Rivista Anarchica Online


dibattito

Anarchici nella CGIL

di Cristiano Valente

Sulla questione sindacale, esistono differenti orientamenti in campo anarchico e libertario. In questo scritto vengono sviluppate le ragioni di chi rifiuta di partecipare a piccole esperienze di sindacati “di base” o anarcosindacalisti a favore di una presenza nella CGIL. Il dibattito è aperto. Da qualche decennio.


Se all'interno del movimento anarchico vi è una questione storicamente irrisolta questa è proprio “la questione sindacale” che ogni tanto riemerge agitando le acque.
Possiamo schematicamente affermare che l'intervento delle anarchiche e degli anarchici nel mondo del lavoro è articolato in tre distinte direttrici: la prima è orientata verso l'anarcosindacalismo di cui l'USI è l'espressione più qualificata; un'altra componente agisce all'interno delle sigle sindacali del sindacalismo di base; infine l'altro orientamento è rappresentato da quelle compagne e da quei compagni attivi all'interno della CGIL.
Quest'ultima è la presenza sindacale che, per quanto abbia implicazioni storiche che si collocano all'origine del movimento di classe, risulta essere la meno indagata e quella più sbrigativamente liquidata all'interno del nostro movimento e talvolta equiparata alla categoria del “tradimento”.
In maniera preliminare, senza la pretesa di svolgere in questa sede un'analisi esaustiva del fenomeno riformista e sulla sua funzione sociale nella società capitalistica, possiamo definire come antistorica una distinzione che si è fatta strada all'interno del dibattito sindacale nel nostro movimento fra “enti parastatali” e “sindacati riformisti”, inserendo fra i primi le organizzazioni sindacali confederali, in testa la CGIL, e tra i secondi l'articolatissimo mondo del sindacalismo di base o autorganizzato.
Una certa impostazione presente nel nostro movimento attribuisce una maggiore coerenza alla militanza sindacale delle compagne anarchiche e dei compagni anarchici, se non all'interno dell'USI dal dichiarato ed esplicito riferimento anarcosindacalista, quanto meno all'interno di strutture, autenticamente riformiste quali sarebbero quelle del sindacalismo di base. Una simile impostazione sposta la questione sindacale su di un piano ideologico e quindi soggettivo, in quanto le organizzazioni di resistenza dei lavoratori nascono e si sviluppano nel quotidiano scontro con il capitale, al fine di migliorare le proprie condizioni materiali.
Un nostro vecchio compagno internazionalista, Errico Malatesta, correttamente affermava: “I sindacati necessariamente nascono e si sviluppano lungo le linee tracciate del sistema di produzione attuale, e sono perciò organi disadatti per compiere quella profonda rivoluzione di tutta la vita sociale, senza la quale il privilegio e l'oppressione non spariranno mai completamente.”1 E ancora più chiaramente: “Il sindacalismo, [...] anche se rinforzato dall'aggettivo rivoluzionario, non può essere che un movimento legale, un movimento di lotta contro il capitalismo nell'ambiente economico e politico che il capitalismo e lo Stato gli impongono”2, e nei confronti di quei compagni che indicavano nell'anarcosindacalismo o nel sindacalismo rivoluzionario la prassi e soprattutto la strategia finalmente individuata del processo di trasformazione rivoluzionaria concludeva:”non crediamo neppure ch'essi possano essere, come asseriscono i sindacalisti, l'embrione della società di liberi e di uguali a cui aspiriamo.”3
Quindi il sindacalismo è necessariamente per sua intrinseca natura un fenomeno riformista.

