mettesse nero su bianco la sua esperienza 
                  professionale e umana legata al 12 dicembre 1969 – giorno 
                  cruciale della nostra storia collettiva, lì capiamo l'Italia 
                  degli anni a venire e, in definitiva, quella di oggi.
  Lo 
                  scoccare suggestivo del cinquantesimo anniversario ha portato 
                  nelle librerie La maledizione di Piazza Fontana. L'indagine 
                  interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati 
                  (Milano 2019, pp. 640, € 22,00) scritto con Andrea Sceresini 
                  per l'editore Chiarelettere. Un libro poderoso, corposo e intenso 
                  e non solo perché è il frutto di ben 30 anni di 
                  inchieste sull'argomento da parte dell'autore – come giudice 
                  istruttore dell'ultima istruttoria (1989-1998) e poi nelle vesti 
                  di osservatore e analista – ma anche perché Salvini 
                  ci porta dentro i meandri vivi e putridi della strage e ai retroscena 
                  bassissimi delle indagini, quelli che hanno determinato gravi 
                  e irrimediabili ritardi investigativi. Salvini non scrive un 
                  saggio ma propone al lettore una narrazione e, scrivendo, resta 
                  un giudice, usa il suo armamentario per riversare il suo sapere 
                  sulle indagini insieme alla sua amarezza per il corto circuito 
                  del sistema politico-giudiziario che ha bloccato e fatalmente 
                  ucciso la possibilità di avere una chiara sentenza di 
                  responsabilità. Non che non sappiamo, anzi. L'anniversario è stato occasione 
                  di molte pubblicazioni e di tantissimi dibattiti che, ci illudiamo, 
                  hanno consolidato una certezza: le responsabilità della 
                  bomba di Piazza Fontana sono acquisite. Il gruppo neofascista 
                  di Ordine Nuovo, soprattutto grazie proprio alle indagini di 
                  Salvini, è stato mente e braccio dell'ondata di violenza 
                  stragista, sappiamo bene che non è mai stato un gruppo 
                  politico di estrema destra ma una cellula paramilitare ben inserita 
                  nel contesto delle strutture clandestine atlantiche. Gli apparati 
                  dello Stato non sono intervenuti per difendere la democrazia: 
                  la polizia politica di Umberto Federico D'Amato, con la sua 
                  struttura degli Affari riservati, ha provveduto a deviare le 
                  indagini sui gruppi anarchici, costruendo la figura del mostro 
                  Valpreda e sbattendo brutalmente in carcere tutti i sospettati, 
                  rimasti lì per tempi lunghissimi di arresti cautelari, 
                  vite spezzate, sofferenza e abbandono per gli innocenti maldestramente 
                  accusati; il nostro servizio segreto, il Sid, ha protetto tutto 
                  il giro dei neofascisti, a cominciare da quelli che potevano 
                  incautamente contribuire a dire la verità – organismi 
                  delle istituzioni lavorarono non a favore ma contro le indagini. 
                  Il primo testimone di giustizia che indicò la strada 
                  della pista nera si fece avanti il 31 dicembre del 1969: Guido 
                  Lorenzon, professore di francese, aveva appreso tantissimo dalle 
                  confidenze ricevute dall'editore neofascista Giovanni Ventura; 
                  e poi nel '71 arrivarono le confessioni di Giancarlo Marchesin 
                  e Franco Comacchio.
 Eppure la storia giudiziaria di Piazza Fontana è fatta 
                  di centinaia di faldoni, cinque istruttorie, tre processi, dieci 
                  gradi di giudizio complessivi e solo il pentito Carlo Digilio 
                  è uscito condannato come responsabile della strage. Il 
                  libro di Salvini ci mette di fronte a un aspetto brutale della 
                  faccenda: non solo i depistaggi e le protezioni, non solo la 
                  forza dei gruppi neofascisti e delle loro protezioni, non solo 
                  la rete di protezione degli agenti statunitensi disseminati 
                  nelle basi Usa. Anche l'imperizia e la superficialità 
                  degli inquirenti hanno contribuito a rendere incompiuta la verità 
                  giudiziaria – nel frattempo e per fortuna si è 
                  consolidata quella storica.
 Perché non è stato rintracciato e interrogato 
                  Ivano Toniolo, uno degli “operativi” della cellula 
                  padovana di Ordine Nuovo, a casa del quale, il 18 aprile 1969, 
                  era stata decisa la campagna di attentati culminata con la strage 
                  del 12 dicembre? È morto nel 2015 in Angola, dove risiedeva 
                  dagli anni '70. La procura di Milano si è sempre rifiutata 
                  di contattarlo e di ascoltarlo, nonostante le ripetute sollecitazioni 
                  sia del giudice Salvini che dell'avvocato Sinicato, l'avvocato 
                  dei familiari delle vittime. Carlo  Digilio  e  
                  Martino  Siciliano, preziosi collaboratori, sono stati 
                  entrambi abbandonati a sé stessi. E perché non 
                  fu fatto il possibile per cercare il casolare di Paese, prova 
                  decisiva non cercata dalla Procura – ritrovata solo nel 
                  2011 dalle indagini ben fatte dell'ispettore  Michele  
                  Cacioppo nell'ambito delle indagini sulla strage di Piazza della 
                  Loggia condotte dalla Procura di Brescia?
 La lista delle persone trascurate è lunga. C'è 
                  anche Giampietro Mariga, l'autista della strage. Non fu cercato. 
                  Fuggì in Francia e si arruolò nella Legione straniera; 
                  la Procura di Milano, incalzata da Salvini, temporeggia e arriva 
                  troppo tardi: nel marzo del 1998 viene trovato morto, pare suicida. 
                  Tutto avviene mentre scoppia la guerra tra magistrati, ricostruita 
                  dettagliatamente nella terza parte del libro: Salvini si è 
                  beccato un'indagine per abuso d'ufficio da parte della procura 
                  di Venezia e ben due procedimenti presso il Csm. Un attacco 
                  durissimo – durato dal 1995 al 2001, Salvini completamente 
                  assolto dalle accuse – ma  rovinoso  per la 
                  sua indagine presa di mira proprio mentre stava dando buoni 
                  frutti.
 Tra testimoni abbandonati, processi frammentati e faldoni in 
                  giro per l'Italia, in un su è giù che ha corroso 
                  la vitalità della miriade di prove e indizi raccolti 
                  nel tempo, anche le rivalità e le gelosie hanno segnato 
                  drammaticamente l'esito delle inchieste sull'atto criminale 
                  che ha aperto lo stragismo in Italia. Le aspre pagine di Guido 
                  Salvini sui comportamenti di diversi e noti suoi colleghi aprono, 
                  ahinoi, un nuovo faldone, quello delle responsabilità 
                  di certa magistratura nelle mancate verità sulle pagine 
                  più violente della storia recente del nostro Paese.
 Stefania Limiti 
 
 Nuove tecnologie e rapporti di dominio/Imparare dalle storie degli altri
 Il libro Internet, Mon Amour – Cronache prima del 
                  crollo di ieri (Ledizioni 2019, pp. 270, € 19,00) è 
                  un esperimento di autoproduzione e informatica conviviale firmato 
                  da Agnese Trocchi, a cura di C.I.R.C.E.Recita la quarta di copertina: «Le nuove tecnologie ci 
                  danno la possibilità di non dover scegliere. Non è 
                  fantastico?» Quanta fatica in meno! Davvero, è 
                  magnifico delegare la responsabilità di ogni scelta a 
                  sistemi cosiddetti intelligenti. Quale libro acquistare, quale 
                  film o serie TV vedere; ma anche dove andare a cena, o in vacanza; 
                  quale strada percorrere per arrivare a destinazione: ci pensano 
                  piattaforme online, app su misura, navigatori, assistenti 
                  vocali, tutti assai smart. Funziona anche per scegliere 
                  l'anima gemella, o almeno con chi andare a letto, e così 
                  via. Funziona, davvero.
 
  Però 
                  ogni delega ha un prezzo. In questi casi, insieme alla fatica, 
                  ci si libera piano piano anche dalla capacità di scegliere 
                  autonomamente, e quindi ci si libera anche dalla libertà. Ecco il perché di questo libro, in cui Agnese raccoglie 
                  una quarantina di storie accadute prima di una (remota? possibile? 
                  probabile?) Grande Peste di Internet. Storie di ordinario ab-uso 
                  tecnologico, raccontate da un gruppo di hacker, artiste, smanettoni, 
                  poi commentate, analizzate e ordinate in cinque giornate: fuoricasa, 
                  relazioni, sex, truffe e una conclusiva 
                  ricreazione.
 Sono storie vere, realmente accadute; oppure, più raramente, 
                  solo verosimili. L'obiettivo è raccontare il presente 
                  e il recente passato per ricordarci che il futuro non è 
                  scritto, ma dipende (anche e soprattutto) dalle scelte di ogni 
                  umano, giorno per giorno.