Minoranze eterogenee ma consistenti

Ma se il legame fra sindacalismo e riformismo risulta oggi più chiaro che mai, occorre porsi un altro quesito. C'è forse mai stato un riformismo antistatale o semplicemente non statale?
Non esiste alcuna possibilità di ipotizzare un riformismo che non abbia legami organizzativi, ideologici e talvolta anche istituzionali con la propria borghesia e quindi con l'apparato statale che la rappresenta. La subalternità riformista al capitalismo e la sua crescente inadeguatezza nel difendere gli interessi generali degli sfruttati, inadeguatezza che emerge drammaticamente nelle fasi di crisi economica capitalistica, nasce proprio dal legame imprescindibile, tipico di tutte le istanze riformiste, con gli apparati di potere: un legame tale da rallentare, talvolta fino alla paralisi, lo sviluppo di una vera autonomia politica e organizzativa del riformismo dalle tendenze imperialistiche cui è, oggettivamente, sottoposto.
La prospettiva rivoluzionaria che persegue gli interessi storici delle classi subalterne e a cui il movimento anarchico tende, attiene certamente anche alla strategia dell'organizzazione sindacale, ma anche e soprattutto, va detto, a quella dell'organizzazione politica.
Ciò non significa che non sia di massima importanza che all'interno delle organizzazioni di resistenza e di massa si cerchi di spostare sempre più in alto il grado di autonomia politica e di capacità orgnizzativa del movimento sindacale, nella prospettiva di una reale rappresentanza e di un sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori e non di un sindacato “per” le lavoratrici e per i lavoratori. Nell'accezione oramai diffusa, soprattutto nei gruppi dirigenti dei sindacati maggiormente rappresentativi e quindi anche in CGIL, di un sindacato di servizi e non più conflittuale.
All'interno del movimento sindacale, inteso nella sua accezione più ampia, vi sono minoranze che hanno ben presente la necessità di costruire un sindacato più rappresentativo e di classe e che orientano verso questa prospettiva la loro azione.
Queste minoranze sono costituite da svariate migliaia di compagne e compagni presenti anche nella CGIL, seppure ridimensionate rispetto a stagioni migliori. Queste minoranze sono politicamente eterogenee e tra di esse non si sventola la bandiera rossa e nera dell'anarchia, ma si ascoltano con rinnovato interesse i richiami al sindacalismo libertario, alle sue pratiche e alla necessità per far sì che le lavoratrici e i lavoratori sentano il sindacato come un proprio strumento. Però, se analizzando questi contenuti riceviamo la conferma delle nostre ragioni, dobbiamo riconoscere anche le difficoltà che l'anarchismo manifesta nel trovare interlocuzioni sociali concrete e stabili da porre alla base della propria strategia rivoluzionaria, perché nella dinamica del conflitto tra capitale e lavoro si pesa per quello che si esprime socialmente.
Il problema allora è capire perché l'anarchismo politico non riesce a intercettare queste minoranze che “muovono la storia” e costituiscono il migliore veicolo per accedere alla grande massa delle lavoratrici e dei lavoratori.
Quali sono, quindi, le vie e i mezzi opportuni con i quali è possibile entrare in sintonia con queste realtà del mondo del lavoro?
Ciò presuppone il radicamento nostro, non solo nella società in generale ma anche nella classe medesima: un radicamento che, rimanendo nella dimensione sindacale, appare alquanto fragile proprio perché, oltre gli enunciati, non è efficacemente praticata l'unità delle lavoratrici e dei lavoratori, la più ampia possibile, da realizzarsi in base alla difesa dei loro interessi immediati.
Sempre il nostro caro vecchio internazionalista, commentando un grande sciopero, quello dei facchini di Rotterdam in Olanda, traeva da quella esperienza alcuni preziosi insegnamenti di dettaglio, specie per quanto riguarda la necessità da parte della minoranza rivoluzionaria di aderire al moto delle masse, di integrarsi con esso, di interpretarne ogni spinta tendenziale. Affermava infatti: “Più che badare ad affermazioni teoriche astratte, bisogna mettersi dal punto di vista della massa, scendere al suo punto di partenza e di là spingerla in avanti. In mezzo ai moti popolari bisogna, se si vuol fare opera proficua, sapersi adattare all'intelligenza, condizioni, abitudini e pregiudizi degli individui e delle masse per portarli per la più sollecita via alla concezione ed all'azione socialista. [...] Pigliamo il popolo com'è ed andiamo avanti con lui; abbandonarlo perché non intende in astratto le nostre formule ed i nostri ragionamenti sarebbe stoltezza o tradimento insieme.”4