 La versione cartacea di questo libro è in distribuzione 
                  anche presso alcuni luoghi affini per feticci cartacei, indicati 
                  sul sito di C.I.R.C.E. La versione integrale del libro si può 
                  leggere liberamente, naturalmente su internet, a questo indirizzo: 
                  ima.circex.org
 No, in caso questa fosse la prossima domanda, non prevediamo 
                  di diffonderlo in PDF. Il libro è tutto online, volendo 
                  si può salvare per la lettura offline (copia del sito 
                  con wget, o per windows www.httrack.com) e rimane navigabile 
                  e molto comodo da leggere anche su dispositivi con lo schermo 
                  piccolo. Il PDF, invece, ha tante controindicazioni per la lettura, 
                  essendo un formato per la stampa. Ecco qui più in dettaglio 
                  come la pensiamo in merito: circex.org/it/ima/aiutaci-a-diffondere-internet-mon-amour
 Stiamo creando una versione EPUB, che però è un 
                  po' laboriosa, se si vuole ottenere qualcosa di dignitoso.
 Internet, Mon Amour è un libro conviviale non 
                  solo per il quadro narrativo ma anche perché utile per 
                  i nostri laboratori e formazioni – del Centro Internazionale 
                  di Ricerca per la Convivialità Elettrica, o C.I.R.C.E., 
                  il pomposo nome che abbiamo voluto affibbiare alle nostre collaborazioni 
                  – sparsi in giro per l'Europa.
 Il presupposto di C.I.R.C.E. è il riconoscimento del 
                  punto di vista privilegiato rappresentato dal digitale di massa. 
                  Almeno dall'inizio del XXI secolo le tecnologie digitali di 
                  massa sono i luoghi in cui risultano più leggibili i 
                  meccanismi di dominio, ovvero le asimmetrie di potere. I media 
                  infatti «mediano» le relazioni di potere, fra individui, 
                  istituzioni e così via. Gli «Altri» radicali, 
                  le macchine, sono la cartina tornasole capace di rivelare i 
                  nostri punti nevralgici, di maggiore sensibilità, a livello 
                  individuale e sociale. Così il dibattito si concentra 
                  sulla sorveglianza, invece che sul capitalismo; sull'insegnamento 
                  dell'informatica, persino ai bambini, invece che sulla logica; 
                  sul cyberbullismo, invece che sulla prepotenza come metodo standard 
                  per farsi strada nella vita; sulle criptomonete, invece che 
                  sull'esproprio continuo della capacità di autodeterminazione 
                  e autogestione delle persone; sulla corretta informazione, invece 
                  che sull'oppressione come modalità di default 
                  per la gestione dei conflitti; sulla regolamentazione dei social 
                  e delle piattaforme, invece che sulla manipolazione strutturale 
                  delle tecnologie di massa.
 Ma i conti non tornano. Il dito delle «nuove tecnologie» 
                  tende a oscurare la luna dei rapporti di dominio. Perciò 
                  ci rivolgiamo in primo luogo agli esseri umani curiosi 
                  del loro rapporto con gli esseri tecnici, in particolare 
                  digitali ed elettromeccanici. Insomma quelle che vengono rubricate 
                  solitamente come «macchine».
 Perché raccontare storie, allora? Internet, Mon Amour 
                  cerca di concretizzare l'idea che «il metodo è 
                  il contenuto». In parole povere, non si può insegnare 
                  dall'alto di una cattedra a collaborare in maniera orizzontale. 
                  Dal punto di vista metodologico, sarebbe quasi come urlare a 
                  qualcuno di fare silenzio con l'obiettivo di insegnare il «valore 
                  dell'ascolto». O come chiedere di insegnare a usare bene 
                  una pistola affinché non spari mai, ma intanto ci difenda. 
                  Non si può usare bene.
 Però si possono fare molte altre cose interessanti. Per 
                  esempio imparare dalle storie degli altri. La versione digitale 
                  di Internet, Mon Amour continua ad arricchirsi di nuovi 
                  racconti di ricreazione, lontani dalle facili distopie. Perciò, 
                  se avete dei suggerimenti, o una storia da raccontare, fateci 
                  sapere: ima@circex.org.
 Carlo MilaniC.I.R.C.E. 
                  circex.org
 
 
 Susan Sontag/L'autoanalisi di un'intera società
  Sorprendono 
                  i diari di Susan Sontag, di cui sono già usciti tradotti 
                  in italiano i primi due volumi per le edizioni Nottetempo (Rinata. 
                  Diari e appunti 1947-1963, Milano 2018, pp. 320, € 
                  22,00 e La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 
                  1964-1980, Milano 2019, pp. 600, € 25,00). In questi 
                  taccuini, l'intellettuale americana, scomparsa nel 2004, scrive 
                  della propria vita privata, degli affetti più intimi, 
                  del proprio pensiero e degli incontri con figure importanti 
                  del mondo culturale internazionale. I diari, curati dal figlio David Rieff, mostrano la forza e 
                  i lati deboli dell'autrice, il suo pensare lucidamente, dispiegato 
                  poi nella disciplina dei suoi saggi e una grande fragilità 
                  nel vissuto sentimentale e familiare, di cui è sempre 
                  cosciente e a cui guarda come da un suo malevolo doppio, senza 
                  alcun pietismo, né assoluzione.
 Difficili e complessi i rapporti con la madre, negativa la figura 
                  del marito, a più riprese descritto con note di disgusto, 
                  che devono avere creato non poca sofferenza al figlio nella 
                  selezione dei brani e quindi pagine e pagine sui fallimenti 
                  amorosi, sull'omosessualità (a tratti bisessualità) 
                  mai celata e sulla dipendenza dalle donne amate che la condizionò 
                  a lungo. Sono questi i brani più amari di diari e taccuini; 
                  vero che scriveva queste pagine sopratutto sopraffatta dalla 
                  tristezza, ma è evidente che viveva ogni relazione lesbica 
                  in modo totalizzante, tanto da far indietreggiare le amanti 
                  coinvolte, anche se va detto che quasi sempre erano più 
                  o meno in difficoltà con la propria vita.
 L'attrazione di Sontag per personaggi famosi, cosa che un po' 
                  la irritava, ma ammetteva, dà al lettore ulteriore conferma 
                  dello stile di questa donna tesa e implacabile nel non arrendersi 
                  ai luoghi comuni o a un conforto che non cercava. Questo aiuta 
                  a comprendere lo spirito in cui scrisse queste annotazioni, 
                  frammentarie, discontinue, ma vere. Leggiamo così un 
                  lungo diario che attraversa buona parte del '900 e mostra i 
                  dilemmi che hanno lacerato, non solo la scrittrice Sontag, ma 
                  intere generazioni che tentarono di sottrarsi all'anestesia 
                  morale e civile, ma non senza cadere in un'altra forma di conformismo, 
                  più politico e altrettanto mortale.
 L'autoanalisi di Sontag è durissima e c'è, nell'essenza 
                  delle sue riflessioni, un lavoro inarrestabile, una ricerca 
                  e interrogazione che si muovono tra la materialità del 
                  corpo e quella del linguaggio. Se ne serve per scandagliare 
                  i propri lati oscuri, senza censure e questo le garantisce un'integrità 
                  morale che ha il suo peso nella vicenda complessiva della sua 
                  vita, ma la porta anche ad anticipare certe riflessioni della 
                  più recente filosofia.
 
  A 
                  un certo punto si definisce femminista militante, ma non militante 
                  femminista, prendendo un po' le distanze da alcune tendenze 
                  del movimento di allora; sì all'impegno, ma nella libertà 
                  di non farne un mestiere. Da pensatrice radicale e libera, non 
                  amava nemmeno una certa sinistra, troppo ferma al solo anti-americanismo 
                  e di un estremismo spesso fine a se stesso. I suoi giudizi sul 
                  comunismo reale e sul Vietnam del nord che visitò durante 
                  il conflitto, tolgono ogni dubbio sulla lontananza che sentiva 
                  verso ogni ideologia autoritaria e verso i totalitarismi. Non 
                  per questo era morbida con l'ambiente intellettuale, sia newyorchese 
                  che degli espatriati. Basterebbero le pagine sul Marocco a confermare 
                  il suo sottrarsi ad ogni estetismo naïf. L'altro rapporto complesso fu con la malattia. Il cancro la 
                  colpi a più riprese, fino all'atto finale, la morte. 
                  Non si arrese e si curò con ogni mezzo. Le ultime fotografie, 
                  scattate dalla sua compagna Annie Leibovitz, ne rivelano la 
                  sofferenza e l'invecchiamento, oltre alla solitudine di chi 
                  è di fronte alla morte. Non si estraniò mai comunque 
                  fino al punto di tacere. La sua condanna delle tante atrocità 
                  fu puntuale e mai subordinata al politicamente corretto. Vedeva 
                  troppo bene sia le falle della democrazia, sia cosa significasse 
                  e implicasse la presenza di movimenti fondamentalisti, il loro 
                  essere più che antidemocratici, impregnati di un patriarcato 
                  in cui l'odio verso i diritti delle donne e dei diversi ha passato 
                  ogni limite e dove l'uso della religione è finalizzato 
                  ad imporre una visione unica del vivere, creando di fatto un 
                  imperialismo se possibile ancora più feroce di quello 
                  che vorrebbero eliminare.