Opportunità non sfruttate

L'anarchismo politico odierno pare invece abbia deciso di intraprendere una via diversa, decidendo di giocare la partita in casa propria e su terreni sindacali ritenuti ad esso più consoni. Ciò si è realizzato in base a un diffuso senso di opportunità, che ha spinto ad agire per comunanza ideologica anziché per necessità strategica e tattica. Questa scelta, che si è configurata come una scorciatoia rispetto alle diffuse tendenze riformiste che ancora esercitano il proprio ruolo di comando, è andata progressivamente sostituendosi alla concreta realtà di classe con tutte le sue contraddizioni.
Il processo di unità di classe è per sua natura dinamico, caratterizzato cioè da comportamenti sociali differenziati e contraddittori che devono essere colti nella loro interezza, anche quando si distaccano dai contenuti nostri, il che si verifica nella stragrande maggioranza dei casi: per cui “la questione riformista” non è suscettibile di essere aggirata con qualche tentativo particolare sia pure significativo, ma è necessario un salto di qualità.
È necessario iniziare a gettare ponti tra le varie esperienze di lotta inevitabilmente caratterizzate da cuspidi e declini, per evitare che le esperienze più avanzate, ma minoritarie, procedano da sole esaurendosi nell'isolamento e che le altre, più arretrate e maggioritarie, continuino a subire la subalternità al riformismo, per altro espandendosi.
L'anarchismo non è stato evidentemente in grado di sfruttare le diffuse opportunità che l'opposizione interna alla CGIL ha presentato in questi ultimi venticinque anni, liquidandola senza appello come un terreno inquinato “dal veleno riformista”, pagando il prezzo elevatissimo di rinunciare volontariamente all'interlocuzione con decine di migliaia di lavoratrici e di lavoratori che si erano spostati su posizioni di classe.
Queste considerazioni esprimono l'errore di molte compagne e compagni che hanno militato nella opposizione interna alla CGIL per approdare poi al sindacalismo di base.
Non sono la comunanza di linguaggio, la presunta radicalità delle proposte contrattuali, né la presunta radicalità di alcune lotte settoriali a dover essere fondamentali per gli anarchici: ciò che veramente dovrebbe essere fondamentale è la comprensione della fase in cui viviamo e dei rapporti di forza tra le classi che la caratterizzano; cosa questi rapporti di forza permettono e cosa non permettono; soprattutto capire con quali metodologie, con quale prassi, con quale rappresentatività sociale concreta e non solo supposta, con quale dimensione organizzativa si possono modificare questi rapporti di forza a favore delle masse sfruttate.

All'interno dello scontro di classe

Se si trattasse solo di individuare un ambito sindacale, il più vicino possibile alle nostre prefigurazioni rivoluzionarie non servirebbe alcuno sforzo di analisi, di confronto, di mediazione fra gli stessi anarchici, fra noi tutti e la classe né, tantomeno, la fatica di verificare costantemente e criticamente l'effettiva e concreta praticabilità delle nostre proposte, del nostro radicamento, della nostra capacità o meno di avere un peso e un ruolo determinante all'interno dello scontro di classe.
Ci si è invece rivolti a compagne e compagni impegnati a costruire una strategia e una prassi sindacale sulla quale costruire l'opposizione ai piani del capitale: ma in virtù della scarsa consistenza delle organizzazioni sindacali non confederali questa via non può essere efficacemente perseguita perché alla fine contano i numeri, e siccome i numeri non ci sono si dirotta verso la difesa, costantemente enunciata, degli interessi dei lavoratori, da realizzarsi attraverso la costruzione di quel sindacato di classe, ma che la grande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori ignora, nonostante alcune eccezioni che però non spostano la sopraddetta tendenza generale al disinteresse.
Come conclusione provvisoria non intendiamo formulare sbrigativi giudizi circa la capacità di discernimento delle compagne e dei compagni comunisti libertari e anarchici che pongono in essere scelte tra di loro diverse o diverse dalle nostre: men che meno rispetto a chi ha deciso di militare tra le molteplici sigle del sindacalismo di base.
Pensiamo solo che se ci interessa una reale affermazione dell'anarchismo nella realtà sociale, la questione sindacale è una questione ormai davvero ineludibile.

Cristiano Valente

  1. Errico Malatesta, Gli anarchici e i sindacati operai, in “Volontà”, 20 dicembre 1913.
  2. Errico Malatesta, Resoconto generale del Congresso Internazionale Anarchico di Amsterdam, in “Il Pensiero”, n. del 16 ott. 1 novembre 1907.
  3. Errico Malatesta, Gli anarchici e i sindacati operai, in “Volontà”, 20 dicembre 1913.
  4. Errico Malatesta, Un altro sciopero, in “L'Associazione”, 27 ottobre 1889.