 I taccuini fino ad ora pervenuti si fermano al 1980, si aspetta 
                  quindi il terzo volume, ma tanto altro si può comunque 
                  leggere nei suoi ultimi libri. Resta da dire il suo amore per 
                  la letteratura, il cinema, la cultura in tutte le sue ramificazioni.
 Impressionano le liste di film che riusciva a vedere, lo stesso 
                  per le letture. Tra le altre cose fu anche regista di film e 
                  di spettacoli teatrali. I suoi film e il teatro, così 
                  come i suoi romanzi, non raggiunsero mai il livello dei saggi 
                  dove la sua intelligenza trovò lo sbocco ideale. Soffrì 
                  anche per questo. Si voleva artista a tutto tondo, ma il suo 
                  talento era diverso. Non cosa da poco in ogni caso; da lì 
                  vengono la sua capacità di critica severa, il coraggio 
                  in ogni frangente (in alcuni casi assai scomodo) e la curiosità 
                  per un mondo da esplorare e vivere con gli altri. Tutto questo 
                  la sua scrittura privata lo conferma.
 Nadia Agustoni 
 
 Pino Pinelli/”Hanno detto che mi sono suicidato”
 Non tacete, io sono innocente...Non tacete, che il silenzio sarebbe vergogna.
 (Bartolomeo Vanzetti)
 «Mi chiamo Giuseppe Pinelli, ma tutti mi chiamano Pino. Sono morto nella 
                  notte del 15 dicembre 1969. Hanno detto che mi sono suicidato, 
                  che mi sono buttato dal quarto piano della questura di Milano». 
                  Comincia così il film Pino - Vita accidentale di un 
                  anarchico di Claudia Cipriani. Un titolo che rimanda esplicitamente 
                  alla pièce di Dario Fo (Morte accidentale di un anarchico) 
                  e che, fin dal titolo, parla soprattutto della “vita” 
                  di Pino, della sua quotidianità al Circolo anarchico 
                  Ponte della Ghisolfa, dei suoi ultimi giorni con la famiglia 
                  e i compagni nella casa di Via Preneste - le porte sempre spalancate 
                  sul mondo - i ricordi delle figlie ancora bambine. La voce fuori 
                  campo di un attore interpreta Pinelli, in apertura, poi saranno 
                  soprattutto due attrici “nei panni” delle figlie 
                  a condurci, a parole, in questa storia di lutto e dolore non 
                  di una sola famiglia, né dei soli circoli libertari, 
                  ma dell'Italia intera.
  Al principio, sullo schermo vediamo “in soggettiva” 
                  una strada d'asfalto srotolarsi nella notte buia. Idealmente, 
                  in quel momento, “siamo tutti” Pinelli, a bordo 
                  del suo leggendario motorino rosso scassato, a percorrere la 
                  notte di Milano, ancora una volta. Già morto, ucciso, 
                  innocente, la “sua” voce aggiunge: «Hanno 
                  detto che mi sono buttato, gridando “è la fine 
                  dell'anarchia!”, ma chi mi conosceva bene sa che non mi 
                  sarei mai arreso. Ci sono troppe cose da cambiare in questo 
                  mondo... Per questo non mi sarei mai suicidato. Forse pensavano 
                  che la morte di un anarchico sarebbe stata dimenticata in poco 
                  tempo. Hanno fatto male i loro conti». Il film Vita accidentale di un anarchico è un 
                  lavoro anomalo e sentito, documentato, personale, storico, famigliare, 
                  a tratti poetico (Pino guarda la città scorrere al contrario 
                  sull'acqua dei navigli, Pino legge Topolino alle sue 
                  bambine con tanto di “Bang, Gasp, Gulp!”).
 Realizzato in tecnica mista, è documentario, animazione, 
                  collage di ritagli di giornali, fotografie, filmati d'epoca. 
                  Forse eccede nel voler condensare anche cinquant'anni di Storia 
                  successiva (lo scorrere degli anni e delle immagini di repertorio 
                  da Reagan a Berlusconi). Riesce però completamente a 
                  evitare la “docufiction”, genere brutto fin dal 
                  nome, ed è soprattutto traccia “diaristica” 
                  delle figlie. Il film parte proprio dal racconto di Claudia 
                  e Silvia, coautrici insieme alla regista e a Niccolò 
                  Volpati. Narrazione ad altezza e sguardo delle bambine di allora. 
                  Innocenti, come il padre, in un'Italia in cui la strategia della 
                  tensione raggiunge il suo culmine tragico.
 Un mosaico che si compone progressivamente, attraverso il racconto 
                  delle figlie di Pino, che a loro volta, oltre ai personali ricordi, 
                  hanno in parte conosciuto il padre attraverso la narrazione 
                  della madre e degli amici. L'antiautoritarismo, il pacifismo, 
                  la non violenza di Pinelli, sempre dalla parte degli ultimi, 
                  tutto emerge attraverso racconti privati e le letture consigliate 
                  da Pino agli amici (L'antologia di Spoon River di Edgar 
                  Lee Masters, Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin, 
                  La disobbedienza civile di Thoreau e La fattoria degli 
                  animali di George Orwell).
 Anarchico, ferroviere, esperantista, idealista... Il ritratto 
                  di Pino emerge potente e nitido attraverso parole, immagini 
                  e “immaginazioni” (veritiere): l'attore che lo interpreta 
                  e il cartoon.
 I giornali di allora titolano: “Gli dissero: abbiamo preso 
                  Valpreda e Pinelli saltò giù dalla finestra”. 
                  “Valpreda continua a negare”. “I vicini affermano: 
                  sembravano brave persone”.
 Stabiliscono già la loro “Verità” 
                  lapidaria, innegabile e inoppugnabile.
 Il questore Guida, ex direttore del confino di Ventotene durante 
                  il fascismo, dichiarò: «Il suo gesto suicida è 
                  come una confessione».
 Ogni falsità, mezza verità, inganno ritorna a 
                  fuoco nell'opera di Cipriani, la cui visione andrebbe accompagnata 
                  al recente libro di Paolo Pasi, Pinelli – Una storia 
                  (ed. eleuthèra).
 È assordante nel film il silenzio che accompagna le immagini 
                  dei funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana (15 
                  dicembre) e poi quelli di Pino (20 dicembre), del quale vediamo 
                  rare tracce filmate in bianco e nero. Licia, i parenti e gli 
                  amici in lutto camminano nella nebbia in un filare di alberi 
                  del cimitero.
 Struggente anche il racconto delle figlie alla vigilia dell'inaugurazione 
                  dell'opera di Enrico Baj I funerali di Pinelli (che non 
                  “inaugurò” mai, dopo l'omicidio Calabresi). 
                  Claudia e Silvia si vedono/riconoscono nelle due bambine dipinte 
                  in lacrime e con le mani sugli occhi dell'opera e ne escono 
                  sconvolte. Riconoscersi nell'arte diventa riconoscersi nella 
                  verità.
 La moglie di Pino osserva: «Alla morte non c'è 
                  rimedio, alla diffamazione sì».
 Come nel libro Una storia quasi soltanto mia di Licia 
                  Pinelli e Piero Scaramucci (ed. Mondadori) colpisce ancora oggi 
                  proprio la forza senza pari della moglie di Pino, la sua determinazione 
                  a esigere verità e giustizia per l'amato, a nascondere 
                  ogni pianto davanti alle bambine. A occultare ogni giornale, 
                  a spegnere ogni televisore.
 Un giorno Pino disse, riferendosi alle tensioni crescenti: «Non 
                  vedo l'ora che passi questo 1969».
 Purtroppo quel '69, proprio quando stava terminando cronologicamente, 
                  è rimasto come sospeso per sempre nel suo loop 
                  di menzogne.
 Nel 2005 la Cassazione stabilisce che la strage di Piazza Fontana 
                  fu compiuta da Freda e Ventura, non più processabili, 
                  perché assolti in via definitiva nel 1987.
 Nessuna giustizia per la strage, così come nessuna giustizia 
                  per Pinelli. L'unico riconoscimento di “giustizia ufficiale” 
                  – visibile nel finale del film – fu quando, nel 
                  2009, il presidente della repubblica Giorgio Napolitano invitò 
                  Licia al Quirinale. Chiese «rispetto per la figura di 
                  un innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi 
                  infondati sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine».
 Luca Barnabé 
 
 Charlie Hebdo/La libertà (pagata cara) di ridere di tutto
 Il memoir di Philippe Lançon, uno dei sopravvissuti 
                  alla strage di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015, non 
                  dedica poi molte pagine all'attentato. L'autore vi si sofferma 
                  in un capitolo dove descrive con grande cura la confusione e 
                  il terrore di quei due minuti in cui vide cadere alcuni fra 
                  i suoi più cari amici, uccisi dai proiettili dei fratelli 
                  Kouachi, e rimase gravemente ferito. Ma per quanto possa apparire 
                  strano, non è la parte cruciale del libro. In realtà 
                  La traversata – pubblicato da e/o nella traduzione 
                  di Alberto Bracci Testasecca (Roma 2020, pp. 464, € 19,00) 
                  – è per la maggior parte la cronaca del dopo, ovvero 
                  di una lunghissima degenza, con tutto ciò che questo 
                  comporta: la solitudine e l'immobilità; gli incontri 
                  casuali con gli altri pazienti e le fragili relazioni che ne 
                  sorgono; la nuova scansione del tempo; alcune letture e alcuni 
                  ascolti (Kafka, Thomas Mann e Bach su tutti); gli agenti di 
                  polizia che piantonano la camera d'ospedale, per fronteggiare 
                  eventuali nuovi assalti; la ciclicità delle operazioni, 
                  dei fallimenti e dei tentativi per riavere un corpo funzionante 
                  e una bocca integra; la difficoltà di “posare di 
                  nuovo i piedi sulla sponda dei vivi”; le sedute di fisioterapia 
                  e cinesiterapia dopo gli interventi chirurgici; e infine, una 
                  rigorosa dieta di opinioni.
  Vittima “dei censori più zelanti, quelli che liquidano 
                  tutto senza aver letto niente”, Lançon limita il 
                  più possibile le considerazioni di ordine generale e 
                  anzi comincia a provare una certa nausea delle parole: “Ogni 
                  parola pubblica aveva il marchio dell'indifferenza e della vanità. 
                  Tutte, a cominciare dalle mie. Le parole vivevano ormai soltanto 
                  nel campo più intimo e concreto, era l'unico posto in 
                  cui potevano vivere e, pur attenuata, è una sensazione 
                  che provo ancora due anni e mezzo dopo mentre sto scrivendo 
                  queste righe, per quel che valgono. Ho sempre l'impressione 
                  di scrivere a lato di me stesso quando scrivo per quelli che 
                  non hanno conosciuto la camera e il silenzio che la avviluppava. 
                  La camera è il luogo in cui le parole crepano, si spengono. 
                  Non ne sono uscito. Continuo a pensare che quel che scrivo sia 
                  di troppo.” Una nausea che si manifesta anche nei confronti della pompa 
                  delle manifestazioni, dell'onda di retorica – spesso in 
                  ottima fede, a volte meno – dei giornali e della politica. 
                  Quando legge dello slogan Je suis Charlie, Lançon 
                  si limita sobriamente ad affermare che lui, a letto con una 
                  mascella distrutta e numerose ferite, non è Charlie: 
                  “Manifestazione e slogan riguardavano un evento di cui 
                  ero stato vittima, di cui ero uno dei sopravvissuti, ma per 
                  me era un evento intimo. Me l'ero portato dietro come un tesoro 
                  malefico o un segreto in quella stanza in cui niente e nessuno 
                  poteva seguirmi completamente, a parte colei che mi aveva preceduto 
                  nel cammino che mi accingevo a intraprendere: Chloé, 
                  la mia chirurga. Scrivevo su Charlie, ero stato ferito e avevo 
                  visto i miei amici morti a Charlie, ma non ero Charlie.” 
                  Semmai è i suoi affetti, è i suoi medici – 
                  e non ci si inganni, perché è esattamente per 
                  questa possibilità di chinarsi sul proprio cerchio ristretto 
                  di amori e idiosincrasie che Charlie Hebdo si è 
                  battuta.
 Un altro aspetto molto interessante de La traversata 
                  è il rifiuto, da parte di Lançon, di qualsiasi 
                  senso di colpa del sopravvissuto. Chi ha letto Primo Levi conosce 
                  bene questa sindrome: tuttavia Lançon non si colpevolizza 
                  per essere rimasto vivo: prova molto dolore per chi è 
                  morto, prova rabbia, ma non altro. La sua amministrazione del 
                  lutto è fieramente libertina, nel vero spirito di Charlie 
                  Hebdo, viene da dire. Da ciò scaturisce un inno alla 
                  vita pressoché assoluto; e per questo è bene non 
                  aspettarsi dalla Traversata conforti morali o profonde 
                  rivelazioni: la vita, la vita vera, è tutto: gli amori 
                  e le letture e la musica, ma anche gli egoismi, i difetti, le 
                  piccole meschinità, l'indifferenza, la rabbia. Questo 
                  è quanto accetta per intero Lançon, quanto accettavano 
                  i suoi amici assassinati. È meglio della morte. Specularmente, 
                  l'autore rifiuta il potere che acquisirebbe in quanto vittima: 
                  potere di essere ascoltato più del previsto; potere sacrale 
                  di perdono e assoluzione. Rifiuta i doni oscuri di quel giorno 
                  orrendo, fra cui l'eventuale arroganza di “saperne di 
                  più”.
 Libertario come il nucleo storico di Charlie, ma direi individualista 
                  fino al midollo, Lançon ci guida in una “traversata” 
                  che è innanzitutto personale: le complicazioni di una 
                  storia d'amore su cui l'attentato grava come un macigno; i rapporti 
                  con il fratello e i genitori; le conversazioni con medici e 
                  infermieri. Tutto questo significa snobbare l'enorme tratto 
                  politico e sociale di quanto accaduto? No, certo. Ma è 
                  nelle fessure del testo che questo tratto viene indagato, con 
                  una sorta di comprensibile stanchezza e disgusto: eppure lanciando 
                  qualche spunto illuminante.
 Innanzitutto: la mattina dell'attentato, come le altre, i redattori 
                  di Charlie Hebdo erano lì per “dire cazzate”. 
                  Letteralmente. “Insisto, lettore: in quel mattino come 
                  gli altri l'umorismo, l'apostrofe e l'indignazione teatrale 
                  erano i giudici e gli esploratori, i genietti buoni e quelli 
                  cattivi, secondo una tradizione molto francese che valeva quello 
                  che valeva, ma il cui seguito avrebbe dimostrato che l'essenziale 
                  del mondo le era estraneo.” Anche per questo, come osserva 
                  con amara ironia Lançon, quella mattina in Francia erano 
                  ben pochi a voler essere Charlie. Il giornale aveva alcuni lettori 
                  fedeli ma certo molti più detrattori, che lo accusavano 
                  di razzismo e che lo odiavano al punto di trasformare “la 
                  lotta sociale in bigottismo” – proprio ciò 
                  contro cui Charlie Hebdo si scagliava.
 “Eravamo una banda di amici più o meno intimi di 
                  un piccolo giornale ormai in bolletta, quasi defunto”, 
                  spiega il giornalista. “Lo sapevamo, ma eravamo liberi. 
                  Eravamo lì per divertirci, per insultarci, per non prendere 
                  sul serio un mondo disperante.” Si può essere d'accordo 
                  o meno con il loro modo di divertirsi, ma non si può 
                  negare che l'esperimento di Charlie era ed è di tendere 
                  la libertà d'espressione al suo limite estremo; ridere 
                  di tutto, ridendo in primo luogo di se stessi. E in effetti 
                  gran parte del dibattito prima e forse ancor più dopo 
                  l'attentato, pur sempre riconoscendo l'oscenità e l'orrore 
                  di quella violenza, si è concentrato sulla liceità 
                  della satira da parte di Charlie Hebdo, spesso gratuita 
                  o rivolta verso la religione di fasce sociali discriminate e 
                  povere – appunto l'Islam. Come se in redazione fossero 
                  del tutto ciechi di fronte alla diseguaglianza sociale o praticassero 
                  una forma di irresponsabilità totale, che prima o poi 
                  avrebbe provocato quanto è accaduto: ragionamenti del 
                  genere erano moneta corrente.
 Ebbene, una delle ultime cose che Lançon ha sentito durante 
                  la riunione del 7 gennaio 2015 è stata una tirata di 
                  Tignous, al secolo Bernard Verlhac, uno dei vignettisti del 
                  settimanale, prima che venisse falciato dai colpi morendo con 
                  la penna in mano. È bene citare il brano per intero: 
                  “Ha parlato della periferia da cui veniva lui, Montreuil, 
                  e dei suoi amici d'infanzia. Molti di loro erano morti, finiti 
                  in prigione o devastati da qualcosa. «Io ne sono uscito» 
                  ha tuonato, «ma loro? Che hanno fatto per loro, perché 
                  avessero un'opportunità? Niente! Non hanno fatto niente. 
                  E continuano a non fare niente per quelli che vengono dopo, 
                  per tutti quelli che non hanno un lavoro né un'occupazione, 
                  che ciondolano per strada e sono condannati a diventare ciò 
                  che ne abbiamo fatto noi, degli islamisti, dei pazzi furiosi, 
                  e non venirmi a dire che lo Stato ha fatto tutto per loro. Non 
                  ha fatto proprio niente, lo Stato. Li lascia crepare. È 
                  un pezzo che se ne frega!». Sto ricostituendo, riassumendolo, 
                  un discorso molto più perentorio, arrabbiato, limpido, 
                  un discorso che sgorgava dal cuore, brandendo la matita, che 
                  l'accento popolare del disegnatore aveva trasformato in un grido 
                  di rabbia in favore dei poveri delle periferie, dei disoccupati, 
                  dei violenti, degli arabi, dei musulmani, dei terroristi. Bernard 
                  non ha replicato e io ho pensato che era arrivato il momento 
                  di andarmene.”
 Poi sono arrivati gli assassini.
 Giorgio Fontana |